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La coltivazione domestica dopo le Sezioni unite “Caruso”: l’enigma del “modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile”. Riflessioni sparse.

Cassazione penale, sez. III, 15 febbraio 2022 (dep. 25 maggio 2022), n. 20238

Pres. Marini, Est. Gentili, Imp. Santarelli, P.M. Filippi

1. Il Tribunale di Ascoli Piceno assolveva l’imputato dal delitto di coltivazione di piante da cui estrarre sostanza stupefacente, ritenendo che le tre piantine di canapa indiana presenti sul suo terrazzo, da cui era possibile estrarre trenta dosi medie singole di sostanza drogante, fossero destinate al suo uso personale. Ciò faceva il giudice di primo grado, con decisione resa nell’anno 2018, circa un anno prima dell’avvento, nel panorama giurisprudenziale, della dirompente sentenza “Caruso” delle Sezioni unite sulla coltivazione domestica; il tribunale aderiva alla tesi, all’epoca minoritaria, secondo cui la coltivazione finalizzata all’uso personale della sostanza ricavabile, non alimentando il mercato, non fosse da reputarsi offensiva e in tali termini punibile.

La Corte d’Appello di Ancona, pronunciandosi solo una settimana prima della pubblicazione del principio di diritto formulato dalle Sezioni unite “Caruso”, aderiva all’impostazione opposta: riformando la sentenza di primo grado, condannava l’imputato ritenendo che le piantumazioni, fornite di principio attivo idoneo al confezionamento di trenta dosi medie singole, fossero per giurisprudenza nomofilattica maggioritaria destinate a configurare la fattispecie di coltivazione penalmente rilevante.

La Corte di cassazione, con la sentenza che qui brevemente si annota ha affrontato il tema nel prisma del principio di diritto intanto affermato dalle Sezioni unite poc’anzi menzionate, secondo le quali non rientra nel fuoco del precetto penale, e dunque è priva di tipicità, l’attività di coltivazione nota nella prassi come “coltivazione domestica”, quando si tratti di attività di coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.

2. Rinviando ad altra sede editoriale una più approfondita analisi delle notorie argomentazioni profuse dai supremi giudici (F. Lombardi, La coltivazione domestica di piante da stupefacenti per uso personale alla luce delle recenti Sezioni Unite. Osservazioni a prima lettura, in Giur. pen. – riv. trim., 2020, 2), basti richiamare, schematicamente, che le Sezioni unite paiono aver aderito alla concezione realistica del reato, secondo cui occorre distinguere la tipicità, quale rilevanza del comportamento alla stregua del tessuto letterale della norma incriminatrice, dalla offensività, quale idoneità a ledere o porre in pericolo il bene giuridico tutelato.

In effetti, le Sezioni unite ritengono che la fattispecie di coltivazione vietata ai sensi dell’art. 73 dpr 309/1990 sia quella nota nella prassi dottrinale e giudiziaria come coltivazione “tecnico-agraria”, siccome la norma incriminatrice, nel sanzionare penalmente la coltivazione non autorizzata, postula – per il tramite degli artt. 27 ss., dpr cit. – che le uniche coltivazioni astrattamente assentibili siano quelle di natura pseudo-imprenditoriale per dimensioni e organizzazione dell’attività.

Vero quanto sopra, della coltivazione “tecnico-agraria”, tipizzata dalla norma incriminatrice, si dovrebbe poi verificare l’offensività: a) ove la pianta non sia giunta a maturazione, sondando le sue capacità di giungervi effettivamente e produrre sostanza dagli effetti psicotropi; b) ove la pianta sia approdata allo stadio evolutivo astrattamente sufficiente a fornire lo stupefacente, verificando se essa non abbia in concreto prodotto sostanza in grado di indurre l’alterazione nell’organismo umano (sul punto, C. Colombo, L’inoffensività della coltivazione domestica di stupefacenti, in Cass. pen., 2021, 2, p. 672 ss.).

Su diverso fronte, affinché si possa invece discorrere di coltivazione domestica, atipica, la Corte, nella sua più autorevole composizione, richiede la compresenza di alcuni elementi: attività di coltivazione di minime dimensioni svolta in forma domestica che, per le rudimentali tecniche utilizzate, lo scarso numero di piante, il modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile, la mancanza di ulteriori indici di un loro inserimento nell’ambito del mercato degli stupefacenti, appaiono destinate in via esclusiva all’uso personale del coltivatore.

Si è avuto modo di argomentare la personale non condivisione delle riflessioni dogmatiche del supremo consesso riunito, in quanto, anche ove si volesse aderire alla concezione realistica del reato, che scinde il connubio tra tipicità e offensività, la coltivazione domestica sarebbe piuttosto una fattispecie tipica, ma non offensiva ove assistita dai requisiti indicati dalla sentenza “Caruso”.

In effetti, la coltivazione domestica va più opportunamente considerata “tipica”, cioè di rilievo penale sul piano semantico, in quanto la norma incriminatrice fa riferimento alla coltivazione “non autorizzata”, nel cui tessuto lessicale può certamente rientrare la coltivazione domestica, siccome – appunto – non autorizzata; va inoltre ritenuta “inoffensiva” poiché non orientata a ledere la salute pubblica mediante la diffusione del prodotto tra i consumatori (nello stesso senso, M. Toriello, Produzione e traffico di sostanze stupefacenti, Giuffrè, 2021, p. 250).

Si è anche mossa la riserva inerente al problema della sanzionabilità della coltivazione penalmente atipica, in quanto questa fattispecie, non inclusa nell’art. 75 d.P.R. 309/1990, sfuggirebbe anche alla sanzione amministrativa, non irrogabile in ossequio al principio di legalità ex art. 1, L. 689/1981 (cfr. anche C. Bray, Le Sezioni unite dichiarano l’irrilevanza penale della coltivazione di piante stupefacenti finalizzata esclusivamente all’uso personale, in Sist. pen., 20 aprile 2020).

3. Ulteriore rilievo che in questa sede si intende muovere alla sentenza delle Sezioni unite e al filone giurisprudenziale che da essa trae origine – nel quale confluisce la sentenza in commento – riguarda la vaghezza della locuzione “modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile”.

La tematica non è di poco momento, se si pensa che i requisiti enucleati dalle sezioni unite “Caruso” debbono essere cumulativamente presenti e che dunque, dalla interpretazione del generico aggettivo “modestissimo” finirà per dipendere l’individuazione della linea di confine tra punizione penale e totale impunità del coltivatore.

Va qui osservato che la sentenza n. 20238/2022 in commento, in dichiarata applicazione del principio di diritto del supremo consesso riunito, ritiene sussumibile il caso di specie nella nozione di coltivazione domestica, implicitamente considerando le trenta dosi medie singole ricavabili dal coltivatore imputato ascrivibili alla nozione di “modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile”.

Ciò fa allineandosi alla recente pronunzia Cass. sez. VI, 19 febbraio 2021, n. 6599 – che ha attuato i principi della sentenza “Caruso” – secondo cui «laddove la coltivazione sia caratterizzata da forme del tutto elementari e non presenti la predisposizione di accorgimenti – come impianti di irrigazione e/o di illuminazione – finalizzati a rafforzare la produzione, e sia tale, in relazione al grado di sviluppo raggiunto dalle piante, da consentire l’estrazione di un quantitativo minimo di sostanza stupefacente ragionevolmente destinata all’uso personale dell’imputato, essa è priva di rilevanza penale».

Infine, quale secondo caposaldo dell’impianto motivazionale, afferma il collegio che la coltivazione posta in essere dall’imputato nel caso di specie sfugge alla logica dell’offensività e, per il suo tramite, della tipicità, «attesa la irrilevanza dal punto di vista dell’incremento del mercato delle sostanze stupefacenti dell’apporto che ad esso potrebbe essere fornito con la quantità prodotta dall’imputato» (pagg. 4-5 della sentenza).

Alcune rapide osservazioni sui distillati giuridici della decisione in commento.

Pare intanto dalla lettura in filigrana della sentenza che, sotto il profilo dogmatico, la sesta sezione non abbia aderito alla concezione realistica del reato, ribadendo l’osmosi tra tipicità e offensività: in altri termini, un fatto criminoso è tipico proprio in quanto offensivo.

Tuttavia, desta qualche perplessità l’incedere motivazionale della sentenza quando affronta la stessa nozione di offesa.

Va infatti osservato come i giudici della sentenza in commento abbiano inteso dare continuità al principio di diritto delle Sezioni unite “Caruso”, secondo cui la coltivazione domestica è atipica siccome non proiettata sul mercato bensì orientata a garantire il consumo personale del coltivatore; hanno inoltre richiamato la sentenza 6599/2021 che, coerentemente con le Sezioni unite Caruso, discorre di quantitativo di sostanza stupefacente ragionevolmente destinata all’uso personale.

Pur dichiaratamente ispirata da questi approdi giurisprudenziali, la sentenza qui oggetto di annotazione riferisce la nozione di offesa, letteralmente, alla «irrilevanza […] dell’incremento del mercato delle sostanze stupefacenti dell’apporto […] fornito con la quantità prodotta dall’imputato». Quella appena proposta è una nozione di offesa ben diversa da quella immaginabile – mutatis mutandis – attraverso il ricorso ai parametri della sentenza “Caruso”: il concetto di offesa proposto dalla sentenza in commento attiene infatti non alla proiezione della sostanza sul mercato ma alla rilevanza, o meno, dell’aumento di sostanza sul mercato mediante la potenziale immissione del prodotto ricavabile dalla raccolta.

Come a dire che sarebbe inoffensiva anche una coltivazione di piante da cui estrarre stupefacenti laddove essa, pur orientata al successivo spaccio del prodotto ricavabile, fosse capace di alimentare il mercato in maniera trascurabile. Si tratta di un’affermazione che, se confermata dalla successiva giurisprudenza, sarebbe dirompente, in quanto allargherebbe ulteriormente le maglie della inoffensività: non solo l’assenza (anche in via potenziale) di prodotto drogante, non solo la mancata destinazione al mercato dei tossicofili, ma anche la proiezione al consumo di massa che si palesi tuttavia flebile a cagione dello scarso quantitativo oggetto di potenziale immissione in commercio.  

4. Un ulteriore ragionamento consegue alla soluzione fornita nel caso di specie, in cui, al netto delle riflessioni dogmatiche in punto di sistematica e di offesa al bene protetto, è stato ritenuto ascrivibile alla locuzione “modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile” il numero di trenta dosi medie singole ottenibili dalla coltivazione nel caso di specie; ciò è stato fatto ispirandosi a quella massima di diritto per cui: a) occorre che la coltivazione non sia caratterizzata dall’impiego di strumentario o di tecniche organizzative in grado di rafforzare la produzione; b) occorre che sia estraibile un quantitativo minimo ragionevolmente destinato all’uso personale dell’imputato.

Orbene, se il primo requisito, nella prassi, non è di difficile vaglio, poiché occorrerà verificare che la coltivazione avvenga coi mezzi minimi indispensabili a garantire la crescita ordinaria di una pianta, il secondo requisito continua ad apparire ambiguo: quand’è che, per dirla con le Sezioni unite “Caruso”, il quantitativo potrà dirsi “modestissimo” o, per dirla con Cass. 6599/2021, il quantitativo potrà dirsi “minimo”?

In verità, occorrerebbe a questo punto chiedersi se il requisito del quantitativo modestissimo di prodotto ricavabile possa essere opportunamente ripensato.

La prassi insegna come le coltivazioni, seppur rudimentali e circoscritte, siano in grado, nel loro fisiologico esplicarsi, di produrre un numero comunque non irrisorio di dosi medie singole, che, anzi, in molti casi, appare tutt’altro che modestissimo. E tuttavia occorrerebbe spiegare come possa il coltivatore  – che, pur genuinamente, intenda coltivare per uso personale – garantire che dalle piante coltivate possa estrarsi un quantitativo “modestissimo” di prodotto.

Volendo addurre un esempio pratico, si immagini il tossicodipendente che, senza l’adozione di particolari accorgimenti, coltiva un numero limitato di piante di cannabis idonee – per proprio fisiologico sviluppo – alla produzione di complessive cento dosi medie singole. Nessun interprete definirebbe quel quantitativo di prodotto “modestissimo”, così come plausibilmente non è da considerarsi modestissimo neppure il quantitativo di trenta dosi medie singole che la sentenza qui annotata giudica in linea coi canoni della sentenza “Caruso”; e tuttavia, al contempo, non verrebbe in mente neppure di desumere, per ciò solo, l’offesa al bene giuridico protetto ritenendo ex abrupto il coltivatore orientato al successivo smercio della sostanza drogante.

La verità è che, se ci caliamo nell’ottica dell’offesa (o della tipicità, per i sostenitori della teorica proposta dalle Sezioni unite “Caruso”) e la intendiamo come proiezione della sostanza ricavabile verso il mercato dei consumatori, non rileva (tanto) il quantitativo di sostanza ricavabile dalle piantumazioni, bensì (soprattutto) se quel quantitativo – ove palesemente sproporzionato in eccesso o obbiettivamente prodotto con raffinate modalità di coltivazione – appaia necessariamente assistito dallo scopo di cessione al pubblico. 

Detto altrimenti, il quantitativo, seppure non modestissimo, non potrà sortire automatici effetti punitivi, se non si sarà dimostrato – anche secondo una logica indiziaria derivante dall’anomalo numero di dosi ricavabili – che il soggetto agente abbia in qualche modo inciso, con l’adozione di metodiche ed espedienti tecnici particolari, sulla crescita e sulla produttività della pianta, circostanza che indurrebbe a ritenere il reo mosso dall’intento di incrementare a dismisura la produttività della pianta, attestando così, secondo un criterio di ragionevolezza inferenziale, lo scopo diffusivo del prodotto.

Ove ciò non fosse dimostrato, a parere di chi scrive, il quantitativo di prodotto ricavabile, a prescindere dalla sua entità, resterebbe compensato – sul richiamato piano dell’offesa quale pericolo di diffusione – dalla compresenza degli altri indici della coltivazione domestica, specie in tutti quei casi in cui esso appaia idoneo a costituire una scorta personale utilizzabile, nel breve o medio periodo, dal coltivatore tossicodipendente.

5. In conclusione, con queste brevi riflessioni si intende proporre il depotenziamento, nell’ambito dei requisiti sanciti dalle Sezioni unite “Caruso”, del modestissimo quantitativo di prodotto ricavabile: essendo il discrimine costituito dallo scopo di cessione, ogni coltivazione, ove assistita da tutti gli altri connotati indicati dalle Sezioni unite, può ritenersi eseguita dal coltivatore per uso strettamente personale.

Nel caso in cui difetti uno dei connotati richiesti dalla sentenza “Caruso” o, in alternativa, il numero di dosi ricavabili, apparendo abnorme, evochi l’utilizzo di metodiche articolate che abbiano incrementato oltremodo la produttività delle piante, la coltivazione sarà qualificabile come “tecnico-agraria” e resterà punibile penalmente ai sensi dell’art. 73 dpr 309/1990.

Queste osservazioni, a parere di chi scrive, non confliggono con il monito delle Sezioni unite “Caruso”, laddove nel testo dell’autorevole decisione spiegano «la circostanza che la coltivazione sia intrapresa con l’intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di consumo personale deve essere ritenuta da sola insufficiente ad escluderne la rispondenza al tipo penalmente sanzionato, perché […] la stessa deve concretamente manifestare un nesso di immediatezza oggettiva con l’uso personale».

L’intenzione soggettiva di soddisfare esigenze di uso personale è infatti ricavabile dagli elementi oggettivi perfettamente compendiati nel distillato di diritto di cui alla sentenza “Caruso”; tra essi, il profilo quantitativo appare recessivo o comunque neutro, tutte le volte che non sia stata evidenziata l’abnormità del quantum di prodotto ricavabile in rapporto alla ordinaria fisiologia delle piantumazioni o l’utilizzo di tecniche di implementazione del risultato ottenibile.

Un numero non irrisorio, financo elevato, di dosi ricavabili dalla coltivazione non è in grado, a parere di chi scrive, di eliminare il nesso di immediatezza oggettiva con l’uso personale quando risulti comunque ragionevolmente funzionalizzato al fabbisogno del coltivatore-consumatore in applicazione di tutti gli altri indici della coltivazione domestica.

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