«Io tuttavia persisto nella mia opinione che dopo la mia morte non si parlerà più di me».
Con questa frase Pietro Ellero aveva forse intuito il destino che sarebbe stato riservato al proprio impegno politico e sociale.
Nato a Pordenone l’8 ottobre 1833, già dopo poco più di un mese dalla sua scomparsa (avvenuta a Roma, quasi centenario, il 1° febbraio del 1933) lo storico e giurista crotonese Nicola Coco fece pubblicare su Il Messaggero un’aspra lettera di rimprovero indirizzata a tutta la stampa italiana «pel silenzio quasi completo – fatta eccezione d’un brevissimo annunzio funebre – sulla morte, avvenuta in Roma il 1° febbraio corrente, di un grande vegliardo: Pietro Ellero. Si tratta – l’annunzio funebre lo ha frettolosamente avvertito – ‘d’un vecchio centenario’», già circondato «nell’ultimo venticinquennio dal quasi completo oblio»[1].
E bruciata tutta pare la parabola da lui tracciata, se è vero che ancora oggi Pietro Ellero rimane figura, per i più, sconosciuta.
Eppure tale oblio non pare contrastare con la ricchezza della sua biografia: nel 1860 Ellero fu nominato professore di filosofia del diritto all’Accademia scientifico-letteraria di Milano. Dal 1861 al 1880 insegnò diritto e procedura penale all’Università di Bologna, ove formò diversi allievi, tra i quali sono da ricordare Enrico Ferri, Leonida Bergamaschi Bissolati e Giacomo Matteotti. Fu consigliere della Corte di cassazione di Roma, Consigliere di Stato, Presidente onorario di sezione del Consiglio di Stato, componente della Commissione per la stesura del codice penale nel 1865 e nel 1880, membro della Commissione per il trattato di pace con l’Austria nel 1866, fondatore della rivista «Archivio giuridico» nel 1868, nonché membro della Giunta per l’esame del progetto del nuovo codice penale nel 1888.
Ellero crebbe culturalmente in quell’ambiente lombardo che vedeva protagonista Carlo Cattaneo, il cui movimento di idee per la riforma del diritto penale in quel periodo era assai fervido [2]. Si ricordino le posizioni espresse sulla questione carceraria da Cattaneo, il quale sosteneva la necessità di evitare la concentrazione di detenuti in spazi stretti e di favorire per quanto possibile l’introduzione in carcere dell’attività lavorativa, «ristoro che solo può render sopportabile quella vita»[3], cosicché in quell’ambiente detentivo «nessuno diventa peggiore» [4].
Pietro Ellero è stato da molti considerato un esponente del socialismo giuridico penale, aspro critico delle ingiustizie sociali e sostenitore della necessità di un processo di rinnovamento delle istituzioni e di una modernizzazione intellettuale del Paese[5].
Nell’ambito di questa sua dimensione culturale, Ellero ricoprì un ruolo di primo piano nel dibattito per l’abolizione della pena capitale e tra le iniziative più importanti ci fu la fondazione e la pubblicazione di un periodico: il «Giornale per l’abolizione della pena di morte».
In realtà questa tensione abolizionistica vibrava nell’anima di Ellero fin dagli studi universitari.
Nel 1858, appena venticinquenne, si laureò all’Università di Padova con una tesi in giurisprudenza dal titolo Della pena capitale, nella quale contrastava le tesi favorevoli all’estremo supplicio, diffuso in molti paesi europei e negli stati italiani preunitari, a eccezione del Granducato di Toscana. Alla laurea seguì, tuttavia, il processo penale. La pubblicazione della tesi sotto forma di un libro interessò la polizia austriaca che formalizzò l’atto di denuncia nei confronti di Ellero per il reato di perturbazione della pubblica tranquillità.
Il paragrafo 65 del Codice penale austriaco del 1852, vigente nel Regno Lombardo-Veneto, prevedeva, infatti, che commette tale delitto chiunque «in pubblico od in presenza di più persone, ovvero in opere stampate, in iscritti, figure o disegni diffusi cerca di eccitare al disprezzo od all’odio contro la persona dell’Imperatore, contro il nesso politico dell’Impero, contro la forma di governo, o l’amministrazione dello Stato»; la pena prevista era «duro carcere da uno a cinque anni», sanzione che prevedeva che il condannato fosse «tenuto con ferri ai piedi» e in isolamento.
Agli occhi dei gendarmi austriaci Ellero aveva perturbato la pubblica tranquillità scrivendo una frase, dal sapore sovversivo: «per tutte le suesposte ragioni la pena di morte è inutile, immorale, ingiusta; ed è una convenienza politica, un dovere etico, un obbligo giuridico il proscriverla»[6].
Questo convincimento, epigrammatico nella sua essenzialità, dopo una prima assoluzione avanti il Tribunale di prima istanza, fece condannare Ellero dal Tribunale d’Appello di Venezia.
Il giurista propose ricorso alla Corte Suprema di Giustizia in Vienna, affidando tutta la propria difesa al saggio dal titolo «In difesa della imputazione di perturbata tranquillità pel libro ‘Della pena capitale’», testo pubblicato a Venezia dal «Giornale di giurisprudenza pratica» [7].
Ellero si difese sostenendo che quella frase era parte di una tesi di laurea, indirizzata esclusivamente agli studiosi di discipline giuridiche e filosofiche e priva, pertanto, di alcuna finalità politica o sovversiva. La Corte di Vienna archiviò il processo con la formula «per ossequiata volontà sovrana», così da domare clamore che la vicenda stava suscitando.
Ma nel certificato del casellario giudiziale, pur bianco, non sono annotate le tracce che sulla vita degli uomini vengono comunque lasciate da un processo penale. Nonostante il proscioglimento, infatti, Ellero si vide negare la docenza dall’Università di Padova, allora sotto il dominio austriaco[8].
Il tema della pena capitale restava, comunque, di estrema attualità.
Con l’unificazione del Regno d’Italia, infatti, il dibattito non svanì, sì ampliò a tal punto da diventare argomento di discussione giuridica e filosofica: il mantenimento o l’abolizione della pena di morte rappresentava una tappa obbligata nel processo unitario cui doveva prender parte anche il diritto penale. L’abolizione risultava il principale elemento ostativo all’unificazione legislativa e tale rimase fino all’approvazione del Codice Zanardelli. Solo in Toscana la pena capitale non risultava in vigore al momento dell’annessione al Regno sabaudo.
Le possibili soluzioni circa la unificazione risultavano quindi sostanzialmente due: o l’estremo supplizio veniva reintrodotto anche in Toscana oppure l’abolizione doveva essere estesa su tutto il territorio nazionale.
Già il 10 maggio 1860 il deputato Angelo Mazzoldi propose alla Camera dei Deputati la proposta di abolizione «dal consorzio civile» della pena capitale «siccome marchio di ferocia senza diritto e senza bisogno»[9], proposta che non fu approvata perché ritenuta intempestiva rispetto alla mancata «unificazione della legislazione penale del regno»[10].
Nel 1861 Pietro Ellero e Francesco Carrara decisero dunque di fondare il Giornale per l’abolizione della pena di morte, con lo scopo di sostenere la tesi abolizionista ed attuare un profondo rinnovamento dell’ordinamento penale italiano.
Il periodico uscì nelle edicole tra il 1861 ed il 1864, in 12 numeri, tutti caratterizzati da una forte idealità e da un approccio prettamente teorico [11].
Obiettivo primario del Giornale era di raccogliere i più illustri contributi in una sola rivista, al fine di coinvolgere il più possibile l’opinione pubblica nel dibattito abolizionista.
Il primo numero si apriva con un manifesto programmatico nel quale Ellero dichiarava quale fosse l’obiettivo principale dell’iniziativa editoriale: quello «di vedere, se questa umanità, che ha creduto sin ora spegnere legittimamente le vite, non abbia fin ora per avventura commessi altrettanti assassinii»[12].
Scriveva Ellero nel Programma, che «in tutti gli uomini balena almeno il timore della illegittimità dell’estremo supplicio, dal sovrano che lo decreta alla donnicciuola che lo contempla; ed è timore sempre rinascente e sempre ansioso. […] I tribunali non pronunciano sentenze, senza che o la difesa o l’accusa, o ciascun giudice nella sua coscienza, non accennino al terribile problema. […] In fine il dubbio è entrato nelle menti sulla legittimità o meno di cotal sanzione, e codesto dubbio non è ancora cessato» [13]. «Questo il motivo pel quale», spiega Ellero, «una schiera d’uomini, che qualsivoglia avversario dovrà almeno dire onesti, si è riunita allo intento di propugnare in una umile rivista trimestrale l’abolizione dell’estremo supplicio» [14].
Il Giornale avrebbe continuato a uscire sino al conseguimento dell’abolizione, la vita editoriale dipendeva dal permanere della morte come sanzione: «La durata prefissa a cotal opera è di necessità precaria: perocchè, esaurita la discussione, appagato il voto, assicurato il trionfo, essa non ha più ragione d’esistere. Quindi la vita di questo giornale dura sino a che rimane in diritto la morte: nasce col desiderio e colla speranza di non vivere a lungo, nasce per morire» [15].
Le ragioni che la corrente abolizionista intendeva portare avanti sulle pagine del Giornale, seppur con approcci metodologici diversi, muovevano tutte dal presupposto unitario della inviolabilità della persona: «la schiavitù era la violazione d’uno dei diritti supremi della personalità umana, la libertà; come la pena capitale è la violazione dell’altro supremo diritto, la esistenza» [16].
Sotto tale profilo il pensiero di tutti i collaboratori del Giornale risultava pienamente coincidente: negando che lo scopo della pena fosse, anche solo indirettamente, l’intimidazione, la morte come pena non poteva considerarsi ammissibile [17].
Le firme che parteciparono al Giornale furono numerose e di provenienza eterogena da tutto il mondo culturale.
Nello stesso manifesto programmatico Ellero preannunciava l’eclettismo che avrebbe animato il progetto editoriale: «poiché si vuole svolgere la questione in tutti i modi e sotto tutti gli aspetti possibili, e vi prendon parte tante persone di diverse scuole e dottrine, è naturale che sempre non vi sia medesimezza di teorie, sociali e giuridiche. […] si è pure invocato il soccorso della filosofia morale e delle lettere. Né manco bandita è la poesia, memori come ne’ prischi tempi le stesse leggi fossero imposte alle feroci schiatte umane collo incanto irresistibile de’ carmi» [18].
Vennero coinvolti nel «nostro giornaluccio» illustri giuristi italiani e, in un respiro europeo che circolava nello spirito della rivista, anche stranieri. Vale la pena ricordare il già citato Francesco Carrara, che ebbe a pubblicare sul Giornale una serie di interventi tratti dalle proprie lezioni universitarie; Errico Pessina con il contributo «Teoremi giuridici intorno alla Scienza delle prigioni», nel quale evidenziò come una delle finalità della pena detentiva dovesse essere il recupero educativo del condannato[19] e i giuristi tedeschi Carl Joseph Anton Mittermaier e Joachim Wilhelm Franz Philipp von Holtzendorff.
Di quest’ultimo studioso fu pubblicata la relazione tenuta il 14 giugno 1862 presso la Società dei giuristi di Berlino, nel corso della quale si dava risalto alla pubblicazione del Giornale, del quale però veniva criticato l’eccessivo spazio dedicato agli argomenti di tipo «piuttosto filosofico e morale che pratico e politico»[20].
Anche lo stesso Mittermaier, fin dal suo primo intervento sul Giornale, richiamò l’attenzione sulla la necessità di sostenere le ragioni abolizionistiche sulla base di un approccio metodologico pratico e non solo filosofico-speculativo: «presso un gran numero d’uomini influenti la persuasione, che non si possa far senza di tale tema, può soltanto essere scossa con ragioni pratiche, fondate sui fatti: per codesti signori non hanno valore le discussioni filosofiche. Cerchi ella (riferito ad Ellero) di adoperare adesso nel suo giornale di cotali ragioni pratiche»[21].
Questi moniti non trovarono ascolto in Ellero, il quale, spinto da una urgente necessità di esplorare ogni angolo del sapere umano coinvolto nel tema abolizionista, sosteneva invece che «in un periodico criminale doversi tenere a calcolo questo indirizzo», costituito anche dall’attenzione alle opere più letterarie e poetiche, ciò in quanto «talora il poeta vede più a fondo e più lontano del giureconsulto»[22].
Ecco dunque che contributi importanti confluirono sulle pagine del Giornale da noti esponenti di ogni disciplina e scienza.
Sul periodico scrissero poeti come Giosuè Carducci [23], ma anche linguisti e glottologi come Emilio Teza o Nicolò Tommaseo. Quest’ultimo, in particolare, osservò come la pena di morte dovesse essere abbandonata perché rendeva irrimediabile un giudizio umano pronunciato all’esito di argomenti e di testimonianze, la cui interpretazione poteva esser sempre sottoposta a revisione perché mutevole era il significato delle parole con le quali venivano espressi: «Or un momento di negligenza, di distrazione, non che un moto di quasi involontaria parzialità, che cada nel punto in cui trattisi di pesare il valore d’un argomento, d’indovinare il senso d’una parola in un deposto, di leggere cotesto senso arcano nel viso e negli atti dell’accusato o del testimone, può essere quello da cui penda l’onore d’un uomo e la vita?»[24].
Il Giornale accolse saggi ed editoriali di contenuto sociologico e psicologico, come il contributo dello psicologo Carlo Livi, il quale si soffermò sugli effetti destabilizzanti per la psiche che l’esibizione della pena capitale avrebbe provocato: «Nè io intesi certo fare una confutazione generale della pena di morte: intesi solo combatterla da quel lato che io come medico poteva afferrare, dal lato degli effetti che lo spettacolo di lei, spettacolo di sangue e di inumanità, di ferocia, poteva indurre nella nostra natura fisica e morale» [25].
Sul Giornale Ellero non perdeva inoltre occasione per invitare i lettori a nutrirsi di letteratura italiana e straniera, in particolare di quei romanzi nei quali fosse comunque trattato il tema della pena, come il romanzo I miserabili di Victor Hugo: era la cd. «letteratura criminale, la quale si volge all’analisi delle passioni più terribili ed o mostra nel suo spaventoso aspetto il delitto, o gli errori de’ tribunali o gli orrori de’ supplizi» [26].
Ellero promosse e organizzò numerosi incontri pubblici: a Firenze, a Perugia, a Napoli, a Milano, il più importante dei quali fu quello organizzato l’8 gennaio 1865 al Teatro Comunale di Bologna, nel corso del quale prese la parola Giosuè Carducci [27].
La battaglia contro la pena capitale sembrò vinta il 13 marzo del 1865 quando la Camera dei Deputati, dopo un vigoroso discorso di Francesco Stanislao Mancini e la relazione di Giuseppe Pisanelli, votò a larga maggioranza a favore dell’abrogazione.
Quasi un mese dopo tuttavia, il 22 aprile 1865, il Senato si espresse in senso contrario all’abolizione. Pietro Ellero, nonostante avesse fatto ritardare alcuni numeri della rivista «fino a che l’alta tesi fosse discussa in parlamento» [28], dovette constatare che «il risultato mancò»[29]. La rivista fu chiusa l’8 maggio 1865, con un appassionato e sconfortato editoriale dal titolo «Epilogo del giornale per l’abolizione della pena di morte» [30].
Nel lungo addio Ellero si rammarica della «siffatta discordia delle due assemblee in punto sì essenziale, sì profondamente giuridico»[31]; censura aspramente come ogni rappresentante del popolo avesse manifestato a parole il proprio sostegno alla tesa abolizionistica, salvo poi tradire tali convincimenti con un contrario voto parlamentare[32]; lamenta che la mancata unificazione nazionale della legislazione penale determinava evidenti contraddizioni, come il trasferimento della capitale a Firenze qualche mese prima, il 3 febbraio 1865, ove la pena di morte non poteva essere eseguita essendo stata abolita sin dal 1786 [33].
Ellero risponde inoltre alle critiche, mosse soprattutto dal Mittermaier, relative alla natura eccessivamente filosofica e accademica delle tesi spese sul Giornale, a discapito di argomentazioni basate su dati statistici circa l’assenza dell’effetto deterrente della pena capitale: «Eh via, un tal rimprovero lo accettiamo di buon grado; ne avevamo bisogno noi italiani, noi uomini di poca morale, e meglio devoti alle scaltre arti dell’utile che alle severe speculazioni del giusto. […] Decidere la convenienza dell’abolizione del patibolo con un faticoso inventario delle cause, delle condanne e delle esecuzioni capitali; rilevare la efficacia o la inefficacia del medesimo dalla diversa proporzione di questi dati, oltreché criterio estrinseco, ci ha sempre sembrato parziale e incerto. In ogni modo […] noi avevamo miglior compito di raccogliere suffragi e proteste, di avvincere ai principi per lo mezzo de’ sentimenti, di suscitare un movimento intellettuale» [34].
Sul finale Ellero censura l’inerzia delle Assemblee legislative per constatare amaramente come le ragioni della politica abbiano prevalso sui principi giuridici, così da rendere l’Italia indegna del raggiungimento del nobile obiettivo: «il nodo, il nodo con cui si ha strozzata una questione di diritto, è stato, come sempre, una questione di opportunità. […] Sia come si voglia, la inopportunità di proscrivere tra noi l’estremo supplicio, non si può che per due motivi ammettere, o che la nazione non vi fosse preparata, o che la nazione non ne fosse degna» [35].
Ellero auspica tuttavia che la sfida per l’abolizione della pena di morte possa esser condotta da associazioni già costituite, come il «Comitato esecutivo centrale per il monumento a Cesare Beccaria», poiché «come ogni rivoluzione civile e morale prima è opera d’individui, poi opera di masse, la nostra causa è entrata in quella nuova fase, nella quale tutta una moltitudine la accoglie come sua […] di guida che altra volta occorreva il giornale, ora occorre un’associazione»[36].
La pena di morte fu abolita nel 1889 col codice di Giuseppe Zanardelli, mentre in numerosi Paesi era già stata sostituita con altre pene.
Il ruolo del Giornale di Pietro Ellero apparve innegabile già all’epoca: non solo prima del 1861 non si rinviene alcuna iniziativa editoriale di così ampio respiro volta alla sensibilizzazione dell’opinione pubblica sulla questione abolizionista, ma con la pubblicazione della rivista il tema divenne di dominio pubblico. Se infatti inizialmente le tesi abolizioniste erano patrimonio di una ristretta élite di giuristi, con il Giornale tali posizioni finirono col diffondersi in misura sempre maggiore, sino a diventare largamente condivise. Addirittura, alcuni sostenitori dell’opposta tesi effettuarono drastiche inversioni di marcia, generalmente accompagnate dal tentativo di fornire delle giustificazioni ex post dei propri convincimenti passati [37].
Deve inoltre riconoscersi al Giornale il fondamentale merito di aver costituito una ricca fucina di argomenti a favore della tesi abolizionistica, facendoli transitare dall’edicola al Parlamento. La discussione politica intorno al progetto del codice Zanardelli si caratterizzò infatti anche per l’impiego di argomenti sviluppati nel Giornale [38].
Il raggio d’influenza culturale del Giornale oltrepassò il perimetro del dibattito sulla pena capitale, avviando un processo di rinnovamento dello stesso giornalismo giuridico, che si aprì progressivamente ad altre discipline del sapere.
La massima espressione di tale novità si ebbe nelle pagine della Rivista Penale di Luigi Lucchini, il quale vi ospitava interventi sull’antropologia, sulla psichiatria e sulla medicina legale, dimostrando la necessità di avviare riflessioni trasversali tra diritto e società, come aveva sperimentato Pietro Ellero [39].
L’opera culturale messa in atto da Ellero con la pubblicazione del Giornale dimostra la necessità, ancora oggi, che la riflessione giuridica non si chiuda in un isolamento tecnicistico autoreferenziale, ma debba continuamente accogliere e confrontarsi con argomenti e riflessioni provenienti da altre latitudini del sapere umano, in una continua ricerca di arricchimento reciproco, proprio perché «talora il poeta vede più a fondo e più lontano del giureconsulto».
[1] Coco, Pietro Ellero, su Il Messaggero, 3 marzo 1933, XI, 3.
[2] Mazza, Critica della ragion penale, Key Ed., 2019, 166.
[3] Cattaneo, Delle càrceri, in Scritti politici, Boneschi (a cura di), Le Monnier, 1964, 302.
[4] Cattaneo, op. cit., 309.
[5] Sbriccoli, Il diritto penale sociale, in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, III/IV, Giuffrè, 1974-75, 599.
[6] Ellero, Della pena capitale, in Trattati Criminali, Ed. Fava e Garagnani, 1875, 25.
[7] Ellero, In difesa della imputazione di perturbata tranquillità del libro della pena capitale in Scritti Minori, Ed. Fava e Garagnani, 1875, 175-184; cfr. altresì Mazza, op. cit., 166.
[8] Ellero, La sovranità popolare, Tip. Fava e Garagnani, 1886, 8.
[9] Giornale per l’abolizione della pena di morte, I, VII, Hardward Law Library, 58.
[10] Ib., 59.
[11] D’Amico, Educazione giuridica e battaglia abolizionista nel Giornale per l’Abolizione della pena di morte di Pietro Ellero, in Aa. Vv., Formare il Giurista. Esperienze nell’area lombarda tre Sette e Ottocento, M.G. Di Renzo Villata (a cura di), in Rivista di storia del diritto italiano, LXXVII, 2004, 577-605.
[12] Ellero, Giornale, op. cit., I, 4.
[13] Ellero, ib., 4.
[14] Ellero, ib., 6.
[15] Ellero, ib.,12.
[16] Ellero, ib., 8.
[17] Carrara, Una lezione dettata nella regia Università di Pisa, in Giornale, op. cit., I, n. 1, 13 e segg. e n. 2, 80 ss.
[18] Ellero, Giornale, op. cit., 11 e 12.
[19] Pessina, Giornale, op. cit., II, 140: «Tutto il sistema penitenziale ha per elemento informatore il dogma dello emendamento del reo, come ce lo addita la parola stessa della penitenza tolta a prestanza dalle credenze cristiane».
[20] Holtzendorff, Giornale, op. cit., II, 53.
[21] Mittermaier, Lettera al Direttore, Giornale, op. cit., I, 78.
[22] Ellero, Giornale, op. cit., I, 322.
[23] Mazza, op. cit., 170.
[24] Tommaseo, Da un discorso inedito sulla pena di morte, in Giornale, op. cit., 76.
[25] Livi, in Giornale, op. cit., 92
[26] Ellero, Giornale, op. cit., I, 322-323.
[27] Ellero, Giornale, op. cit., III, 314 ss. e IV, 353.
[28] Ellero, Giornale, op. cit., 406.
[29] Ellero, ib., 406.
[30] Ellero, ib.
[31] Ellero, ib.
[32] Ellero, Giornale, op. cit., 410: «Ognuno è d’accordo nel desiderare l’abolizione della pena di morte; ma altro è desiderarla, altro procacciarla, e per alcuni basta desiderare, appunto come si desidererebbe la età aurea, e costoro credono aver fatto il loro dovere».
[33] Ellero, ib.: «e intanto la sede del re, del parlamento, del governo si trasporta a Firenze col patibolo, a Firenze dove non può funzionare. La mancata unificazione delle leggi, l’onta alla moralità pubblica e alla dignità nazionale pel fatto che vi sono italiani soggetti al patibolo e italiani che nol sono, reati puniti diversamente secondo il luogo, […] tutto ciò costituisce un tale doloroso contrasto, che piuttosto si può sentire che esprimere».
[34] Ellero, Giornale, op. cit., 415.
[35] Ellero, Giornale, op. cit., 411.
[36] Ellero, Giornale, op. cit., 417.
[37] Si fa riferimento a esponenti della tesi anti-abolizionistica come l’avv. Gennaro De Filippo, senatore e Ministro di Grazia e Giustizia e Culti del Regno d’Italia nei Governi Menabrea, nonché lo stesso Luigi Federico Menabrea. Sul punto, Torini, Gli albori della campagna abolizionista, in Historia et ius. Rivista di storia giuridica dell’età medievale e moderna, 7/2015, 14, in http://www.historiaetius.eu/uploads/5/9/4/8/5948821/torini_7.pdf.
[38] Torini, op. cit., pag. 27.
[39] Sul tema si faccia riferimento al numero monografico Riviste giuridiche italiane (1865-1945), in Quaderni fiorentini per la storia del pensiero giuridico moderno, XVI, Giuffrè, 1987.