La Corte Costituzionale ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 670 c.p.p. in riferimento agli artt. 3, 13, 10, 25, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 5, paragrafi 1, lettera a), e 4, della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (CEDU), «nella parte in cui non consente al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità della sentenza di merito passata in giudicato derivante dalla violazione della competenza funzionale del Tribunale per i Minorenni».
In sostanza, il giudice a quo ritiene che, sulla base del diritto vivente, l’attuale disciplina delle questioni sul titolo esecutivo di cui all’art. 670 c.p.p. non consenta al giudice dell’esecuzione di rilevare la nullità di una sentenza passata in giudicato e pronunciata dal tribunale ordinario nei confronti di un imputato minorenne all’epoca di commissione del reato, dal momento che tale nullità sarebbe rilevabile in ogni stato e grado del giudizio ai sensi dell’art. 178, comma 1, lettera a), c.p.p. ma non, appunto, dopo il passaggio in giudicato della sentenza.
Il rimettente dubita della compatibilità di tale soluzione con i parametri costituzionali evocati, dai quali si evincerebbe il principio secondo cui l’imputato minorenne debba essere necessariamente giudicato da un tribunale specializzato, con conseguente radicale illegittimità non solo della sua condanna da parte di un giudice penale ordinario, ma anche della successiva esecuzione della pena irrogata da quest’ultimo.
In particolare, le questioni sottoposte al vaglio di questa Corte concernono l’ipotesi patologica di un processo penale, ormai conclusosi con sentenza definitiva, che si sia svolto avanti al giudice penale ordinario in conseguenza di un errore nell’attribuzione dell’età dell’imputato al momento del fatto. E il tema di fondo ora in discussione è se, in tal caso, la natura costituzionalmente vincolata della competenza funzionale del tribunale per i minorenni necessariamente imponga il travolgimento del giudicato in sede di incidente di esecuzione.
Invero, il giudice rimettente esclude anzitutto che, in una situazione come quella sottoposta al suo esame, la revisione della sentenza costituisca un rimedio idoneo.
Il giudice rimettente esclude altresì, succintamente, che il vizio dedotto possa essere ricondotto all’ipotesi, pure contemplata dall’art. 670, comma 1, cod. proc. pen., della “mancanza” del titolo esecutivo, e dunque alla categoria della “inesistenza” del titolo stesso, insistendo nel qualificare il come ipotesi di “nullità assoluta”, in quanto tale soggetta alla disciplina di cui all’art. 179 cod. proc. pen.
La Consulta evidenzia che alcun rimedio è funzionale a rilevare, in sede esecutiva, errores in procedendo e relative nullità verificatesi durante il processo: siano state esse allegate e discusse dalle parti durante il processo stesso, ovvero rilevate per la prima volta dopo la formazione del giudicato. La pronuncia additiva auspicata dal rimettente finirebbe, così, per introdurre nel sistema un’ipotesi del tutto anomala di nullità, resistente alla formazione del giudicato, e derogatoria rispetto alla regola implicita di chiusura del sistema di cui si è detto. Il che spalancherebbe inevitabilmente la strada al riconoscimento di sempre nuove ipotesi di nullità “resistenti al giudicato”, con le quali chi sia stato condannato in via definitiva potrebbe rimettere in discussione accertamenti già compiuti nei successivi gradi di giudizio sulla sussistenza di vizi procedimentali.
Ad arginare tale rischio non varrebbe, d’altra parte, il tentativo – pure compiuto dall’ordinanza di rimessione – di confinare l’eventuale rilevabilità di errores in procedendo in sede esecutiva a quelle sole violazioni di regole procedimentali che ridondino in altrettante lesioni dei diritti fondamentali dell’imputato, come quelle che in questa sede vengono indubitabilmente in considerazione, giacché della gran parte delle nullità previste dal codice di procedura penale potrebbe parimenti predicarsi l’incidenza sul diritto alla difesa di cui all’art. 24 Cost., o comunque sui principi (e diritti fondamentali) inerenti al giusto processo di cui all’art. 111 Cost.
Un simile scenario rischierebbe di pregiudicare gravemente l’interesse, di respiro costituzionale, all’efficiente, e ragionevolmente spedito, funzionamento della giustizia penale.
Anche la necessità di tutela della legalità della pena trova dunque un fisiologico argine nella irrevocabilità della res iudicata, che segna normalmente il limite estremo alla possibilità di interventi correttivi, da parte dei giudici delle successive impugnazioni, rispetto a eventuali errori compiuti nel giudizio di cognizione: e ciò salva, per l’appunto, l’ipotesi di sopravvenienze costituzionalmente rilevanti successive al giudicato, che proiettino retrospettivamente una valutazione di illegittimità costituzionale sulla pena inflitta nel giudizio di cognizione.
Mai, d’altra parte, la giurisprudenza della Corte Costituzionale, nè quella della Corte EDU, hanno dedotto dalle disposizioni della Costituzione e della CEDU che ammettono una compressione della libertà personale soltanto nei «casi e modi previsti dalla legge» (art. 13, secondo comma, Cost.), ovvero «nei modi previsti dalla legge» (art. 5, paragrafo 1, CEDU), la possibilità di rimettere in discussione una sentenza di condanna che abbia applicato una pena detentiva, una volta esauriti gli ordinari mezzi di gravame previsti dall’ordinamento.
Né rileva le censura sulla violazione del principio del giudice naturale, sancito dall’art. 25, primo comma, Cost. Sul punto la Corte chiarisce che i criteri in base ai quali è predeterminata la competenza penale del tribunale per i minorenni sono fissati in modo chiaro dall’art. 3 del d.P.R. n. 448 del 1988, senza che residuino spazi per un’arbitraria applicazione di tali disposizioni: il che basta per dimostrare l’infondatezza della censura. Contro la possibilità di errori, nella pratica giudiziaria, circa l’individuazione del giudice competente nei singoli casi concreti l’ordinamento appresta specifici rimedi, e in particolare le nullità processuali disciplinate dagli artt. 177 e seguenti cod. proc. pen.; ma sarebbe certamente incongruo far derivare dall’esigenza di precostituzione per legge del giudice di cui all’art. 25 Cost. la necessità di prevedere un meccanismo che consenta di rimettere in discussione le statuizioni sulla competenza del giudice, la cui conformità alla legge sia stata verificata e confermata nei gradi successivi del processo. Ove così fosse, infatti, risulterebbe impossibile pervenire a statuizioni definitive non solo sulla competenza, ma anche sulla stessa legittimità di tutti i provvedimenti assunti dai giudici che di volta in volta si siano pronunciati sul caso.
Per tali morivi le questioni sono state ritenute non fondate.