Per favore, basta. Smettiamola con le brutture dell’«italiese». La nostra lingua subisce massicce invasioni di vocaboli e locuzioni provenienti dall’inglese.
E ingloba anche, con ossessiva bulimia, parole nate nei nostri lidi e sbarcate poi sulle coste degli USA per tornare alla fine in patria con nuovi significati, incompatibili con quelli degli stessi termini rimasti a dimora nel nostro paese.
C’è insomma un «italiese» a due livelli. Quello maiuscolo, che si nutre di prestiti linguistici e impreziosisce l’italiano parlato delle èlites interessate ad esibire la scelta in favore di «magnifiche sorti e progressive». E’ una antica aspirazione. Già Aristotele approvava le citazioni in una lingua straniera, considerandole apportatrici di freschezza e libertà espressiva. Ma l’omaggio all’internazionalismo diventa imitazione servile quando si reitera e assume un accento narcisistico.
L’«italiese» minuscolo è invece quello dei ceti più popolari che magari non hanno dimestichezza con l’inglese, ma vogliono esibire la capacità a maneggiare vocaboli all’apparenza moderni, che sono però agganciati ad un lessico ormai familiare, forse per il gusto di dire cose nuove con parole vecchie.
Prendiamo una espressione entrata ormai trionfalmente nel vocabolario dell’attuale emergenza sanitaria. I professori fanno lezione raggiungendo dalle loro case le abitazioni degli studenti. I magistrati sentono i testimoni a distanza. Persino chi chiama il 112 allarmato per il suo stato di salute si sente dare istruzioni per telefono. Così si evita l’accesso al pronto soccorso.
Tutto ciò significa, per dirla in perfetto «italiese», che si partecipa, si interviene, si risolve un problema «da remoto». Ecco il funerale di una parola italiana, celebrato con un coro da chiesa anglofona. Nella lingua di Dante, «remoto» è un aggettivo che indica una situazione avvolta nella nebbia dei ricordi e soffre quindi per la distanza temporale. A New York invece «remote» può anche voler dire che chi adopera certi mezzi tecnici può superare la distanza in senso spaziale. Da qui il bisticcio in cui finisce per aggrovigliarsi l’italiano che vanta la sua capacità di intervenire «da remoto» attingendo all’orologio del tempo per descrivere il suo potere di dominare le barriere dello spazio.
L’inganno dei falsi amici si manifesta anche nell’uso, largamente praticato anche da noi, di esordire con un «Cari tutti» nella corrispondenza rivolta ad una pluralità di persone diverse tra loro. Così si replica l’inglese «Dear all» che però non ha la carica affettiva insita nella nostra parola «caro». Da qui il ridicolo del «Cari tutti» che spreca una intonazione amicale per rivolgersi ad una entità astratta come quella di un gruppo identificabile solo sotto il profilo quantitativo.
Ai patiti della anglofonia gioca un brutto scherzo anche l’attrazione esercitata dall’avverbio «assolutamente», declinato con un “sì” o un “no” nelle risposte ad una domanda. In questo modo si fa proprio il verso dell’«absolutely» inglese. Che bisogno c’è di archiviare tradizionali espressioni come «certamente», «certo che sì» e «certo che no»? Tanto più che esse sono allineate alla cultura linguistica neolatina come dimostrano il «seguro que si» e il «claro que si» dello spagnolo
Nell’ «italiese» minuscolo c’è dunque una deformazione ancora più grave e ingiustificata di quella rinvenibile nel gergo angloitaliano qui definito maiuscolo, che almeno rispetta l’autonomia delle due lingue. L’uno e l’altro modo di parlar mischiando le acque dell’Hundson e del Tevere autorizzano comunque a riecheggiare un ben noto monito carducciano. Per dire che la favella italiana è tanto sciocca nell’anglicismo degli imitatori servili del prodotto yankee.
Quando si inciampa nelle brutture dell’«italiese»
Per favore, basta. Smettiamola con le brutture dell’«italiese». La nostra lingua subisce massicce invasioni di vocaboli e locuzioni provenienti dall’inglese.
E ingloba anche, con ossessiva bulimia, parole nate nei nostri lidi e sbarcate poi sulle coste degli USA per tornare alla fine in patria con nuovi significati, incompatibili con quelli degli stessi termini rimasti a dimora nel nostro paese.
C’è insomma un «italiese» a due livelli. Quello maiuscolo, che si nutre di prestiti linguistici e impreziosisce l’italiano parlato delle èlites interessate ad esibire la scelta in favore di «magnifiche sorti e progressive». E’ una antica aspirazione. Già Aristotele approvava le citazioni in una lingua straniera, considerandole apportatrici di freschezza e libertà espressiva. Ma l’omaggio all’internazionalismo diventa imitazione servile quando si reitera e assume un accento narcisistico.
L’«italiese» minuscolo è invece quello dei ceti più popolari che magari non hanno dimestichezza con l’inglese, ma vogliono esibire la capacità a maneggiare vocaboli all’apparenza moderni, che sono però agganciati ad un lessico ormai familiare, forse per il gusto di dire cose nuove con parole vecchie.
Prendiamo una espressione entrata ormai trionfalmente nel vocabolario dell’attuale emergenza sanitaria. I professori fanno lezione raggiungendo dalle loro case le abitazioni degli studenti. I magistrati sentono i testimoni a distanza. Persino chi chiama il 112 allarmato per il suo stato di salute si sente dare istruzioni per telefono. Così si evita l’accesso al pronto soccorso.
Tutto ciò significa, per dirla in perfetto «italiese», che si partecipa, si interviene, si risolve un problema «da remoto». Ecco il funerale di una parola italiana, celebrato con un coro da chiesa anglofona. Nella lingua di Dante, «remoto» è un aggettivo che indica una situazione avvolta nella nebbia dei ricordi e soffre quindi per la distanza temporale. A New York invece «remote» può anche voler dire che chi adopera certi mezzi tecnici può superare la distanza in senso spaziale. Da qui il bisticcio in cui finisce per aggrovigliarsi l’italiano che vanta la sua capacità di intervenire «da remoto» attingendo all’orologio del tempo per descrivere il suo potere di dominare le barriere dello spazio.
L’inganno dei falsi amici si manifesta anche nell’uso, largamente praticato anche da noi, di esordire con un «Cari tutti» nella corrispondenza rivolta ad una pluralità di persone diverse tra loro. Così si replica l’inglese «Dear all» che però non ha la carica affettiva insita nella nostra parola «caro». Da qui il ridicolo del «Cari tutti» che spreca una intonazione amicale per rivolgersi ad una entità astratta come quella di un gruppo identificabile solo sotto il profilo quantitativo.
Ai patiti della anglofonia gioca un brutto scherzo anche l’attrazione esercitata dall’avverbio «assolutamente», declinato con un “sì” o un “no” nelle risposte ad una domanda. In questo modo si fa proprio il verso dell’«absolutely» inglese. Che bisogno c’è di archiviare tradizionali espressioni come «certamente», «certo che sì» e «certo che no»? Tanto più che esse sono allineate alla cultura linguistica neolatina come dimostrano il «seguro que si» e il «claro que si» dello spagnolo
Nell’ «italiese» minuscolo c’è dunque una deformazione ancora più grave e ingiustificata di quella rinvenibile nel gergo angloitaliano qui definito maiuscolo, che almeno rispetta l’autonomia delle due lingue. L’uno e l’altro modo di parlar mischiando le acque dell’Hundson e del Tevere autorizzano comunque a riecheggiare un ben noto monito carducciano. Per dire che la favella italiana è tanto sciocca nell’anglicismo degli imitatori servili del prodotto yankee.
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