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Applicabilità agli enti della disciplina della messa alla prova e poteri impugnatori del Procuratore Generale

Cassazione Penale, Sezioni Unite, udienza 27 ottobre 2022, informazione provvisoria n. 17 del 2022, Presidente Cassano, Relatore Pezzullo

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, all’esito dell’udienza pubblica del 27 ottobre 2022, con l’informazione provvisoria annotata, hanno stabilito che il Procuratore Generale presso la Corte di Appello è legittimato, ai sensi dell’art. 464 quater, comma 7, c.p.p., ad impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova ritualmente comunicatagli ai sensi dell’art. 128 c.p.p.; in conformità a quanto previsto dall’art. 586 c.p.p., inoltre, in caso di omessa comunicazione dell’ordinanza, il Procuratore Generale è legittimato ad impugnare quest’ultima insieme con la sentenza, al fine di dedurre anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova. L’istituto dell’ammissione alla prova non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.

The United Sections of the Court of Cassation, following the public hearing of 27 October 2022, through a provisional information, established that the Attorney General at the Court of Appeal is entitled, pursuant to art. 464 quater, paragraph 7, code of criminal procedure (c.p.p.), to challenge the judicial order admitting the defendant to probation (messa alla prova) ritually communicated to the Attorney General pursuant to art. 128 c.p.p.; moreover, in compliance with art. 586 c.p.p., if the judicial order is not ritually communicated, the Attorney General is entitled to challenge the latter together with the judgment, deducing grounds of appeal pertaining also to the requirements for the admission to probation. Legal persons, referred to in Legislative Decree no. 231 of 2001, are not eligible for probation.

Sommario: 1. Premessa – 2. Il ricorso: applicabilità agli enti della disciplina ex artt. 168 bis e ss. c.p.p. – 3. L’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite: poteri impugnatori del Procuratore Generale presso la Corte di Appello – 4. L’istituto della messa alla prova: cenni – 5. La questione di merito: l’(in)applicabilità dell’istituto della messa alla prova agli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001 – 6. La decisione delle Sezioni Unite – 7. Considerazioni conclusive

1 – Premessa

Con sentenza del 27 ottobre 2022, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno stabilito, in primo luogo, che il Procuratore Generale presso la Corte di Appello è legittimato ad impugnare l’ordinanza ammissiva della messa alla prova ritualmente comunicatagli e, in ipotesi di omessa comunicazione, la sentenza conclusiva del giudizio unitamente all’ordinanza, anche al fine di dedurre motivi attinenti ai presupposti di ammissione della messa alla prova, e, in secondo luogo, che l’istituto della messa prova non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.

Con specifico riferimento a quest’ultimo profilo, si deve premettere che quella concernente l’applicabilità all’ente dell’istituto della sospensione del processo con messa alla prova è stata, specie negli ultimi anni, questione assai dibattuta, che ha interessato tanto la dottrina quanto la giurisprudenza, soprattutto di merito.

Le pronunce che si sono espresse sull’argomento sono state discordanti: da una parte, alcuni Tribunali hanno ritenuto l’istituto ex art. 168 bis c.p. incompatibile con la fisionomia e gli scopi del diritto e del processo penale a carico degli enti, sancendone l’inapplicabilità, dall’altra, in diversi contesti, mediante un’interpretazione estensiva dell’istituto, si è ritenuta configurabile tale possibilità.

Del tema, peraltro, sono stati investiti i giudici del Supremo Collegio, chiamati a decidere il ricorso presentato dal Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Trento contro la sentenza emessa dal Tribunale di Trento che aveva dichiarato il non doversi procedere nei confronti dell’ente, ritenendo l’illecito ascritto alla società estinto per esito positivo della prova.

All’ente era stato contestato l’illecito di cui all’art. 25 septies, comma 3, d.lgs. n. 231 del 2011 in relazione al delitto di cui all’art. 590, comma 3, c.p..

Secondo l’impianto accusatorio, il legale rappresentante della società (a sua volta ammesso alla prova e nei cui confronti è stata pronunciata sentenza di estinzione del reato), violando le disposizioni in materia di prevenzione degli infortuni sul lavoro – e segnatamente l’art. 71, comma 1, d.lgs. n. 81 del 2008 – si era reso responsabile del delitto di lesioni personali colpose commesse in violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro; l’ente, da questo delitto, aveva tratto vantaggio economico, risparmiando sui costi connessi all’adeguamento del macchinario che la persona offesa stava utilizzando quando si verificò l’infortunio.

La società, dopo essere stata ammessa all’istituto della messa alla prova, aveva provveduto al risarcimento del danno nei confronti della persona offesa, alla revisione del proprio modello organizzativo e allo svolgimento del lavoro di pubblica utilità, consistito nel fornire ad un organismo religioso dei beni di propria produzione.

Con sentenza del 18 dicembre 2019, il Tribunale di Trento, verificato l’esito positivo della prova, dichiarava il non doversi procedere nei confronti dell’ente per l’illecito allo stesso ascritto.

2 – Il ricorso: applicabilità agli enti della disciplina ex artt. 168 bis e ss. c.p.p.

Avverso tale decisione, come premesso, proponeva ricorso per cassazione il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Trento, deducendo, con i primi due motivi di gravame, inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, in merito alla ritenuta applicabilità agli enti dell’istituto di cui all’art. 168 bis c.p. e, con il terzo e il quarto motivo, mancanza e contraddittorietà della motivazione dell’ordinanza con cui era stata disposta l’ammissione alla prova della persona giuridica. Precisava, inoltre, che tale ordinanza non era mai stata comunicata all’ufficio di Procura Generale, che, pertanto, ne aveva avuto notizia solo con la comunicazione della sentenza.

Il difensore della società depositava memoria difensiva, rilevando che i motivi di ricorso avanzati dalla Procura Generale avevano già trovato chiarimento nell’ordinanza di ammissione alla prova e che la possibilità di applicare agli enti l’istituto previsto dall’art. 168 bis c.p., in relazione agli illeciti previsti dal d.lgs. n. 231 del 2001, era stata riconosciuta non solo dal Tribunale di Trento ma anche da altri giudici di merito.

Il Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione depositava conclusioni scritte e – richiamando precedenti giurisprudenziali che affermavano la legittimazione del Procuratore Generale presso la Corte di Appello ad impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova ai sensi dell’art. 464 quater, comma 7, c.p.p. – chiedeva l’annullamento con rinvio della sentenza impugnata e dell’ordinanza con la quale la società era stata ammessa alla prova.

3 – L’assegnazione del ricorso alle Sezioni Unite: poteri impugnatori del Procuratore Generale presso la Corte di Appello

La Quarta Sezione della Corte di Cassazione, assegnataria del ricorso, prima ancora di valutare i motivi di impugnazione concernenti l’applicazione o meno dell’istituto della messa alla prova agli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, riteneva di dover affrontare un’altra questione, parimenti dibattuta e certamente preliminare rispetto a quella sottopostale nel merito, inerente alla legittimazione del Procuratore Generale a proporre impugnazione avverso l’ordinanza ammissiva dell’imputato all’istituto della messa alla prova ai sensi dell’art. 464 bis c.p.p. e avverso la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 464 septies c.p.p.. Ed invero, nell’ipotesi in cui non si fosse ritenuto legittimato il Procuratore Generale all’impugnazione, il Supremo Collegio non avrebbe potuto procedere all’esame nel merito della questione dedotta dal ricorrente.

Rilevando, sul punto, l’esistenza di un contrasto giurisprudenziale, la Quarta Sezione rimetteva la decisione alle Sezioni Unite.

Più precisamente, la Sezione rimettente chiedeva – in prima battuta – di stabilire se il Procuratore Generale fosse legittimato ad impugnare, con ricorso per cassazione, l’ordinanza che ammetteva l’imputato alla messa alla prova (ex art. 464 bis c.p.p.) e, in caso affermativo, per quali motivi e – in seconda battuta – di chiarire se il Procuratore Generale fosse legittimato ad impugnare con ricorso per cassazione la sentenza di estinzione del reato pronunciata ai sensi dell’art. 464  septies c.p.p..

Nel caso in esame, difatti, il Procuratore Generale presso la Corte di Appello di Trento non aveva impugnato l’ordinanza ammissiva della prova ai sensi dell’art. 464 quater c.p.p. (perché non gli era mai stata comunicata), bensì aveva proposto ricorso per cassazione avverso la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 464 septies c.p.p., assumendo di trovarsi ancora nei termini per impugnare l’ordinanza avendone avuto conoscenza solo dopo aver ricevuto comunicazione della sentenza che aveva dichiarato estinto l’illecito ascritto alla società per esito positivo della prova.

Sulla questione, come accennato, la giurisprudenza di legittimità si è espressa in termini non uniformi e contrapposti.

In particolare, secondo un primo orientamento, fatto proprio dal Procuratore Generale ricorrente, “il Procuratore Generale presso la Corte di Appello è legittimato ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento unitamente alla sentenza con la quale il giudice dichiara l’estinzione del reato per esito positivo della prova, qualora non sia stata effettuata nei suoi confronti la comunicazione dell’avviso di deposito dell’ordinanza di sospensione[1].

A sostegno di tale tesi, viene osservato come, in assenza di una previsione espressa, il carattere incidentale del procedimento di messa alla prova non vale ad escludere il Procuratore Generale dai soggetti legittimati al ricorso.

Per corroborare ancor di più tale interpretazione, viene richiamata la tesi secondo cui il legislatore, nel procedimento cautelare, ha previsto esplicitamente che siano legittimati a ricorrere per cassazione contro le ordinanze cautelari emesse in sede di riesame o di appello solo il pubblico ministero che ha richiesto l’applicazione della misura e il pubblico ministero presso il Tribunale del Riesame, proprio perché in materia di impugnazioni, salva espressa previsione, le disposizioni che menzionano come soggetto legittimato il pubblico ministero fanno riferimento ad entrambe le figure del Procuratore della Repubblica e del Procuratore Generale presso la Corte di Appello.

L’interpretazione in esame, però, per giungere a tale conclusione, prende le mosse dall’assunto secondo cui l’ordinanza ex art. 464 quater c.p.p. deve essere portata a conoscenza, mediante lettura in udienza o mediante notifica o comunicazione dell’avviso di deposito, non solo alle parti del procedimento che hanno diritto all’avviso della data dell’udienza, ma anche al Procuratore Generale presso la Corte di Appello, titolare del potere di impugnazione al pari del Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 570 c.p.p., facendo propri i principi espressi dalla giurisprudenza di legittimità a Sezioni Unite in tema di individuazione del pubblico ministero legittimato all’impugnazione[2].

Un secondo orientamento, al contrario, afferma che “il Procuratore Generale presso la Corte di Appello non sarebbe legittimato ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento non essendo individuato tra i soggetti – l’imputato, il pubblico ministero e la persona offesa – che possono proporre ricorso per cassazione (…) ai sensi dell’art. 464 quater, comma 7, c.p.p.[3].

Nell’ambito di tale ultimo indirizzo, sono maturate due diverse impostazioni: la prima, avallata dalla “sentenza Stomponato”, qui sopra citata, che esclude la legittimazione del Procuratore Generale presso la Corte di Appello ad impugnare l’ordinanza di accoglimento dell’istanza di sospensione del procedimento con messa alla prova sul presupposto che lo stesso non sia comunque individuato esplicitamente tra i soggetti legittimati ai sensi dell’art. 464 quater c.p.p. (tra i quali sono, invero, indicati l’imputato e il pubblico ministero); la seconda, invece, sostenuta dalla “sentenza Betti”, che ritiene, in termini espliciti, solo che il pubblico ministero non sia legittimato ad impugnare tale ordinanza ai sensi dell’art. 586 c.p.p., quindi congiuntamente alla sentenza di non luogo a procedere, sottolineando come con l’impugnazione della sentenza debbano ritenersi ormai inibite le doglianze relative all’originaria insussistenza di uno dei presupposti stabiliti dall’art. 168 bis c.p. per l’accesso al rito speciale[4].

A sostegno dell’orientamento contrario a ritenere sussistente in capo al Procuratore Generale presso la Corte di Appello la legittimazione ad impugnare l’ordinanza ammissiva della prova, viene evidenziato che il sistema dei rimedi esperibili avverso la predetta ordinanza “è improntato, sul piano dell’economia processuale, alla finalità di ridurre sensibilmente le ipotesi di regressione del procedimento, se non addirittura di eliminarle del tutto e di garantire il massimo favore all’istituto della messa alla prova[5].

Proprio dal carattere incidentale del procedimento di messa alla prova vengono desunti argomenti a sostegno dell’interpretazione restrittiva; si ritiene, in particolare, che il Procuratore Generale presso la Corte di Appello non abbia alcuna competenza nella materia in esame, non essendo istituito presso il giudice che ha emanato il provvedimento impugnato (e dal quale deriva la competenza in materia di impugnazione) né presso il giudice avente giurisdizione di merito a livello superiore, dal momento che l’ordinanza di sospensione del procedimento per messa alla prova è impugnabile solo con il ricorso per cassazione.

Così delineati sinteticamente i contrapposti orientamenti, emerge che, nella sostanza, il contrasto insorto all’interno della giurisprudenza di legittimità deve ritenersi unicamente riferito alla possibilità per il Procuratore Generale di impugnare l’ordinanza con la quale l’imputato viene ammesso alla prova, a seguito della sua comunicazione o unitamente alla sentenza.

Di contro, si deve osservare come non vi sia sostanziale contrasto nell’escludere la legittimazione del Procuratore Generale ad impugnare la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 464 septies c.p.p. per violazione di legge o vizi motivazionali che riguardino l’ordinanza de qua, nell’ipotesi in cui ne abbia avuto tempestiva comunicazione in sede di ammissione.

La questione, dunque, sembra focalizzarsi sull’interpretazione che deve essere conferita all’espressione “pubblico ministero” contenuta nell’art. 464 quater, comma 7, c.p.p., ossia se debba essere intesa in senso restrittivo, con esclusivo riferimento al Procuratore della Repubblica presso il Tribunale o, come inducono a pensare le pronunce delle Sezioni Unite, sopra richiamate, in senso estensivo.

Ravvisato il contrasto giurisprudenziale, la Quarta Sezione Penale della Corte di Cassazione, con ordinanza n. 15493 del 23 marzo 2022, rimetteva alle Sezioni Unite la risoluzione del seguente quesito di diritto: “se il Procuratore Generale sia legittimato a proporre impugnazione avverso l’ordinanza che ammette l’imputato alla messa alla prova ai sensi dell’art. 464 bis c.p.p. e avverso la sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 464 septies c.p.p., e quali siano i vizi deducibili con il ricorso avverso tale sentenza”.

4 – L’istituto della messa alla prova: cenni

In tale prospettiva, al fine di meglio inquadrare il tema, pare opportuno esaminare sinteticamente i presupposti applicativi dell’istituto della messa alla prova e l’iter procedimentale che lo riguarda.

La sospensione del processo con messa alla prova, introdotta con la l. 28 aprile 2014, n. 67, rappresenta una modalità alternativa di definizione del processo, attivabile sin dalla fase delle indagini preliminari, mediante la quale è possibile pervenire ad una pronuncia di proscioglimento per estinzione del reato, laddove il periodo di prova cui acceda l’indagato/imputato, ammesso dal giudice in presenza di determinati presupposti normativi, si concluda con esito positivo.

Si tratta di un istituto che ha natura consensuale e funzione di riparazione sociale e individuale del torto connesso alla consumazione del reato, la cui ratio viene ricondotta alla necessità di decongestionare i procedimenti penali al fine di ottenere, nel lungo termine, anche effetti di decarcerizzazione[6].

Ai fini dell’ammissione alla prova, il legislatore ha previsto requisiti formali, a tutela della volontarietà della scelta, e presupposti applicativi sia di natura oggettiva che di natura soggettiva, che sottendono valutazioni di compatibilità dei reati o delle tipologie di delinquenza con l’istituto in questione[7].

Quanto ai requisiti formali, la richiesta deve essere formulata dall’indagato/imputato[8], oralmente o per iscritto, personalmente o a mezzo di procuratore speciale, e corredata da un programma di trattamento elaborato dall’Ufficio Esecuzione Penale Esterna competente per territorio, ovvero da un’istanza rivolta al medesimo Ufficio e finalizzata alla sua elaborazione.

Con riferimento ai presupposti applicativi di natura oggettiva, l’istanza può essere attualmente presentata solo in ipotesi di reato punito con la pena pecuniaria o con la pena detentiva fino a quattro anni, ovvero di reato che rientri fra quelli previsti dall’art. 550, comma 2, c.p.p. di competenza del Tribunale in composizione monocratica, per i quali è prevista la citazione diretta a giudizio[9].

I presupposti applicativi soggettivi, invece, ineriscono alla personalità del soggetto.

In particolare, il beneficio non può essere richiesto da chi sia stato dichiarato delinquente o contravventore abituale, professionale o per tendenza, da colui al quale sia stata già concessa e poi revocata, ovvero da colui al quale sia stata concessa con esito negativo.

La richiesta di ammissione alla sospensione del processo con messa alla prova può essere avanzata anche prima dell’esercizio dell’azione penale, durante la fase delle indagini preliminari, a tal fine prevedendosi che lo stesso pubblico ministero, ove ne ricorrano i presupposti, dia avviso all’indagato in ordine alla possibilità di accedere all’istituto in questione.

In tal caso, la richiesta deve essere presentata al Giudice per le Indagini Preliminari, il quale deve trasmetterla al pubblico ministero per il parere.

Dopo l’esercizio dell’azione penale, la richiesta deve essere presentata, nel rito ordinario, entro le conclusioni in sede di udienza preliminare, nel rito direttissimo e nel procedimento con citazione diretta a giudizio, sino all’apertura del dibattimento, nel procedimento per decreto, con l’atto di opposizione e nel giudizio immediato, entro 15 giorni dalla notifica del decreto di giudizio immediato[10].

Successivamente alla presentazione dell’istanza, corredata dal programma di trattamento o dalla richiesta finalizzata alla sua elaborazione, il giudice procede alla valutazione nel corso della stessa udienza ovvero in un’udienza camerale della quale deve essere dato avviso alle parti e alla persona offesa per garantire il contraddittorio.

Qualora il giudice ritenga che ne ricorrano i presupposti, emette un’ordinanza con la quale ammette l’indagato/imputato alla prova e dispone la sospensione del processo per un periodo che non può essere superiore ad un anno quando si tratta di reati puniti con pena pecuniaria e a due anni quando si tratti di reati puniti con una pena detentiva (periodo che inizia a decorrere dal momento di sottoscrizione del verbale di messa alla prova).

Con l’ordinanza, il giudice stabilisce il termine entro cui le prescrizioni e gli obblighi del programma di trattamento devono essere eseguiti; termine prorogabile una sola volta, su esplicita richiesta dell’indagato/imputato.

Nel caso di sospensione del procedimento, ove la persona offesa e danneggiata dal reato si sia costituita parte civile prima dell’ordinanza ammissiva, non trova applicazione l’art. 75, comma 3, c.p.p. e, conseguentemente, la stessa potrà esercitare l’azione civile nella sede propria, senza incorrere nella sospensione del procedimento civile in attesa della definizione di quello penale[11].

La messa alla prova consiste, in concreto, nello svolgimento degli impegni indicati nel programma di prova predisposto di concerto con l’Ufficio Esecuzione Penale Esterna competente per territorio, ovvero, del luogo di residenza o domicilio dell’indagato/imputato.

Una volta concluso il periodo di prova, il giudice, verificatone l’esito positivo (e, quindi, verificato l’adempimento alle prescrizioni del programma di trattamento), dichiara con sentenza ex art. 464 septies c.p.p. l’estinzione del reato.

5 – La questione di merito: l’(in)applicabilità dell’istituto della messa alla prova agli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001

La questione di diritto rimessa alle Sezioni Unite implica necessariamente la individuazione e analisi di un diverso e correlato quesito, inerente al merito delle doglianze mosse dal Procuratore Generale con il ricorso per cassazione: la possibilità di applicare l’istituto di cui all’art. 168 bis c.p. agli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001.

A tale riguardo, si osserva che la disciplina codicistica dell’istituto individua espressamente quale soggetto legittimato a formulare la richiesta di sospensione del procedimento con messa alla prova il solo imputato, senza menzionare in maniera espressa anche la persona giuridica incolpata di un illecito amministrativo dipendente da reato.

In tal guisa, gli artt. 62 e ss. d.lgs. n. 231 del 2001, nel contemplare ipotesi specifiche di procedimenti speciali applicabili nei confronti degli enti, non menzionano, tra questi, l’istituto della messa alla prova.

D’altro canto, l’art. 34 d.lgs. n. 231 del 2001 prevede l’applicabilità delle norme del codice di procedura penale, se compatibili, al procedimento d’accertamento della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, mentre il successivo articolo 35, rubricato “estensione della disciplina relativa all’imputato”, in maniera più specifica stabilisce l’applicabilità all’ente delle “disposizioni processuali relative all’imputato, in quanto compatibili”.

La questione, come anticipato in premessa, risulta esser stata affrontata in seno alla giurisprudenza di merito, non giungendo a conclusioni univoche.

Il Tribunale di Milano, con ordinanza del 27 marzo 2017, si esprimeva in senso negativo, respingendo l’istanza difensiva formulata nell’interesse dell’ente ed escludendo che l’istituto potesse trovare applicazione anche nei confronti delle persone giuridiche.

La decisione del Tribunale evidenziava che l’applicazione all’ente dell’istituto della messa alla prova si risolverebbe in un’applicazione analogica delle disposizioni sopra richiamate di cui occorre verificare l’ammissibilità[12].

La pronuncia riconosceva alla messa alla prova una dimensione prettamente ibrida, che racchiude in sé sia profili di diritto processuale che aspetti più chiaramente sostanziali e, proprio in ragione della riconosciuta natura sostanziale, richiamava i corollari del principio di legalità ex art. 25, comma 2, Cost., in materia penalistica, affermando che “in assenza, de jure condito, di una normativa di raccordo che renda applicabile la disciplina di cui agli artt. 168 bis c.p. alla categoria degli enti, ne deriva che l’istituto in esame, in ossequio al principio di riserva di legge, non risulta applicabile ai casi non espressamente previsti, e quindi alle società imputate ai sensi del d.lgs. 231 del 2001”.

Infatti, secondo il consolidato insegnamento di legittimità, il principio di legalità è riferito sia alle previsioni contenenti il precetto penale che a quelle recanti la pena.

Ne consegue che, essendo l’istituto della messa alla prova riconducibile al novero delle sanzioni penali, in ragione della sua natura (pure) sostanziale, è preclusa l’applicazione analogica della relativa disciplina, la quale violerebbe anche la riserva di legge, che in materia di pene è unanimemente riconosciuta come assoluta.

Ha opinato in senso diverso il Tribunale di Modena che, con l’ordinanza dell’11 dicembre 2019 e la successiva sentenza del 19 ottobre 2020, aveva ammesso l’ente alla sospensione del procedimento con messa alla prova, ponendo a fondamento il presupposto secondo cui si applicano, nel procedimento di accertamento della responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, le disposizioni relative all’imputato anche quando ivi non regolamentate, con l’unico limite della compatibilità[13].

Con un’ulteriore pronuncia sul punto, il Tribunale di Bologna, seguendo le tracce del giudice meneghino – ma, differentemente, ritenendo astrattamente possibile una applicazione analogica della messa alla prova all’ente, non riconoscendo ai lavori di pubblica utilità correlati al programma di trattamento natura sanzionatoria – dichiarava comunque inammissibile l’istanza di applicazione dell’istituto in esame a una persona giuridica accusata degli illeciti amministrativi di induzione indebita e di truffa ai danni dello Stato[14].

Secondo tale orientamento, l’applicazione analogica è comunque impossibile, poiché la lacuna normativa conseguente al mancato coordinamento della disciplina sostanziale della messa alla prova con il d.lgs. n. 231 del 2001, in realtà, è intenzionale, rispecchiando una precisa scelta del legislatore volta ad escludere la persona giuridica dall’ambito soggettivo di applicazione dell’istituto.

In particolare, il giudice esaltava la finalità “non soltanto special preventiva, riparativa e conciliativa, ma soprattutto rieducativa” dell’istituto, inconcepibile in relazione all’ente.

L’inapplicabilità dell’istituto alla persona giuridica, veniva pure sancito, seppure per ragioni differenti, dai giudici della Suprema Corte di Cassazione, ma sulla base della “natura amministrativa” che “non consente l’applicabilità di istituti giuridici specificamente previsti per le sanzioni di natura penale[15].

Alla stessa stregua, il Tribunale di Spoleto, con ordinanza del 21 aprile 2021, riteneva l’istituto non compatibile con la fisionomia e gli scopi di diritto e del processo penale a carico degli enti.

Condividendo, da ultimo, l’orientamento espresso dal Tribunale di Modena, anche il Tribunale di Bari, con ordinanza del 22 giugno 2022, riteneva l’istituto della messa alla prova compatibile con il sistema di responsabilità della persona giuridica, traendo spunto dall’assunto secondo cui l’applicazione della disciplina all’ente non determinerebbe una violazione dei principi di tassatività e di riserva della legge penale, dal momento che il divieto di analogia opera soltanto quando vi siano effetti sfavorevoli per l’imputato.

La messa alla prova per l’ente, invece, si risolverebbe in un ampliamento del ventaglio di procedimenti speciali a sua disposizione, consentendogli una miglior definizione della strategia processuale.

La ritenuta ammissibilità all’istituto per l’ente, dunque, non determinerebbe il venir meno della disciplina di cui all’art. 17 d.lgs. n. 231 del 2001, atteso che l’ambito di applicazione della norma citata non coincide affatto con quella della messa alla prova[16].

6 – La decisione delle Sezioni Unite

Con l’informazione provvisoria in commento, le Sezioni Unite, all’esito della pubblica udienza del 27 ottobre 2022, hanno risolto la questione inerente alla legittimazione del Procuratore Generale a proporre impugnazione avverso l’ordinanza ammissiva dell’imputato alla messa alla prova in termini affermativi, statuendo, altresì, la non accessibilità dell’ente a tale istituto.

In attesa di conoscere le motivazioni pronuncia, è stato dunque affermato il seguente principio di diritto: “il Procuratore Generale è legittimato, ai sensi dell’art. 464-quater, comma 7, c.p.p., ad impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova (art. 464-bis, c.p.p.) ritualmente comunicatagli ai sensi dell’art. 128 c.p.p.. In conformità a quanto previsto dall’art. 586 c.p.p., in caso di omessa comunicazione dell’ordinanza è legittimato ad impugnare quest’ultima insieme con la sentenza al fine di dedurre anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova. L’istituto dell’ammissione alla prova (art. 168-bis c.p.) non trova applicazione con riferimento agli enti di cui al d. lgs n. 231 del 2001”.

7 -Considerazioni conclusive

In attesa di conoscere il percorso motivazionale seguito dalle Sezioni Unite, può affermarsi che appaiono pienamente condivisibili le conclusioni rassegnate nella pronuncia in commento in punto di legittimazione del Procuratore Generale ad impugnare l’ordinanza di ammissione alla prova che gli sia stata ritualmente comunicata o, in caso di omessa notificazione, unitamente alla sentenza ex art. 464 septies c.p.p., al fine di dedurre anche motivi attinenti ai presupposti di ammissione alla prova.

Come noto, la disciplina processuale dell’istituto della sospensione del procedimento con messa alla prova è contenuta nel titolo V bis del Libro VI del Codice di rito, dedicato ai procedimenti speciali: ai fini che qui interessano, viene in considerazione, in particolare, l’art. 464 quater, comma 7, c.p.p., in base al quale imputato e il pubblico ministero, anche su istanza della persona offesa, possono ricorrere per cassazione contro l’ordinanza che decide sull’istanza di messa alla prova.

Quanto ai limiti di impugnabilità ad opera della pubblica accusa del provvedimento di sospensione del procedimento per la messa alla prova dell’imputato, la Suprema Corte ha avuto modo di osservare come il ricorso per cassazione avverso il provvedimento ammissivo previsto dall’art. 464 quater, comma 7, c.p.p. dovesse considerarsi, per il pubblico ministero, limitato al rilievo delle violazioni di legge, con esclusione, quindi, delle questioni che attengono al merito, quali la quantità e la qualità degli obblighi e delle prescrizioni imposte, nonché i termini della loro esecuzione ovvero la congruità rispetto al fatto commesso e alle finalità rieducative che giustificano il provvedimento stesso[17].

Orbene, se la legge non distingue e non seleziona per il profilo soggettivo uno specifico ufficio del pubblico ministero, il riferimento al pubblico ministero come titolare del potere di impugnazione non può che implicare la legittimazione anche del Procuratore Generale: vale, invero, la regolare generale dell’art. 570, comma 1, c.p.p. ove, in via generale, si stabilisce l’attribuzione concorrente del potere di impugnazione in capo ad entrambi gli uffici del pubblico ministero.

In tale prospettiva, nella nozione di pubblico ministero di cui all’art. 464 quater, comma 7, c.p.p., ove si indicano i soggetti legittimati al ricorso per cassazione, rientra a buon diritto il procuratore generale: ciò in quanto, in via preminente, le disposizioni in materia di impugnazioni che menzionano come soggetto legittimato il pubblico ministero intendono, salvo che sia espressamente stabilito in modo diverso, entrambe le figure, del procuratore della Repubblica e del procuratore generale presso la corte di appello. Solo in alcuni casi, e specificamente in materia di impugnazione delle ordinanze cautelari emesse in sede di riesame o di appello, la legittimazione al ricorso per cassazione è espressamente limitata al pubblico ministero che ha richiesto l’applicazione della misura e al pubblico ministero presso il tribunale del riesame.

Vi sono, poi, le impugnazioni avverso i provvedimenti emessi dal tribunale come giudice dell’esecuzione, per le quali la giurisprudenza concordemente ritiene che il Procuratore Generale presso la Corte di Appello non sia legittimato a proporre ricorso per cassazione, in quanto però in tal caso, secondo l’elaborazione di legittimità, nel concetto di parte usato nell’art. 570, comma 1, c.p.p., non può comprendersi la Procura Generale rimasta estranea al procedimento di esecuzione, riferendosi l’espressione usata ai concreti protagonisti della dialettica processuale del procedimento specifico e non ad altri soggetti rimasti estranei a quella fase processuale[18].

Fuori da questi settori, il riferimento al pubblico ministero non può che essere inteso nel senso onnicomprensivo e quindi non pare poter dubitarsi che l’ordinanza ammissiva debba essere portata a conoscenza mediante comunicazione dell’avviso di deposito, non solo delle parti del provvedimento ma anche, come espressamente indicato nell’art. 128 c.p.p., di tutti “coloro cui la legge attribuisce il diritto di impugnazione”.

Né è possibile limitare il potere del Procuratore Generale mediante il richiamo al principio di tassatività delle impugnazioni: non è dubbio che sia la legge a dover indicare gli atti impugnabili, lo strumento con cui possono essere impugnati e i soggetti che sono legittimati: esso implica non solo che un soggetto processuale non possa impugnare se ciò non è previsto, ma anche che non possa essere escluso dall’area dei legittimati se la legge in tal senso non ha espressamente disposto, perché in entrambi i casi risulterebbe violato il principio di legalità processuale di cui è corollario quello di tassatività, anche per il profilo soggettivo.

L’ordinanza ex art. 464 quater c.p.p. deve essere dunque portata a conoscenza – mediante lettura in udienza o mediante notifica o comunicazione dell’avviso di deposito – non solo alle parti del procedimento che hanno diritto all’avviso della data dell’udienza, ma anche al Procuratore Generale presso la Corte di Appello, titolare del potere di impugnazione al pari del Procuratore della Repubblica ai sensi dell’art. 570 c.p.p.: ove ciò non avvenga, trova legittimazione l’eventuale impugnazione proposta dal Procuratore Generale nei confronti della sentenza pronunciata ai sensi dell’art. 464 septies c.p.p. per violazione di legge che riguardi l’ordinanza di ammissione dell’imputato alla messa alla prova.

Secondo tale impostazione, anche al Procuratore Generale deve essere consentito di rilevare la violazione di legge, che può certamente attenere sia alle ragioni che consentono la sospensione del procedimento, sia alla legalità delle prescrizioni imposte, e fra queste alla durata dei lavori di pubblica utilità, determinata anche con riferimento alla pena irrogabile per il reato contestato.

Sotto altro profilo, non appare, invece, parimenti condivisibile la soluzione rassegnata dalle Sezioni Unite in merito alla non applicabilità dell’istituto della messa alla prova agli enti di cui al d.lgs. n. 231 del 2001, soprattutto se correlata alle recenti modifiche apportate dalla riforma del sistema penale introdotta con il d.lgs. n. 150 del 10 ottobre 2022 all’istituto di cui all’art. 168 bis c.p. e alla ratio propria della riforma.

In via generale può osservarsi che, in un’ottica generale di incentivazione dell’accesso al rito e di potenziamento delle finalità deflattive del sistema, la “riforma Cartabia” ha previsto che la sospensione del procedimento con messa alla prova possa essere proposta anche dal pubblico ministero a seguito della chiusura delle indagini preliminari, con ciò in via del tutto innovativa assegnando a tale parte processuale un possibile onere in tal senso: da tale punto di vista, la conclusione cui è pervenuta la Suprema Corte si pone in discordanza con la ratio della novella.

La possibilità per l’ente di accedere all’istituto della messa alla prova potrebbe di certo favorire una più rapida e favorevole risoluzione del procedimento penale, coerente con gli scopi riparativi in via generale perseguiti dal legislatore, e appare maggiormente coerente sul piano pratico e sistematico, soprattutto in tutte quelle ipotesi in cui tanto la persona fisica imputata quanto la persona giuridica ritenuta responsabile dell’illecito amministrativo di cui al d.lgs. 231 del 2001 richiedono la sospensione del procedimento con messa alla prova. Non vi è chi non veda come, negando la possibilità all’ente di poter accedere all’istituto, si creerebbe il paradosso di dover proseguire il procedimento penale nei soli confronti dell’ente per accertarne la responsabilità in relazione all’illecito amministrativo che deriva dalla commissione di un reato che verrà dichiarato estinto.

Alla stregua di tale ultima considerazione e per superare le resistenze all’accessibilità dell’ente all’istituto in considerazione, anche per rispondere al “vuoto normativo espresso” cui, con ogni probabilità, le Sezioni Unite hanno fatto riferimento al fine di escludere la possibilità dell’ente di beneficiarne, è più che mai auspicabile una riforma della disciplina inerente alla responsabilità dell’ente, che espressamente contempli, tra le ipotesi specifiche di procedimenti speciali applicabili nei suoi confronti, anche l’istituto della messa alla prova, in linea di assoluta coerenza con il favore che il legislatore ha in via generale mostrato per l’istituto della messa alla prova.


[1] Cass. Pen., Sez. I, n. 43293, 27 ottobre 2021, Ongaro, Rv. 282156; Cass. Pen., Sez. I, n. 41629, 14 aprile 2019, Lorini, Rv. 277138; Sez. V, n. 7231, 6 novembre 2020, Hoelzi, non massimata; Cass. Pen., Sez. II, n. 7477, 8 gennaio 2021, Sperindeo, non massimata.

[2] Cass. Pen., Sez. Un., n. 22531, 31 maggio 2005, Campagna, Rv. 231056 e Cass. Pen., Sez. Un., n. 310111, 28 maggio 2009, Colangelo, Rv. 244029, secondo le quali l’espressione “pubblico ministero” è utilizzata dal codice di rito indifferentemente per il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale e per il Procuratore Generale presso la Corte di Appello.

[3] Cass. Pen., Sez. VI, n. 18317, 9 aprile 2021, Stompanato, Rv. 281272.

[4] Cass. Pen, Sez. VI, n. 21046, 10 giugno 2020, Betti, Rv. 279744. Di tenore analogo Cass. Pen., Sez V, n. 5093, 14 gennaio 2020, Cicolini, Rv. 278144 e Cass. Pen, Sez. V, n. 17951, 1 aprile 2019, Bonifacio, non massimata, nelle quali non si esclude in termini espliciti l’ammissibilità dell’impugnazione dell’ordinanza di ammissione alla prova da parte del Procuratore Generale, ma, a fronte di un ricorso proposto contro la sentenza dichiarativa dell’estinzione del reato, si sostiene che tale impugnazione non possa essere proposta per vizi afferenti al provvedimento di sospensione del processo di cui all’art. 464 quater c.p.p.; vizi che avrebbero dovuto essere fatti valere con l’impugnazione del provvedimento.

[5] Cass. Pen., Sez. Un., n. 33216, 31 marzo 2016, Rigacci, Rv. 267237.

[6]  F. Fiorentin, Preclusioni e soglie di pena riducono la diffusione, in Guida Dir., 21, 2014.

[7] A. Larussa, Messa alla prova, in Altalex, 2017.

[8] Con la recentissima “riforma Cartabia” (d.lgs. 10 ottobre 2022, n. 150), la cui entrata in vigore è prevista per il 30 dicembre 2022, è stato inoltre stabilito che la richiesta possa essere avanzata anche dal pubblico ministero nell’avviso di conclusione delle indagini preliminari ovvero in udienza e che, entro il termine di venti giorni, la persona sottoposta ad indagini possa aderire alla proposta.

[9] Con la sentenza della Corte Costituzionale n. 174 depositata il 12 luglio 2022, è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 168 bis, comma 4, c.p. nella parte in cui non prevede che l’imputato possa essere ammesso alla sospensione del procedimento con messa alla prova nell’ipotesi in cui si proceda per reati connessi, ai sensi dell’art. 12, comma 1, lett. b), c.p.p., con altri reati per i quali tale beneficio sia già stato concesso.

[10] M. L. Galati, L. Randazzo, La messa alla prova nel processo penale, Milano, 2020.

[11] A. Larussa, Messa alla prova, in Altalex, 2017.

[12] A tale fine, il Tribunale ha richiamato la sentenza n. 36272 delle Sezioni Unite del 31 marzo 2016, nella parte in cui ha riconosciuto all’istituto della messa alla prova natura giuridica sia processuale, trattandosi di un procedimento speciale, nell’ambito del quale “l’imputato che rinuncia al processo ordinario trova il vantaggio di un trattamento sanzionatolo non detentivo “, sia sostanziale, giacché la prestazione del lavoro di pubblica utilità – costituente uno dei contenuti della messa alla prova – è qualificabile come una sanzione penale non detentiva, “che persegue scopi special preventivi in una fase anticipata, in cui viene “infranta” la sequenza cognizione-esecuzione della pena, in funzione del raggiungimento della risocializzazione del soggetto” (la natura ibrida, sostanziale e processuale, dell’istituto è stata affermata pure dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 240 del 26 novembre 2015.

[13] A. Bassi, Il procedimento di accertamento e di applicazione delle sanzioni nei confronti degli enti, in A. Bassi, T. E. Epidendio, Enti e responsabilità da reato. Accertamento, sanzioni e misure cautelari, Milano, 2006.

[14] Trib. Bologna, 10 dicembre 2020, con nota di L. N. Meazza, Messa alla prova e persone giuridiche: una nuova pronuncia del Tribunale di Bologna, in Giur. Pen., 2020.

[15] Cass. Pen., Sez. III, 2 novembre 2020, n. 30305.

[16] L’art. 17 d.lgs. n. 231 del 2001, infatti, stabilisce un trattamento sanzionatorio più mite nell’ipotesi in cui, prima dell’apertura del dibattimento, l’ente ponga in essere delle condotte riparatorie, mentre la messa alla prova ha un oggetto ben più ampio, contemplando pure l’affidamento al servizio sociale per un programma che può comprendere attività di volontariato di rilievo sociale, nonché la prestazione di pubblica utilità.

[17] Cass. Pen., Sez. Un., 31 marzo 2016, n. 33216, Rigacci.

[18] Cass. Pen., Sez. I, 2 febbraio 1999, n. 943, Rv. 212743.

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