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Intercettazioni: droga “parlata”, armi “parlate”, mazzette “parlate”…..: ma per condannare davvero basta la parola?

Cass., Sez. II, sentenza 24.3.2022 (dep. 6.5.2022), n. 18245, Balsamo e altri.

In tema di stupefacenti, qualora gli indizi a carico di un soggetto consistano in mere dichiarazioni captate nel corso di operazioni di intercettazione, senza che sia operato il sequestro della sostanza stupefacente (la c.d. droga “parlata”), la loro valutazione ai sensi dell’art.192, comma 2, c.p.p., deve essere compiuta dal giudice con particolare attenzione e rigore.

In tema di intercettazione di comunicazioni o conversazioni, è invalsa una giurisprudenza, ormai consolidata, secondo la quale, ai fini della condanna, non è necessario il sequestro della sostanza stupefacente o delle armi o del prezzo della corruzione, ma è sufficiente una motivazione convincente sulle compromettenti dichiarazioni captate.

           With regard to the interception of communications or conversations, a now consolidated jurisprudence has prevailed, according to which, for the purposes of the conviction, it is not necessary to seize the drug or weapons or the price of corruption, but a convincing motivation on the compromising statements received is sufficient.

1.Una giurisprudenza granitica si accontenta della parola.-

        La sentenza in commento è l’ultima di un lungo filone giurisprudenziale, che afferma che per pronunciare condanna per traffico di sostanze stupefacenti non è necessario sequestrare la droga, ma è sufficiente averne parlato nelle conversazioni intercettate. E purtroppo la stessa tesi lassista la giurisprudenza applica in tante altre materie, dal porto e detenzione di armi ai reati contro la pubblica amministrazione e ad innumerevoli altri, per cui ci si può ritrovare condannati per armi, anche se non si è ritrovata nemmeno una scacciacani, o per corruzione senza che ci sia traccia materiale della “mazzetta”.

2.La dichiarazione autoindiziante.-

In particolare, la pronuncia in esame ricorda che sul tema della cosiddetta “droga parlata”  la concorde giurisprudenza di legittimità  afferma che, in tema di stupefacenti, qualora gli indizi a carico di un soggetto consistano in mere dichiarazioni captate nel corso di operazioni di intercettazione, senza che sia operato il sequestro della sostanza stupefacente (la c.d. droga “parlata”), la loro valutazione ai  sensi dell’art.192, comma secondo, c.p.p., deve essere compiuta dal giudice con particolare attenzione e rigore ed, ove siano prospettate più ipotesi ricostruttive del fatto, la scelta che conduce alla condanna dell’imputato deve essere fondata in ogni caso su un dato probatorio “al di là di ogni ragionevole dubbio”, caratterizzato da un alto grado di credibilità razionale, con esclusione soltanto delle eventualità più remote (Cass., Sez. VI,  14.2.2017, n. 27434, Albano, Rv. 270299, con precedenti conformi: n. 5073 del 2013 Rv. 258523, n. 16792 del 2015 Rv. 263356). La giurisprudenza  è concorde nel ritenere che le dichiarazioni, captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata, con le quali un soggetto si autoaccusa della commissione di reati hanno integrale valenza probatoria, non trovando applicazione al riguardo gli artt. 62 e 63 c.p.p., giacché l’ammissione di circostanze indizianti fatta spontaneamente dall’indagato nel corso di una conversazione legittimamente intercettata non sono assimilabili alle dichiarazioni da lui rese dinanzi all’autorità giudiziaria o alla polizia giudiziaria, e le registrazioni e i verbali delle conversazioni non sono riconducibili alle testimonianze de relato su dichiarazioni dell’indagato, in quanto integrano la riproduzione fonica o scritta delle dichiarazioni stesse delle quali rendono in modo immediato e senza fraintendimenti il contenuto (Cass., Sez. IV, 27.9.2010, B.L. CED 248089).Si ribadisce che le ammissioni di circostanze indizianti, fatte spontaneamente dall’indagato nel corso della conversazione telefonica, la cui intercettazione sia stata ritualmente autorizzata, non sono assimilabili alle dichiarazioni da lui rese nel corso dell’interrogatorio dinanzi all’autorità giudiziaria o a quella di polizia giudiziaria, né le registrazioni e i verbali delle conversazioni telefoniche sono riconducibili alle testimonianze de relato sulle dichiarazioni dell’indagato, in quanto integrano la riproduzione fonica o scritta delle dichiarazioni stesse di cui rendono in modo immediato e senza fraintendimenti il contenuto (Cass., Sez. VI, 28.7.2003, Corteggiano e altri, in Giust. pen.,2004, III, 378 nonché CED 226202; Cass., Sez. VI, 1.2.1994, Cuozzo, CED 197146 nonché in Giust. pen.,1994, III, 488). La Suprema Corte ha ritenuto pienamente utilizzabili le dichiarazioni autoindizianti rese da un soggetto, successivamente indagato, nel corso di una conversazione registrata a sua insaputa in quanto ad esse non è applicabile né la previsione di inutilizzabilità delle registrazioni telefoniche irrituali previsto dall’art. 271 c.p.p., non trattandosi di intercettazioni in senso tecnico, né i limiti alla utilizzabilità previsti dall’art. 63 c.p.p. Tali registrazioni costituiscono documenti ed in quanto tali sono acquisibili in dibattimento (Cass., Sez. VI, 15.5.1997, Mariniello, CED 208127). Si ribadisce che gli artt. 62 e 63 c.p.p. non trovano applicazione in materia di intercettazione, in quanto le ammissioni di circostanze indizianti, fatte spontaneamente dall’indagato nel corso di una conversazione telefonica la cui intercettazione sia stata ritualmente autorizzata, non sono assimilabili alle dichiarazioni da lui rese nel corso dell’interrogatorio dinanzi all’autorità giudiziaria o a quella di polizia giudiziaria, né le registrazioni e i verbali delle conversazioni telefoniche sono riconducibili alle testimonianze de relato sulle dichiarazioni dell’indagato, in quanto integrano la riproduzione fonica o scritta delle dichiarazioni stesse di cui rendono in modo immediato e senza fraintendimenti il contenuto  (Cass., Sez. VI, 28.7.2003, Corteggiano ed altri, in Cass. pen., 2004, 3316 nonché CED 226202). Infine si ripete che gli esiti delle intercettazioni non necessitano di riscontri, avendo valenza probatoria (nel procedimento di cognizione) ovvero indiziaria “piena” (nell’ambito del subprocedimento cautelare) (Cass., Sez. II, 1.6.2022 (dep. 16.9.2022), n. 34381). Questa giurisprudenza ignora certi lati perversi dell’animo umano, quali ad esempio quello dell’esibizionista o addirittura del mitomane, che per apparire diverso e darsi, a suo parere, una qualche importanza davanti a chi lo ascolta, non esita ad attribuirsi falsamente,  per mera vanteria, persino un reato, certo che il semplice parlarne non comporta per lui conseguenze.

3.La superfluità dei riscontri alle parole che accusano terzi.-

Ma è ancora più grave quell’orientamento giurisprudenziale che ammette che una condanna penale possa basarsi soltanto sulle parole di taluno che, intercettato, accusa altri di un reato. Anche la sentenza in commento segue questo indirizzo, osservando che il richiamo all’art. 192, comma 2, c.p.p. e non al successivo comma della medesima norma, rende chiaro che “non è ritenuta necessaria l’acquisizione di un riscontro estrinseco”, ma “solo di una motivazione convincente, idonea ad escludere ipotesi alternative degne di una qualche plausibilità”. La stessa pronuncia spiega il fondamento di questo indirizzo giurisprudenziale nel senso che esso si giustificherebbe perchè le intercettazioni telefoniche ed ancor più quelle di tipo “ambientale”, “vengono ritenute, in generale, prove dotate di intrinseca e sufficiente attendibilità, per il fatto che gli interlocutori non sono consapevoli di essere intercettati e, dunque, in modo spontaneo e diretto forniscono elementi concreti del loro coinvolgimento in fatti illeciti”, caratteristiche che, al contrario, “non possono ravvisarsi nelle dichiarazioni di correo, che necessitano di un controllo e di un vaglio ancora più̀ stringente”, che deve essere effettuato, ex art. 192, comma 3, c.p.p., “unitamente agli altri elementi di prova che ne confermano l’attendibilità”. In giurisprudenza è affermazione ricorrente che il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiari di aver partecipato, non è equiparabile alla chiamata in correitàe pertanto, se anch’esso deve essere attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non è però soggetto, in tale valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p.(Cass., Sez. VI, 16.10.2019, Buzzi e altri, n. 18125, in Guida al Dir., 2020, n. 31, p. 92; Cass., Sez. V, 26.3.2010, Cavallaro, in Cass. pen., 2011, 3940, CED  247447; Cass., Sez. V,  28.9.2006, Della Ventura, in Cass. pen.,2007, 4260).  Si ribadisce, in generale, che la disposizione contenuta nell’art. 192, comma 3, c.p.p. si applica esclusivamente alle dichiarazioni procedimentali, non estendendosi al contenuto delle intercettazioni. In tale materia, infatti, non trova applicazione il principio sancito dall’art. 6, § 3, lett. d), Conv. e.d.u. (Cass., Sez. II, 10.5.2012, Fabbrocino, in Arch.pen., 2013).Si precisa chele dichiarazioni rese da persone che conversino tra loro – se captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata e a loro insaputa – sono liberamente valutate dal giudice secondo gli ordinari criteri di apprezzamento della prova, anche quando presentino valenza accusatoria nei confronti di terzi che avrebbero concorso in reati commessi dagli stessi dichiaranti: infatti, tali dichiarazioni non sono in alcun modo assimilabili a una chiamata in correità, non trovando pertanto applicazione la regola di valutazione di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p. Il giudice di merito deve accertare che il significato delle conversazioni intercettate sia connotato dai caratteri della chiarezza, della decifrabilità del contenuto, dell’assenza di ambiguità, di modo che la ricostruzione operata non lasci margini di dubbio sul significato complessivo delle conversazioni. In questo caso, ben può il giudice di merito fondare la sua decisione sul contenuto di tali conversazioni. Invece, se le conversazioni captate non sono connotate da queste caratteristiche – per l’incompletezza dei colloqui registrati, per la cattiva qualità dell’intercettazione, per la cripticità del linguaggio usato dagli interlocutori, per la non sicura decifrabilità del contenuto o per altre ragioni – non per questo si ha un’autonoma trasformazione da prova a indizio, ma è il risultato stesso della prova che diviene meno certo, con la conseguente necessità di elementi di conferma che possano eliminare i ragionevoli dubbi esistenti (Cass., Sez. VI, 11.7.2005, Pischetola, in Guida dir.,2005, 45, 59). E’ affermazione corrente che le dichiarazioni compiute da persone che conversino tra loro – se captate nel corso di attività di intercettazione regolarmente autorizzata ed a loro insaputa – sono liberamente valutate dal giudice secondo gli ordinari criteri di apprezzamento della prova, anche quando presentino valenza accusatoria nei confronti di terzi che avrebbero concorso in reati commessi dagli stessi dichiaranti, non trovando in questo caso applicazione la regola di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p. (Cass., Sez. V, 9.10.2003, Alvaro ed altri, CED 227411). Si è anche affermato che il contenuto di una intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiara di aver partecipato, non è in alcun senso equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se va anch’esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato sul piano probatorio, non è soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p. (Cass., Sez. V, c.c. 14.10. 2003 (dep. 13.1.2004), Grande Aracri, in Cass. pen.,2005, 1994). Si ripete che l’indicazione, in colloqui intercettati, di una terza persona come autore di un reato non rappresenta una chiamata in correità (e dunque non soggiace alle regole probatorie di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p.), ma va valutata ex se (Cass., Sez. V, 7.2.2003, Alvaro ed altri, in Guida dir.,2004, 1, 86; Cass., Sez. V, 20.11.2003, Umbro, inedita). Nello stesso senso, si aggiunge che il contenuto di una intercettazione, anche quando si risolva in un’accusa in danno di terza persona, indicata quale concorrente in un reato alla cui consumazione anche i colloquianti affermino di avere partecipato, non è equiparabile a chiamata in correità e pertanto non va corroborata ai sensi dell’art. 192, comma 3, c.p.p. dovendo semplicemente essere valutata sul piano probatorio (Cass., Sez. V, 12.5.2003, Cannatà, in Dir§Giust., 2003, 23, 105). Si ribadisce che il contenuto di dichiarazioni etero-accusatorie registrate nel corso di conversazioni legittimamente intercettate può costituire riscontro ad analoghe dichiarazioni rese nel corso di rituale interrogatorio, anche quando le une e le altre provengano dal medesimo soggetto (Cass., Sez. I, 17.10.2003, Callipari, CED 225999). Si precisa che il contenuto di un’intercettazione, anche quando si risolva in una precisa accusa in danno di terza persona, indicata come concorrente in un reato alla cui consumazione anche uno degli interlocutori dichiara di aver partecipato, non è in alcun senso equiparabile alla chiamata in correità e pertanto, se va anch’esso attentamente interpretato sul piano logico e valutato su quello probatorio, non va però soggetto, nella predetta valutazione, ai canoni di cui all’art. 192, comma 3, c.p.p. (Cass., Sez. V, 17.6.2004, Venosa, in Guida dir.,2004, 31, 78; Cass., Sez. V, 4.4.2001, Primerano, in Cass. pen.,2001, 3483 nonché CED 218392). Si aggiunge che, anche gli elementi raccolti nel corso delle intercettazioni di conversazioni possono costituire prova diretta della colpevolezza, senza necessità di riscontri, è peraltro necessario che quegli elementi, allorché assumano valenza indiziaria, possiedano i caratteri della gravità, precisione e concordanza (Cass., Sez. VI, 6.10.2016, n. 487, Di Pietro e altri, in Guida dir., 2017, n. 7, p. 82). Tale giurisprudenza lascia tuttavia perplessi perché, se un’accusa ad una terza persona è rivolta davanti alla polizia giudiziaria o all’autorità giudiziaria, dopo gli avvertimenti sulle responsabilità anche penali che si assumono con tale dichiarazione, la legge esige i cd. riscontri, mentre se il dichiarante rivolge liberamente la stessa accusa in una conversazione intercettata, la giurisprudenza non richiede i riscontri anche se il dichiarante non è assolutamente responsabilizzato perché non risponde né di calunnia né di altro reato.

4. Conclusioni.-

               Occorrerebbe maggior prudenza nel prendere per oro colato le dichiarazioni di chi parla a ruota libera, al telefono o in presenza, e che talvolta è solo un fanfarone, che agisce per mera vanteria, talaltra sproloquia per i motivi più vari ma comunque impenetrabili dal giudice. Limitarsi ad esigere una motivazione convincente della sentenza può talvolta non essere sufficiente.  Il processo penale e la condanna che ne può conseguire sono una questione seria che non può basarsi solo sulle chiacchiere a vanvera, senza un minimo riscontro. Il legislatore riconosce giustamente al giudice il libero convincimento nella valutazione della prova, ma talvolta, quando questa è insufficiente o sospetta, gli impone una regola di valutazione, come i riscontri alle chiamate di reità o correità. Forse sarebbe il caso di cominciare a pensare alla necessità di un qualche riscontro anche alle parole intercettate.

La sentenza

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