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Ancora una pronuncia di legittimità sull’utilizzabilità, come prova documentale, dei messaggi estrapolati da dispositivi mobili

Segnalazione giurisprudenziale

Cass., Sez. VI, 21 settembre 2023, n. 38678 (Pres. – Di Stefano; Rel. – Costanzo)

Abstract: In seno alla giurisprudenza di legittimità ormai non si discute più sul fatto che gli sms e le conversazioni WhatsApp o d’altra messaggistica istantanea costituiscano prova documentale. Viceversa, a seguito di Cass., Sez. VI, 21 settembre 2023, n. 38678, riemerge la controversia sull’utilizzabilità, o meno, di tali documenti, in mancanza del device di riferimento (utile a riscontrare l’autenticità del dato probatorio acquisito).

According to the Cassation’s jurisprudence, there is now no debate about the nature of text messages and WhatsApp or other instant messaging’s conversations: it’s documentary evidence. But, after Cass., Sec. VI, Sept. 21, 2023, No. 38678, raises again the controversy on the usability of such documents, in the absence of the device containing them (useful to find the authenticity of the acquired evidentiary data).

Sommario: 1. Ritenuto in fatto. – 2. Considerato in diritto. – 3. Riflessione critica.

1. Ritenuto in fatto

La Corte d’appello riforma la decisione di primo grado, ribaltandola. I giudici di seconde cure ritengono che “il fatto non sussiste” perché sussiste piuttosto un ragionevole dubbio in merito alla condotta contestata. Nell’ambito di tale valutazione, viene valorizzata la produzione probatorio-documentale dell’imputato ex art. 603 c.p.p. In particolare, “si valuta che i contenuti delle conversazioni su WhatsApp […] mostrano un [contesto] antitetico rispetto a quello al quale si riferiscono le accuse mossegli, e la presentazione della querela […] non appare aliena dal sospetto di possibili strumentalizzazioni”. Sicché si trasforma la condanna in assoluzione.

Avverso tale pronuncia ricorre la persona offesa costituitasi parte civile, chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata e il risarcimento dei danni. Con il primo motivo di impugnazione, si deduce la violazione della legge n. 48 del 2008 e, di conseguenza, si assumono violati altresì gli articoli del codice di rito modificati alla luce di tale normativa (i.e. artt. 244, co. 2, 247, co. 1-bis, 254-bis, 352, co. 1-bis e 354 c.p.p.). Nello specifico, si sostiene che i messaggi WhatsApp – risultati decisivi ai fini della reformatio in melius – non siano stati acquisiti “secondo modalità corrette, perché la mera stampa di una serie di messaggi non ha valore probatorio in sé, se non viene verificata la attribuibilità con una perizia che dimostri la provenienza dal dispositivo telefonico da cui si dicono tratti, acquisendo il dispositivo con tutti i dati che esso contiene e non soltanto la conversazione che interessa”. Col secondo motivo di impugnazione, poi, si ritiene violato l’art. 125, co. 3 c.p.p. per “omessa motivazione in relazione all’implicito rigetto [i)] della richiesta della parte civile che l’acquisizione dei messaggi WhatsApp in formato .word fosse accompagnata dalla produzione del cellulare da cui sono stati estrapolati e del cellulare della vittima e/o da una perizia informatica per appurare la genuinità e la provenienza dei messaggi”, nonché ii) della richiesta del procuratore generale di sentire due testi su aspetti rilevanti della vicenda in esame.

Al contrario, la memoria difensiva depositata propende per la declaratoria di inammissibilità del ricorso, giacché “la parte civile non ha impugnato l’ordinanza istruttoria” che ha ammesso la prova di cui adesso si duole, ma si è “limitata a rimettersi alla decisione della Corte senza formulare opposizione e chiedendo soltanto, qualora i documenti fossero stati acquisiti, lo svolgimento di una perizia per verificare la provenienza delle chat”; “né la parte civile ha disconosciuto i contenuti delle conversazioni prodotte”.  

2. Considerato in diritto

La Cassazione risolve la faccenda in due paragrafi e quindi tira le fila nel terzo, ove sentenzia che “il ricorso va rigettato, con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali”.

Il primo passaggio motivativo è, in buona sostanza, di ius receptum. Anzitutto viene ricordato che, “nel vigente sistema processuale, caratterizzato dalla dialettica delle parti (alle quali è attribuito l’onere di allegare le prove a sostegno delle rispettive posizioni), il giudice è tenuto a provvedere sulle relative richieste sulla base dei parametri di ammissibilità enunciati dall’art. 190, co. 1 c.p.p.”. Subito dopo, ed è qui che si comincia ad affrontare la questione oggetto del giudizio, si ricorda che “i messaggi WhatsApp e gli sms conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ex art. 234 c.p.p., sicché è legittima la loro acquisizione mediante mera riproduzione fotografica, non applicandosi né la disciplina delle intercettazioni né quella relativa all’acquisizione di corrispondenza ex art. 254 c.p.p.: infatti, non si è in presenza della captazione di un flusso di comunicazioni in corso, bensì della mera documentazione ex post di detti flussi”.

Lo sviluppo motivazionale che segue, con il secondo passaggio argomentativo del ragionamento della Sesta sezione, è invece una rimessa in discussione dell’ultimo approdo giurisprudenziale a cui si era giunti in materia. Ecco il punto saliente: “per la concreta utilizzabilità della trascrizione delle conversazioni via WhatsApp, la necessità di acquisire il supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione deve essere valutata in concreto”.

Calando infine la propria ricostruzione sul caso di specie, i giudici di legittimità concludono rigettando – come si è detto – l’istanza della parte civile, perché quest’ultima “non si è opposta alla produzione documentale (della difesa), ma ha chiesto [soltanto] che nel caso di acquisizione fosse prodotta una perizia per verificare la provenienza delle conversazioni”. Pertanto, “la difesa della parte civile non ha contestato i contenuti delle conversazioni in sé considerati e la loro idoneità, come ritenuto dalla Corte di appello, a condurre a una rivalutazione del quadro probatorio rispetto alla sentenza di primo grado. Né ha sviluppato argomentazioni circa la non decisiva rilevanza, nella prospettiva dell’assoluzione, dei contenuti delle conversazioni via WhatsApp acquisite”.

3. Riflessione critica

La sentenza che segnaliamo si attenziona per l’affermazione secondo cui, “per la concreta utilizzabilità della trascrizione delle conversazioni via WhatsApp, la necessità di acquisire il supporto telematico o figurativo contenente la relativa registrazione deve essere valutata in concreto”.

Difatti, almeno in giurisprudenza, ormai più nulla quaestio sulla natura documentale degli sms e delle conversazioni WhatsApp o appartenenti ad altra messaggistica istantanea (v. Cass., Sez. II, 19 ottobre 2022, n. 39529, A.; Cass., Sez. VI, 16 marzo 2022, n. 22417, Sgromo; Cass., Sez. V, 6 maggio 2021, n. 17552, in www.altalex.it, 20 maggio 2021, annotata da I. Conti, Gli sms e le conversazioni WhatsApp hanno natura di prova documentale;  Cass., Sez. III, 2 marzo 2020, n. 8332, R.; Cass., Sez. VI, 12 novembre 2019, n. 1822, Tacchi; Cass., Sez. I, 20 febbraio 2019, n. 21731, Alabi; Cass., Sez. III, 13 gennaio 2016, n. 928, Giorgi). Quel che torna a essere controverso è l’utilizzabilità, o meno, del dato probatorio acquisito anche in assenza del sequestro dell’apparecchio per riscontrarne l’autenticità.

La pronuncia de qua riapre dunque quella contrapposizione, da alcuni ritenuta chiusa e “superata” (A. Scarcella, I messaggi WhatsApp e gli sms sono documenti utilizzabili anche in assenza del device, in www.altalex.it, 4 novembre 2022), in seno all’organo della nomofilachia a proposito della necessità di condizionare l’utilizzo delle chat trascritte all’acquisizione del supporto (telematico o figurativo) che contiene la registrazione – cioè, il file originario – di tali conversazioni, sì da apprezzarne la genuinità prima di poterle impiegare a fini decisori. Si assiste a un recupero dell’orientamento che impone di controllare la sorgente da cui scaturiscono le conversazioni (v. Cass., Sez. V, 24 gennaio 2022, n. 2658; Cass., Sez. V, 25 ottobre 2017, n. 49016; Cass., Sez. II, 6 ottobre 2016, n. 50986; Cass., Sez. V, 2 febbraio 2016, n. 4287, Pepi). Il richiamo non è tuttavia pedissequo, in quanto viene arricchito da una puntualizzazione assai significativa: l’apprezzamento giudiziale. Al giudice, invero, Cass., Sez. VI, 21 settembre 2023, n. 38678, riconosce il potere discrezionale di valutare “in concreto” se occorra acquisire, oppure no, il dispositivo dal quale sono stati estrapolati i messaggi trascritti e già processualmente acquisiti in veste di documenti.

Principalmente tre, a parere di chi scrive, sono le ricadute di sistema che una simile impostazione comporta.

  1. Si apre alla possibilità di mettere nuovamente in discussione l’impiego di una prova che è bell’e entrata nel processo ex artt. 190 e 234 c.p.p. e che, ai sensi dell’art. 526 c.p.p., è legittimamente utilizzabile per sentenziare sulla colpevolezza dell’accusato. Per giunta, la scure dell’inutilizzabilità la si affida a una valutazione in concreto relativa al compimento di un’attività – non oggettivamente prefissata dalla legge, generale e astratta (cfr. art. 191 c.p.p.), ma stimata opportuna e – determinata case by case, da parte del giudicante. Il divieto probatorio diventa così, stando a questa chiave di lettura, una sanzione di genesi pretoria e non legale.
  2. Inoltre, si assiste a una sorta di ultra-operatività eventuale dell’inutilizzabilità, che comporta una sovrapposizione fra piani concettuali distinti e che snatura il fisiologico dipanarsi dell’accertamento. Il momento valutativo, che sta a valle dell’itinerarioprobatorio ed è caratterizzato/orientato da certi criteri e standard di giudizio, è intaccato da considerazioni attinenti al momento acquisitivo, che si colloca viceversa in una fase precedente del procedimento ed è caratterizzato/orientato da certi altri, differenti criteri e standard di giudizio. In questa commistione, peraltro, può addirittura capitare che una prova presente in atti, poiché regolarmente richiesta e ammessa, non venga nemmeno valutata nella sua bontà epistemologica bensì semplicemente estromessa dall’insieme delle prove disponibili, a causa dell’importanza attribuita a un’evenienza che nulla ha a che vedere con i parametri dell’art. 190 c.p.p. La mancanza dei file originali da cui sono stati estratti i messaggi trascritti – file che magari sono pure spariti dal dispositivo di riferimento perché sono stati eliminati ([1]) – può comportare che dal processo venga rimosso (recte venga ritenuto inutilizzabile) quell’elemento probatorio.
  3. In questo modo, ciò che si è fatto entrare come documento lo si esclude in virtù di una previsione che non appartiene alla disciplina legislativa della prova documentale. Si finisce per creare un ibrido tramite l’innesto, all’interno del regime delineato dagli artt. 234-243 c.p.p., di un precetto che dissimula la procedura dettata per le intercettazioni (artt. 266-271 c.p.p.). In effetti, ricorda molto da vicino il rapporto intercorrente tra registrazioni audio e brogliacci d’ascolto quel vaglio che si richiede di compiere tra chat originaria contenuta nel device da sequestrare e trascrizioni che riportano il contenuto di tale chat. E la somiglianza è tanta da creare confusione, col risultato che questi messaggi rischiano di essere trattati – a fasi alterne – sia come documenti che come intercettazioni… con evidenti disparità procedurali, a seconda della qualifica attribuita, in termini di garanzie.

Evidenziate queste criticità e considerata la portata nonché i riflessi pratico-operativi della problematica, è allora auspicabile un intervento delle Sezioni unite che risolva ‘finalmente’ la diatriba (cfr. art. 618, co. 1-bis c.p.p.) e che chiarisca – ordinandoli – quantomeno gli aspetti critici che si sono appena accennati.


([1]) Per di più, alcuni applicativi di messaggistica –  es., Telegram – permettono persino l’eliminazione unilaterale dell’intera chat per entrambi i soggetti in essa coinvolti. Allo stato attuale, uno solo dei partecipanti alla conversazione (sia questi il mittente o il destinatario, indifferentemente) può – a suo piacimento – cancellare dalla memoria del dispositivo, proprio e altrui, tutte le comunicazioni fino a quel momento intercorse.

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