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Il furore casistico nella recente legislazione penale. In particolare: circostanze e soggettivismo*

1. Premessa

Nel porgere i miei auguri vivissimi all’illustre e caro Collega Nicola Mazzacuva, mi scuso per le considerazioni un po’ stravaganti che seguiranno, sicuramente inadeguate all’importanza dell’occasione. Peraltro, credo che sia sempre più difficile – nel “frenetico star fermi”[1] caratteristico della temperie postmoderna[2] e della perenne emergenza legislativa[3], ma anche di una parte della letteratura giuridica, ai tempi delle riviste telematiche di cronaca penalistica e delle valutazioni burocratiche di produttività – approssimarsi alla profondità ed all’ampiezza di prospettive che connotano l’opera di studiosi come il nostro Jubilar. Se, nonostante una certa consapevolezza dei limiti del presente contributo, l’ho inviato, è perché mi è parso doveroso, quale piccolo segno di riconoscenza, ricordando specialmente quanto importante sia stata, per la mia formazione giovanile, la monografia «Il disvalore d’evento nell’illecito penale»: una pietra miliare nell’affermazione culturale del principio di offensività, ormai di riconosciuto rango costituzionale, ma bistrattato e disatteso nella prassi legislativa.

Nella parte iniziale del lavoro[4], l’Autore sottoponeva acutamente a critica, quale emblema della legislazione penale emergenziale – della sua tendenza a creare sottosistemi d’eccezione, di taglio direi quasi casistico, per ‘tipi d’autore’ o di ‘nemico’, e del suo soggettivismo – anche l’aggravante della finalità di terrorismo o di eversione, art.1 co.1 d.l. n.625/1979, conv. con modif. dalla l. n.15/1980; oggi ‘incorporata’ nel codice penale all’art.270-bis.1, ad opera del d.lgs. n.21/2018. Un’aggravante legata all’atteggiamento interiore, speciale e ad effetto speciale, ‘presidiata’ da deroghe alle regole generali in tema di bilanciamento di circostanze.

Quella critica presupponeva coraggio: si trattava, infatti, di mettere in discussione un caposaldo o almeno un vessillo – allo stesso tempo ‘simbolico’ ed esasperatamente afflittivo – della normativa antiterrorismo[5], che successivamente sarebbe stato impiegato pure nella legislazione antimafia, e non solo, come vedremo tra poco.

Circa quarant’anni dopo, l’inesorabile, progressivo dilagare dell’emergenzialismo è sotto gli occhi di chiunque provi a levare lo sguardo – it’s easy if you try – al di sopra dell’analisi di un singolo provvedimento legislativo o giudiziario[6]. Anzi, si tratta forse – si perdoni l’iperbole – dell’unico fenomeno che si sottrae alla presente Unübersichtlichkeit, all’impossibilità di abbracciare con lo sguardo l’intera materia, per la sua ipertrofia, la confusa stratificazione e differenziazione casistica.

E i problemi all’epoca ‘emergenti’ si ripropongono: basti pensare alla recente discussione intorno alla proposta legislativa – non approvata, ma recentemente ripresentata in termini identici – volta ad inserire negli artt. 604-bis e 604-ter c.p. una nuova ‘casistica’ relativa alla finalità di discriminazione «per motivi fondati sul sesso, sul genere, sull’orientamento sessuale, sull’identità di genere o sulla disabilità»; nell’art.604-ter c.p. proprio ampliando la previsione di una circostanza – ancora una volta – legata all’atteggiamento interiore, speciale e ad effetto speciale, e ‘presidiata’ da deroghe in tema di bilanciamento…[7].

Casistica, offensività, circostanze: ai nessi tra questi ambiti tematici mi propongo di dedicare qualche spunto di riflessione.

2. La tecnica casistica nel codice Rocco e la sua controversa valutazione politico-criminale

2.1. Valenza repressiva della casistica nel codice Rocco

Nell’introdurre la parte speciale del suo celebre manuale, Antolisei aderiva all’opinione di coloro che stigmatizzavano come «uno dei più grandi difetti, forse il maggiore, del codice Rocco» l’impiego di una tecnica accentuatamente casistica, riferendosi soprattutto allo ‘spezzettamento’ delle condotte punibili tra più norme incriminatrici[8]. Diversamente da quanto pareva ritenere l’Autore – che poneva il problema in termini meramente tecnici, ossia di eccessiva analiticità descrittiva – la proliferazione casistica delle norme penali mi sembra fossa volta pure ad ampliare la sfera del punibile ed a colpire con inasprimenti sanzionatori i molti ‘sottocasi’ elevati a fattispecie autonome o a circostanze del reato. Si consideri solo la minuziosa casistica dei reati associativi politici di cui agli artt.270, 271, 273, 274, 304 (mero accordo), 305, 306 c.p. nella versione originaria.

L’acribìa repressiva di taglio casistico del codice Rocco si coglieva pure nella disciplina delle circostanze aggravanti, comuni e speciali. Basti ricordare l’elencazione minuziosa e il rigore repressivo delle aggravanti ad effetto speciale del furto, art.625 c.p.[9].

Per altro verso, se si guarda alla tecnica di redazione della singola norma incriminatrice, nel codice Rocco prevaleva piuttosto l’impiego di una normazione sintetica, con ampio uso di concetti indeterminati o, addirittura, di tautologie: sotto quest’ultimo profilo, si pensi alla definizione dell’usura quale dazione o promessa di interessi “usurari”, alla rissa ‘descritta’ come il fatto di partecipare ad una… rissa, alla partecipazione ad associazioni ‘definita’ come partecipazione, o al vilipendio ‘descritto’ come il fatto di chiunque “vilipende”. Probabilmente, il ricorso all’una o all’altra tecnica, nella singola norma, era semplicemente strumentale all’ampliamento, in un modo o nell’altro, della sfera del punibile. Anche quando l’acribìa si esplicava in norme definitorie, si ricorreva talora ad espressioni tendenzialmente onnicomprensive o a clausole di chiusura: ad es., secondo l’art. 266 u.co. c.p., «agli effetti della legge penale, il reato si considera avvenuto pubblicamente quando il fatto è commesso: 1) […]; 2) in luogo pubblico o aperto al pubblico o con altro mezzo di propaganda» e, comunque, «3) in una riunione che, per il luogo in cui è tenuta, o per il numero degli intervenuti, o per lo scopo od oggetto di essa, abbia carattere di riunione non privata». Insomma, è pubblica ogni riunione “non privata”[10].

Alla specificazione casistica si ricorreva, dunque, specialmente per colmare ogni possibile dubbio circa una lacuna – ad esempio, è punibile come reato associativo anche la mera cospirazione politica? Occorre chiarirlo: si introduca, dunque, una figura di reato ad hoc, anzi, meglio due! – o per minacciare un ulteriore giro di vite repressivo, ad esempio, per il furto con destrezza o per quello del bagaglio…

Ad ogni modo, come vedremo, la legislazione repubblicana, specie quella recente, giunge a livelli casistici forse anche più ossessivi. Ma, prima, occupiamoci della valutazione politico-criminale – nel senso della conformità ai principi costituzionali del diritto penale – dell’impiego di tale tecnica legislativa.

2.2. Valutazione politico-criminale: casistica e determinatezza

Naturalmente, sotto il profilo teleologico si presenta in primo luogo il problema se la tecnica casistica garantisca una maggior conformità della descrizione del fatto di reato al principio di tassatività/determinatezza. Al riguardo, l’autorevole opinione più nettamente favorevole all’impiego di tale tecnica legislativa in materia penale mi pare quella secondo cui «il più elevato grado di precisione è assicurato dalla tecnica casistica, cioè dalla descrizione analitica di specifici comportamenti, oggetti, situazioni. Si pensi, ad esempio, alla norma sulle lesioni personali gravissime: l’art.583 co.2 stabilisce […]. L’unico costo di un ricorso indiscriminato alla tecnica casistica è l’elefantiasi della legislazione penale […]. Quanto invece al rilievo che l’adozione di quella tecnica, comportando la presenza di lacune, esporrebbe il giudice alla perenne ‘tentazione’ di colmare le lacune attraverso l’analogia, va sottolineato con forza che quella tentazione è neutralizzata dal divieto di applicazione analogica delle norme penali ex artt.14 Preleggi e 1 c.p.. Solo il legislatore è legittimato a riempire le lacune: e in effetti il legislatore italiano è più volte intervenuto per disciplinare nuovi fenomeni non riconducibili sotto i ‘casi’ contemplati dalla precedente legislazione […]»[11]. Gli illustri Autori contrappongono alla casistica il «ricorso a clausole generali, cioè a formule sintetiche comprensive di un gran numero di casi, che il legislatore rinuncia ad enumerare e specificare»: a tale tecnica è «invece connaturato» «un rischio di imprecisione», ma si tratterebbe di una tecnica “legittima”, a condizione che i termini sintetici impiegati dal legislatore consentano una sufficiente certezza, anche, come sostenuto dalla Corte costituzionale, mediante “formule elastiche”[12].

Tale orientamento non risulta a mio avviso condivisibile. In primo luogo, appare rigida e, perciò, fuorviante la contrapposizione binaria tra casistica e clausole generali: ovviamente tertium datur, e cioè una normazione sintetica, mediante concetti di genere e specie, descrittivi o normativi. Nella disposizione “Chiunque cagiona la morte di un uomo”, il termine “cagiona”, diversamente dall’opinione di cui si discute, non mi pare che rappresenti una “clausola generale”, ma una formula sintetica; così come il termine “malattia” nella lesione personale non costituisce una clausola generale, bensì un concetto che consente di non elencare in modo casistico le singole malattie…

In secondo luogo – senza poterci addentrare qui, come sarebbe necessario, in complessi problemi linguistici[13] – mi pare si possa rilevare agevolmente che la precisione della descrizione ‘mediante casi’ sia tutt’altro che scontata; essa pare dipendere, invece, da almeno due fattori, intimamente connessi.

Il primo è l’univocità dei singoli termini impiegati; e qui ci si affaccia su un abisso. Infatti, ad esempio, l’espressione casistica “lancia un sasso” – dal cavalcavia, magari: si ricorderà che qualche anno fa si propose di introdurre un’incriminazione ad hoc -, non è affatto più precisa, attesa la molteplicità delle modalità che abbraccia – dannose, pericolose oppure innocue -, a confronto con le espressioni sintetiche “percuote”, art.581 c.p. (espressione sintetica, nel senso che potrebbe trattarsi di calcio, pugno, schiaffo, oppure proprio del colpire mediante il lancio di oggetti), o “cagiona una lesione”, art.582 c.p. Piuttosto, l’espressione “lancia un sasso” guarda solo alla condotta, prescindendo dall’offensività, diversamente dal termine “percuote” – che, almeno, presuppone che il colpo vada a segno – e, ovviamente, soprattutto da quello “cagiona una lesione”: sul punto tornerò tra breve.

Un secondo fattore che incide sulla precisione di un’espressione casistica – o di un elenco di casi – consiste nella sua ragionevolezza intrinseca, nella sua congruità in rapporto ad una ratio. Ogni descrizione di taglio casistico rischia di ingenerare incertezza nel destinatario: i singoli casi saranno, magari, “precisi”, e tuttavia spesso la descrizione non è “chiara”, nel senso che non si capisce, non è “chiaro” perché proprio quel determinato caso sia punibile e l’altro no. Ciò induce fatalmente l’interprete ad interrogarsi, innanzitutto, come accennato, sul significato del termine descrittivo riferito al singolo “caso”: ad esempio, lo stesso termine “percuote” è espressione sintetica per un verso, ma casistica per l’altro, perché si punisce appunto chi “percuote”, e non – parrebbe – chi spinge oppure graffia una persona, o le tira i capelli. Ma, allora, l’interprete si chiederà: bisogna intendere il “percuotere” come comprensivo di tali condotte, nonostante manchi in esse, secondo il tenore letterale, proprio la “percossa”, il battere o colpire[14]? Ecco quindi affiorare il rischio dell’analogia; ed infatti in giurisprudenza è pacifico che “percuotere”, nell’art.581 c.p., non significhi solo “percuotere”, ma comprenda anche la spinta o il tirare i capelli[15], perché queste condotte hanno in comune con le altre – ecco l’eadem ratio, che ispira l’analogia giurisprudenziale ‘occulta’! – il “far male”, senza però cagionare la lesione personale di cui all’art.582 c.p. L’irragionevolezza, sul piano teleologico, della selezione normativa di uno specifico ‘caso’ crea quindi incertezza ed induce a ragionamenti di tipo analogico.

Quando, poi, il destinatario o l’interprete si trovano davanti ad un elenco di casi, l’incertezza cresce, sotto vari profili, di cui dirò più avanti, ed in particolare uno: per intendere il significato di ciascuno dei termini usati nell’elenco, li si porrà in relazione tra loro, ovvero, si cercherà una ratio che li accomuna… e questo, direbbe Beccaria, sarà un “argine rotto al torrente delle opinioni”, vale a dire, indurrà fatalmente a procedimenti di tipo analogico. La replica secondo cui tale obiezione sarebbe inconsistente, perché l’analogia è vietata, non appare affatto rassicurante, vista la nota tendenza giurisprudenziale a contrabbandare l’analogia per interpretazione estensiva[16]; e si tenga conto che nelle ipotesi di cui si discute il legislatore, proprio affastellando casi, spinge il giudice verso un procedimento analogico in rapporto a casi-limite oppure ‘irragionevolmente’ non considerati.

Di ciò il legislatore stesso è talvolta consapevole, tanto da autorizzare espressamente la punibilità di “casi analoghi”, simili, “altri”: e qui l’opinione di cui si discute mi pare incorra in una contraddizione. Infatti, da un lato si difende la legislazione casistica affermando che l’analogia sia vietata; dall’altro, però, si ammette espressamente che il legislatore possa autorizzare l’analogia, quando le elencazioni casistiche siano “omogenee” e dunque lascino cogliere la ratio della norma[17]. In tal modo, la possibilità di procedere per analogia in rapporto ad elencazioni casistiche viene rimessa nelle mani del giudice, il quale, oltretutto, deciderà se ritenere l’elencazione legislativa “omogenea” o meno e, di conseguenza, se integrarla mediante l’analogia[18]. A prescindere da ciò, l’idea secondo cui il legislatore possa autorizzare l’analogia in rapporto ad elencazioni ‘omogenee’ sarebbe accettabile soltanto qualora il relativo divieto fosse disponibile dallo stesso legislatore; ma, al contrario, esso ha rango costituzionale e, dunque, vincola pure il legislatore, che non può autorizzare tale procedimento ermeneutico[19], neppure – contrariamente all’opinione criticata – a mo’ di clausola di chiusura in rapporto ad elencazioni casistiche ‘omogenee’.

La pretesa superiorità della tecnica casistica sul piano della determinatezza appare quantomeno dubbia, ogni volta che una norma incriminatrice imperniata su un elenco di casi dà luogo a controversie interpretative relative ai rapporti tra le singole ipotesi[20], foriere di incertezza del diritto. Ad es., in rapporto all’art.612-bis co.1 c.p., appare evidente la problematicità della distinzione tra lo “stato di ansia” e quello, previsto alternativamente, “di paura”, nonché tra entrambi e il “timore” menzionato poco oltre: qui, all’incertezza dovuta all’impiego di una ‘casistica’ di stati emotivi interiori, si aggiunge quella derivante da una formulazione che obbliga l’interprete a definire – o, più realisticamente, ad inventarsi – le relative differenze. Oppure, sempre in riferimento ad una singola norma incriminatrice, si pensi ai rapporti, in reati associativi come quello di cui all’art.270-bis c.p., tra le condotte di chi “promuove, costituisce, organizza, dirige o finanzia” l’associazione: qui, a parte i problemi di delimitazione sia tra tali concetti, sia in rapporto alla diversa ipotesi-base della partecipazione, viene in evidenza il problema se sia configurabile un concorso di reati qualora un associato svolga più ruoli. In proposito, viene invocata quale dirimente la classica distinzione tra “disposizione a più norme” e “norma a più fattispecie”: ma tale distinzione, si afferma, costituisce «un problema di interpretazione, dovendosi stabilire se la legge resti indifferente o meno alla realizzazione congiunta di più ipotesi… Problema spesso arduo, da risolversi norma per norma»[21]. Ecco dunque consegnata al “prudente apprezzamento del giudice” un’enorme discrezionalità – traducibile in termini di anni di reclusione in più o in meno – del tutto incompatibile con la funzione precipua del principio di determinatezza, ossia quella di limitare l’arbitrio del potere giudiziario.

L’indeterminatezza connessa alla tecnica casistica riguarda anche i rapporti tra più incriminazioni, dando luogo a fenomeni di tipicità plurima[22] e di contrasti interpretativi relativi alla configurabilità di un concorso di reati. È il caso, ad esempio, dei rapporti tra banda armata e associazioni con finalità di terrorismo, laddove, com’è noto, un risalente e diffuso orientamento ritiene configurabile l’ipotesi di una banda armata costituita al fine di realizzare un’associazione terroristica: ossia un reato associativo rivolto allo scopo di costituire un’associazione…[23].

2.3. Inconvenienti della casistica in rapporto ad extrema ratio, proporzione ed offensività

La tecnica casistica non appare, dunque, affatto in grado di assicurare esiti conformi a determinatezza. Ma, per di più, essa presenta gravi inconvenienti sul piano dell’extrema ratio, della proporzione e, in particolare, dell’offensività. Sotto il primo profilo, la stessa opinione favorevole, poc’anzi ricordata, prospetta il rischio di “elefantiasi” della legislazione penale. Un tale gigantismo non concerne semplicemente la ‘lunghezza’ di una singola norma incriminatrice, per quanto disposizioni quali l’art.73 d.P.R. n.309/1990, che rende punibile «chiunque, senza l’autorizzazione di cui all’articolo 17, coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14», tolgano letteralmente il respiro, oltre a dar luogo ad una serie di elaborazioni e distinzioni ermeneutiche contrastanti. L’elefantiasi coinvolge, come si è ricordato in rapporto ai reati associativi contro la “personalità dello Stato”, i rapporti tra più norme incriminatrici. Lo ‘spezzettamento’ casistico delle norme incriminatrici nel codice Rocco è strumentale anche all’ampliamento della sfera del punibile: per rimanere all’esempio ‘classico’ dei reati associativi, affiancare all’associazione per delinquere ipotesi di associazioni “sovversive”, art.270 c.p., o di “cospirazione mediante accordo”, art.304 c.p., serviva ad ampliare ed anticipare esasperatamente la punibilità per reprimere il mero dissenso politico collettivo. Ma si pensi pure, ad esempio, allo spezzettamento delle falsità in atti, con il corollario dell’estensione della punibilità alle varie ipotesi di falsità in scrittura privata, solo recentemente depenalizzate. Un legislatore casistico, aggiungendo ipotesi su ipotesi, ricerca una tendenziale onnicomprensività, mirando a coprire ogni possibile lacuna – l’opposto di un diritto penale davvero frammentario -; e, se non è sicuro di averla coperta, aggiunge, quale ‘asso pigliatutto’, il riferimento ai “casi simili”[24].

Dal punto di vista del principio di proporzione, la frammentazione casistica all’interno di una singola norma incriminatrice o nei rapporti tra norme diverse, nel moltiplicare artificialmente le possibilità di concorso di reati, dà luogo ad un frequente e ben noto rischio di violazione del ne bis in idem sostanziale. Non occorre soffermarsi oltre sul punto; mi preme invece porre in evidenza gli inconvenienti della tecnica casistica sul piano dell’offensività.

Partiamo dall’esempio ipotetico di una norma che renda punibile chiunque «lancia sassi dal cavalcavia». Una fattispecie ritagliata su quel ‘caso’ risulterebbe, per un verso, irragionevole sul piano dell’offensività e, per l’altro, violerebbe tale principio. Infatti, sotto il primo profilo, quella fattispecie non includerebbe un lancio di sassi altrettanto pericoloso, o, in ipotesi, lesivo o addirittura mortale, solo perché non è avvenuto “dal cavalcavia”: il lancio di sassi da un altro tipo di ponte, dall’alto dell’uscita di una galleria, dal ciglio della strada, etc. Si tratterebbe di un’irragionevolezza sconcertante. Sotto il secondo profilo, il lancio di sassi, naturalmente, può uccidere il conducente di un veicolo (con dolo, preterintenzione o colpa…), o ferirlo, oppure danneggiare il veicolo, o anche essere del tutto inidoneo ad offendere perché, ad esempio, avviene su una strada chiusa al traffico: quella fattispecie, dunque, equiparerebbe offese assai diverse e renderebbe punibili condotte inoffensive.

Ebbene, la tecnica casistica reca con sé il rischio dell’equiparazione di condotte lesive ed innocue; di condotte gravemente e lievemente offensive; del tentativo alla consumazione; dell’istigazione o del mero accordo alla realizzazione del fatto che ne è oggetto.

Facciamo qualche esempio, cominciando dall’art.73 t.u. stupefacenti: la ‘coltivazione’ comprende quella su larga scala e quella domestica di una striminzita piantina, e sono stati necessari anni ed anni di contrasti giurisprudenziali per arrivare – almeno fino a quando il diritto vivente, così amato dai ‘realisti’ giuridici, non muterà indirizzo politico-criminale – ad escludere la punibilità della coltivazione di sostanza in quantità esigua[25] oppure addirittura ‘non drogante’, cioè del tutto inoffensiva. Sempre nell’art.73 t.u., il termine “offre” designa un tentativo di vendere o cedere, irragionevolmente equiparato a tali condotte.

Altro esempio: l’equiparazione tra farsi “dare” e “promettere” interessi usurari, art.644 c.p., mette sullo stesso piano il danno patrimoniale e l’accordo su quel futuro danno. Tutte le ipotesi di equiparazione di dazione e promessa – sì, anche quelle in materia di corruzione, concussione e art. 319-quater c.p. -, risultano problematiche, in quanto pongono sullo stesso piano casi ben diversi sotto il profilo dell’offensività. Tuttavia, per lo più ciò passa inosservato, oppure viene motivato con artifici in materia di bene giuridico – per esempio, secondo la concezione giuridica di patrimonio l’offesa si realizza già con la promessa in quanto atto di disposizione, e la successiva dazione diviene un post factum irrilevante[26] – o con altri escamotages tecnicistici, come quelli volti a legittimare la punibilità del mero accordo non eseguito. È il caso della categoria dei “reati-accordo” o “reati-contratto”, il cui recente emblema è costituito dall’art.416-ter c.p., scambio elettorale politico-mafioso, come modificato dall’art.1 co.1 l.n.43/2019: «Chiunque accetta […] la promessa di procurare voti […] in cambio dell’erogazione o della promessa di erogazione […] o in cambio della disponibilità a soddisfare gli interessi o le esigenze dell’associazione mafiosa […]»[27]. Posto di fronte ad un’ipotesi in cui viene punito il mero accordo criminoso, ovvero lo scambio di promesse e disponibilità, l’interprete dovrebbe rilevarne il contrasto con il principio di offensività: se, tuttavia, si orienta in senso tecnicistico, ignorerà quel contrasto, si ridurrà a mero esegeta ed eleverà il “reato-accordo” (o “reato-contratto”) a categoria ‘tecnica’ o dogmatica. Il metodo è lo stesso seguito della quella autorevole parte della dottrina che ammette reati “senza offesa”[28]: un tecnicismo giuridico monco, perché mette ‘tra parentesi’ la Costituzione, fornendo indebitamente avallo a norme penali di impronta autoritaria, incentrate sulla mera disobbedienza. Anziché rilevare che una norma incriminatrice viola il principio di offensività, la si legittima in termini di ‘deroga’ a tale principio; ma allora, per coerenza, si dovrebbe riconoscere pure che ‘esistono’ – ed indubbiamente, de lege lata, è proprio così! – reati senza “responsabilità penale personale”, che ‘derogano’ all’art.27 co.1, per finalità di prevenzione generale; ma anche reati “senza legalità”, e magari “pene senza rieducazione” o senza “senso di umanità”…

Manca ancora un esempio di inconvenienti della casistica relativi all’equiparazione tra istigazione e consumazione. Se la memoria non m’inganna, il codice del 1930 non arrivava a tanto; bisogna attendere la legislazione repubblicana, successivamente ‘codificata’. Ecco la perla. Art.604-bis c.p.: «È punito […] chi […] istiga a commettere o commette atti di discriminazione […]», oppure «istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza […]»; laddove gli atti di “provocazione alla violenza” potrebbero ben consistere in istigazioni, con il risultato di equiparare al “commettere violenza” l’istigare a commettere atti di… istigazione alla violenza.

3. La legislazione casistica emergenziale: un’elefantiasi ‘a frammentazione’ e/o ‘a grappolo’

La recente legislazione penale sembra aver perso la bussola politico-criminale e si stratifica prevalentemente disseminando ovunque frammenti, più o meno grandi; una sorta di spamming normativo. Ma, anche quando si cerca di riordinare sottosistemi, ciò avviene solo parzialmente, talora introducendo ulteriori complicazioni ed aporie[29] e comunque confermando la mancanza di una compiuta visione d’insieme[30].

3.1. Singole norme di taglio casistico

Il metodo casistico viene impiegato, più che in passato, nella redazione di singole norme. Un esempio aberrante è costituito dall’art.589-bis c.p., omicidio stradale[31]. Dopo la fattispecie-base – la cui introduzione rappresenta l’esito di una ‘autonomizzazione’ di quella che era una circostanza aggravante dell’omicidio colposo – vengono introdotte tre fattispecie autonome qualificate – così sembra doversi ritenere, in base ad alcuni indici testuali – relative a casistiche diverse. Tra i tanti possibili rilievi critici, si consideri la previsione – assolutamente irragionevole sul piano dell’indebita equiparazione di modalità di condotta molto diverse – della stessa pena della reclusione da otto a dodici anni per l’uccisione colposa di una persona, sia che il conducente presenti una lieve “alterazione psichica” conseguente all’assunzione di uno spinello, sia che risulti ubriaco fradicio, con un tasso alcolemico superiore a 1,5 gr. per litro. Ma l’ossessione casistica risulta evidente nell’elencazione di cui ai nn.1, 2 e 3 del co.5, laddove, ad esempio, non si comprende perché l’ipotesi dell’inosservanza del semaforo rosso valga solo per l’attraversamento di un’“intersezione”: non è forse ugualmente grave ignorare il semaforo e falciare il pedone che attraversa le strisce pedonali? E non è altrettanto grave uccidere qualcuno con un impatto frontale, per aver proseguito la corsa nonostante il semaforo rosso collocato all’imbocco di un senso unico alternato, magari disposto per lavori in corso? Si giustifica, in rapporto a tali esempi, la differenza di cornice edittale tra quella da 2 a 7 anni per il reato-base e quella da 5 a 10 anni per l’ipotesi qualificata (con minimo edittale più che raddoppiato)? E perché mai la pena per chi cagiona la morte di una persona mediante un tamponamento dovuto all’inosservanza della distanza di sicurezza, ma avendo fumato una minima quantità di cannabis, è la reclusione da 8 a 12 anni, mentre quella per chi, perfettamente sobrio, uccide taluno sfrecciando con il semaforo rosso ad un incrocio è la reclusione da 5 a 10 anni, oppure ‘soltanto’ da 2 a 7 nei casi poc’anzi ipotizzati?

Un altro esempio piuttosto avvilente di norma incriminatrice di taglio casistico è l’art.613-bis co.1 c.p., in tema di tortura: «Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Non intendo soffermarmi sulla questione relativa a come si distinguano le violenze gravi da quelle non gravi; le sofferenze fisiche acute dalle subacute; il trauma psichico verificabile dal non verificabile – del resto, se non lo è, non dovrebbe mai rilevare in un diritto penale del fatto! -; o sulla questione relativa a come si differenzino, non dico custodia e “potestà” (rectius, direi, responsabilità genitoriale), ma “vigilanza” e “controllo”, cura ed assistenza. E neppure vale la pena di chiedersi se si debba proprio scrivere “punito con la pena della reclusione” anziché semplicemente “punito con la reclusione”, quasi che qualcuno possa considerare la reclusione una sanzione amministrativa, oppure magari premiale; né, tantomeno, vale la pena di chiedersi se un trattamento inumano e degradante possa esserlo per altro se non per la dignità.

Solo su un punto vorrei, invece, richiamare l’attenzione: la tecnica casistica della disposizione finisce con l’equiparare fatti molto diversi – e già punibili ad altro titolo, con conseguenti aporie e sovrapposizioni -; e, per altro verso, crea lacune probabilmente non volute dal legislatore.

Sotto il primo profilo, viene punito con la reclusione da 4 a 10 anni, pena più grave di quella prevista per le lesioni gravi (da 3 a 7 anni), chi, ad esempio, con due minacce (“più condotte”) cagiona un trauma psichico ad un malato; ma la stessa pena si applica a chi, con ripetute violenze, tali da integrare addirittura trattamenti inumani, cagiona acute sofferenze fisiche, oltre al trauma psichico. In entrambi i casi, comunque, la fattispecie-base presuppone che non vi siano lesioni personali, perché tale ipotesi configura una circostanza aggravante, art.613-bis co.4 c.p.; il che vuol dire che il trama psichico dev’essere qualcosa di meno della “malattia… nella mente” cui fa riferimento l’art.582 c.p.: ma allora non si comprende perché la pena prevista sia all’incirca il triplo (!) di quella prevista per le lesioni personali, ovvero la reclusione da sei mesi a tre anni…

Sotto il profilo delle lacune involontarie, va posto nel debito rilievo che questa disposizione, così minuziosamente casistica, così acribica, non sarebbe stata applicabile alla famigerata “macelleria messicana” della scuola Diaz, vale a dire alle gravissime violenze di polizia realizzate la notte del 21 luglio 2001 in occasione del G8 di Genova! Infatti, gli attivisti, tra cui il sig. Cestaro – il ricorrente alla Corte EDU in relazione alle lesioni riportate in quell’occasione, per cui l’Italia fu condannata per la prima volta[32] -, massacrati di botte da uomini che dovrebbero rappresentare lo Stato, non erano “privati della libertà”, né “affidati” ad alcuno, né in condizioni di minorata difesa, come richiesto dall’art.613-bis c.p.. Per di più, una singola manganellata che abbia rotto il setto nasale o una mandibola, oppure spezzato una vertebra ad “una persona” quella notte può non essere stata commessa “mediante più condotte”; e non saprei dire se, per quanto aberrante, essa si possa definire «un trattamento inumano o degradante per la dignità»…

3.2. Concorso di casistiche

Gli esempi potrebbero continuare; ma è tempo di rivolgere l’attenzione a quell’ulteriore connotato della recente legislazione emergenziale che consiste nel sovrapporre più disposizioni di taglio casistico, talora enfatizzando la gravità e dunque l’autonomia di ipotesi speciali già rientranti in una fattispecie-base – è il caso dell’omicidio stradale, quale specie dell’omicidio colposo –, talaltra moltiplicando le ipotesi già da tempo segnalate di “tipicità plurima”, al di fuori di un rapporto di specialità.

Si pensi, in proposito – oltre che alla ricordata introduzione della fattispecie di induzione indebita di cui all’art.319-quater c.p. – ai problemi di delimitazione tra due norme caratterizzate ciascuna da una notevole farraginosità casistica: artt.600[33] e 603-bis c.p.[34], nonché tra le stesse e la fattispecie di maltrattamenti di cui all’art.572 c.p., che nel tenore attuale risulta applicabile a «chiunque […] maltratta una persona […] sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte»[35].

Un fenomeno di elefantiasi di taglio casistico – diciamo ‘a grappolo’ – può risultare, talora, dall’incapacità di ‘assorbire’ mediante una corretta tecnica legislativa un’evoluzione tecnologica, sociale o culturale. Come un cattivo bibliotecario che si trovi di fronte ad una serie di nuove acquisizioni relative ad uno stesso argomento che non sa ancora ‘catalogare’ finisce o per disperderle nelle categorie più disparate, oppure per creare un nuovo genere laddove si tratta, invece, di una species di genera già classificati – ed in tal modo finisce per rendere confusa ed arbitraria la catalogazione -, così talora il legislatore moltiplica le fattispecie disperdendole disordinatamente, oppure crea interi nuovi titoli, laddove sarebbe sufficiente inserire poche fattispecie autonome all’interno dei titoli già esistenti; ed in tal modo contribuisce all’elefantiasi casistica. Se non erro, quest’ultima ipotesi ricorre in rapporto alla recente riforma in materia di tutela penale del patrimonio culturale, che ha inserito nel Libro II del codice penale un Titolo VIII-bis (artt. 518-bis – 518-undevicies c.p., di cui tredici articoli contenenti norme incriminatrici): com’è stato condivisibilmente rilevato, in proposito «emergono […] alcune criticità, di principio e applicative. La tendenza alla proliferazione ipertrofica delle fattispecie nel settore normativo in esame, già posta in evidenza da Moccia con riferimento al sistema previgente, viene ulteriormente e significativamente accentuata […] Questa forma di tecnica casistica, oltre a creare un titolo molto ampio e moltiplicare le fattispecie, comporta – come sempre accade con la tecnica casistica – il rischio di lacune»[36].

3.3. Casistica e fattispecie qualificate o circostanziali

Com’è noto, il procedere casistico della legislazione emergenziale non si esplica soltanto attraverso incriminazioni del tutto nuove. Sovente si tratta della ricerca di inasprimenti di pena più o meno simbolici; meno spesso, di attenuanti o di ipotesi di non punibilità ‘speciali’.

Quanto agli inasprimenti, è tipica la trasformazione di una circostanza aggravante in fattispecie autonoma: il legislatore demagogo vuol mostrare i muscoli, ma la condotta oggetto dell’indignazione politico-mediatica è già punibile. Si ricorre allora ad una diversa tecnica di marketing: ad esempio, l’omicidio colposo aggravato dalla violazione delle norme in materia di circolazione stradale diviene il ‘nuovo reato’ di omicidio stradale; il furto in abitazione o con strappo, già art.625 n.1 e n.4 seconda parte c.p., viene elevato a fattispecie autonoma, art.624-bis c.p.[37], originariamente mantenendo la stessa pena, successivamente aumentata; la deformazione o sfregio permanente del viso viene elevata, con l’art.12 co.1 l. n.69/2019, a reato autonomo, art.583-quinquies c.p., con contestuale aumento di pena rispetto alle lesioni gravissime[38]. Naturalmente, operazioni simili hanno il risvolto tecnico – apprezzato come tale, forse, da burocrati, magistrati ed altri applicati presso gabinetti ed uffici legislativi, ma non proprio ‘decisivo’ in termini di reale efficacia della tutela penale – di sottrarre l’ipotesi alla disciplina del bilanciamento di circostanze, vincolando il giudice alla volontà legislativa di inasprimento; qualcosa di simile a ciò che si ottiene mediante l’introduzione di una delle ormai frequenti deroghe all’art.69 c.p. Tuttavia, non pare azzardato ritenere che in prima linea stia la ricerca di consensi mediante una legislazione simbolica; legislazione – concentrandoci sul nostro tema – di taglio casistico e perciò foriera di inconvenienti, in particolare sul piano dell’irragionevolezza, in relazione all’offensività. Infatti, perché mai l’omicidio stradale – magari per lieve infrazione stradale – dovrebbe essere, sul piano edittale, più grave di quello sul lavoro, per quanto madornale sia l’inosservanza delle relative cautele; forse perché l’imprenditore è ritenuto un tipo d’autore più ‘simpatico’ dell’automobilista? Ed ancora, siamo proprio sicuri che una lesione che comporti la deviazione del setto nasale e quindi rientri nel nuovo art.583-quinquies c.p. sia più grave di quella che spappola la milza e perciò ricade ‘solo’ nell’art.583 c.p.?

Sempre sul piano degli inasprimenti sanzionatori di taglio casistico, siamo in presenza ormai di una continua introduzione ‘a pioggia’ di nuove circostanze aggravanti: con precipitazioni legislative talora a carattere di rovescio temporalesco, nell’ipotesi dell’aggravante ad effetto speciale sottratta al bilanciamento; talaltra, di pioggia torrenziale o intensa – con consistenti aumenti di pena, ma senza ‘fulminanti’ deroghe al bilanciamento -; per degradare verso una pioggerellina casistica, ovvero a ‘casaccio’, in rapporto alle aggravanti ad effetto comune normalmente bilanciabili.

Cominciando dai rovesci, tra i vari possibili esempi prendiamo solo l’art.624-bis c.p., furto in abitazione o con strappo. Va premesso che già l’unificazione, nella stessa fattispecie, di un furto con violazione di domicilio e di un mero scippo appare irragionevole sul piano dell’offensività; il che non fa che confermare i guasti della casistica. Ebbene, ai sensi del co.3, la pena per lo ‘scippo-base’, che in base all’originaria previsione della l.n.128/2001 era la reclusione da 1 a 6 anni oltre alla multa, diventava, sempre alla stregua della l.n.128/2001, la reclusione da 3 a 10 anni in presenza di una qualunque delle circostanze di cui agli artt.61 o 625 c.p.; ad esempio, bastava che lo scippo fosse per futili motivi, oppure con destrezza, per triplicare la pena minima e quasi raddoppiare la massima. La cd. riforma Orlando ha ravvisato la necessità di aumentare il minimo della pena-base, per cui lo scippo diviene punibile con la reclusione da 3 a 6 anni; l’ipotesi aggravata viene ritoccata aumentando il minimo, che sale a 4 anni; ma, soprattutto, viene introdotta l’ormai non inconsueta deroga al bilanciamento delle circostanze, per cui «le circostanze attenuanti, diverse da quelle previste dagli articoli 98 e 625-bis, concorrenti con una o più delle circostanze aggravanti di cui all’articolo 625, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità della stessa risultante dall’aumento conseguente alle predette circostanze aggravanti». Insomma, a meno che l’autore non sia minorenne o… collaboratore di giustizia (sic… un’altra perla del ‘pacchetto sicurezza’ del 2001), la destrezza o la futilità dei motivi prevalgono immancabilmente, ad esempio, sull’esiguità del danno patrimoniale. Per effetto degli ulteriori inasprimenti introdotti dalla l.n. 36/2019, in tema (non solo) di legittima difesa domiciliare, la pena-base è la reclusione da 4 a 7 anni e quella di cui al co.3 va da 5 a 10 anni. Dunque, non meno di 5 anni per lo scippo con destrezza: attenti a strappare la penna dalla mano del compagno di Università con “particolare abilità, astuzia o avvedutezza”, a sorpresa[39]! O, per chi non ama la Lehrbuch-Kriminalität, attenti a strappare ad altri con destrezza, passando in motorino, la borsa della spesa o il cellulare. Incidentalmente: non si era detto che il patrimonio, nella gerarchia dei beni delineata dal Costituente, avesse un rango subordinato? Questi sono livelli sanzionatori che neppure il codice fascista aveva immaginato.

Passiamo alle aggravanti casistiche ‘a pioggia’ più o meno intensa. Alcune fattispecie-base relative a delitti di particolare allarme sociale sono state corredate, in anni recenti, da una sfilza di circostanze aggravanti. Ad esempio, il già cospicuo elenco di aggravanti della violenza sessuale, art.609-ter c.p.[40], è raddoppiato per effetto di successivi interventi legislativi, passando da cinque a dieci ipotesi; il relativo aumento di pena è fisso, ovvero “di” un terzo. Con il d.lgs. n.39/2014, è stato inserito l’art.609-duodecies c.p., che, in rapporto ai delitti di violenza sessuale, corruzione di minorenni, violenza di gruppo e adescamento di minorenni, prevede la seguente aggravante ad effetto speciale: le pene «sono aumentate in misura non eccedente la metà nei casi in cui gli stessi siano compiuti con l’utilizzo di mezzi atti ad impedire l’identificazione dei dati di accesso alle reti telematiche».

Ancora, in materia di furti e rapine, sono state introdotte – sic – ulteriori aggravanti ad effetto speciale: in particolare, soffermiamoci su quelle inserite nell’art.625 co.1 c.p. (e nell’art.628 co.3 nn.3-ter e 3-quater c.p.) dalla l.n. 94/2009 – uno dei noti “pacchetti sicurezza” – ai nn. 8-bis: «Se il fatto è commesso all’interno di mezzi di pubblico trasporto» e 8-ter: «Se il fatto è commesso nei confronti di persona che si trovi nell’atto di fruire ovvero che abbia appena fruito dei servizi di istituti di credito, uffici postali o sportelli automatici adibiti al prelievo di denaro». Quanto alla prima, stupisce che il legislatore casistico non abbia distinto il caso dell’autobus affollato da quello del treno con ingresso su prenotazione e posti esclusivamente a sedere! Francamente non si comprende, nel secondo caso, quale sia la ratio dell’aggravante; e comunque, anche nel primo caso, la domanda è se una eventuale maggiore insidiosità della condotta meriti davvero un aumento di pena, ad esempio a confronto con il furto in un qualsiasi altro luogo affollato, allo stadio o al concerto rock, etc. Quanto alla seconda aggravante, neppure si comprende quale sia la ratio che giustifichi un aumento di pena: anzi, per ora è sufficiente osservare che si tratta di una sorta di favor legislativo nei confronti di chi, invece, segua astutamente la vittima per derubarla più tardi, in luogo isolato, lontano da eventuali videocamere.

Delle aggravanti ‘a pioggia’ fanno parte quelle speciali, introdotte in più fattispecie, come quella relativa all’impiego di strumenti informatici e telematici, ad esempio negli atti persecutori, art.612-bis co.2 ultima parte, introdotto dal d.l. n.93/2013, conv. con modif. dalla l. n.119/2013: francamente, si fa fatica a comprendere perché uno stalking dovrebbe essere più grave, più pericoloso o magari più riprovevole perché commesso ‘da remoto’, anziché in presenza. Il lettore preferirebbe essere molestato o minacciato di persona, magari sotto casa, oppure via mail? Ma considerazioni analoghe possono valere per l’aggravante dell’addestramento o l’“istruzione” finalizzata al terrorismo mediante strumenti informatici o telematici, art.270-quinquies co.2 c.p.: non sono ugualmente gravi o pericolosi, addirittura, più l’addestramento o l’istruzione dati in presenza[41]?

Un’ulteriore aggravante speciale, introdotta in più fattispecie con il cd. pacchetto sicurezza-bis Salvini, è quella dell’aver commesso il fatto nel corso di manifestazioni. Il danneggiamento, art.635 c.p., com’è noto, è attualmente punibile, con la reclusione da 6 mesi a 3 anni, solo se commesso con violenza o minaccia o interruzione di pubblico servizio, salvo che si tratti delle cose di cui al co.2; ma se il fatto è commesso in occasione di una manifestazione in luogo pubblico o aperto al pubblico, non occorrono quelle modalità e la pena diviene la reclusione da 1 a 5 anni. Anche nella devastazione, la pena è ora aumentata – potendo dunque giungere a ben 20 anni – se il fatto avviene nel corso di una manifestazione; nel cd. reato di casco, di cui all’art.5 l. n.152/1975, la pena base, da uno a due anni di arresto più ammenda, nell’ipotesi della manifestazione è elevata all’arresto da due a tre anni, più l’ammenda doppia nel minimo e tripla nel massimo rispetto all’ipotesi base.

Certo, le folle sono pericolose, direbbe qualche tardivo seguace della Scuola positiva nel XXI secolo… in effetti, si avverte un non leggerissimo sentore di repressione penale del dissenso. Non pare affatto conforme ai principi costituzionale di ragionevolezza, offensività, libertà di riunione, che uno stesso fatto venga punito più gravemente solo perché avviene in occasione di una manifestazione.

Se il fatto di particolare tenuità, potrà intervenire l’art.131-bis c.p. – tenuto conto del massimo edittale ivi previsto – sia per il reato di casco che per il danneggiamento, ma sempre che il buon giudice, nel suo ‘prudente apprezzamento’, voglia concedere la non punibilità; e comunque salvo che si tratti di manifestazioni sportive (!), perché in questo caso specifico «l’offesa non può… essere ritenuta di particolare tenuità quando si procede per delitti, puniti con una pena superiore nel massimo a due anni e sei mesi di reclusione». Risulta davvero arduo comprendere perché rubare una bandierina allo stadio non possa mai essere un fatto esiguo se c’è una partita, mentre può esserlo se c’è un concerto – perché in tal caso non si applica la citata esclusione casistica -, oppure se il furto avviene durante un comizio politico. Poveri sportivi, trattati peggio di sovversivi!

Fin qui la pioggia di aggravanti riguardava la parte speciale; ma, per così dire, si è allagata pure la parte generale, artt.61 e 61-bis c.p.[42]. Peraltro, in rapporto alle aggravanti comuni ad effetto comune di cui all’art.61 c.p., la sterile simbolicità è fin troppo evidente, in considerazione della misura dell’aumento di pena e della possibilità di bilanciamento.

Ad ogni modo, in rapporto a tutto questo profluvio – meramente esemplificativo, peraltro – di aggravanti di taglio casistico, la questione da porre, in definitiva, è una sola: non basterebbe, a tener conto di tali circostanze, la commisurazione della pena, ovvero la graduazione della sanzione alla stregua dei variegatissimi indici di cui all’art.133 c.p.[43]? Non sarebbe questo un contributo rilevante al contrasto dell’elefantiasi della legislazione penale; e per altro verso, non gioverebbe alla realizzazione del principio costituzionale di determinatezza, tenuto conto delle frequenti controversie circa la qualificazione di un’ipotesi normativa quale elemento che dà vita ad un reato circostanziato o ad un’autonoma figura di reato[44]? Ed ancora: quante circostanze ad effetto speciale, con aumenti di pena talora draconiani, sono realmente giustificate alla luce non solo dei principi di proporzione ed offensività, ma anche – è bene porlo fin d’ora in evidenza – della funzione rieducativa della pena? Va osservato, peraltro, che lo stesso ordine di idee vale pure per alcune fattispecie qualificate, che costituiscono, almeno in parte, sostituti funzionali delle circostanze[45], la cui autonomia in rapporto alla fattispecie-base risulta problematica sul piano dei princìpi: si ricordi solo, tra gli esempi prospettati, quello del furto con strappo.

3.4. Cenni intorno ad ulteriori forme di manifestazione della casistica

Un taglio casistico caratterizza pure alcune cause di non punibilità recentemente introdotte: si pensi alle legittime difese domiciliari, laddove il plurale allude proprio alla differenza tra i casi di cui all’art.52 co.2-3 c.p., introdotti nel 2006, e quelli di cui all’ultimo comma, aggiunto con l.n.36/2019. Oppure, si ponga mente alla non punibilità per omicidio e lesioni colpose del personale sanitario: a prescindere dalla valutazione degli effetti reali dell’introduzione dell’art.590-sexies c.p., che non può essere svolta in questa sede, resta il dato per cui, evidentemente, altre prestazioni che implicano «la soluzione di problemi tecnici di speciale difficoltà», art.2236 c.c., e possono dare luogo ad omicidio o lesioni colpose ad opera del costruttore, dell’ingegnere, del pilota di velivoli o del capotreno, dell’addetto alla manutenzione di questo o quel macchinario o impianto, del responsabile di una commissione “grandi rischi”, etc., non vengono considerate con la stessa benevola ‘diligenza’ dal legislatore penale. Anche l’art.131-bis c.p. è costellato di eccezioni casistiche, co.2, talune discutibili – non può essere di particolare tenuità il fatto commesso per “motivi futili”, ma molti fatti di lieve entità, naturalmente, sono commessi proprio per futili motivi; oppure, non può mai essere di particolare tenuità il fatto commesso con crudeltà, «anche in danno di animali», per cui va inesorabilmente punito il maltrattamento di crostacei[46] – talaltre fortemente sospette di autoritarismo: perché non possono mai essere di particolare tenuità una resistenza o un oltraggio ad un ufficiale di pubblica sicurezza, co.2 ultima parte?

Che dire, poi, dell’elenco di reati da cui può derivare una responsabilità dell’ente, oppure delle decine di casi di confisca a ‘regime differenziato’? Ma la casistica ha ormai invaso anche il codice di procedura penale: si pensi ad es. all’art.380 c.p.p., in tema di arresto obbligatorio in flagranza: l’elenco dei singoli casi in cui, ai sensi del co.2, in deroga alla disposizione generale di cui al co.1, l’arresto è obbligatorio comprende attualmente ventitré disposizioni – a fronte delle undici originariamente previste -, per effetto di ben diciotto modifiche legislative succedutesi nel tempo, più o meno ogni due anni.

3.5. Il contributo all’elefantiasi casistica proveniente dalle istituzioni europee

Consiglio d’Europa ed Unione europea contribuiscono da anni all’inflazione penalistica[47]. Talora, gli obblighi di tutela penale sanciti da tali istituzioni riproducono obblighi sanciti in Convenzioni ONU, come nel caso delle norme in materia di stupefacenti.

Posso qui solo accennare a ciò che questa normazione ‘a cascata’ comporta in termini non meramente formali, ma sostanziali di democrazia: per quanto una parte della dottrina si sforzi di legittimare gli obblighi internazionali o sovranazionali di tutela penale, in particolare segnalando il ruolo degli Stati e dei Parlamenti nazionali nelle fasi cd. ascendente e discendente, in realtà appare evidente come tale ruolo risulti necessariamente sminuito allorché le decisioni vengono prese, per ragioni reali o asserite di armonizzazione, a livello di istituzioni planetarie o ‘regionali’ europee. Il dibattito interno si riduce sostanzialmente ad una ratifica di decisioni prese altrove, su impulso, fondamentalmente, degli Stati più potenti in sede ONU, degli Esecutivi sovranazionali e/o di accordi tra rappresentanti di Governi nazionali. La funzione della dottrina in rapporto a tali scelte politico-criminali, già limitata in rapporto ai legislatori nazionali – sul punto tornerò tra breve -, diviene sostanzialmente pari a zero. Cosa si vuole che importi ai vertici delle istituzioni europee ciò che pensano gli studiosi maggiormente riconosciuti, spesso, peraltro, moderati – non parliamo della maggioranza meno ‘autorevole’ o addirittura delle minoranze! – d’Italia, Spagna o, che so, Romania di una Convenzione ONU o delle stesse Direttive di armonizzazione penale dell’Unione europea, se già, per lo più, non importa ai rispettivi legislatori nazionali, che costituiscono istituzioni ben più ‘prossime’ alle collettività e agli studiosi dei singoli Paesi? Tutt’al più saranno ascoltati i più autorevoli, e meno critici, studiosi di diritto penale europeo o internazionale.

Di tale stato di cose era consapevole il gruppo di esperti di diritto penale europeo che ha portato avanti una pregevole iniziativa di critica della politica criminale europea[48], denunciando, tra l’altro, violazioni dei principi di extrema ratio e proporzione, nonché esasperate anticipazioni della tutela penale.

Sta di fatto che gli obblighi di tutela di fonte internazionale o sovranazionale contribuiscono all’inflazione anche a causa dell’adozione di una tecnica di redazione delle norme penali influenzata dagli orientamenti angloamericani: si tratta sovente di una “case-law”, qui nel senso, ovviamente diverso dall’originario, di una legislazione casistica, per casi. L’art.73 t.u. stupefacenti, con la sua minuziosa elencazione di condotte, proviene, in ultima analisi, dalle Convenzioni ONU: già l’art.6 co.1 lett.a) della Convenzione unica del 1961 sanciva: «1. a) Compatibilmente con le proprie norme costituzionali, ciascuna Parte adotta le misure necessarie affinché la coltivazione e la produzione, la fabbricazione, l’estrazione, la preparazione, la detenzione, l’offerta, la messa in vendita, la distribuzione, l’acquisto, la vendita, la consegna per qualunque scopo, la mediazione, l’invio, la spedizione in transito, il trasporto, l’importazione e l’esportazione di stupefacenti non conformi alle disposizioni della presente Convenzione o qualunque atto reputato dalla detta Parte contrario alle disposizioni della presente Convenzione, siano considerati infrazioni punibili […]».

Di taglio casistico è pure la definizione di atti di terrorismo di cui all’art.3 co.1 della Direttiva 2017/541 sulla “lotta al terrorismo”: «1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché siano considerati reati di terrorismo i seguenti atti intenzionali, definiti reati in base al diritto nazionale che, per la loro natura o per il contesto in cui si situano, possono arrecare grave danno a un paese o a un’organizzazione internazionale, quando sono commessi con uno degli scopi elencati al paragrafo 2: a) attentati alla vita di una persona che possono causarne il decesso; b) attentati all’integrità fisica di una persona; c) sequestro di persona o cattura di ostaggi; d) distruzioni di vasta portata di strutture governative o pubbliche, sistemi di trasporto, infrastrutture, compresi i sistemi informatici, piattaforme fisse situate sulla piattaforma continentale ovvero di luoghi pubblici o di proprietà private che possono mettere in pericolo vite umane o causare perdite economiche considerevoli; e) sequestro di aeromobili o navi o di altri mezzi di trasporto collettivo di passeggeri o di trasporto di merci; f) fabbricazione, detenzione, acquisto, trasporto, fornitura o uso di esplosivi o armi da fuoco, comprese armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari, nonché ricerca e sviluppo di armi chimiche, biologiche, radiologiche o nucleari; g) rilascio di sostanze pericolose o il cagionare incendi, inondazioni o esplosioni i cui effetti mettano in pericolo vite umane; h) manomissione o interruzione della fornitura di acqua, energia o altre risorse naturali fondamentali il cui effetto metta in pericolo vite umane; i) interferenza illecita relativamente ai sistemi, ai sensi dell’articolo 4 della direttiva 2013/40/UE del Parlamento e del Consiglio ( 1 ) nei casi in cui si applica l’articolo 9, paragrafo 3 o l’articolo 9, paragrafo 4, lettere b) o c), di tale direttiva in questione e interferenza illecita relativamente ai dati, di cui all’articolo 5 di tale direttiva nei casi in cui si applica l’articolo 9, paragrafo 4, lettera c), di tale direttiva; j) minaccia di commettere uno degli atti elencati alle lettere da a) a i)».

Quanto all’accavallarsi casistico di più incriminazioni, basti pensare che derivano da obblighi di incriminazione sanciti dall’Unione europea e dal Consiglio d’Europa, ad esempio, le fattispecie di addestramento e arruolamento di cui agli artt.270-quater e 270-quinquies c.p.; in effetti, la citata direttiva antiterrorismo del 2017 elenca, agli artt.5 ss., le seguenti norme penali ‘minime’: «pubblica provocazione per commettere atti di terrorismo», «reclutamento a fini terroristici» «fornitura di addestramento a fini terroristici» «ricezione di addestramento a fini terroristici» «viaggi a fini terroristici»; «organizzazione o agevolazione di viaggi a fini terroristici» «finanziamento del terrorismo»; e, a mo’ di chiusura, l’art.12 elenca «altri reati connessi ad attività terroristiche. Gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché si configurino come reati connessi ad attività terroristiche i seguenti atti intenzionali: a) furto aggravato allo scopo di commettere uno dei reati di cui all’articolo 3; b) estorsione commessa allo scopo di commettere uno dei reati di cui all’articolo 3; c) produzione o utilizzo di falsi documenti amministrativi allo scopo di commettere uno dei reati di cui all’articolo 3, paragrafo 1, lettere da a) a i), all’articolo 4, lettera b), e all’articolo 9».

Si considerino, ancora, le norme in tema di pedopornografia virtuale, artt.600-quater.1 c.p., e di adescamento di minorenni, art.609-undecies c.p., anch’esse di derivazione europea.

In materia di negazionismo, l’art.1 della Decisione-quadro 2008/913/GAI «sulla lotta contro talune forme ed espressioni di razzismo e xenofobia mediante il diritto penale» ha imposto agli Stati parte di punire una serie minuziosamente elencata di condotte, tra cui quelle cd. di negazionismo[49]; l’Italia ha provveduto, in maniera molto controversa, con la l. n.115/2016. Peraltro, già l’art.4 lett. a) della Convenzione internazionale ONU «sull’eliminazione di ogni forma di discriminazione razziale» del 1965 obbligava le Parti «a dichiarare crimini punibili dalla legge, ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza, od incitamento a tali atti diretti contro ogni razza o gruppo di individui di colore diverso o di diversa origine etnica, come ogni aiuto portato ad attività razzistiche, compreso il loro finanziamento». Insomma, prevedeva una casistica, imponendo di rendere punibili insieme violenze ed incitamento ad “atti diretti”, “diffusione di idee” etc. Si ricordi quanto ho rilevato in precedenza sui rapporti tra casistica e proporzione, extrema ratio, offensività. L’Italia ratificava la Convenzione, com’è noto, con la l. n.654/1975.

Va detto che il legislatore italiano – e talora la stessa dottrina – contribuisce all’ulteriore espansione del diritto penale, sia perché non di rado applica gli obblighi ultra petitum, sia perché gli obblighi di incriminazione vengono erroneamente interpretati in modo pedissequo. Si ritiene, cioè, di dover introdurre una nuova norma penale, corrispondente a quella ‘minima’ europea di taglio casistico, anche quando i ‘casi’ in essa previsti sarebbero già punibili, perché rientrano nell’ambito di applicazione di una o più norme incriminatrici vigenti; oppure, anche quando la mancanza della norma incriminatrice ad hoc corrispondente alla norma ‘minima’ europea dipende dal fatto che quest’ultima rende punibile una ‘casistica’ che abbraccia o include pure atti lontani dall’offesa e, dunque, non andrebbe ‘copiata ed incollata’, perché ciò contrasta con il principio costituzionale di offensività, che dovrebbe fungere da controlimite.

Concludendo sul punto, osservo che le istituzioni europee contribuiscono anche alla proliferazione delle aggravanti, talvolta soggettive. Ad es., l’art.4 della citata decisione-quadro in tema di razzismo recita: «Motivazione razzista e xenofoba. Per i reati diversi da quelli di cui agli articoli 1 e 2, gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché la motivazione razzista e xenofoba sia considerata una circostanza aggravante o, in alternativa, affinché tale motivazione possa essere presa in considerazione dal giudice all’atto della determinazione della pena». Peraltro, più nette nell’imporre l’introduzione di circostanze aggravanti sono la direttiva UE 2018/1673 «sulla lotta al riciclaggio mediante il diritto penale», all’art.6[50], e, ancor più, la direttiva 2001/92/UE, «relativa alla lotta contro l’abuso e lo sfruttamento sessuale dei minori e la pornografia minorile», all’art.9[51].

3.5. Il ruolo del d.lgs. n.21/2018 e della ‘riserva di codice’

Un intento, almeno ‘collaterale’, di frenare l’espansione del diritto penale sembrerebbe a prima vista essere stato perseguito dal d.lgs. n.21/2018, pomposamente etichettato quale introduttivo di una c.d. riserva di codice, che presenta diversi aspetti problematici su cui ora non posso soffermarmi. A prescindere dalla vacua pretesa di vincolare il legislatore con legge ordinaria[52] – del resto, la ‘riserva di codice’ è stata immediatamente ‘violata’ dai due pacchetti sicurezza degli anni 2018-2019[53] -, lo stesso tenore dell’art.3-bis c.p., non diversamente da precedenti proposte di ‘riserva di codice’[54] ammette nuove leggi penali che siano «inserite in leggi che disciplinano in modo organico la materia». Inoltre, rimangono in vigore le migliaia di norme penali extra codicem esistenti, il cui numero preciso nessuno conosce. Insomma, piuttosto che una ‘riserva di codice’, con l’art.3-bis c.p. viene, al contrario, sancito il superamento di quell’aspirazione. Che, in ogni caso, non coincide con l’idea del diritto penale quale extrema ratio: può esistere un sistema interamente codificato, ma con diecimila norme incriminatrici.

Ad ogni modo, in questa sede mi preme porre in evidenza un diverso aspetto del d.lgs. n.21/2018. Com’è noto, la delega contenuta nell’art. 1, co. 85, lett. q), l. n.103/2017, cd. riforma Orlando, nel prevedere “l’inserimento” nel codice di norme già contenute in leggi penali complementari, non ne consentiva la modifica. Dunque, l’obiettivo perseguito non era, almeno sotto questo aspetto, quello di una riduzione dell’ipertrofia penalistica. Si è invece assistito ad un mero trapianto di disposizioni ‘intra moenia[55]. Ma, piuttosto che inserire nel codice, come richiesto dalla legge delega, «tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale», ci si è limitati ad un numero piuttosto esiguo di disposizioni, alcune delle quali, tra l’altro, non sono “fattispecie criminose”.

Sono stati, invece, ‘trapiantati’ nella parte generale l’art.61-bis c.p. – aggravante ad effetto speciale del “reato trasnazionale” -, l’art.69-bis c.p. – divieto di equivalenza o prevalenza di attenuanti rispetto all’aggravante a carico del genitore, fratello o sorella che abbiano determinato al reato o si siano avvalsi nella commissione dello stesso, limitatamente ai reati di cui all’art.407 co.2 lett.a, nn. da 1 a 6, c.p.p. (altro elenco casistico) – e l’art.240-bis c.p., ovvero la famigerata confisca allargata introdotta dall’art.12-sexies d.l. n.306/1992. Nella parte speciale del codice, tra l’altro, vengono ‘trasferite’ due non meno note aggravanti ad effetto speciale del diritto penale dell’emergenza, ovvero quelle relative, rispettivamente, alla finalità di terrorismo, art.1 d.l. n.625/1979, conv. con modif. dalla l. n.15/1980 – che confluisce, con gli artt.4 e 5 dello stesso d.l., nell’art. 270-bis.1 c.p. – ed alla finalità mafiosa o all’avvalersi del relativo metodo, art.7 d.l. n.152/1991, conv. con modif. dalla l. n.203/1991, che viene trapiantato, unitamente all’art.8 dello stesso d.l., nel nuovo art.416-bis.1 c.p. Ancora, nella parte speciale del codice vengono trasferite due significative norme in tema di reati d’opinione: l’art.3 l.n.654/1975 diviene l’art. 604-bis c.p.[56] e l’art.3 d.l. n.122/1993, conv. con modif. dalla l. n.205/1993, diviene l’art. 604-ter c.p., contenente ancora una volta un’aggravante speciale ad effetto speciale con deroga alle regole in tema di bilanciamento[57].

Ad una visione d’insieme, risulta evidente che l’idea di ‘(ri)codificazione’ è stata distorta nel senso di far assurgere alla centralità codicistica alcune norme emblematiche della legislazione dell’emergenza, segnatamente in materia di mafia, terrorismo e reati d’opinione. Viene ‘sdoganata’ la confisca allargata; vengono ‘sdoganate’ aggravanti ad effetto speciale fondate sulla finalità interiore – prima tra tutte quella sottoposta a critica da Mazzacuva nel 1983 – e relative deroghe al bilanciamento. Anziché attuare, attraverso la ‘riserva di codice’, la Costituzione – o, come prevedeva il citato art.1 co.85 lett.q l.n.103/2017, anziché perseguire il «fine di una migliore conoscenza dei precetti e delle sanzioni e quindi dell’effettività della funzione rieducativa della pena, presupposto indispensabile perché l’intero ordinamento penitenziario sia pienamente conforme ai principi costituzionali, attraverso l’inserimento nel codice penale di tutte le fattispecie criminose previste da disposizioni di legge in vigore che abbiano a diretto oggetto di tutela beni di rilevanza costituzionale…» – si ‘codificano’ norme il cui rapporto con la “funzione rieducativa della pena” e, prima ancora, con un diritto penale del fatto è quantomeno conflittuale. Norme di taglio casistico, laddove la casistica è strumentale alla selezione di tipi d’autore. In relazione a quei tipi d’autore, il messaggio legislativo e culturale – rivolto, con il sostegno ‘tecnico’ degli uffici legislativi, anche alla dottrina – è il seguente: quel diritto penale d’eccezione finora relegato nella legislazione complementare è ora ‘sdoganato’ e siede ‘a pieno titolo’ al centro del sistema. Con buona pace dei cultori dei princìpi costituzionali[58].

4. Cause dell’elefantiasi casistica e possibili rimedi

I fattori che incidono sui descritti fenomeni di espansione ed inasprimento di taglio casistico del diritto penale sono molteplici, e corrispondono in buona misura alle concause socioeconomiche, politiche e culturali dell’ipertrofia penalistica, di cui da tempo si discute.

Occorre in particolare riconoscere che risulta tuttora dominante – nella collettività, nei media, nella politica e, al di là di ipocrisie corporative, nella stessa cerchia dei tecnici del diritto, magistratura e dottrina maggioritarie incluse – un’illusoria fiducia nell’intervento punitivo. Sicuramente, a ciò ha contribuito, negli ultimi decenni, il passaggio dallo stato sociale allo stato penale, da più parti rilevato[59]. La consapevolezza che il diritto penale non solo debba, in considerazione della sua invasività, ma anche possa costituire soltanto – visti i suoi intrinseci limiti di efficacia – l’extrema ratio della tutela di beni giuridici, o manca del tutto, oppure viene rimossa e si riduce a Lippenbekenntnis, a formula meramente rituale; nella stessa dottrina penalistica recente non sono infrequenti atteggiamenti di accettazione disincantata e ‘realistica’ dell’ipertrofia[60]. Eppure il sistema penale scoppia[61], l’amministrazione della giustizia è sovraccarica, le carceri tuttora sovraffollate. Ma la deflazione viene perseguita solo ‘in concreto’, ovvero all’interno e sul presupposto di un’opzione legislativa di criminalizzazione a tappeto.

D’altro canto, nonostante il diffuso riconoscimento della finalità rieducativa della pena – limitato, però, tuttora prevalentemente alle fasi commisurativa e soprattutto esecutiva[62] -, quando si tratta di porre, ampliare o inasprire norme penali, cioé al momento della comminatoria edittale, risulta dominante un’eclettica visione repressivo-deterrente dell’intervento punitivo, nella quale convergono istanze di ‘giustizia’ retributiva e finalità specialpreventive di neutralizzazione dei ‘nemici’ di turno, sbandierate in funzione di rassicurazione emotiva e stabilizzazione dei consensi dell’opinione pubblica, in una versione della prevenzione generale positiva nota alla sociologia dai tempi di Durkheim[63].

Dunque, il legislatore recepisce e traduce in termini di intervento o inasprimento punitivo istanze emotive di rassicurazione in rapporto a singoli fenomeni, selezionati per ritenuta gravità – secondo la visione dei gruppi sociali contingentemente privilegiati – e per frequenza ‘percepita’ dell’accadimento[64].

In tale prospettiva, l’autore va criminalizzato, stigmatizzato e dunque desocializzato: di ‘rieducazione’ si parlerà solo in fase di esecuzione, o al più presto – anche per finalità deflattive in rapporto al sovraccarico dell’amministrazione della giustizia – nel processo (reinserimento dell’accusato presunto innocente, art.27 co.2 Cost.?): forme di diversion, giustizia riparativa, patteggiamenti, etc.

Gli attori del processo di criminalizzazione legale – altro è la criminalizzazione in the facts, in concreto – sono noti: politica, imprenditori morali, mezzi di comunicazione di massa. Così come note sono le dinamiche.

Negli ultimi lustri, quel processo si connota in senso ‘postmoderno’, con un’accentuata frammentazione casistica: si inseguono sempre nuove emergenze, selezionate dagli attori menzionati creando una sorta di ‘agenda’ continua di criminalizzazioni, che sembra presentare connotati propri di una strategia di marketing: prospettazione della ‘nuova’ minaccia (lo ‘sporco impossibile’) – intervento penale quale ‘nuovo’ rimedio ‘a buon mercato’ (il detersivo efficace)[65]. Dunque, nuove fattispecie, nuove aggravanti, ritagliate sui casi la cui percezione è più amplificata. In realtà, spesso non si tratta affatto di fenomeni criminali nuovi, e i nuovi rimedi non sono tali, ma si sovrappongono a quelli esistenti, ingolfando e complicando il sistema fino al caos.

Casistica e perdita di visione generale, sistematica, significano anche particolarismo: il diritto penale produce di continuo nemici (ed amici, si pensi ai regimi differenziati di prescrizione), per i quali valgono regole e ‘binari’ differenziati. Mafia, terrorismo, autori di reati sessuali, corruzione, criminalità predatoria ‘di strada’, migranti, parcheggiatori abusivi, marginali, dissenzienti, ‘ultras’: a ciascuno il suo binario, a ciascuno la sua normazione casistica, a ciascuno la sua aggravante ad effetto speciale… ed a ciascuno il suo binario processuale ed esecutivo, vedi art.4-bis ord.penit.

Una tale frammentazione casistica appare particolarmente evidente in tema di circostanze, laddove il legislatore pare ‘fotografare’ il bisogno emotivo di punizione del momento: ad esempio, il furto nel mezzo di trasporto o in prossimità dello sportello bancomat; lo stalking mediante messaggi telematici. Sul piano della percezione collettiva di bisogno di pena e di frequenza, queste casistiche impressionano/indignano determinati gruppi sociali. Ma il fatto in sé non è più grave, né più pericoloso di altri furti o atti persecutori. Tradotto in termini di – ovvero, di contrasto con – diritto penale del fatto, personalità della responsabilità e funzione della pena, ciò vuol dire: si seleziona un tipo d’autore (l’autore del furto in autobus, etc.) inasprendo per lui solo la pena; si strumentalizza quella persona per finalità di prevenzione generale, perché la frequenza di quel fenomeno, di quella casistica in sé non più grave di altri fatti di furto o stalking, non dipende certo da lui; si appone uno stigma accentuato e si mostra di voler neutralizzare un nemico particolarmente pericoloso, anziché proporsi finalità di reinserimento sociale.

Non insovente, il particolarismo esprime interessi di gruppi sociali organizzati – ‘lobbies’ -: ad esempio, il ‘personale sanitario’ ottiene speciali esenzioni dalla punibilità a titolo di colpa lieve, oppure una circostanza aggravante a tutela ‘della categoria’, come il citato art. 61 n.11-octies c.p. Un esempio ancor più eclatante riguarda le forze dell’ordine. Esse venivano già privilegiate, conformemente ad un’ideologia autoritaria, dal codice Rocco: si pensi in particolare all’art.53 c.p., all’art.61 n.10 c.p. ed ai reati di resistenza ed oltraggio a pubblico ufficiale. Quest’ultimo era originariamente punibile con la reclusione da sei mesi a due anni ex art.341 c.p., poi abrogato dalla l. n.205/1999, dopo essere stato dichiarato parzialmente incostituzionale per il minimo edittale di sei mesi; ma è stato reintrodotto, all’art.341-bis c.p., con il d.l. n.53/2019, conv. con modif. dalla l. n.77/2019, con cornice edittale da sei mesi a tre anni! Ancora, il codice del 1930 prevedeva fattispecie privilegiate per l’arresto illegale, l’indebita limitazione di libertà personale, l’abuso di autorità su persone arrestate o detenute e la perquisizione o ispezione personale arbitrarie, artt.606 ss. c.p.. A tutto ciò si sono aggiunti, con la l. n.92/2001, l’art.337-bis c.p., ovvero un reato di «pericolo per l’incolumità fisica degli operatori di polizia»[66], e un’aggravante che comporta l’ergastolo, art.576 co.5-bis c.p., per l’aver commesso il fatto «contro un ufficiale o agente di polizia giudiziaria, ovvero un ufficiale o agente di pubblica sicurezza, nell’atto o a causa dell’adempimento delle funzioni o del servizio»; nonché, successivamente, l’esclusione della non punibilità per particolare tenuità del fatto di cui all’art.131-bis co.2 ultima parte c.p. – introdotta dal citato pacchetto sicurezza-bis del 2019 e modificata, ma non eliminata dal cd. decreto sicurezza Lamorgese, d.l. n.130/2020, conv. con modif. dalla l.n.17/2020 -, secondo cui «l’offesa non può altresì essere ritenuta di particolare tenuità […] nei casi di cui agli articoli 336, 337 e 341-bis, quando il reato è commesso nei confronti di un ufficiale o agente di pubblica sicurezza o di un ufficiale o agente di polizia giudiziaria nell’esercizio delle proprie funzioni, e nell’ipotesi di cui all’articolo 343».

Va aggiunto, e ne avremo un’ulteriore conferma in conclusione, che la demagogica illusione repressiva viene coltivata pure da gruppi sociali e forze politiche che si definiscono progressiste: ciò che muta, in parte, sono soltanto gli interessi che si intendono ‘ipertutelare’ penalmente.

Un ultimo cenno, al riguardo, va fatto agli attori ‘tecnici’ di tali processi di criminalizzazione. Occorre, a mio avviso, porre nel debito risalto il loro contributo all’elefantiasi casistica del sistema. Il ‘legislatore’, contro cui si rivolgono abitualmente gli strali di una parte della dottrina e della magistratura, ha infatti un supporto tecnico costituito – in particolare quando si tratta, e non è raro in materia penale, di decreti-legge, leggi delega e decreti legislativi, leggi di iniziativa governativa – da burocrazie e magistrati applicati negli uffici legislativi ministeriali, consulenti anche accademici di Ministri, commissioni ministeriali di riforma. Se la legislazione penale progettata in quelle sedi istituzionali traduce le istanze punitive in disposizioni di cattiva fattura, sovente di taglio esasperatamente casistico, ed in innovazioni completamente ignare o dimentiche del sistema e produttive di caos normativo, ciò avviene, almeno in parte, anche per responsabilità di quei ‘tecnici’ e dipende dalla loro cultura giuridica. Una ‘cultura’ che sovente si può sintetizzare in termini di pragmatismo neotecnicistico: la soluzione normativa dev’essere realistica ed induttiva, ritagliata sul caso, ad hoc e, per altro verso, dev’essere tecnicistica, specialistica, in deroga… gli strumenti da privilegiare sono dunque la novella, la fattispecie incriminatrice ad hoc, la normazione casistica (perché ritenuta più dettagliata e quindi ‘tecnica’), l’aggravante ad effetto speciale, la deroga al bilanciamento, la non punibilità per casi specifici e/o con eccezioni, etc. Così, anche riforme che aspirano ad una maggiore organicità diventano occasione di elefantiasi casistica: induzione indebita, traffico di influenze… La stessa “riserva di codice” si riduce ad una farsa, con il trapianto di una decina di fattispecie e lo sdoganamento di norme ‘speciali’, eccezionali.

I principi costituzionali, all’interno di una tale visione, finiscono per svolgere un ruolo di meri ‘limiti’ esterni e non di fondamento; ad esempio, importa più l’adempimento pedissequo, a mo’ di fotocopia, di obblighi europei di tutela penale che la conformità delle norme penali così introdotte a determinatezza, offensività, funzione rieducativa della pena, in altri termini il loro inserimento coerente nel nostro ordinamento costituzionale.

Il neotecnicismo si percepisce anche sub specie normativismo, laddove, a dispetto del professato ‘pragmatismo’, si ignora l’empiria e dunque le condizioni per l’effettiva implementazione delle leggi; un esempio recente è rappresentato dalla riforma Cartabia, in particolare laddove prevede l’ampliamento dell’ambito di applicazione delle sanzioni sostitutive della pena detentiva senza stanziare un solo euro per gli uffici di esecuzione penale esterna, che già versano in condizioni di grave difficoltà.

Se, dunque, nei fenomeni fin qui descritti e sottoposti a critica svolge un ruolo significativo la cultura giuspenalistica, è anche su questo piano che vanno cercati i rimedi, sforzandosi di promuovere – comunicando soprattutto al di fuori delle sedi universitarie – la cultura dei principi costituzionali e la visione sistematica della legislazione e dell’intero ‘problema’ penale, anche alla luce del contesto politico, economico e sociale. Tentando, così, di superare la mera contemplazione dell’esistente – il ‘realismo’, il ‘disincanto’ o ‘l’incredulità verso le grandi narrazioni’, che finiscono per equivalere al ‘frenetico star fermi’, cioè alla conservazione – e del confuso divenire del cosiddetto diritto vivente, così come la chiusura in un ‘banale’, burocratico, asfittico ed acritico neotecnicismo iperspecialistico.

5. Una conclusione parziale: abolire le circostanze, specialmente le aggravanti soggettive

Concludiamo da dove abbiamo incominciato: da un’aggravante speciale ad effetto speciale fondata sull’atteggiamento interiore, poi estesa dalla finalità terroristica a quella di tipo mafioso e, successivamente, a quella razzista/xenofoba/negazionista e, nelle recenti proposte di riforma, a quella ‘omofoba’, sessuale e di genere.

Ribadisco, qui, sommessamente l’opinione favorevole ad un’abolizione delle circostanze del reato, ma anche ad una radicale revisione delle stesse fattispecie ‘qualificate’. La previsione di queste ultime dovrebbe orientarsi anch’essa ai principi penalistici, anzitutto a quello di extrema ratio: le norme incriminatrici non sunt multiplicandae sine necessitate.

Per far fronte alle diversità dei fatti concreti sono sufficienti i criteri di commisurazione della pena – anch’essi, com’è noto, da rivedere radicalmente – tra il minimo ed il massimo edittale. Bisognerebbe che tutti, dagli studenti ai più esperti ‘tecnici’ del diritto penale, conducessero un piccolo esperimento: riflettere su quali, tra le circostanze di cui all’art.61 c.p. o 625 c.p., ad esempio, siano veramente tali da rendere necessario un aumento della pena al di là dei limiti edittali.

In proposito, l’ultima considerazione vorrei dedicarla all’offensività. Nicola Mazzacuva lo ha fatto con ben altro acume e magistrale profondità.

Il problema è: nulla poena sine lege significa, sicuramente, anche nessun aumento di pena ultraedittale sine lege. Ma anche il nulla poena sine iniuria – se si vuol tradurre così il principio di offensività, di cui è ormai pressoché unanime il riconoscimento quale principio di rango costituzionale, e non di mero ‘indirizzo politico’ – comporta indubbiamente pure che nessun aumento di pena sia legittimo senza che vi sia un’offesa più grave a beni giuridici. Nessuna maggior pena senza maggior offesa, in termini di oggettivo maggior danno o pericolo per beni giuridici.

Tale principio è stato affermato, in sostanza, dalla Corte costituzionale con la sent. n.249/2010, che ha dichiarato incostituzionale l’aggravante di cui all’art.61 n.11-bis c.p., relativa all’«avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale», per contrasto con il principio di eguaglianza di cui all’art.3 Cost. e con il principio di offensività, ricondotto all’art. 25 co.2 Cost.: esso «pone il fatto alla base della responsabilità penale e prescrive pertanto, in modo rigoroso, che un soggetto debba essere sanzionato per le condotte tenute e non per le sue qualità personali. Un principio, quest’ultimo, che senz’altro è valevole anche in rapporto agli elementi accidentali del reato.

La previsione considerata ferisce, in definitiva, il principio di offensività, giacché non vale a configurare la condotta illecita come più gravemente offensiva con specifico riferimento al bene protetto, ma serve a connotare una generale e presunta qualità negativa del suo autore»[67].

La Corte, citando la propria precedente giurisprudenza in tema di illegittimità del reato di ubriachezza, art.688 co.2  c.p., ha riaffermato il principio secondo cui «il rigoroso rispetto dei diritti inviolabili implica l’illegittimità di trattamenti penali più severi fondati su qualità personali dei soggetti che derivino dal precedente compimento di atti “del tutto estranei al fatto-reato”, introducendo così una responsabilità penale d’autore “in aperta violazione del principio di offensività […]” (sentenza n. 354 del 2002)»[68].

Ciò comporta, a mio avviso, ben al di là della pronuncia in tema di aggravante della condizione di irregolarità dello straniero, l’illegittimità di qualunque circostanza aggravante che si fondi su un mero status soggettivo o preveda un trattamento più severo per una “condizione personale o sociale” (art.3 Cost.) – si osservi: anche se tale condizione consiste nell’avere l’autore realizzato in precedenza qualunque violazione di legge o reato – fintanto che ciò non possa fondare un giudizio di maggior dannosità o pericolosità oggettiva del fatto commesso. Appartengono, dunque, ad un diritto penale dell’autore, costituzionalmente illegittimo, aggravanti già originariamente presenti nel codice Rocco, come quella della latitanza – nelle ipotesi di cui agli artt.61 n.6 e 576 n.3 – e della recidiva[69]; in rapporto a quest’ultima, naturalmente sono consapevole che si tratta di questione dibattuta in una letteratura sterminata[70]. Ma, che si fondi l’aumento di pena per la recidiva sulla soggettiva pericolosità – sempre che la si possa empiricamente verificare, punto oltremodo problematico – o sulla colpevolezza per la condotta di vita, si tratta di diritto penale dell’autore; la pena per il fatto o i fatti precedentemente commessi è già stata inflitta!

Considerazioni analoghe valgono per quelle aggravanti fondate sull’essere l’autore già sottoposto a misura di prevenzione – una sorta di ‘recidiva del sospetto’ -, art. 71 d.lgs. n.159/2011[71] o a misura alternativa alla detenzione, art. 61 n.11-quater c.p.: si tratta di condizioni soggettive che nulla hanno a che vedere con l’offensività del fatto commesso.

Ma il contrasto con il principio di offensività vale, in secondo luogo, pure per tutte le aggravanti fondate sulla mera finalità soggettiva, per quanto esecrabile possa essere. In realtà, tali aggravanti contrastano, prima ancora, con lo stesso principio di materialità: cogitationis poenam nemo patitur comporta anche che nessun aumento di pena al di là dei limiti edittali possa fondarsi sul mero atteggiamento interiore. Il fine abietto o futile, art.61 n.1 c.p., può trovare adeguata considerazione all’interno della cornice edittale; non occorre, e non è conforme ad un diritto penale del fatto, vale a dire a materialità ed offensività, che comporti un aumento ultraedittale della pena. Persino una strage non diventa più grave per l’intima finalità con cui è realizzata, né diviene meno grave se l’autore intende semplicemente ‘fare una strage’, senza proprio pensare alla possibilità di terrorizzare altri. L’aumento di pena per la mera finalità interiore conduce ad una pena sproporzionata per eccesso rispetto al fatto commesso: dunque, contrasta pure con gli artt.3 e 27 co.3 Cost., per l’incompatibilità di pene sproporzionate con la finalità rieducativa della pena

Per le stesse ragioni, non sono conformi ai principi costituzionali, in particolare: 1) l’aggravante ad effetto speciale di cui agli artt.270-bis.1 c.p., in tema di finalità di terrorismo, che prevede addirittura un aumento di pena fisso “della metà”, con divieto di equivalenza o prevalenza di attenuanti, salve quelle di cui agli artt.98 e 114 c.p.; 2) l’aggravante ad effetto speciale di cui all’416-bis.1 c.p., nella parte in cui si riferisce alla finalità di agevolazione mafiosa, prevedendo un aumento di pena da un terzo alla metà, con lo stesso divieto di equivalenza o prevalenza appena menzionato; 3) l’aggravante prevista dall’art.604-ter c.p. «per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità», che comporta un aumento di pena fino alla metà, con divieto di equivalenza o prevalenza delle attenuanti, salvo solo quella di cui all’art.98 c.p.

Non si comprende, infatti, perché la pena per qualunque reato debba essere aumentata ben al di là del limite edittale sulla base di un mero atteggiamento interiore: come se, ad esempio, picchiare una persona per odio verso la sua etnia sia cosa diversa e più grave, sul piano della materialità e dell’offensività – come pretende, attualmente, l’art.604-ter c.p. – dal picchiarla, invece, per odio verso le sue tendenze sessuali, siano esse omosessuali o eterosessuali. Lo sdegno per una tale ‘sperequazione’ spiega la proposta legislativa nota come d.d.l. Zan. Ma, in senso contrario anche a tale proposta, occorre far presente ai suoi sostenitori – pur comprendendone e condividendone le nobili motivazioni antidiscriminatorie – che, dal punto di vista dei principi costituzionali, non è legittimo, sul piano della materialità e dell’offensività, aumentare la pena al di là della cornice edittale in presenza di tali finalità, perché dal punto di vista di un diritto penale del fatto non si tratta di ipotesi più gravi a confronto con quelle in cui, ad esempio, taluno picchia una persona per il sadico piacere di picchiarla – così, tanto per sfogarsi menando le mani all’uscita dalla palestra – oppure per scaricare le proprie frustrazioni sulla moglie o compagna o su un’amica/conoscente a caso; oppure per divertirsi una sera prendendo a calci un povero clochard che dorme sui cartoni per terra; oppure per affermare, alla stregua di una subcultura troglodita, il ‘possesso’ della propria donna verso colui che si è limitato a guardarla, magari con insistenza. Una lesione personale resta una lesione personale; delle motivazioni si può tenere adeguatamente conto all’interno dei limiti edittali. Se, invece, si mira ad introdurre nuove circostanze aggravanti ad hoc – o, mutatis mutandis, ad ampliare fattispecie esistenti aggiungendo nuove casistiche, come nel caso della proposta di ‘integrare’ con il riferimento a finalità di discriminazione sessuale e di genere l’art.604-bis c.p. – ciò si spiega, in definitiva, solo per ragioni sterilmente simboliche, che si è cercato di individuare in precedenza.

Infine, dobbiamo soffermarci su un’ulteriore specie di circostanze aggravanti che contrasta con il principio di offensività. Ma prima occorre un breve passaggio preliminare, che consiste nel distinguere chiaramente materialità ed offensività: distinzione in apparenza manifesta, ma talora trascurata.

Punire qualcuno per un atteggiamento meramente interiore contrasta con il principio di materialità, perché si punisce in assenza di una condotta riconoscibile dall’esterno; ma, secondo l’opinione dominante, non esistono nel nostro ordinamento ipotesi in cui si punisca per un mero atteggiamento interiore. Vi sono, però, come ho cercato di dimostrare, aggravanti contrarie persino  al principio di materialità – prima ancora che a quello di offensività -, perché la pena viene aumentata sulla mera base di un atteggiamento interiore, di una finalità, di una cattiva volontà o di una ritenuta pericolosità soggettiva.

Punire qualcuno per una condotta esteriormente percepibile non contrasta, invece, con il principio di materialità, ma può ugualmente contrastare con il principio di offensività: è il caso di ogni norma incriminatrice che renda punibile la mera manifestazione di un pensiero dissenziente – perché si tratta di un atto esterno, ma di per sé non offensivo -; la mera manifestazione di ‘disponibilità’ a fare qualcosa – si pensi al citato art.416-ter c.p. o a certe interpretazioni late del concetto di partecipazione ad associazione di tipo mafioso -; il mero accordo – altro atto manifestato all’esterno e come tale, ad esempio, intercettabile -; la realizzazione di remoti atti preparatori – esterni, ma non ancora concretamente ed attualmente pericolosi -; gli atti meramente ‘diretti’, etc.. Ma è il caso, pure, di norme che rendano punibili condotte a ben vedere neutre sul piano dell’offesa, come il mero ingresso o il trattenersi illegalmente nel territorio dello Stato, art.10-bis t.u. immigr. – esempio controverso –[72] o la mera mendicità ‘non invasiva’, art.670 co.1 c.p., disposizione notoriamente dichiarata illegittima con sent. Corte cost. n.519/1995.

Dunque, alla stregua delle considerazioni svolte, non si può neppure prevedere una circostanza aggravante, ovvero un aumento di pena ultraedittale – ma considerazioni analoghe varrebbero per una eventuale fattispecie autonoma ‘qualificata’ – in relazione ad un elemento che non denoti una maggiore offensività del fatto. Non può fondare una circostanza aggravante, come abbiamo visto, e neppure una fattispecie autonoma – si pensi al reato di ubriachezza o, per altro verso, ai reati di sospetto di cui agli artt.707-708 c.p.[73] – una mera condizione soggettiva come lo status di immigrato, di latitante, di recidivo, di sottoposto a misura di sicurezza o di prevenzione: certo, si tratta di dati oggettivi, ‘materiali’, non meramente psichici, riconoscibili dall’esterno, ma essi non possono fondare, di per sé, un aumento di pena perché, per quanto la loro rilevanza possa risultare conforme a materialità, risulta illegittima sul piano dell’offensività. E così pure qualsiasi circostanza che si fondi su dati neutri in rapporto all’offesa, che non rendano, cioè, il fatto più grave o oggettivamente più pericoloso, non può dare luogo ad una pena più severa, senza violare i principi di offensività, proporzione, funzione rieducativa della pena. Ad esempio, l’aggravante del furto commesso all’interno di un mezzo di trasporto non ha alcuna seria giustificazione sul piano dell’offesa; e così pure quella degli atti persecutori commessi a distanza rispetto a quelli commessi da vicino…

Gli esempi potrebbero continuare, ma è tempo di concludere. Per approfondire questi temi, torniamo a leggere l’opera fondamentale di Nicola Mazzacuva del 1983. Rileggere i classici costituisce un antidoto contro il superficiale ‘presentismo’ che mina la cultura giuspenalistica e che si riflette anche in una desolante legiferazione di taglio casistico, dimentica dei princìpi.


[1] J. Habermas, www.corriere.it, 16 luglio 2009. Le note del presente lavoro, per motivi di spazio, saranno ridotte all’essenziale.

[2] In cui, secondo J.-F. Lyotard, La condizione postmoderna (1979), Milano 2008, p.6, per effetto della «incredulità nei confronti delle metanarrazioni» la “funzione narrativa” «si disperde in una nebulosa di elementi linguistici narrativi, ma anche denotativi, prescrittivi, descrittivi, ecc., ognuno dei quali veicola delle valenze pragmatiche sui generis».

[3] S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, 2ª ed., Napoli 1997, passim.

[4] N. Mazzacuva, Il disvalore d’evento nell’illecito penale. L’illecito commissivo doloso e colposo, Milano 1983, p.19 ss.

[5] Ricordo una conversazione con un geniale magistrato napoletano prematuramente scomparso, che si aspettava per certo un procedimento disciplinare nei suoi confronti, per il ‘disfattismo’ insito nel non aver applicato quell’aggravante “della metà”, che egli – a mio avviso condivisibilmente – riteneva del tutto sproporzionata, nella sua fissità, in rapporto all’accadimento concreto.

[6] E. R. Zaffaroni, Alessandro Baratta nel ricordo, in Crit. dir. 3/2013, 375: «Il mondo in cui viviamo ci abitua a frazionare la realtà in porzioni sempre più piccole, per analizzarla meglio. Abbiamo una conoscenza ogni giorno più grande di cose più piccole. Nello stesso momento in cui ci esercitiamo per vedere meglio una parte minuscola, ci stiamo esercitando anche a non sapere niente del resto. Diventiamo acutissimi osservatori di una mattonella, ma siamo incapaci di muovere un passo sicuro al di fuori di questa». Non mancano, nella dottrina contemporanea, segni di neotecnicismo, con i consueti corollari della conservazione dell’esistente e della chiusura, strumentale ad essa, entro rigidi steccati disciplinari.

[7] In proposito, cfr. in part. F. Palazzo, La nuova frontiera della tutela penale dell’eguaglianza, in www.sistemapenale.it, 11 gennaio 2021, con qualche cauta considerazione critica; in argomento, v. infra, par.5.

[8] F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, 9ª ed., Milano 1986, p.8 ss., cit. testuale p.12. L’A. citava ad es. la scissione tra percosse e lesioni, la distinzione tra artt.314 e 315 c.p. e quella tra le qualifiche soggettive di cui agli artt.357-359 c.p. In generale, in senso parimenti critico, per tutti G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, I, 6ª ed., Bologna 2021, pp.XX-XXI.

[9] In argomento, cfr. per tutti S. Moccia, Tutela penale del patrimonio e principi costituzionali, Padova 1988, p.13 ss.

[10] Si consideri anche, ad esempio, la definizione di “violenza sulle cose”, che si estende fino a comprendere l’ipotesi in cui ne è semplicemente “mutata la destinazione”, art.392 co.2 c.p.

[11] G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, Manuale di diritto penale, Parte generale, 9ª ed., Milano 2020, pp.71-72.

[12] G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, op. cit., p.72, ove viene fatto l’esempio del termine “cagionare” nell’omicidio e nelle lesioni. Suscita, incidentalmente, riserve l’accettazione di formule “elastiche” nelle norme incriminatrici, laddove il concetto stesso di “elasticità” risulta indeterminato, in particolare nella sua distinzione dagli elementi “vaghi” o “indeterminati”: ad es. F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, 11ª ed., Milano 2020, p.73, include tra gli elementi “elastici”, ma non indeterminati – e dunque, secondo l’Autore, compatibili con il principio di determinatezza/tassatività – ad esempio il termine “rissa”, il “tempo di notte” e, in via di principio «tutti gli elementi normativi… soprattutto extragiuridici […] però facilmente individuabili…». Non a caso, l’A. prospetta un’ampia casistica di elementi elastici e dunque legittimi ed una alquanto ristretta, invece, di elementi indeterminati.

[13] In argomento, cfr. per tutti W. Hassemer, Fattispecie e tipo. Indagini sull’ermeneutica penalistica (1968), a cura di G. Carlizzi, Napoli 2008, p.71 ss. e passim; O. Di Giovine, L’interpretazione nel diritto penale tra creatività e vincolo alla legge, Milano 2006, p.74 ss.

[14] Si veda ad es. la definizione di “percossa” e “percuotere” in www.treccani.it.

[15] Cfr. ad es. F. Basile, Art.581, in E. Dolcini – G. Marinucci (a cura), Codice penale commentato, 2ª ed., Milano 2006, p.3840.

[16] Cfr. fra gli altri spec. G. Contento, Interpretazione estensiva e analogia, in A.M. Stile (a cura di), Le discrasie tra dottrina e giurisprudenza in diritto penale, Napoli 1991, p.8 ss.

[17] G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, op.cit., pp.85-86.

[18] G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, op.cit., p.86, citano l’esempio della formula “altro disastro” di cui all’art.434 c.p., la cui legittimità è stata ravvisata dalla Corte cost. con sent. n.327/2008, ritenendo che «l’altro disastro… è un accadimento sì diverso, ma comunque omogeneo sul piano delle caratteristiche strutturali rispetto ai disastri contemplati negli altri articoli compresi nel capo…». Appare peraltro evidente il carattere ampiamente discrezionale di una tale valutazione ‘conservativa’ dell’art.434 c.p. ad opera della giurisprudenza, sia pure costituzionale.

[19] Come sostengono, in via di principio, proprio G. Marinucci – E. Dolcini – G. L. Gatta, op. cit., pp.85.

[20] F. Antolisei, op.loc.cit., considerava questo il maggiore inconveniente della casistica, specie nei rapporti tra più norme; peraltro, la critica si dirigeva non proprio verso la ‘casistica’, quanto verso l’«eccessiva specificazione della legge» ed in quanto tale appare ambigua nelle finalità politico-criminali, per la possibile tensione con il principio di determinatezza.

[21] F. Mantovani, Diritto penale. Parte generale, cit., p.509.

[22] Cfr. F. Bricola, Legalità e crisi: l’art.25, commi 2° e 3°, della Costituzione rivisitati alla fine degli anni ‘70, in Quest. crim. 1980, p.217 ss.; S. Moccia, La ‘promessa non mantenuta’. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/tassatyività nel sistema penale italiano, Napoli 2001, p.112 ss.

[23] Criticamente in proposito spec. G. De Vero, Banda armata e delitti politici di associazione: profili sistematici, in Riv. it. dir. proc. pen. 1985, 310 ss.

[24] D. Alighieri, La Divina Commedia, Inferno, Canto XI, 57-60: «…onde nel cerchio secondo s’annida / ipocresia, lusinghe e chi affattura, / falsità, ladroneccio e simonia, / ruffian, baratti e simile lordura».

[25] Cfr. Cass., Sez. Un., 19 dicembre 2019 (dep. 16 aprile 2020), n. 12348, con nota di E. Contieri, in https://www.penaledp.it/coltivazione-di-piante-da-cui-sono-ricavabili-sostanze-stupefacenti/.

[26] Su tale implicazione della concezione giuridica di patrimonio, cfr. da ultimo nella manualistica G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale, Parte speciale, Vol.II, Tomo II, 7ª ed. Bologna 2015, p.23.

[27] In argomento, in precedenza, cfr. per tutti G. Amarelli, La contiguità politico-mafiosa. Profili politico-criminali, dommatici ed applicativi, Roma 2017, nonché, volendo, il nostro Lo scambio elettorale politico-mafioso, in S. Moccia (a cura di), Trattato di diritto penale, V, Delitti contro l’ordine pubblico, Napoli 2007, p.639 ss.

[28] Cfr. spec. F. Mantovani, Diritto penale, Parte generale, 11ª ed., Milano 2020, pp.201-202, 228 ss.

[29] Si pensi, ad esempio, alle riforme in tema di corruzione e ai problemi ermeneutici derivanti dall’introduzione delle nuove fattispecie di induzione indebita di cui all’art.319-quater c.p. e di traffico di influenze, art.346-bis c.p. In argomento, cfr. per tutti egregiamente V. Mongillo, La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale, Napoli 2012, p.120 ss.

[30] L’esempio delle numerose leggi svuotacarceri emanate a partire dal 2010, pur non prive di singoli aspetti positivi (in particolare, una sia pur limitata depenalizzazione intervenuta con i d.lgs. nn.7 e 8/2016), appare eloquente. Anche la recente riforma Cartabia finisce per ridurre l’obiettivo dell’efficienza del sistema penale alla sola deflazione procedimentale, rinunciando ad incidere seriamente sulle cause strutturali del sovraccarico dell’amministrazione della giustizia penale e del sovraffollamento carcerario, mediante una seria depenalizzazione e l’introduzione – che pure era stata proposta dalla Commissione Lattanzi – di nuove sanzioni principali non detentive. In argomento, mi sia consentito rinviare a Considerazioni ‘a prima lettura’ su deflazione processuale, sistema sanzionatorio e prescrizione nella l. 27 settembre 2021, n. 134, c.d. riforma Cartabia, inwww.penaledp.it, fasc. n.3/2021, 451 ss.

[31] Ne riporto, in parte, il chilometrico testo per ‘comodità’ del lettore:

«Chiunque cagioni per colpa la morte di una persona con violazione delle norme sulla disciplina della circolazione stradale è punito con la reclusione da due a sette anni.

Chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica o di alterazione psico-fisica conseguente all’assunzione di sostanze stupefacenti o psicotrope ai sensi rispettivamente degli articoli 186, comma 2, lettera c), e 187 del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da otto a dodici anni.

La stessa pena si applica al conducente di un veicolo a motore di cui all’articolo 186-bis, comma 1, lettere b), c) e d), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, il quale, in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera b), del medesimo decreto legislativo n. 285 del 1992, cagioni per colpa la morte di una persona.

Salvo quanto previsto dal terzo comma, chiunque, ponendosi alla guida di un veicolo a motore in stato di ebbrezza alcolica ai sensi dell’articolo 186, comma 2, lettera b), del decreto legislativo 30 aprile 1992, n. 285, cagioni per colpa la morte di una persona, è punito con la reclusione da cinque a dieci anni.

La pena di cui al comma precedente si applica altresì:

1) al conducente di un veicolo a motore che, procedendo in un centro urbano ad una velocità pari o superiore al doppio di quella consentita e comunque non inferiore a 70 km/h, ovvero su strade extraurbane ad una velocità superiore di almeno 50 km/h rispetto a quella massima consentita, cagioni per colpa la morte di una persona;

2) al conducente di un veicolo a motore che, attraversando un’intersezione con il semaforo disposto al rosso ovvero circolando contromano, cagioni per colpa la morte di una persona;

3) al conducente di un veicolo a motore che, a seguito di manovra di inversione del senso di marcia in prossimità o in corrispondenza di intersezioni, curve o dossi o a seguito di sorpasso di un altro mezzo in corrispondenza di un attraversamento pedonale o di linea continua, cagioni per colpa la morte di una persona.

Nelle ipotesi di cui ai commi precedenti la pena è aumentata se il fatto è commesso da persona non munita di patente di guida o con patente sospesa o revocata, ovvero nel caso in cui il veicolo a motore sia di proprietà dell’autore del fatto e tale veicolo sia sprovvisto di assicurazione obbligatoria. […]».

[32] Corte EDU, IV Section, Affaire Cestaro c. Italie, 7 avril 2015, reperibile in https://hudoc.echr.coe.int/.

[33] «Art.600 c.p. (Riduzione o mantenimento in servitù o in schiavitù). Chiunque esercita su una persona poteri corrispondenti a quelli del diritto di proprietà ovvero chiunque riduce o mantiene una persona in uno stato di soggezione continuativa, costringendola a prestazioni lavorative o sessuali ovvero all’accattonaggio o comunque al compimento di attività illecite che ne comportino lo sfruttamento ovvero a sottoporsi al prelievo di organi, è punito con la reclusione da otto a venti anni.

La riduzione o il mantenimento nello stato di soggezione ha luogo quando la condotta è attuata mediante violenza, minaccia, inganno, abuso di autorità o approfittamento di una situazione di vulnerabilità, di inferiorità fisica o psichica o di una situazione di necessità, o mediante la promessa o la dazione di somme di denaro o di altri vantaggi a chi ha autorità sulla persona».

I rapporti tra l’articolo appena citato e l’art.603-bis c.p. – il cui testo è riportato nella nota successiva – appaiono complicati ed irragionevoli soprattutto se si tiene presente l’ipotesi aggravata di cui al co.2 di quest’ultimo: v’è da chiedersi, infatti, quale sia la differenza tra il mantenere una persona “in stato di soggezione continuativa” “mediante violenza o minaccia”, “costringendola a prestazioni lavorative” (art.600 c.p.), e “l’impiegare manodopera” “sottoponendo un lavoratore”, “mediante violenza o minaccia”, a “condizioni di sfruttamento” (art.603-bis co.2 c.p.). E c’è da chiedersi perché mai nel primo caso la sanzione sia la reclusione da 8 a 20 anni e nel secondo quella da 5 a 8 anni…

Ma ormai sembra che ci si sia talmente rassegnati all’affastellarsi casistico della legislazione, da mettere subito da parte la critica e passare al commento, all’elaborazione di un’opinio doctorum magari sofisticata, ma che rischia di rimanere solipsistica; oppure alla contemplazione della cosiddetta ‘tassativizzazione’ giurisprudenziale di disposizioni malamente redatte. La scienza della legislazione sembra non interessare più a molti.

[34] In questo caso, la complicazione casistica risiede in particolare nell’elenco di indici di cui al terzo comma, come si dirà tra breve. Si riporta il testo normativo per comodità del lettore:

«Art.603-bis c.p. (Intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro).

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da uno a sei anni e con la multa da 500 a 1.000 euro per ciascun lavoratore reclutato, chiunque:

1) recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori;

2) utilizza, assume o impiega manodopera, anche mediante l’attività di intermediazione di cui al numero 1), sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno.

Se i fatti sono commessi mediante violenza o minaccia, si applica la pena della reclusione da cinque a otto anni e la multa da 1.000 a 2.000 euro per ciascun lavoratore reclutato.

Ai fini del presente articolo, costituisce indice di sfruttamento la sussistenza di una o più delle seguenti condizioni:

1) la reiterata corresponsione di retribuzioni in modo palesemente difforme dai contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale, o comunque sproporzionato rispetto alla quantità e qualità del lavoro prestato;

2) la reiterata violazione della normativa relativa all’orario di lavoro, ai periodi di riposo, al riposo settimanale, all’aspettativa obbligatoria, alle ferie;

3) la sussistenza di violazioni delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro;

4) la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, a metodi di sorveglianza o a situazioni alloggiative degradanti.

Costituiscono aggravante specifica e comportano l’aumento della pena da un terzo alla metà:

1) il fatto che il numero di lavoratori reclutati sia superiore a tre;

2) il fatto che uno o più dei soggetti reclutati siano minori in età non lavorativa;

3) l’aver commesso il fatto esponendo i lavoratori sfruttati a situazioni di grave pericolo, avuto riguardo alle caratteristiche delle prestazioni da svolgere e delle condizioni di lavoro».

In rapporto all’art.603-bis c.p. sarebbe possibile mettere in evidenza una sfilza di incongruenze, sovrapposizioni, indebiti livellamenti di condotte di diverso disvalore etc. Si pensi, in particolare, all’equiparazione tra il mero reclutamento finalizzato allo sfruttamento e l’effettivo impiego del lavoratore in condizioni di sfruttamento; oppure, al dato per cui qualunque violazione «delle norme in materia di sicurezza e igiene nei luoghi di lavoro» può configurare, ai sensi del co.3 n.3, uno sfruttamento lavorativo punibile. La tecnica della tipizzazione di “indici” di sfruttamento risulta fortemente problematica, sia perché non è chiaro se gli ‘indici’ siano elementi costitutivi o criteri probatori, sia perché è controvertibile se la realizzazione di una delle ipotesi enumerate configuri, per ciò solo, uno sfruttamento o se il giudice debba valutare ‘complessivamente’ la sussistenza di quest’ultimo, con un’inquietante Ganzheitsbetrachtung rimessa al suo ‘prudente apprezzamento’; ed ancora, non è chiaro se gli indici siano tassativi o se il giudice possa ravvisare uno sfruttamento lavorativo anche in assenza di una delle ipotesi elencate. A mio avviso, si ha qui un chiaro esempio di come un’elencazione di taglio casistico sia tutt’altro che soddisfacente in termini di determinatezza/tassatività. In argomento, cfr. per tutti nella manualistica G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte speciale, Vol.II, Tomo I, 5ª ed., Bologna 2020, p.191 ss., nonché, da prospettive diverse, spec. A. di Martino, Sfruttamento del lavoro. Il valore del contesto nella definizione del reato, Bologna 2020, passim; A. Merlo, Il contrasto allo sfruttamento del lavoro e al “caporalato” dai braccianti ai riders. La fattispecie dell’art. 603 bis c.p. e il ruolo del diritto penale, Torino 2020, p.51 ss.; F. De Marinis, Sfruttamento lavorativo e politiche migratorie dell’esclusione. Appunti sulla fattispecie di cui all’art.603-bis c.p., in Crit. dir. n.1/2021, p.57 ss.

[35] Si tenga presente che l’art.572 c.p. prevede la reclusione da tre a sette anni, ovvero una cornice edittale più grave di quella relativa allo sfruttamento lavorativo di cui all’art.603-bis c.p., che contiene la clausola iniziale «salvo che il fatto costituisca più grave reato»; quindi, se lo sfruttamento lavorativo concreta un maltrattamento di persona affidata «per l’esercizio di una professione o di un’arte», si applica il solo art.572 c.p. Ma è proprio ragionevole punire più gravemente il “maltrattamento” lavorativo di un giovane avvocato o musicista (rispettivamente, “professione” ed “arte”), a confronto con lo “sfruttamento lavorativo” di un muratore o di un contadino?

[36] G. P. Demuro, I delitti contro il patrimonio culturale nel codice penale: prime riflessioni sul nuovo Titolo VIII-bis, in www.sistemapenale.it, 29 aprile 2022, p.33.

[37] Ciò è avvenuto ad opera del primo di una lunga serie di ‘pacchetti sicurezza’ del XXI secolo, l.n.128/2001.

[38] Una volta venni contattato da un parlamentare di un ‘movimento’, che mi chiese un parere sull’introduzione di una nuova circostanza o sull’autonomizzazione di una già esistente, in tema di reati sessuali. Cercai di spiegargli la mia opinione circa l’assoluta inutilità dell’innovazione e, in generale, sugli effetti perversi della legislazione simbolica. Rispose che sarebbe stato pure d’accordo, ma… «Professore, come faccio? Gli altri partiti vogliono introdurre una nuova norma incriminatrice o un’aggravante, non possiamo non proporlo anche noi!».

[39] È la definizione corrente di destrezza: cfr. C. Manduchi, Art.625, in Codice penale, a cura di T. Padovani, Tomo II, 7ª ed., Milano 2019, p.4461, che cita Cass., SS.UU., n.34090/2017.

[40] Per un’ampia ed articolata critica, cfr. spec. S. Moccia, Il sistema delle circostanze e le fattispecie qualificate nella riforma del diritto penale sessuale (l.15 febbraio 1996 n.66): un esempio paradigmatico di sciatteria legislativa, in Riv. it. dir. proc. pen. 1997, 395 ss.

[41] In effetti, secondo Cass., sez. VI pen., n.29670/2011, diritto, punto 5.3., l’addestramento, che pure può avvenire pure a distanza, richiede un rapporto interattivo e lo svolgimento di esercitazioni, che consentano all’addestratore di correggere eventuali errori; sul punto, sia consentito rinviare al nostro commento all’art.270-quinquies, in Codice penale, a cura di T. Padovani, Tomo I, 7ª ed., Milano 2019, p.1811.

[42] Il legislatore ha ‘dato i numeri’ seguenti all’art.61 c.p.:

«n.11-bis) L’avere il colpevole commesso il fatto mentre si trova illegalmente sul territorio nazionale», introdotto con un “pacchetto sicurezza”, d.l. n.92/2008, e dichiarato illegittimo da Corte cost. n. 249/2010;

«n.11-ter) l’aver commesso un delitto contro la persona ai danni di un soggetto minore all’interno o nelle adiacenze di istituti di istruzione o di formazione» (introdotto dal d.l. n. 92/2008). Conviene, dunque, aggredire il ragazzo lontano da scuola, dove si può essere visti e magari fermati; meglio per strada, oppure la sera al bar;

«n.11-quater) l’avere il colpevole commesso un delitto non colposo durante il periodo in cui era ammesso ad una misura alternativa alla detenzione in carcere» (introdotto dalla l. n. 199/2010). Conviene dunque commettere il fatto durante l’esecuzione di una pena sostitutiva o di una misura di sicurezza non detentiva come la libertà vigilata. Ma, a prescindere da ciò, perché aumentare la pena in base allo status soggettivo di sottoposto a misura alternativa? V. infra, par.5.

«n.11-quinquies) l’avere, nei delitti non colposi contro la vita e l’incolumità individuale e contro la libertà personale, commesso il fatto in presenza o in danno di un minore di anni diciotto ovvero in danno di persona in stato di gravidanza» (introdotto dal d.l. n. 93/2013); qui ci si può chiedere se in due delle tre ipotesi non si tratti di casi speciali di minorata difesa e se le due aggravanti possano concorrere;

«n.11-sexies) l’avere, nei delitti non colposi, commesso il fatto in danno di persone ricoverate presso strutture sanitarie o presso strutture sociosanitarie residenziali o semiresidenziali, pubbliche o private, ovvero presso strutture socio-educative» (introdotto dalla l. n. 3/2018); anche qui ci si può porre le questioni di cui al n. precedente;

«n.11-septies) l’avere commesso il fatto in occasione o a causa di manifestazioni sportive o durante i trasferimenti da o verso i luoghi in cui si svolgono dette manifestazioni» (introdotto da un pacchetto sicurezza, d.l. n.53/2019). Qualunque fatto… ad es., coro diffamatorio contro l’arbitro, aggravato dall’essersi svolto dopo la partita… no comment;

«n.11-octies) l’avere agito, nei delitti commessi con violenza o minaccia, in danno degli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie nonché di chiunque svolga attività ausiliarie di cura, assistenza sanitaria o soccorso, funzionali allo svolgimento di dette professioni, a causa o nell’esercizio di tali professioni o attività» (introdotto dalla l.n.113/2020). Però di “delitti commessi con violenza o minaccia” ne subiscono anche molti avvocati e molti insegnanti, per cui siamo in attesa delle prossime aggravanti per categoria professionale…; magari, nell’ultimo caso, con ulteriore aumento di pena se il fatto è commesso dal genitore dell’alunno, e con aumento intermedio se l’autore è persona legata all’alunno da relazione affettiva, distinguendo, eventualmente, se sia stabile o no.

[43] Per una condivisibile proposta di eliminazione delle circostanze, cfr. per tutti S. Moccia, La perenne emergenza, cit., p.217. In senso contrario, cfr. per tutti A. Melchionda, Le circostanze del reato. Origine, sviluppo e prospettive di una controversa categoria penalistica, Milano 2000, p. 778 ss., secondo cui, peraltro, se «non pare “praticabile” l’idea di una radicale cancellazione del sistema delle circostanze, dall’altro è però innegabile l’opportunità di una (quanto meno parziale) revisione della sua attuale ipertrofia», ivi, p.782.

[44] Sul punto cfr. per tutti A. Melchionda, Le circostanze del reato, cit., p.726 ss.

[45] In tal senso, all’esito di un’ampia indagine storica e comparatistica, per tutti A. Melchionda, op.cit., p.740 ss.

[46] Cfr. Cass.pen., Sez.III, n.30177/2017, reperibile in www.ambientediritto.it/giurisprudenza, che dichiara inammissibile il ricorso contro una condanna a 5000 euro di ammenda per maltrattamento (colposo) di animali, ex art.727 co.2 c.p., a carico di un ristoratore che conservava crostacei vivi in ghiacciaia; peraltro, secondo la sentenza, considerato in dir. n.5.3., non è, invece, crudele bollire vivi gli stessi crostacei.

[47] In argomento, sia consentito rinviare ai contributi raccolti in A. Cavaliere – V. Masarone, L’incidenza di decisioni quadro, direttive e convenzioni europee sul diritto penale italiano, Napoli 2018.

[48] Asp et Al., European criminal policy initative. Manifesto sulla politica criminale europea, in Riv. it. dir. proc. pen. 2010, 1262 ss.

[49] «Art.1. Reati di stampo razzista o xenofobo.

1. Ciascuno Stato membro adotta le misure necessarie affinché i seguenti comportamenti intenzionali siano resi punibili:

a) l’istigazione pubblica alla violenza o all’odio nei confronti di un gruppo di persone, o di un suo membro, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica;

b) la perpetrazione di uno degli atti di cui alla lettera a) mediante la diffusione e la distribuzione pubblica di scritti, immagini o altro materiale;

c) l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, quali definiti agli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo

atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro;

d) l’apologia, la negazione o la minimizzazione grossolana dei crimini definiti all’articolo 6 dello statuto del Tribunale militare internazionale, allegato all’accordo di Londra dell’8 agosto 1945, dirette pubblicamente contro un gruppo di persone, o un membro di tale gruppo, definito in riferimento alla razza, al colore, alla religione, all’ascendenza o all’origine nazionale o etnica, quando i comportamenti siano posti in essere in modo atto a istigare alla violenza o all’odio nei confronti di tale gruppo o di un suo membro».

[50] Più precisamente, il primo comma impone, il secondo “autorizza” (?): «Circostanze aggravanti. 1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, in relazione ai reati di cui all’articolo 3, paragrafi 1 e 5, e all’articolo 4, le circostanze seguenti siano considerate aggravanti:

a) il reato è stato commesso nell’ambito di un’organizzazione criminale ai sensi della decisione quadro 2008/841/GAI; o

b) l’autore del reato è un soggetto obbligato ai sensi dell’articolo 2 della direttiva (UE) 2015/849, e ha commesso il reato nell’esercizio della sua attività professionale.

2. Gli Stati membri possono stabilire che, in relazione ai reati di cui all’articolo 3, paragrafi 1 e 5, e all’articolo 4, le circostanze seguenti siano considerate aggravanti:

a) i beni riciclati hanno un valore considerevole; o

b) i beni riciclati provengono da uno dei reati di cui all’articolo 2, punto 1), lettere da a) ad e) e h)».

[51] «Circostanze aggravanti. 1. Purché non siano già elementi costitutivi dei reati di cui agli articoli da 3 a 7, gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché le seguenti circostanze possano essere considerate, conformemente alle pertinenti disposizioni del diritto nazionale, circostanze aggravanti con riferimento ai pertinenti reati di cui agli articoli da 3 a 7:

a) il reato è stato commesso nei confronti di un minore in situazione di particolare vulnerabilità, quale un minore con una disabilità psichica o fisica o in uno stato di dipendenza o in uno stato di incapacità fisica o psichica;

b) il reato è stato commesso da un familiare del minore, da una persona che con il minore ha una relazione di convivenza o da altra persona che ha abusato della sua riconosciuta posizione di fiducia o di autorità;

c) il reato è stato commesso da più persone riunite;

d) il reato è stato commesso nel contesto di un’organizzazione criminale ai sensi della decisione quadro 2008/841/GAI del Consiglio, del 24 ottobre 2008, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata ( 1 );

e) l’autore del reato è stato già condannato per reati della stessa indole;

f) l’autore del reato, deliberatamente o per negligenza, ha messo in pericolo la vita del minore; oppure

g) il reato è stato commesso ricorrendo a violenze gravi o ha causato al minore un pregiudizio grave».

[52] La tesi della supposta ‘costituzionalizzazione’ di tale norma ordinaria – proposta da M. Donini, da ultimo in Perché il codice penale. Le riforme del codice oltre i progetti di pura consolidazione, in www.sistemapenale.it, 21 settembre 2020, 15 ss. – per quanto mossa da intenti apprezzabilissimi, mi pare scarsamente conciliabile con il sistema delle fonti nel nostro ordinamento; almeno sotto tale punto di vista, pur condividendo alcune repliche di M. Donini nel lavoro appena citato, mi pare condivisibile la critica di C.E. Paliero, ‘Riserva di codice’ e riprogettazione della Parte speciale, in A.M. Stile – V. Mongillo (a cura di), Politica criminale e riprogettazione del codice penale, Napoli 2021, p.239 ss.

[53] Ad es., il primo pacchetto sicurezza salviniano, d.l.n.113/2018, conv. con modif. dalla l.n.132/2018, oltre ad introdurre all’art. 5-bis nuovi reati in materia di immmigrazione nel d.lgs. n.286/1998 – peraltro, si tratta di un testo unico – inserisce all’art.21 co.1-ter una nuova incriminazione nell’art. 13-bis d.l. n.14/2017, conv. con modif. dalla l.n.48/2017, e l’art.21-ter introduce ulteriori sanzioni penali nello stesso d.l. n.14/2017; l’art.21-sexies dello stesso pacchetto sicurezza sostituisce il co.15-bis dell’art. 7 del codice della strada prevedendo nuove sanzioni penali; l’art.23 interviene sul d.lgs. n.66/1948 ampliando le ipotesi di reato in tema di blocco stradale. A sua volta, il cd. pacchetto sicurezza-bis, d.l. n.53/2019, conv. con modif. dalla l. n.77/2019, introduce, con l’art. 6 co.1 lett. b), una nuova incriminazione all’art.5-bis della legge Reale, n. 152/1975; si v. pure l’art.13 dello stesso d.l.

[54] Cfr. in proposito la ricostruzione di C.E. Paliero, ‘Riserva di codice’ e riprogettazione della Parte speciale, cit., p.211 ss.

[55] Di «un’opera di consolidazione» anziché di ricodificazione parla condivisibilmente M. Donini, Perché il codice penale, cit., 12.

[56] «Propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa.

Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito:

a) con la reclusione fino ad un anno e sei mesi o con la multa fino a 6.000 euro chi propaganda idee fondate sulla superiorità o sull’odio razziale o etnico, ovvero istiga a commettere o commette atti di discriminazione per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi;

b) con la reclusione da sei mesi a quattro anni chi, in qualsiasi modo, istiga a commettere o commette violenza o atti di provocazione alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.

E’ vietata ogni organizzazione, associazione, movimento o gruppo avente tra i propri scopi l’incitamento alla discriminazione o alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi. Chi partecipa a tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi, o presta assistenza alla loro attività, è punito, per il solo fatto della partecipazione o dell’assistenza, con la reclusione da sei mesi a quattro anni. Coloro che promuovono o dirigono tali organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi sono puniti, per ciò solo, con la reclusione da uno a sei anni.

Si applica la pena della reclusione da due a sei anni se la propaganda ovvero l’istigazione e l’incitamento, commessi in modo che derivi concreto pericolo di diffusione, si fondano in tutto o in parte sulla negazione, sulla minimizzazione in modo grave o sull’apologia della Shoah o dei crimini di genocidio, dei crimini contro l’umanità e dei crimini di guerra, come definiti dagli articoli 6, 7 e 8 dello statuto della Corte penale internazionale».

[57] «Circostanza aggravante.

Per i reati punibili con pena diversa da quella dell’ergastolo commessi per finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, ovvero al fine di agevolare l’attività di organizzazioni, associazioni, movimenti o gruppi che hanno tra i loro scopi le medesime finalità la pena è aumentata fino alla metà.

Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’articolo 98, concorrenti con l’aggravante di cui al primo comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a questa e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alla predetta aggravante».

[58] Cfr. C.E. Paliero, ‘Riserva di codice’ e riprogettazione della Parte speciale, cit., 244-245: «La semplice “traslazione” topografica di alcune disposizione dall’esterno all’interno del Codice […] può rivelarsi persino disfunzionale», producendo «smottamenti sul fronte dei principi generali della parte generale del diritto penale e sul piano delle garanzie. Lo dimostra emblematicamente il novello art.240-bis c.p., che ha trasposto nel tessuto codicistico, volatilizzandone in questa sezione l’impianto garantistico, il barbarico modello di confisca “allargata” previsto all’art.12 sexies[…]».

[59] Da una prospettiva sociologica, cfr. Wacquant, Les prisons de la misère, nouvelle éd., Paris, 2015, p.7, 10, 18 e passim; Id., Iperincarcerazione. Neoliberismo e criminalizzazione della povertà negli Stati Uniti, Verona, 2013, cit., passim, spec. pp. 27 ss., 44 – ove si parla di una «vasta ristrutturazione del perimetro e delle funzioni dello stato, che ha comportato in modo simultaneo e convergente la riduzione della sua componente welfarista e l’accrescimento delle sue funzioni poliziesche, giurisdizionali e penitenziarie» -, 55 ss., 101 ss.; Pavarini, Governare la penalità. Struttura sociale, processi decisionali e discorsi pubblici sulla pena, n. monografico della Rivista ius17@unibo.it, 3/2013, p.32 ss., 109 ss. e passim. Si vedano pure i dati empirici ivi, pp.65 ss. e soprattutto la “tavola 3”, p.71. V. inoltre spec. Baratta, La politica criminale e il diritto penale della Costituzione, in S. Canestrari (a cura di), Il diritto penale alla svolta di fine millennio, Torino 1998, p.26 ss., 39 ss.; Moccia, Alcune riflessioni su sicurezza e controllo penale, in Questione meridionale e questione criminale. Non solo emergenze, a cura di A. Bevere, Napoli 2007, p.117 ss.

[60] Appaiono emblematici, sul punto, alcuni autorevoli de profundis per la depenalizzazione: cfr. ad es. F. Palazzo, I profili di diritto sostanziale della riforma penale, in www.sistemapenale.it, 8 settembre 2021, pp.4-5. Per qualche rilievo critico, sia consentito rinviare a Considerazioni ‘a prima lettura’ su deflazione processuale, sistema sanzionatorio e prescrizione nella l. 27 settembre 2021, n. 134, c.d. riforma Cartabia, cit., 472 ss. Ma anche l’asprezza con cui si bolla quale “insuperabile anacronismo” o “utopia” “fanciullesca” la prospettiva del diritto penale minimo – cfr. C.E. Paliero, ‘Riserva di codice’ e riprogettazione della Parte speciale, cit., p.238 – risulta eloquente.

[61] Cfr. F. Sgubbi, Il diritto penale totale. Punire senza legge, senza verità, senza colpa. Venti tesi, Bologna 2019, p.23: «Totale perché ogni spazio della vita individuale e sociale è penetrato dall’intervento punitivo che vi si insinua […]. Totale, soprattutto, perché è invalsa nella collettività e nell’ambiente politico la convinzione che nel diritto penale si possa trovare il rimedio giuridico a ogni ingiustizia e a ogni male sociale».

[62] Nonostante le affermazioni contenute nella sent. Corte cost. n.313/1990 circa il riferimento dell’art.27 co.3 anche alla fase edittale, lo sostiene la stessa dottrina prevalente: in tale fase domina la prevenzione generale, la finalità rieducativa svolge un ruolo subordinato. Non occorrono riferimenti bibliografici: basta consultare un manuale qualunque.

[63] É. Durkheim, La divisione del lavoro sociale (1893), Milano 2016, p.144 ss., spec. p.146: «La pena non serve – o non serve che secondariamente – a correggere il colpevole o a intimidire i suoi possibili imitatori […]. La sua vera funzione è di mantenere intatta la coesione sociale, conservando alla coscienza comune tutta la sua vitalità».

[64] W. Hassemer, Theorie und Soziologie des Verbrechens. Ansätze zu einer praxisorientierte Rechtsgutslehre, Frankfurt a. M. 1973, p.47 ss.

[65] In fondo si tratta sempre dell’antico schema argomentativo risalente ai demonologi, secondo la suggestiva ricostruzione storica di E.R. Zaffaroni, Alla ricerca del nemico: da Satana al diritto penale cool, in E. Dolcini – C.E. Paliero, Studi in onore di Giorgio Marinucci, I, Milano 2006, p.757 ss.

[66] «Occultamento, custodia o alterazione di mezzi di trasporto.

Chiunque occulti o custodisca mezzi di trasporto di qualsiasi tipo che, rispetto alle caratteristiche omologate, presentano alterazioni o modifiche o predisposizioni tecniche tali da costituire pericolo per l’incolumità fisica degli operatori di polizia, è punito con la reclusione da due a cinque anni e con la multa da lire cinque milioni a lire venti milioni.

La stessa pena di cui al primo comma si applica a chiunque altera mezzi di trasporto operando modifiche o predisposizioni tecniche tali da costituire pericolo per l’incolumità fisica degli operatori di polizia».

[67] Considerato in diritto, punto 9; cfr. www.cortecostituzionale.it.

[68] Ivi, considerato in diritto, punto 4.1.

[69] La Corte cost., nella citata sent. n.249/2010, punto 10, distingue l’aggravante dell’immigrazione irregolare dalle diverse ipotesi della latitanza e della recidiva, ma non si pronuncia sulla legittimità di queste ultime, rilevando incidentalmente la questione non sia mai stata sollevata in rapporto alla latitanza.

[70] Da ultimo, si veda l’imponente lavoro di F. Rocchi, La recidiva tra colpevolezza e pericolosità. Prospettive d’indagine nel sistema penale integrato, Napoli 2020, passim, con ricchissimi riferimenti dottrinali e giurisprudenziali anche di diritto comparato.

[71] «Circostanza aggravante.

1. Le pene stabilite per i delitti previsti dagli articoli 270-bis, 270-ter, 270-quater, 270-quater.1, 270-quinquies, 314, 316, 316-bis, 316-ter, 317, 318, 319, 319-ter, 319-quater, 320, 321, 322, 322-bis, 336, 338, 353, 377, terzo comma, 378, 379, 416, 416-bis, 416-ter, 418, 424, 435, 513-bis, 575, 600, 601, 602, 605, 610, 611, 612, 628, 629, 630, 632, 633, 634, 635, 636, 637, 638, 640-bis, 648-bis, 648-ter, del codice penale, nonché per i delitti commessi con le finalità di terrorismo di cui all’articolo 270-sexies del codice penale, sono aumentate da un terzo alla metà e quelle stabilite per le contravvenzioni di cui agli articoli 695, primo comma, 696, 697, 698, 699 del codice penale sono aumentate nella misura di cui al secondo comma dell’articolo 99 del codice penale se il fatto è commesso da persona sottoposta con provvedimento definitivo ad una misura di prevenzione personale durante il periodo

previsto di applicazione e sino a tre anni dal momento in cui ne è cessata l’esecuzione.

2. In ogni caso si procede d’ufficio e quando i delitti di cui al comma 1, per i quali è consentito l’arresto in flagranza, sono commessi da persone sottoposte alla misura di prevenzione, la polizia giudiziaria può procedere all’arresto anche fuori dei casi di flagranza.

3. Alla pena è aggiunta una misura di sicurezza detentiva».

[72] Sia consentito in proposito rinviare, da ultimo, al nostro Le vite dei migranti e il diritto punitivo, in www.sistemapenale.it, fasc.4/2022, 58 ss. con ulteriori riferimenti bibliografici.

[73] Come si ricorderà, entrambi furono dichiarati parzialmente illegittimi proprio «limitatamente alla parte in cui fa[cevano] richiamo alle condizioni personali di condannato per mendicità, di ammonito, di sottoposto a misura di sicurezza personale o a cauzione di buona condotta», Corte cost., sent.n.110/1968 – con nota di F. Coppi, Osservazioni sui reati di sospetto e, in particolare, sul «possesso ingiustificato di valori», in Giur. cost., 1968, I, p. 330 ss. – e sent.n.14/1971. Com’è noto, mentre l’art.708 c.p. è stato poi dichiarato interamente illegittimo, l’art.707 c.p. ha resistito alle questioni di legittimità ripetutamente sollevate, nonostante il contrasto con il principio di offensività, ravvisato condivisibilmente, per tutti, da V. Manes, Il principio di offensività nel diritto penale. Canone di politica criminale, criterio ermeneutica, parametro di ragionevolezza, Torino 1995, pp.300-301.

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