Trib. sorv. Perugia, 3 dicembre 2020, n. 1239, Restivo, Presidente, Gianfilippi, Relatore
Con ordinanza n. 2020/1239, il tribunale di sorveglianza di Perugia ha accolto il reclamo di un detenuto, condannato all’ergastolo ostativo e non collaborante, avverso il provvedimento di inammissibilità del magistrato di sorveglianza di Spoleto, volto ad ottenere la misura del permesso premio ex art. 30 ter O.P.
In data 23 maggio 2019, il tribunale di sorveglianza di Perugia aveva sospeso il procedimento e sollevato questione di legittimità dell’art. 4 bis O.P. in relazione ai permessi premio chiedendo alla Consulta di valutare la compatibilità con la Costituzione ed in particolare, con gli artt. 3 e 27, di una normativa che stabilisce preclusioni assolute all’accesso a un beneficio penitenziario, il permesso, la cui natura è considerata del tutto peculiare.
Il permesso premio è concepito, infatti, come un momento trattamentale. Fa parte del programma di rieducazione del condannato e costituisce il primo approccio con l’esterno e la vita libera finalizzato alla verifica della effettiva rivisitazione critica da parte del ristretto dei propri errori e della raggiunta capacità di essere reintrodotto in società.
L’impossibilità per il detenuto di accedere a tale opportunità in virtù di un meccanismo di sbarramento normativo appariva, infatti, incongruente in rapporto alla vocazione rieducativa di ogni pena anche in ragione della constatazione che, oltre alla collaborazione con la giustizia, sussistono per il ristretto che non abbia più collegamenti con la criminalità organizzata, altri modi per dimostrare in modo fattivo la propria presa di distanza dal malaffare ed il proprio autentico ravvedimento.
La Corte Costituzionale ravvisava la dedotta incostituzionalità pur apportando specifiche e puntuali precisazioni.
Richiamava la sentenza n. 306 del 1993 che, pur dichiarando non fondate le questioni allora sollevate sull’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit, in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost., aveva osservato “che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una «rilevante compressione» della finalità rieducativa della pena: «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» in caso di mancata collaborazione” (C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 G. Cannizzaro, A. Pavone).
“Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima, afferma la Corte. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria. Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari. In un primo senso, perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante. In un secondo senso, perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost. In un terzo senso, perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.
Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, è espressione di una trasparente opzione di politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel percorso carcerario del condannato – attraverso il decisivo rilievo attribuito alla collaborazione con la giustizia anche dopo la condanna – elementi estranei ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena. La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. Per i condannati per i reati elencati nella disposizione censurata, infatti, è costruita una disciplina speciale (sentenza n. 239 del 2014), ben diversa da quella prevista per la generalità degli altri detenuti. Essi possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino, ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver scontato le frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto per l’ammissione a ciascun singolo beneficio (previste per il permesso premio dall’art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece collaborino secondo le modalità contemplate dal citato art. 58-ter, a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la frazione di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione interpretativa già individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174 del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016, n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434). La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacché, in presenza di collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria. Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa” (C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 G. Cannizzaro, A. Pavone, § 8.). […]La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149 del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006).
Le ragioni di carattere investigativo e repressivo, prosegue la Corte, “sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo. Nella fase di esecuzione della pena”, tuttavia, afferma la Corte: “assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio. […]”Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione.
La Corte Costituzionale, dunque, rappresenta come ineludibili le esigenze di sicurezza e di protezione sociale del sistema ordinamentale da fenomeni criminali (Volume Amicus Curiae 2019: “Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti”, in Quaderni Costituzionali, Rassegna) violenti e pervicaci.
Richiede, pertanto, un regime probatorio che definisce ‘rafforzato’, da assolvere utilizzando tutte le informazioni degli organi di controllo quali le Procure delle Direzioni Distrettuali Antimafia e le Questure, un obbligo che “deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”.
Di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro ripristino – grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione” (C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 G. Cannizzaro, A. Pavone, § 9).
In ultima analisi, la Corte Costituzionale, nel dichiarare illegittima la norma di cui all’art. 4 bis O.P. laddove esclude la concessione di permessi a chi non collabora con la giustizia, premette la persistenza di un giudizio di pericolosità qualificata delle persone condannate per i delitti indicati nella norma in discorso ma ne sancisce una possibilità di superamento diversa dalla collaborazione con la giustizia, ferma la necessità di appurare la interruzione dei collegamenti con i sodalizi di origine e la impossibilità di ripristino di essi.
La presunzione, dunque, resiste ma da assoluta che era, è ora relativa e ammette un superamento attraverso un onere di allegazione che ricade sul ristretto al quale è chiesta la dimostrazione e della rescissione dei contatti e della impossibilità di ripristino. Una prova negativa che per non divenire probatio diabolica deve trovare ristoro da un lato nel contributo dell’osservazione degli operatori del carcere, dall’altro nell’approccio critico del magistrato di sorveglianza cui è restituita la funzione valutativa del percorso trattamentale non più inibita dalla preclusione del titolo di reato in espiazione.
Il Tribunale di sorveglianza di Perugia fa buon governo di tali principi e, all’esito di una istruttoria capillare ed esaustiva, perviene ad accogliere il reclamo del richiedente, detenuto ininterrottamente da oltre 25 anni, ed a concedergli le prime ore di libertà.
L’ordinanza appare estremamente rigorosa nell’allinearsi ai criteri guida forniti dalla Corte Costituzionale.
Il collegio, assunte le informazioni dagli organi di controllo, quali le direzioni distrettuali antimafia – che rappresentavano la perdurante pericolosità del soggetto in ragione della gravità oggettiva dei crimini commessi, della mancata collaborazione con la giustizia, della persistenza di fenomeni delinquenziali nei territori di appartenenza, dei legami affettivi con soggetti attinti da contestazioni di fattispecie associative – ne valutava la effettiva attualità e la capacità di incidere negativamente sul percorso detentivo compiuto dal reclamante. Lo stesso, infatti, come relazionato dagli operatori intramurari, già nel 2005, aveva ottenuto la revoca del regime detentivo derogatorio ex art. 41 bis, co. II, O.P. con un giudizio di interruzione dei collegamenti con il sodalizio delinquenziale; successivamente era stato ulteriormente declassato dal d.a.p. in virtù di una ravvisata attenuazione della pericolosità; aveva preso coscienza dell’orrore delle proprie condotte e manifestato nel tempo il convinto ripudio delle scelte del proprio passato ormai remoto; si era dedicato con passione agli studi, alla scrittura e alla poesia; si era intimamente avvicinato alla religione cattolica; aveva esplicitato le ragioni della mancata collaborazione nel terrore delle conseguenze drammatiche che ne sarebbero potute scaturire sul territorio per i propri familiari. Nella lunghissima detenzione, mai aveva intrattenuto contatti indebiti o era stato segnalato per atteggiamenti anche vagamente sospetti. I soggetti indicati nelle note informative come tuttora partecipi di consessi sodali ed in contatto con il richiedente erano risultati, in realtà, destinatari di provvedimenti di revoca delle misure di prevenzione in ragione di giudizi di cessata pericolosità. I rapporti, soltanto epistolari, erano, altresì, talmente sporadici da non poter risultare significanti. Ancora, il rango partecipativo del soggetto, all’epoca dei fatti, era di mero esecutore, non di rango apicale, il che agevolava ulteriormente la valutazione di piena estromissione dal contesto associativo. Alla luce di tali elementi tratti dall’osservazione del detenuto compiuta per oltre 25 anni dai soggetti a ciò deputati – che con lo stesso erano in costante contatto all’interno delle mura carcerarie e avevano modo di verificarne il comportamento, l’atteggiamento, le relazioni, il vissuto, il tenore di vita – il tribunale di sorveglianza esprimeva un giudizio di recisione del vincolo con il sodalizio di originaria appartenenza e di impossibilità di ripristino dello stesso e riteneva opportuno ed in linea con la tensione costituzionale di ogni pena alla restituzione dell’individuo in società, concedere al reclamante “la chiesta esperienza premiale, che costituirà ulteriore passaggio significativo del percorso intramurario dell’istante, che deve proseguire sotto il profilo dell’approfondimento della riflessione critica, e che consentirà di valutare, dopo una così lunga detenzione, la capacità del condannato di rispettare le prescrizioni įmpostegli” (Trib. Sorv. Perugia, ord. 2020/1239, p. 11).
Si tratta di una pronuncia estremamente importante che si allinea con l’indirizzo ormai costante della giurisprudenza della Corte Edu a partire dalla sentenza ‘Vinter c. Regno Unito’, che, già nel 2013, aveva affermato il diritto alla speranza come valore fondamentale in difetto del quale la pena è contraria al senso di umanità (CEDU, Grand Chamber, Vinter v. Regno Unito 9 luglio 2013, § 108).
. Coerentemente, nel ricorso ‘Viola c. Italia’, in data 13.06.2019, la Cedu ha ravvisato una violazione dell’art. 3 della Convenzione poiché una pena senza fine si traduce in una menomazione della dignità umana che “è nel cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno” (CEDU, Sez. I, sent. Viola v. Italia, 13.06.2019, § 43).
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La concessione del permesso premio al condannato all’ergastolo ostativo non collaborante
Trib. sorv. Perugia, 3 dicembre 2020, n. 1239, Restivo, Presidente, Gianfilippi, Relatore
Con ordinanza n. 2020/1239, il tribunale di sorveglianza di Perugia ha accolto il reclamo di un detenuto, condannato all’ergastolo ostativo e non collaborante, avverso il provvedimento di inammissibilità del magistrato di sorveglianza di Spoleto, volto ad ottenere la misura del permesso premio ex art. 30 ter O.P.
In data 23 maggio 2019, il tribunale di sorveglianza di Perugia aveva sospeso il procedimento e sollevato questione di legittimità dell’art. 4 bis O.P. in relazione ai permessi premio chiedendo alla Consulta di valutare la compatibilità con la Costituzione ed in particolare, con gli artt. 3 e 27, di una normativa che stabilisce preclusioni assolute all’accesso a un beneficio penitenziario, il permesso, la cui natura è considerata del tutto peculiare.
Il permesso premio è concepito, infatti, come un momento trattamentale. Fa parte del programma di rieducazione del condannato e costituisce il primo approccio con l’esterno e la vita libera finalizzato alla verifica della effettiva rivisitazione critica da parte del ristretto dei propri errori e della raggiunta capacità di essere reintrodotto in società.
L’impossibilità per il detenuto di accedere a tale opportunità in virtù di un meccanismo di sbarramento normativo appariva, infatti, incongruente in rapporto alla vocazione rieducativa di ogni pena anche in ragione della constatazione che, oltre alla collaborazione con la giustizia, sussistono per il ristretto che non abbia più collegamenti con la criminalità organizzata, altri modi per dimostrare in modo fattivo la propria presa di distanza dal malaffare ed il proprio autentico ravvedimento.
La Corte Costituzionale ravvisava la dedotta incostituzionalità pur apportando specifiche e puntuali precisazioni.
Richiamava la sentenza n. 306 del 1993 che, pur dichiarando non fondate le questioni allora sollevate sull’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit, in relazione all’art. 27, terzo comma, Cost., aveva osservato “che inibire l’accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una «rilevante compressione» della finalità rieducativa della pena: «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di “tipi d’autore”, per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» in caso di mancata collaborazione” (C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 G. Cannizzaro, A. Pavone).
“Non è la presunzione in sé stessa a risultare costituzionalmente illegittima, afferma la Corte. Non è infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza, purché si preveda che tale presunzione sia relativa e non già assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria. Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. – agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione – una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata.
Ciò sotto tre profili, distinti ma complementari. In un primo senso, perché all’assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull’ordinario svolgersi dell’esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante. In un secondo senso, perché tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost. In un terzo senso, perché l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza.
Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito nell’art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, è espressione di una trasparente opzione di politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel percorso carcerario del condannato – attraverso il decisivo rilievo attribuito alla collaborazione con la giustizia anche dopo la condanna – elementi estranei ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena. La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilità per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. Per i condannati per i reati elencati nella disposizione censurata, infatti, è costruita una disciplina speciale (sentenza n. 239 del 2014), ben diversa da quella prevista per la generalità degli altri detenuti. Essi possono accedere ai benefici previsti dall’ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi dell’art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino, ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver scontato le frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto per l’ammissione a ciascun singolo beneficio (previste per il permesso premio dall’art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece collaborino secondo le modalità contemplate dal citato art. 58-ter, a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la frazione di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione interpretativa già individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174 del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimità (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016, n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434). La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacché, in presenza di collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria. Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalità della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto è l’attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro è l’inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e perciò socialmente pericolosa” (C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 G. Cannizzaro, A. Pavone, § 8.). […]La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149 del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa è particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosità legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l’opzione repressiva finisce per relegare nell’ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006).
Le ragioni di carattere investigativo e repressivo, prosegue la Corte, “sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo. Nella fase di esecuzione della pena”, tuttavia, afferma la Corte: “assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che può comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalità del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed è questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosità posta a base del divieto di concessione del permesso premio. […]”Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non può che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilità di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l’associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista più, perché interamente sgominata o per naturale estinzione.
La Corte Costituzionale, dunque, rappresenta come ineludibili le esigenze di sicurezza e di protezione sociale del sistema ordinamentale da fenomeni criminali (Volume Amicus Curiae 2019: “Per sempre dietro le sbarre? L’ergastolo ostativo nel dialogo tra le Corti”, in Quaderni Costituzionali, Rassegna) violenti e pervicaci.
Richiede, pertanto, un regime probatorio che definisce ‘rafforzato’, da assolvere utilizzando tutte le informazioni degli organi di controllo quali le Procure delle Direzioni Distrettuali Antimafia e le Questure, un obbligo che “deve altresì estendersi all’acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalità organizzata, ma altresì il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali”.
Di entrambi tali elementi – esclusione sia dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata che del pericolo di un loro ripristino – grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l’onere di fare specifica allegazione” (C. Cost. sent. 253 del 22.10.2019 G. Cannizzaro, A. Pavone, § 9).
In ultima analisi, la Corte Costituzionale, nel dichiarare illegittima la norma di cui all’art. 4 bis O.P. laddove esclude la concessione di permessi a chi non collabora con la giustizia, premette la persistenza di un giudizio di pericolosità qualificata delle persone condannate per i delitti indicati nella norma in discorso ma ne sancisce una possibilità di superamento diversa dalla collaborazione con la giustizia, ferma la necessità di appurare la interruzione dei collegamenti con i sodalizi di origine e la impossibilità di ripristino di essi.
La presunzione, dunque, resiste ma da assoluta che era, è ora relativa e ammette un superamento attraverso un onere di allegazione che ricade sul ristretto al quale è chiesta la dimostrazione e della rescissione dei contatti e della impossibilità di ripristino. Una prova negativa che per non divenire probatio diabolica deve trovare ristoro da un lato nel contributo dell’osservazione degli operatori del carcere, dall’altro nell’approccio critico del magistrato di sorveglianza cui è restituita la funzione valutativa del percorso trattamentale non più inibita dalla preclusione del titolo di reato in espiazione.
Il Tribunale di sorveglianza di Perugia fa buon governo di tali principi e, all’esito di una istruttoria capillare ed esaustiva, perviene ad accogliere il reclamo del richiedente, detenuto ininterrottamente da oltre 25 anni, ed a concedergli le prime ore di libertà.
L’ordinanza appare estremamente rigorosa nell’allinearsi ai criteri guida forniti dalla Corte Costituzionale.
Il collegio, assunte le informazioni dagli organi di controllo, quali le direzioni distrettuali antimafia – che rappresentavano la perdurante pericolosità del soggetto in ragione della gravità oggettiva dei crimini commessi, della mancata collaborazione con la giustizia, della persistenza di fenomeni delinquenziali nei territori di appartenenza, dei legami affettivi con soggetti attinti da contestazioni di fattispecie associative – ne valutava la effettiva attualità e la capacità di incidere negativamente sul percorso detentivo compiuto dal reclamante. Lo stesso, infatti, come relazionato dagli operatori intramurari, già nel 2005, aveva ottenuto la revoca del regime detentivo derogatorio ex art. 41 bis, co. II, O.P. con un giudizio di interruzione dei collegamenti con il sodalizio delinquenziale; successivamente era stato ulteriormente declassato dal d.a.p. in virtù di una ravvisata attenuazione della pericolosità; aveva preso coscienza dell’orrore delle proprie condotte e manifestato nel tempo il convinto ripudio delle scelte del proprio passato ormai remoto; si era dedicato con passione agli studi, alla scrittura e alla poesia; si era intimamente avvicinato alla religione cattolica; aveva esplicitato le ragioni della mancata collaborazione nel terrore delle conseguenze drammatiche che ne sarebbero potute scaturire sul territorio per i propri familiari. Nella lunghissima detenzione, mai aveva intrattenuto contatti indebiti o era stato segnalato per atteggiamenti anche vagamente sospetti. I soggetti indicati nelle note informative come tuttora partecipi di consessi sodali ed in contatto con il richiedente erano risultati, in realtà, destinatari di provvedimenti di revoca delle misure di prevenzione in ragione di giudizi di cessata pericolosità. I rapporti, soltanto epistolari, erano, altresì, talmente sporadici da non poter risultare significanti. Ancora, il rango partecipativo del soggetto, all’epoca dei fatti, era di mero esecutore, non di rango apicale, il che agevolava ulteriormente la valutazione di piena estromissione dal contesto associativo. Alla luce di tali elementi tratti dall’osservazione del detenuto compiuta per oltre 25 anni dai soggetti a ciò deputati – che con lo stesso erano in costante contatto all’interno delle mura carcerarie e avevano modo di verificarne il comportamento, l’atteggiamento, le relazioni, il vissuto, il tenore di vita – il tribunale di sorveglianza esprimeva un giudizio di recisione del vincolo con il sodalizio di originaria appartenenza e di impossibilità di ripristino dello stesso e riteneva opportuno ed in linea con la tensione costituzionale di ogni pena alla restituzione dell’individuo in società, concedere al reclamante “la chiesta esperienza premiale, che costituirà ulteriore passaggio significativo del percorso intramurario dell’istante, che deve proseguire sotto il profilo dell’approfondimento della riflessione critica, e che consentirà di valutare, dopo una così lunga detenzione, la capacità del condannato di rispettare le prescrizioni įmpostegli” (Trib. Sorv. Perugia, ord. 2020/1239, p. 11).
Si tratta di una pronuncia estremamente importante che si allinea con l’indirizzo ormai costante della giurisprudenza della Corte Edu a partire dalla sentenza ‘Vinter c. Regno Unito’, che, già nel 2013, aveva affermato il diritto alla speranza come valore fondamentale in difetto del quale la pena è contraria al senso di umanità (CEDU, Grand Chamber, Vinter v. Regno Unito 9 luglio 2013, § 108).
. Coerentemente, nel ricorso ‘Viola c. Italia’, in data 13.06.2019, la Cedu ha ravvisato una violazione dell’art. 3 della Convenzione poiché una pena senza fine si traduce in una menomazione della dignità umana che “è nel cuore del sistema istituito dalla Convenzione e impedisce la privazione della libertà di una persona con la coercizione senza allo stesso tempo lavorare per reintegrarla e per fornirle una possibilità di recuperare questa libertà un giorno” (CEDU, Sez. I, sent. Viola v. Italia, 13.06.2019, § 43).
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