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Anarchici, sovversivi, terroristi: l’eterno ritorno del rischio di reprimere il dissenso

 

Sommario: 1. Premessa. – 2. Terrorismo: storia di una definizione mancata. – 3. Terrorismo e violenza politica tra il “secolo breve” e il terzo millennio. – 4. Condotta, offesa di beni giuridici costituzionalmente protetti, dolo: così Alice passò attraverso lo specchio. – 5. Riflessioni su un’ordinanza. Verso il diritto penale estremo. – 6. Considerazioni (provvisoriamente) conclusive.

 

  1. Premessa

Le note che seguono prendono spunto da una recente ordinanza che ha disposto la custodia cautelare in carcere di sette persone, nonché l’obbligo di dimora e di presentazione alla P.G. di altri quattro. Gli indagati sono accusati di aver promosso e organizzato un’associazione finalizzata al compimento di atti di violenza con finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico italiano. In particolare, secondo il Gip, essi «ponevano in essere atti terroristici ed eversivi al fine di costringere i pubblici poteri a compiere, ovvero astenersi dal compiere atti propri, destabilizzare le strutture politiche ed economiche dello Stato, con l’obiettivo di affermare e diffondere coattivamente l’ideologia anarchico-insurrezionalista»[1].

Gli indagati erano altresì accusati dei reati fine dell’associazione, tra i quali l’aver cagionato l’incendio di alcuni ponti ripetitori del segnale delle comunicazioni di alcune forze di polizia e delle reti televisive nazionali e locali site a Bologna, l’aver organizzato manifestazioni pubbliche e cortei al fine di impedire l’apertura dei Centri permanenti di rimpatrio, provocando scontri violenti con le forze dell’ordine, avvalendosi di mezzi informatici per produrre opuscoli, articoli, volantini dal contenuto istigatorio, l’aver imbrattato con scritte minatorie ed offensive i muri di edifici pubblici e privati e danneggiato sportelli bancomat di istituti di credito quali la Banca popolare dell’Emilia Romagna di Bologna, al fine di combattere contro le strutture economiche dello Stato.

L’articolata ordinanza propone all’interprete temi di diritto – e di politica del diritto – che sollecitano un’analisi. Il Gip contesta agli indagati di far parte di un’organizzazione volta al compimento di atti di violenza con finalità terroristica e di eversione dell’ordine democratico. Il Gip, pertanto, ripete pedissequamente la lettera dell’art. 270 bis c.p. – nell’attuale formulazione – con il dètournement di non poco momento di sostituire la disgiunzione “o” con la congiunzione “e”. In altre parole, alla luce dello sviamento lessicale segnalato, l’associazione ha questa duplice ragione sociale tanto per gli inquirenti quanto, di tutta evidenza, per il Gip: diffondere il terrore ed sovvertire l’ordine democratico italiano.

In realtà proprio il finalismo degli agenti, la ‘ragione sociale’ dell’associazione criminosa, nonché le affinità e le divergenze tra la fattispecie originaria di cui all’art. 270 del c.p. fascista e quella introdotta quasi sul finire del secolo ventesimo dal legislatore democratico, rappresentano l’oggetto della nostra riflessione. Negli ultimi venti anni la giurisprudenza in subiecta materia si è trovata per lo più a confrontarsi con il tema del c.d. terrorismo religioso fondamentalista. Molto più rari gli interventi su vicende giudiziarie di terrorismo e/o eversione interna[2]. Eppure, in almeno due casi, non sono mancati spunti di interesse che vanno sinteticamente ripercorsi.

Si fa riferimento, nello specifico, alla giurisprudenza della Corte di cassazione chiamata a valutare, tra l’altro, l’identità terroristica dell’organizzazione denominata Partito Comunista politico-militare[3]. Per quel che è di interesse in questa sede, la Corte si è interrogata sull’autonomia degli artt. 270 e 270 bis c.p, giungendo a discernere il variegato spessore ontologico della violenza. Quella terroristica, che innerva la previsione di cui all’art. 270 bis, si caratterizza per essere un mezzo, non un fine, una violenza polidirezionale, indiscriminata, rivolta verso una molteplicità di vittime. Vuole intimidire la popolazione senza operare distinzione alcuna. La violenza, al contrario, nella prospettiva di cui all’art. 270 ha valore comune/generico, cioè non indifferenziato, ma di elezione e selezione dell’obiettivo prefissato, legato al fine sovversivo. Si persegue, attraverso l’uso della violenza, il progetto di colpire obiettivi individuati, dotati di capacità caratterizzante e simbolica.

I due reati, entrambi di pericolo presunto, assumono caratteristiche distoniche anche per quanto riguarda la valenza della condotta, caratterizzata, nella fattispecie più recente, dal mero proposito del compimento di atti di violenza (sempre che ciò non si mantenga in mente retentum, al fine di evitare cedimenti verso un diritto penale del tipo di autore), laddove per l’art. 270 l’obiettivo sovversivo dell’ordinamento deve attuarsi mediante una espressione criminosa diretta ed idonea, avvicinandosi così alla categoria concettuale del tentativo[4].

Il percorso sin qui descritto si completa, per quanto qui interessa, con un altro arresto del Supremo collegio carico di elementi di novità. La Corte era chiamata ad occuparsi dell’ordinanza che aveva confermato la misura della custodia cautelare in carcere nei confronti di quattro attivisti del movimento ‘No Tav’, accusati tra l’altro dei reati di cui agli artt. 280 c.p. e 280 bis c.p.[5].  Diversi e tutti interessanti gli spunti di indagine offerti, ma la selezione deve necessariamente fermarsi sul tema del rapporto tra finalità di terrorismo e offesa al bene giuridico. Se la sentenza più risalente si era soffermata sul ruolo della violenza, la successiva si interroga invece sulla nozione di ‘finalità di terrorismo’, arrivando ad affermare che essa non debba essere intesa quale fenomeno esclusivamente psicologico, ma debba essere capace di materializzarsi in una condotta ‘seriamente capace di realizzare i fini tipici descritti dalla norma’. Secondo il giudice di legittimità, proprio l’art. 270 sexies, dotato di una struttura complessa e tesa alla descrizione di una finalità, ricomprende tuttavia elementi di carattere obiettivo che rappresentano indici della offensività dei fatti, veri e propri elementi di garanzia volti ad evitare pericolosi slittamenti verso il diritto penale dell’intenzione o del tipo di autore.

Sempre in tema di obiettività della condotta, questa deve presentarsi come concretamente idonea a provocare il grave danno per il Paese. Nel caso della manifestazione No Tav, in altre parole, ci si deve interrogare se il lancio di materiale esplodente abbia potuto dar luogo alla possibilità di una rinuncia dello Stato alla prosecuzione dell’opera e quale conseguente profilo di grave danno tale rinuncia abbia realizzato[6]. Ma l’orizzonte giuridico del terrorismo e della sovversione/eversione risulterebbe parziale – e per molti versi arcano – se si tacesse della genesi delle parole. Che poi spesso coincide con la storia degli eventi umani.

 

  1. Terrorismo: storia di una definizione mancata

 

In via preliminare è opportuno provare a fornire una ricostruzione del concetto di terrorismo, dedicandosi poi alle affinità e divergenze del medesimo rispetto al finalismo eversivo contenuto nell’art. 270 bis c.p. Un evergreen della nostra legislazione, capace di sopportare la prova di resistenza di compatibilità costituzionale.

Ma cosa è il terrorismo? Il concetto ha subito più di un mutamento di significato, o meglio un adeguamento alla mutevolezza dell’ambiente nel quale vive. Nel vissuto della collettività e del tessuto sociale oggi il terrorismo richiama gli attacchi riconducibili a forme di fanatismo islamista a far data dall’attacco dell’11 settembre 2001. È quasi scomparso il rapporto – di senso comune, spesso quindi improprio – con fatti commessi da organizzazioni armate per finalità lato sensu politiche, dall’autodeterminazione dei popoli, all’indipendentismo, ai movimenti rivoluzionari in senso stretto. Ci si soffermerà ora sulla verifica della vigenza di quella che è stata la prospettazione “novecentesca”, ovvero del ritenuto rapporto tra reati di terrorismo e reati politici secondo l’endiadi lotta armata, da un lato, e illegalità sociale diffusa, dall’altro.

Non si incorre in errore se sotto il profilo semantico si individua il significato del lemma terrorismo nella classica ricostruzione offerta dai più importanti vocabolari, ovvero, in estrema sintesi, l’uso di una violenza indiscriminata ed illegittima finalizzata ad incutere terrore in una collettività organizzata[7]. Il dato può apparire banale, ma in realtà non lo è, a partire proprio dalla costruzione etimologica basica che necessariamente si diparte dal concetto di comunità, popolazione, collettività. Ed è necessario partire da tale concetto politico e storico, anche transitando dal più celebre tra i momenti ai quali l’appellativo è stato accostato. Ci si riferisce all’epoca del terrore in Francia, caratterizzato dall’uso di un potere brutale, con l’apoteosi della violenza cristallizzata e adottata dal Comitato di salute pubblica contro i nemici, da parte di Robespierre, Saint Just e gli altri giacobini. Insomma il dato baricentrico nella definizione classica, invero difficilmente superabile, è quello che vede le popolazioni ‘soggetto passivo’ di condotte violente diffuse e senza distinzione di sorta.

Il terrorismo ha caratterizzato anche la storia del secolo breve[8]. Può forse essere revocato in dubbio che, ad esempio, la seconda guerra mondiale si sia caratterizzata per un uso terroristico della violenza militare, non più contrapposizione – per quanto belluina – tra eserciti, ma diffusiva di panico e di angoscia tra le popolazioni inermi, per esempio attraverso i bombardamenti aerei? O che gli italiani si siano distinti per aver usato durante la guerra di Etiopia l’iprite anche contro civili? Non è forse collocabile nell’ambito del terrorismo il massacro di Sabra e Chatila del 1982, compiuto su una popolazione indifesa? E, per venire al millennio in corso, basti ricordare la denominazione data all’attacco operato dalla amministrazione statunitense di George Bush Jr. all’Iraq nel 2003: Shock and Awe, ovvero colpisci e terrorizza[9].

Ritornando alla storia del secolo appena trascorso – di immediato interesse ai nostri fini – il termine terrorismo in ambito giuridico fa la sua comparsa nella terza conferenza per l’unificazione del diritto penale svoltasi nel 1931 a Bruxelles, ricomparendo nel 1935 in occasione della sesta conferenza per l’unificazione del diritto penale svoltasi a Copenaghen[10]. Rilevante poi la comparsa sullo scenario internazionale degli Stati a partire dal 1937, allorquando la Società delle nazioni promosse a Ginevra la convenzione per la prevenzione e la repressione del terrorismo.

È interessante valutare il principiare del mutamento semantico-contenutistico del concetto di terrorismo, passato dal definire azioni violente (una situazione di pericolo diffuso, comune) e prevaricanti nei confronti della vita delle persone o dei beni pubblici o privati, sino al giungere alla tutela delle personalità statuali da questo stesso pericolo comune – come previsto già nella sesta conferenza – per chiudere con la convenzione del 1937 in cui l’art. 1 definisce terrorismo quei fatti criminosi diretti contro uno Stato al fine di diffondere il terrore in persone, gruppi di persone o nel pubblico in genere, imponendo inoltre agli Stati, all’art. 2, di qualificare come fatti criminosi quelli diretti ad attentare alla vita ed alla integrità di Capi di stato e di loro familiari e, più complessivamente, di quanti hanno rappresentanza e compiti di governo[11].

In ogni caso, per la Convenzione sono terroristici i crimini diretti anzitutto contro uno Stato, non quindi contro gli individui; essi devono essere idonei a creare uno stato di terrore[12]. Nel corso della storia, che pure aveva indicato le popolazioni come vittime del terrore degli Stati, si affaccia la tutela degli Stati e dei loro rappresentanti dall’azione di attentatori regicidi o magari rivoluzionari. Prendeva corpo, peraltro, seppure ancora in forma di archetipo, la relazione tra terrorismo e reato politico, atteso che oggetto di protezione non era il bene della vita o incolumità di più persone, o per meglio dire non solo esso, ma la vita, rectius la conservazione dei governanti da azioni realizzate per lo più da oppositori politici. Tuttavia né la convenzione del 1937 né le conferenze per l’unificazione del diritto penale troveranno mai applicazione.

Dopo la carneficina mondiale, l’interesse delle organizzazioni sovranazionali diventerà ben presto il terrorismo come attentato all’ordine costituito ovvero come condotta ‘politicamente orientata’. Sempre visto con gli occhi di chi il potere, e il cosiddetto uso legittimo della forza, lo detiene ‘legittimamente’. Ne sono testimonianza le convenzioni tecniche e di settore dedicate al dirottamento di aeromobili (Tokio 1963, L’Aia 1970, Montreal 1971)[13] o di navi (Roma 1988)[14] e quelle miranti alla salvaguardia degli agenti diplomatici e consolari dai sequestri di persona (New York 1973)[15].

Il periodo storico nel quale si realizzano tali accordi sovranazionali corrisponde a quello della decolonizzazione e delle lotte per l’indipendenza e l’autodeterminazione dei popoli. Ed è anche il periodo della contrapposizione Usa-Urss, con la conseguente polarizzazione di interessi e conflitti interimperialistici dei blocchi, che trovavano, anzi che spesso non trovavano, composizione ed equilibrio all’interno dell’Onu. Ed è per questo, forse, che vigendo la contrapposizione e la guerra fredda, non si potrà giungere ad un accordo sul concetto, e sul valore politico e giuridico, del terrorismo.

Deve rammentarsi, e di certo varrà per il prosieguo, che controverso era anche il concetto di terrorismo di Stato ovvero l’uso della forza di Stati contro altri Stati, o parte di essi, o all’interno degli stessi, soprattutto in riferimento ai regimi coloniali, razzisti, stranieri. E la questione palestinese era uno dei temi rilevanti a livello internazionale, soprattutto per le azioni militari che i vari gruppi, riuniti sotto la comune sigla dell’Olp[16], realizzavano.

E così, a seguito del sanguinoso sequestro degli atleti israeliani in occasione delle olimpiadi di Monaco del 1972 ad opera dell’organizzazione palestinese “Settembre Nero”, l’Assemblea generale dell’Onu costituì un comitato sul terrorismo, muovendo dalla risoluzione 3034, la quale riconosceva come il terrorismo internazionale e gli atti di violenza allignassero «nella miseria, frustrazione, lamentela e disperazione, inducendo persone e/o gruppi a sacrificare vite umane, inclusa la propria, nel tentativo di determinare cambiamenti radicali»[17]. La risoluzione denunciava anche il c.d. terrorismo di Stato, ovvero l’uso della forza di Stati contro altri Stati, o parte di essi, o all’interno degli stessi, soprattutto in riferimento ai regimi coloniali, razzisti, stranieri, trovando pertanto la naturale opposizione degli Stati occidentali[18].

A fronte di una così evidente dicotomia determinata dalla divisione del mondo post-Yalta a livello mondiale, divenne impossibile la individuazione di una definizione condivisa del concetto di terrorismo. Non così nelle macroaree del pianeta. In Europa nel 1977 si realizzò la prima delle svolte che avrebbero caratterizzato lo sviluppo giuridico e giudiziario del vecchio continente, e che avrebbe subito una accelerazione di non poco momento nel nuovo millennio. A Strasburgo, infatti, il 27 gennaio 1977 si approvò la Convenzione europea per la repressione del terrorismo[19]. Il preambolo della stessa val più di ogni commento: «Gli Stati membri del Consiglio d’Europa, firmatari della presente Convenzione, tenendo conto che l’obiettivo del Consiglio d’Europa è quello di raggiungere una maggiore unità tra i suoi membri; consapevoli della crescente inquietudine causata dall’aumento di atti terroristici; desiderando adottare misure efficaci per assicurare che gli esecutori di tali atti non possano sottrarsi ai procedimenti penali e alla relativa pena; convinti che l’estradizione è una misura particolarmente efficace al fine di raggiungere tali risultati; hanno convenuto quanto segue…».

Il concetto di terrorismo, dunque, non viene definito, ma si rimanda a quello di atti terroristici, che causano crescente inquietudine accompagnata spesso dalla inefficacia del meccanismo processuale nazionale e sanzionatorio. L’art. 1 fornisce la nomenclatura degli atti terroristici e l’ambito di applicazione convenzionale, statuendo che nessun dirottamento aereo, attentato alla vita ed alla incolumità ed all’integrità fisica di soggetti che godono del rango diplomatico o comunque di protezione internazionale ed ancora che nessun reato che comporti il ricorso a bombe, granate, razzi, armi automatiche, o plichi o pacchi contenenti esplosivi, ove il loro uso rappresenti un pericolo per le persone nonché un tentativo di commettere uno qualsiasi dei reati menzionati, potranno essere considerati politici, o commessi per cause politiche o ispirati da ragioni politiche[20]. All’art. 2 si prevede, inoltre, che gli Stati membri possano inserire ulteriori fattispecie di reato, non considerando quindi come reato politico o reato connesso a un reato politico o reato ispirato da ragioni politiche un reato grave che comporti un atto di violenza, diverso da quelli contemplati all’art. 1, contro la vita, integrità fisica o libertà di una persona.

Sembra a questo punto evidente l’affacciarsi sul proscenio della storia di un concetto ancora non formalmente compiuto e cristallizzato, ma che di certo sgancia l’atto c.d. terroristico da valutazioni di carattere politico. Si creerà un solco destinato mai più a richiudersi tra il concetto storico di terrorismo e quello frutto dei momenti politici nei quali la comunità internazionale si confrontava con il fenomeno. Se la storia aveva definito terrorismo le attività che vedevano le popolazioni quali soggetti inermi e vulnerati da atti violenti, ad ampio spettro ed indiscriminati, per il diritto internazionale divenivano terroristici determinati atti violenti compiuti da singoli o da organizzazioni politico-militari, nonché le condotte di aggressione a uomini di stato o diplomatici. Con un concetto di atto politico o politicamente motivato che, per l’uso della violenza e la lesività, anche potenziale, all’integrità personale, non potrà che rientrare nella valutazione di atto terroristico, perdendo le ‘guarentigie’ dell’atto politico o politicamente motivato.

Nel valutare tali canoni ovviamente si rende necessario rammentare il periodo storico di riferimento, che in Europa era caratterizzato da conflitti significativi almeno in Irlanda del Nord, Paesi Baschi (Nord della Spagna e Francia), condotti da organizzazioni militari dotate di un rilevante consenso popolare. Per tacere, almeno per ora, della peculiare situazione italiana.

 

  1. Terrorismo e violenza politica tra il “secolo breve” e il terzo millennio.

 

Occorrerà un ventennio, uno scenario storico oltreché politico radicalmente e irreversibilmente mutato perché la cultura giuridica, e le contingenze politiche, forniscano una nozione di terrorismo, seppur traslata da quella di atto o attività terroristica.

La Risoluzione del Parlamento europeo del 30 gennaio 1997, infatti, ha individuato al terzo considerando sub c) l’atto terroristico come «qualsiasi azione compiuta da singoli o gruppi con il ricorso alla violenza o la minaccia di violenza nei confronti di uno Stato, delle sue istituzioni o della sua popolazione in generale ovvero di singoli individui, nell’intento di creare una situazione di paura presso le autorità pubbliche, determinate persone o gruppi sociali ovvero nell’opinione pubblica in generale, per motivi di tipo separatistico, estremistico-ideologico, fanatico-religioso o soggettivo-irrazionale»[21].

Si noterà come anche in questa definizione convergano elementi definitori storici del terrorismo – il rivolgersi contro le popolazioni – e l’elemento più squisitamente politico finalizzato alla conservazione dello status quo, cioè alla tutela delle autorità pubbliche, dotato di forza espansiva. Di non poco momento appare il dato per cui l’idea di comunità, popolazione, popolo sia ridotta ad ‘opinione pubblica in generale’, concetto di natura contemporanea di certo meno cogente, diremmo oggi smart, e storicamente rilevante, di quello di popolazione o comunità.

Sarà la decisione quadro 2002/475/GAI a chiudere, per quanto di interesse ai fini delle presenti riflessioni, la produzione normativa volta a definire il concetto di terrorismo, anzi di atti di terrorismo[22]. Se ne parlerà tra breve per l’immediata ricaduta ordinamentale interna, attesa la quasi pedissequa riproposizione del testo della decisione all’interno del nuovo art. 270 sexies c.p., inserito dal d.l. n.144/2005 convertito con modificazioni dalla l. n. 155/2005[23].

È un d.l., il celebre decreto Cossiga, ad aver mutato l’identità del codice penale fascista, di certo non tenero con gli oppositori di ogni specie. Il d.l. n. 625/1979, convertito dalla l. n. 15/1980, oltre ad innovare radicalmente l’assetto della penalità della Repubblica nata dalla Resistenza, si è incaricato di programmare e in parte realizzare per via repressiva e giudiziaria il contrasto del terrorismo interno degli anni ‘70. Gli esiti dell’operazione sinergica di difesa della democrazia italiana che, tranne alcune isolate eccezioni, vide l’intero arco costituzionale approvare la metamorfosi emergenziale già inaugurata peraltro con la legge Reale del 1975, conta, secondo le stime più equilibrate, quarantamila persone sottoposte a procedimento penale, quindicimila a vario titolo transitate per le carceri e quasi quattromila persone condannate in via definitiva[24].

La c.d. legge Cossiga[25] introduceva tre dispositivi giuridici inediti nell’ordinamento: all’art. 270 del codice fascista affiancava l’art. 270 bis, «associazione con finalità di terrorismo o eversione dell’ordine democratico»; inseriva l’aggravante speciale – contenuta all’art. 1 della medesima legge – della finalità di terrorismo o dell’eversione dell’ordine democratico, da applicarsi a qualsivoglia reato; restituiva nuova vita all’art. 280 c.p., che il ventennio aveva rubricato come «attentato al Capo del Governo», articolo abrogato dal d.lgs. lt. n. 288/1944, ridefinendolo attentato per finalità di terrorismo o di eversione.

La finalità della legge, perseguita attraverso il potenziamento delle fattispecie associative e cospirative già presenti nel codice fascista – che, com’è noto, erano state create espressamente per l’annientamento del partito comunista, del partito socialista e delle organizzazioni anarchiche[26] – era quella di reprimere non solo le organizzazioni dedite alla lotta armata’, ma anche le forme di radicalità militante, non necessariamente clandestina e armata, diffuse nel Paese.

La rubrica, nella sua laconicità, non rispecchia correttamente il titolo dell’articolo ed infatti è evidente la sfasatura tra il titolo che prevede l’apprestarsi del meccanismo sanzionatorio alle associazioni che abbiano finalità di terrorismo o di eversione e il testo che dimentica la finalità di terrorismo[27].

In realtà le concezioni di terrorismo ed eversione (o sovversione) sono concettualmente diverse. O almeno lo sono state sino al 2005, quando si è avuto un ulteriore inasprimento delle fattispecie associative attraverso la descrizione delle condotte con finalità di terrorismo, giungendo ad includere nell’elenco di tali condotte anche quelle di natura eversiva.

Nell’attività di distinzione tra le finalità terroristica ed eversiva la Cassazione è stata, in realtà, uniforme e costante, definendo il terrorismo quale attività diretta a creare in modo indiscriminato terrore nella collettività nonché a colpire le persone sotto il profilo simbolico, determinando come effetto, anche non direttamente previsto dell’agente, uno scadimento della fiducia, nel comune sentire, rispetto all’ordinamento costituzionale[28]. L’attività eversiva o sovversiva ha, invece, come precipuo fine quello di scardinare l’ordinamento costituzionale democratico vigente. A ben vedere il differenziale ermeneutico dei due lemmi, troppo spesso ritenuti sinonimi perché mutuati impropriamente dal linguaggio storico-politico, era ricavabile già dall’art. 289 bis c.p., introdotto specificamente per il sequestro Moro, che distingueva, in relazione al sequestro, le due finalità sia nella rubrica che nel tenore letterale della norma. E così pure l’aggravante speciale relativa a tutti i reati commessi con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordinamento costituzionale contenuta all’art. 1 del citato d.l. n. 625/1979.

Ma se il concetto di eversione-sovversione era chiaro a partire dal suo significato ancestrale, da ricondursi a schemi ideologici e politici che prevedevano la presa di potere da parte delle classi subalterne, si era tuttavia resa necessaria l’interpretazione autentica della relativa definizione. Era stato l’art. 1, l. n. 304/1982 a precisare che l’espressione ‘eversione dell’ordine democratico’ era da intendersi quale eversione dell’ordinamento costituzionale, sì da elidere, almeno in apparenza, ogni problema di determinatezza/tassatività della fattispecie[29].

Perduravano, tuttavia, problemi definitori circa il concetto di terrorismo. Saranno due prodotti normativi di natura internazionale a condurre alla vigente definizione di terrorismo, rectius di condotte con finalità di terrorismo come previste dall’art. 270 sexies c.p., complici, peraltro, i mutamenti degli assetti strategici nel terzo millennio, a partire dall’attentato alle Torri gemelle del 2001.

Il primo di tali innovativi contributi è da connettersi alla Convenzione Onu di New York del 1999, ratificata dall’Italia nel 2003, e pertanto costituzionalmente integrata e immediatamente precettiva nell’ordinamento italiano[30]. L’art. 2 di tale Convenzione contro il finanziamento del terrorismo definisce terroristica ogni condotta qualificata tale dalle diverse convenzioni settoriali in tema, ad esempio, di dirottamento aeronavale o di sequestro di agenti consolari e diplomatici, specificando che è, appunto, terroristico un atto che sia violento e diretto a cagionare morte o lesioni gravi e finalizzato, altresì, a costringere un governo o una organizzazione internazionale a compiere o ad astenersi dal compiere un preciso atto. Elemento ulteriormente caratterizzante è dato dalla identità del soggetto passivo del reato, che deve essere un civile o, nel caso di un conflitto armato, una qualsiasi altra persona (anche un militare quindi), purché non direttamente impegnata sul fronte bellico[31].

Anche l’Europa, che già aveva affrontato la questione nei termini dei quali si è sin qui detto, ha provveduto a dotarsi di una definizione più organica con la Decisione quadro 2002/475/GAI. Questa, ribadendo che l’Unione europea si fonda su valori universali di libertà, dignità umana, uguaglianza e solidarietà, rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e che basa il suo operato sul principio della democrazia e dello Stato di diritto, definisce come terroristici gli atti di cui all’art. 1, ricompresi tra le lettere a) e i) dell’articolato, e comunque finalizzati a intimidire gravemente la popolazione o costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto o destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un Paese o un’organizzazione internazionale[32].

Ed è proprio la Decisione Quadro testé mentovata a costituire il terreno di coltura che darà vita al cosiddetto, ennesimo, pacchetto sicurezza, noto come d.l. Pisanu. Ancora una volta un decreto legge, ancora una volta quindi un meccanismo attraverso il quale l’esecutivo si sostituisce di fatto alla necessaria ponderazione ad opera del Parlamento, richiesta dalla ratio sostanziale della riserva di legge in materia penale.

 

  1. Condotta, offesa di beni giuridici costituzionalmente protetti, dolo: così Alice passò attraverso lo specchio.

 

La norma così inserita risulta ancor più pervasiva della invero già ampia definizione di terrorismo contenuta nella Decisione quadro del Consiglio d’Europa. Ed infatti, relativamente alle condotte punibili, – l’Italia preferisce non adottare il pur cospicuo numerus clausus risultante dall’art. 1, lettere da a) ad i) della citata Decisione. A fronte dei molti provvedimenti legislativi realizzati in questi anni, caratterizzati da una sostanziale conformità al dettato europeo (“lo chiede l’Europa!”), in questo caso il legislatore nostrano è apparso più realista del re e ha usato una tecnica redazionale sintetica, e non analitica, «senza indicare i singoli comportamenti in cui può estrinsecarsi tale reato». E ciò perché, al contrario, l’elencazione delle fattispecie avrebbe corso il rischio «di lasciare fuori alcuni fenomeni»[33].

La ricaduta è stata di non poco momento. La norma internazionale presentava una casistica articolata che si sforzava, almeno, di fornire definizioni dell’agire conformi a determinatezza, con la descrizione di condotte tutte volte a ledere beni giuridici definiti e apprezzabili, come la vita e l’incolumità personale. Certo, rimane il ‘sapiente’ uso di aggettivazioni dal sapore indefinito (come si misura la “gravità” di una condotta?) o l’anticipazione – variabile in base alla valutazione dell’interprete – della soglia di punibilità (“possono mettere a repentaglio”). O ancora l’equivalenza, in termini di offensività, instaurata tra la potenziale perdita di vite umane e le perdite economiche considerevoli. Ma tutto ciò appare ben poca cosa se ci si accosta al testo dell’art. 270 sexies c.p. e lo si confronta sinotticamente con il testo europeo. Per il decisore europeo sono atti terroristici quelli – ricompresi tra le lettere a) ed i) dell’art. 1 – che possono arrecare un grave danno ad un Paese o ad un’organizzazione internazionale, quando sono commessi al fine di intimidire gravemente la popolazione o costringere indebitamente i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o astenersi dal compiere un qualsiasi atto, o destabilizzare gravemente o distruggere le strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche o sociali di un Paese o un’organizzazione internazionale. E gli atti da a) ad i) sono atti sussumibili in fattispecie criminose poste a tutela di beni giuridici primari (vita, incolumità personale, libertà personale) incontestabili in ogni ordinamento giuridico moderno.

Alle fattispecie europee, come già detto, l’Italia ha sostituito l’espressione condotte con finalità di terrorismo considerabili alla luce della natura o del contesto. Risulta palese il deficit di determinatezza, atteso che non si comprende quale contribuito definitorio possano fornire i termini “natura” e “contesto”[34].

In particolare, preoccupa che una condotta possa essere considerata terroristica per contesto. È evidente, infatti, il rischio di spostare il giudizio dalla condotta al suo autore e al contesto antropologico in cui lo stesso opera. Del resto, dai lavori preparatori, come si evince dal ricordato resoconto stenografico del Senato, non sembra che ciò sia stato fonte di preoccupazione. Ma è evidente che far discendere la punibilità di un contegno umano dal mero contesto vuol dire scoperchiare il vaso di Pandora della repressione anche di movimenti di opposizione politica, sociale e sindacale diffusa. E allora l’inquietudine dell’interprete diviene doverosa preoccupazione democratica, se si rifletta sul dato per cui tali condotte, così eteree e ben poco definite, possano ritenersi offensive di beni giuridici asseritamente rilevanti, come indica l’enunciato «possono arrecare grave danno al Paese o ad una organizzazione internazionale».

Si è parlato di gigantismo ed inafferabilità dell’offesa[35]. Non si può non condividere tale assunto. Che cosa costituisce un grave danno per un Paese? La vaga offesa all’ordine pubblico o la caduta di qualche indice di borsa? E come valutare, in punto di determinatezza e offensività, l’aggettivo “grave”?

Non ci si può come astener dal denunciare la pericolosa vaghezza del concetto di “possibilità che si arrechi grave danno”, sganciato dal dato della oggettiva idoneità della condotta e del suo orientarsi sotto il profilo teleologico[36]?

Sono queste le domande che nascondono, in realtà, vuoti torricelliani pericolosamente colmabili secondo necessità, eventualmente anche per via giudiziaria. Ma siccome non era sufficiente la creazione di tale fumisteria, si aggiungono le brume ipostatizzate nella triplice espressione del dolo specifico[37].

Al grande classico della intimidazione della popolazione si associa la – ormai dobbiamo definirla ex – eversione dell’ordine costituzionale costruita attraverso la destabilizzazione o la distruzione delle strutture politiche fondamentali, costituzionali, economiche e sociali. Sì da far ritenere ormai l’eversione come sottoinsieme incluso nell’insieme del terrorismo[38]. Ma particolarmente preoccupante è l’espressione «costringere i poteri pubblici o un’organizzazione internazionale a compiere o all’astenersi dal compiere un qualsiasi atto». Tale locuzione sembra cristallizzare l’inviolabilità quasi preilluministica del rapporto tra apparato statale e corpo sociale della comunità politica di un Paese, tranciando ogni conquista degli Stati che pur si definiscono democrazie liberali. Si stabilisce l’intangibilità e l’impermeabilità, tanto da ricevere tutela penale, dei governanti rispetto ai governati, ancor più perniciosa se si riflette per un attimo che, nel testo europeo, tale dolo specifico è riferito alle condotte determinate e racchiuse nel già ampiamente citato elenco. Tale evidenza impone qualche ulteriore riflessione, soprattutto in presenza di fattispecie incriminatrici – a partire dal plinto di sistema rappresentato dall’art. 270 bis c.p – che per garantire’ l’anticipazione della soglia criminosa violano i principi costituzionali di materialità e offensività. Il tema non è di poco momento, soprattutto se si pensa che l’anticipazione della soglia di punibilità apre la strada alla ‘flessibilizzazione alla bisogna’ del precetto.

Un possibile antidoto parrebbe individuabile nella valorizzazione del dolo specifico e nella sua forza espansiva. E così sotto un primo aspetto le carenze dell’elemento oggettivo verrebbero compensate per mezzo del dolo specifico che, accedendo al fatto base, ne consentirebbe una caratterizzazione in punto di idoneità ed adeguatezza. Conseguentemente, la previsione della punibilità discenderebbe, ad esempio nell’art. 270 bis c.p., non già dalla adesione ad un programma criminoso ed eversivo, ma allo specifico programma violento, concreto ed attuale[39].

Se dunque si accede all’opzione secondo cui il dolo abbia ‘idoneità contaminante’ nei confronti del fatto tipico e offensivo, si potrà riscontrare come il fine, componente caratterizzante l’elemento psicologico, qualificherà la condotta, sicché quest’ultima si identificherà come mezzo attuativo rivolto al fine. Il recupero della funzione tipizzante del dolo rispetto alla condotta e all’agire potrà, forse, superare il vacuum caratterizzato dalla infelice definizione quali terroristiche di condotte individuate ‘per natura o per contesto’, proponendo un modello di agire seriamente, concretamente, autenticamente aggressivo e lesivo del bene giuridico[40].

L’opera dell’interprete, tuttavia, si presenta ardua, atteso che la sintetica tecnica redazionale impiegata dal legislatore nazionale consentirà – l’ordinanza bolognese ne è plastico esempio – di perseguire l’attività politica, sociale, sindacale di dissenso e di protesta, rispetto a scelte non condivise. Non si è ancora forse colto pienamente, data l’attenzione della riflessione collettiva sul susseguirsi di eventi di natura internazionale, il peso che tale previsione avrà sul piano nazionale. Come non pensare che possano assumere rilievo penale manifestazioni popolari di protesta, iniziative di disoccupati o di quanti hanno perso il posto di lavoro? La ragion di Stato rischia dunque di prevalere a discapito della dialettica democratica che, per quanto aspra, è pietra angolare del nostro ordinamento costituzionale.

 

  1. Riflessioni su un’ordinanza. Verso il diritto penale estremo.

 

Il ragionamento fin qui proposto consente di avanzare qualche sintetica riflessione sull’ordinanza da cui ha preso spunto il presente lavoro, ordinanza che, come si è accennato, in sostanziale accoglimento della mozione cautelare del P.M., ha disposto la custodia inframuraria per sette persone e le cumulative misure dell’obbligo di dimora e di presentazione alla P.G. per altre quattro.

Si rende necessario, a tal fine, partire da un dato solo in apparenza pre o metagiuridico, vale a dire la tecnica redazionale dell’ordinanza medesima. Infatti, scontata la descrizione degli addebiti penali nelle prime due pagine, si apprezza, di poi, in apertura della sezione dedicata ai gravi indizi di colpevolezza, una premessa finalizzata a sintetizzare il prosieguo dell’ordinanza. Tale incipit si apre con un capitolo dal titolo «cenni sul movimento anarchico».

Il Gip si preoccupa, invero, di evidenziare come non rilevi, in tale ricostruzione, la volontà del giudicante di tracciare una mappa dell’intera galassia del movimento anarchico, e neppure fornire indicazioni di carattere politico-ideologico. Ma tale procedere costituisce una sorta di excusatio non petita. E dunque non si comprende bene perché uno spazio dell’ordinanza sia dedicato a descrivere il c.d. movimento anarchico-insurrezionalista e l’individuazione di soggetti asseritamente gravitanti in quest’area, quando tutto ciò dovrebbe essere inconferente con i fatti di causa. E ciò per diversi motivi.

Il primo è che i provvedimenti giurisdizionali devono avere ad oggetto attività criminose concrete e specifiche e non movimenti o galassie di movimenti: l’oggetto della prova nel processo penale, in base all’art. 187 c.p.p., è costituito dai “fatti” che si riferiscono all’imputazione, etc. Nel nostro ordinamento, il diritto penale, sostanziale e processuale, può essere solo diritto penale del fatto.

Il secondo è che le articolazioni nelle quali sarebbe suddiviso il movimento anarchico-insurrezionalista sono presentate apoditticamente. Se si tratta di un tema di afferenza giudiziaria, non rilevano le idee e gli apparati ideologici dei soggetti, salvo rappresentare esse stesse fattispecie di reato. Se, viceversa, il dato ha valore storico e ricostruttivo, è evidentemente irrelato rispetto all’oggetto di causa.

Orbene, nel primo caso, se proprio si debbono processare le idee, bisognerebbe accompagnare l’ordinanza con atti e documenti tanto riconducibili ai soggetti quanto valutabili dal lettore. Nel secondo caso, bisognerebbe rammentare la genesi del movimento anarchico, a partire dalla scissione in seno alla Prima Internazionale, passando dai rappresentanti anche italiani, autori di importanti interventi speculativi, politici ed ideologici (Gori, Malatesta, Berneri, solo per citarne alcuni), tenendo ben in conto il contributo alla storia del pensiero umano, oltre che alla storia del movimento operaio e degli sfruttati, che gli anarchici hanno fornito[41]. Ed ancora, se proprio si volesse somministrare un dato di conoscenza organicamente realizzato, anche passando attraverso la storia giudiziaria del Paese, si dovrebbe ricordare la vicenda Pinelli o quella Valpreda e, perché no, Sacco e Vanzetti. O, ancora in tempi più recenti, e questo sì correlabile con le vicende di causa anche se in modo evidentemente distonico con le ricostruzioni giudiziarie, il processo per ‘ecoterrorismo’ che nel 1998 vide accusati tre ragazzi, due dei quali – noti come Sole e Baleno – si suicidarono nel corso della vicenda giudiziaria[42]. Vicenda giudiziaria che, si precisa solo incidentalmente, nel 2002 si concluse con l’assoluzione dai reati associativi e ‘terroristici’.

In definitiva, la laconica descrizione fornita dal Gip felsineo non rende giustizia, è il caso di dire, né alla storia né, ancor più, alle storie giudiziarie, mescolando temi disomogenei ed alle volte persino contrastanti.

L’analisi svolta finora trova qui una prima conferma. L’anticipazione della soglia di punibilità per i delitti associativi politici e di terrorismo, come per quelli di attentato, determina la traslazione dalla verifica oggettiva di un fatto, descritto nel rispetto dei principi di tassatività e determinatezza, alla identificazione di quelle condotte che «per natura o contesto» danno luogo ad elementi di penale responsabilità. Ma ciò può accadere a condizione che siano ascrivibili ad un peculiare modello d’agente. In altre parole, il riconoscimento della identità politica dell’indagato/imputato costituisce ragione sufficiente, causa efficiente per l’ascrizione di penale responsabilità. Il diritto penale dell’autore ricavato dall’appartenenza politica, dal foro interno, dalla idea. Pensare è (per lo meno) cospirare!

Forse più di quanto i portatori di un pensiero democratico e adeso alla fenomenologia costituzionale abbiano compreso, nel nostro Paese è già presente una forma di diritto penale che potremmo definire estremo, che per molti versi coincide – o almeno confina – col diritto penale del nemico[43]. O forse con la sua variante solo apparentemente meno autoritaria del diritto penale di lotta[44]. E questo perché se il diritto penale dell’emergenza, pur operando spesso in violazione delle regole di ingaggio costituzionale, aveva da occuparsi di eventi esistenti, diffusi, invasivi o pervasivi, come ad esempio la mafia o la sovversione sociale degli anni Settanta, la normazione alla quale stiamo assistendo si pone quale obiettivo quello di pianificare la risposta ordinamentale non solo a fatti specifici di reato, ma a comportamenti diffusi, anche solo soggettivamente diretti a contrastare con l’ordinamento vigente e che pongono il soggetto non acquiescente fuori dal consorzio civile nazionale (o sovranazionale).

Il legislatore europeo e ancor di più quello italiano vagheggiano di beni giuridici da tutelare quali la sicurezza, l’integrità dello Stato e così via. Potrà apparire cinico, ma è probabilmente, invece, meramente realistico: chi si lancia con un camion sulla folla o uccide i giornalisti di Charlie Hebdo non ha la finalità di sovvertire le istituzioni o minare la sicurezza dello Stato, ma quella di seminare più morti e dolore possibile, volendo ricambiare il male «dai crociati inferto all’Islam nella storia» con il medesimo male. Si tratta di atti terroristici in tale senso, ovvero nella capacità di seminare timore diffuso e insicurezza, ma l’apparato normativo volto al contrasto di tali fatti era già saldamente strutturato, sia a livello europeo che nazionale. La necessità di questa frettolosa quanto ulteriore attività normativa è valutabile, al contrario, in base ad ulteriori considerazioni.

E qui, come si vedrà, si infrangono gli auspici degli alfieri della tutela di un diritto penale scevro da aspetti di lotta contro il nemico, quasi la sua essenza fosse connaturata esclusivamente al diritto umano e alla Costituzione, senza altre contaminazioni[45].

Si impone di procedere al disvelamento del dispositivo ideologico che ha dato origine alla nuova forma di diritto penale estremo, che è già oltre il diritto penale dell’emergenza. Si afferma una considerazione pregiuridica e tutta storico-politica. A partire dall’ultima decade dello scorso millennio, siamo stati destinatari del messaggio – a ben vedere anch’esso ‘ideologico’ – che proclamava la caduta delle ideologie e il manifestarsi di una nuova società. In realtà si era frantumato esclusivamente il blocco sovietico e, al contrario, il turbocapitalismo, il neoliberismo nella forma più aggressiva e sanguinaria si era proclamato vincitore della storia. Storia che, come abbiamo visto, ha continuato ad essere polarizzatrice di ricchezze, per cui poche decine di ricchi al mondo detengono oltre il 70% della ricchezza planetaria; storia che, al fine di mantenere lo status quo, ha ‘esportato’ i diritti umani, bombardando anche popolazioni inermi. Ma quello che è qui di interesse è che al mutamento epocale e al consolidamento inequivoco del sistema mercantile ha fatto da contrappasso un mutamento – ci si riferisce al contesto occidentale – dei rapporti politici di forza all’interno delle democrazie classiche. Possiamo dare per assodato il tramonto delle democrazie fondate sul fine, almeno teorico, della salvaguardia della dignità e del benessere diffuso dei consociati. È il tramonto delle istituzioni fondate sul welfare state. Se sino al secolo scorso democrazia e liberismo hanno convissuto, oggi l’espansione del mercato nella sua forma più feroce ha fatto arretrare più di una conquista democratica. Lo Stato che si ritrae dal suo ruolo sociale si limita a ergersi custode degli interessi e delle compatibilità economiche. Per far questo si rende necessario, a mo’ di vasi comunicanti, rafforzare l’esecutivo a scapito del rappresentante del popolo, il Parlamento, svuotato del suo ruolo attraverso l’artificio di leggi elettorali finalizzate esclusivamente alla governabilità a tutti i costi, a scapito della rappresentanza. Un Parlamento che si limita a ratificare decisioni già prese, anche in materia penale, ove la decretazione di urgenza è ormai lo standard della produzione legislativa.

In Italia non esiste attualmente alcun fenomeno di antagonismo diffuso e condiviso in ampi strati della popolazione, come pure era accaduto negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso, ma, per alcuni, non è da escludere che ciò possa in futuro rappresentarsi. Il diritto penale estremo, non cura ma previene, non reinserisce il condannato nel consorzio civile, ma lo deporta, inabilitandolo permanentemente, fuori dallo stesso. E ciò differenziandosi dal diritto penale dell’emergenza. All’uopo, si rende necessario esaminare il contesto politico e sociale sinotticamente per comprendere le differenze.

Le leggi dell’emergenza in chiave politica, cioè contro le organizzazioni armate e la sovversione diffusa, sono frutto della prima Repubblica, decise, come furono, in ambito parlamentare, fino a realizzarsi una saldatura tra il principale partito di opposizione, il Pci, e settori della magistratura[46]. In materia di delitti politici, inoltre, il diritto penale dell’emergenza deve riconoscere, malgrado tutto, una identità all’antagonista, tanto da teorizzare, prevedere e proporre strumenti giuridici quali la delazione (collaborazione di giustizia) o l’abiura (norme sulla dissociazione) come previsto dalla l. n. 304/1982 (misure per la difesa dell’ordinamento costituzionale)[47].

Oggi, di tutta evidenza, il Parlamento, come accennato, ratifica le volontà dell’Esecutivo. Sul quale, e non occasionalmente, grava l’opinione cogente della magistratura. Questo ci porta ad un secondo momento di riflessione. A partire dagli anni Novanta del secolo scorso, attraverso un sapiente uso dell’informazione – e a fronte di un oggettivo scadimento del rapporto di fiducia tra cittadini e politica – la magistratura ha operato una sorta di espansione istituzionale, assumendo un ruolo assolutamente innovativo, mai smentito. Questo è stato possibile attraverso l’uso della informazione embedded, che ha operato quale cassa di risonanza dell’operato dei giudici.

Ma i mezzi di comunicazione di massa hanno un ulteriore demerito nella definizione del diritto penale estremo. Essi sono stati, per larga parte, l’agenzia educativa che si è incaricata di individuare di volta in volta il nemico necessario da somministrare in pasto alla cosiddetta opinione pubblica, operando altresì come creatori del senso, spesso immotivato, di insicurezza e latori della corrispondente esigenza di sicurezza[48]. E se prima era il nemico era il mafioso o il tangentista si è poi passati, in base alle necessità del momento, alla indicazione dei migranti e dei marginali quali nemici diffusi. In questo caso, l’evidenza dell’impossibilità di definire concettualmente e praticamente la pericolosità di tali soggetti ha imposto la predefinizione di un ambito nel quale collocarli per renderli artificialmente riconoscibili e quindi stigmatizzarli.

È noto che le ‘campagne sicurezza’ partite sul finire degli anni Novanta del secolo scorso poggiavano i loro postulati su dati relativi alla criminalità i cui numeri erano ‘anabolizzati’. Ma ciò è risultato funzionale all’ascesa di alcuni partiti politici, nel silenzio pressoché assoluto delle menti più progressiste che, avendo perso da tempo la bussola del garantismo, hanno finito negli anni per proporre la propria emergenza sicurezza ‘dal volto umano’![49]

Eventi internazionali poi hanno fornito la classica occasione per ben oleare tale meccanismo. È innegabile che nulla sia come prima dopo le Torri gemelle. Da quel momento il pericolo si è ipostatizzato nel nemico dalla carnagione scura, barbuto, col turbante che vive in anfratti oscuri e lontani. E i nuovi dispositivi del panpenalismo hanno impiegato poco tempo per transitare anche in un ambito nazionale[50].

Questa nuova forma di diritto penale estremo utilizza l’identità per proporla come folk devil[51], come elemento terrorizzante, per legittimare una dichiarazione di guerra preventiva, prima che altri, i nemici appunto, possano dichiarare guerra all’ordinamento. E il folk devil viene somministrato dopo aver elargito sapientemente il moral panic[52]: una situazione di insicurezza, fragilità, di necessità di difesa sociale. Per la quale tutto è consentito, anche passare dalla sospensione delle garanzie costituzionali alla loro patente violazione, mediante esorbitanti aumenti di pena, ulteriori torsioni autoritarie del processo, meccanismi detentivi differenziali. E questo costituisce la sublimazione e il transito dal diritto penale dell’emergenza al diritto penale estremo.

 

  1. Considerazioni (provvisoriamente) conclusive.

 

La conformità dell’ordinanza citata al trend descritto si può verificare osservando le condotte materiali ascritte e poste a fondamento della contestazione di finalità terroristiche ed eversive. È tutto da provare, ed è anzi di difficile compatibilità con il sistema nel suo insieme, se aver appiccato il fuoco ad un ripetitore delle telecomunicazioni, cagionando disturbi all’emissione del segnale televisivo e a quello delle trasmissioni della Guardia di finanza[53], sia condotta idonea a costringere i pubblici poteri a tenere un determinato contegno e se possa aver addirittura destabilizzato le strutture politiche. Possiamo davvero ritenere che uno Stato democratico, saldo il suo Esecutivo, possa mutare la propria linea politica anche qualora tale gesto sia davvero, come in imputazione, rivolto al contrasto delle tecnologie di controllo? Non è l’atto in sé, punibile peraltro aspramente in base ad altre fattispecie di parte speciale, ad essere oggetto di valutazione. Al fine di esercitare l’attività di repressione è condizione sufficiente, causa efficiente – lo si ribadisce – dotarsi della lente distorsiva che tende a fare emergere e a dare risalto all’atteggiamento interiore dell’agente quale nuovo, unico, elemento costitutivo della fattispecie di reato[54].

Che dire, poi, della contestazione di istigazione alla violenza per mezzo di articoli, volantini, manifesti e scritte murali, aggravata dalla finalità di eversione dell’ordine democratico. Ci si chiede quale reale affidamento nutra nello Stato chi ritenga in qualche misura verificabile un reato di istigazione eversiva nei confronti delle istituzioni, di fronte a simili forme di velleitarismo linguistico o politico o, forse, di un donchisciottesco reato impossibile[55].

Provoca oggettivo stupore ritenere violento un manifesto in cui viene rappresentata una mano che, impugnando una tenaglia, sia intenta a recidere un filo spinato. Non abbiamo forse, pensando ai campi di concentramento o ai reticolati, ringraziato quelle cesoie, fin dalla Costituzione nata dalla Resistenza, quando hanno definitivamente reciso quei reticolati di orrore? Ma ricordando la differenza ontologica tra materialità e offensività, possiamo consentirci di offrire rilevanza penale ad una scritta murale, in questa società liquida e ai tempi dei social[56]?

Ma l’iperbole logica e giuridica, figlia evidentemente dello stesso spirito che ritiene ancora conservabili nell’ordinamento democratico fattispecie di reato figlie di un’epoca e di assetti istituzionali ben diversi, fa postulare come eversivo dell’ordine democratico e volto a destabilizzare le strutture economiche dello Stato, financo il danneggiamento di uno sportello bancomat della Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Anche qualora ci si fosse trovati di fronte alla distruzione totale dello sportello bancomat (fatto peraltro non contestato, trattandosi del mero danneggiamento dello schermo dello sportello), ci si interroga sgomenti su quale correlazione con l’offesa ad un bene giuridico di primaria rilevanza sovraindividuale si sia, ancora una volta, realizzata. Possiamo davvero equiparare le sorti di uno sportello bancomat, ma addirittura anche di un intero istituto di credito, con le sorti delle istituzioni democratiche? Se così fosse scopriremmo che, in realtà, le sorti economiche di tutti noi dipendono dal sistema creditizio privato.

Ma ciò che meglio di ogni analisi suggella il ricorso ad una esasperata prevenzione è l’affermazione secondo cui «Le evidenze raccolte in questo ultimo periodo, caratterizzato dalle misure di contrasto all’emergenza epidemiologica del Covid-19, hanno evidenziato l’impegno degli appartenenti al sodalizio de quo alla organizzazione di riservati incontri tesi ad offrire il proprio diretto sostegno alla campagna “anti-carceraria”, accertando la loro partecipazione ai momenti di protesta concretizzatisi in questo centro. In tale quadro, l’intervento, oltre alla sua natura repressiva per i reati contestati, assume una strategica valenza preventiva volta ad evitare che in eventuali ulteriori momenti di tensione sociale, scaturibili dalla particolare descritta situazione emergenziale, possano insediarsi altri momenti di più generale “campagna di lotta antistato” oggetto del citato programma criminoso di matrice anarchica»[57].

Qui il rimprovero penale, il processo penale, vengono chiamati ad assolvere ad una funzione che costituisce una vera e propria violazione delle norme costitutive il patto sociale democratico. Le norme fondamentali sono immolate sull’altare di una diffusiva narrazione ‘tossica’ volta a criminalizzare, preventivamente, prima che condotte, persone identificate per tipi di autore, ma ancor di più idee, speranze, forse anche sogni.

La ricostruzione fin qui proposta, letta attraverso il prisma del comunicato stampa della procura bolognese da ultimo citato, conferma l’attuale presenza nel nostro ordinamento di un’area di sospensione delle garanzie costituzionali, formalmente applicata per classi di reato, sostanzialmente utilizzata nei confronti di peculiari tipi di autore. Come fu detto nella stagione del conflitto diffuso degli anni ‘70 e ‘80 in Italia, «siamo in presenza di uno stato di eccezione e di una forma legale di ciò che non può avere forma legale»[58].

[1] Gip Trib. Bologna, 6 marzo 2020, inedita.

[2] Per un’efficace e sintetica ricostruzione delle principali questioni in tema, si rinvia a M. Pelissero. Delitti di terrorismo, in M. Pelissero (a cura di), Reati contro la personalità dello Stato e contro l’ordine pubblico, Torino, 2010, p. 159 ss.

[3] Cass. pen., Sez. V, 23 febbraio 2012, n. 12252, in Cass. pen., 2012, fasc. 10, p. 3329 ss.

[4] R. Barberini, ‘Sovversivi non terroristi’, La Corte di Cassazione offre una rivoluzionaria interpretazione dell’art. 270 bis, in Cass. pen., 2012, p. 3347.

[5] Cass. pen., Sez. VI, 15 maggio 2014, n. 28009, in Cass. pen., 2015, fasc. 6, p. 2265, con nota di M. Bendoni, Assalto al cantiere t.a.v. di Chiomonte: non fu terrorismo, p. 2266B ss.; nonché di A. Zacchia, Osservazioni a Cass. Pen., sez. VI, n. 28009, 15 maggio 2014, p. 1115 ss.

[6] S. Zirulia, No Tav. La Cassazione fissa i parametri interpretativi in merito alle condotte di attentato ed alle finalità di terrorismo, disponibile in: archiviodpc.dirittopenaleuomo.org/d/3186.

[7] Voce Terrorismo in Enciclopedia italiana, http://www.treccani.it/vocabolario/terrorismo/.

[8] Secondo l’accezione fornita da E. Hobsbawn, Il secolo breve 1914-1991, Milano, 1995.

[9] Che è anche il titolo originale di un film proprio sulla guerra all’Iraq e sul ruolo dei media, Attacco alla verità (Shock and Awe) di Rob Reiner, Castle Rock Entertainment, 2017.

[10] Si tratta di otto conferenze svoltesi tra il 1927 ed il 1947 su iniziativa dell’Association international de droit penal e del Bureau international pour l’unification du droit penal. Cfr. Actes de la conference de Varsavie, Paris, 1929; Actes de la conference de Rome, Roma, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1931; Actes de la conference de Bruxelles, Office de pubblicitè, Bruxelles,1931; Actes de la conference de Paris, Paris, 1933; Actes de la conference de Madrid, Paris, 1935; Actes de la conference de Copenaghen, Paris, 1938; Actes de la conference de Cairo, Paris, 1939; Actes de la conference de Bruxelles, Paris, 1949.

[11] A. Gioia, Terrorismo internazionale, crimini di guerra e crimini contro l’umanità, in Riv. dir. int., 2004, lxxxvii, p. 5 e ss.

[12] C. Di Stasio, La lotta multilivello al terrorismo internazionale. Garanzia di sicurezza versus tutela dei diritti fondamentali, Milano, 2010, p. 32 e ss.

[13] Convention on offences and certain others acts committed on board aircraft, 14 settembre1963; Convention for the suppression of unlawful seizure of aircraft, 16 dicembre 1970; Convention for the suppression of unlawful acts against the safety of civil aviation, 23 settembre 1971.

[14] Convention for the suppression of unlawful acts against the safety of maritime navigation, 10 marzo 1988.

[15] Convention on the prevention and punishment of crimes against internationally protected persons, including diplomatic agents, 14 dicembre 1973.

[16] Organizzazione per la liberazione della Palestina, a lungo guidata da Yasser Arafat (1929-2004), leader della fazione di Al Fatah.

[17] Risoluzione n. A/RES/27/3034 del 18 dicembre 1972, reperibile all’indirizzo https://undocs.org/en/A/RES/3034(XXVII).

[18] Sul problematico tema definitorio del terrorismo internazionale, sulla questione dei movimenti di liberazione nazionale e sul terrorismo degli Stati si interroga V. MASARONE, Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale, Napoli, 2013, p. 77 e ss.

[19] La Convenzione è entrata in vigore il 4 agosto 1978, per l’Italia l’1 giugno 1986 che vi ha dato esecuzione con la legge n. 719/85.

[20] Parla di depoliticizzazione dei reati, A. Gioia, Terrorismo internazionale, cit., p. 5 ss.

[21] In Gazzetta Ufficiale delle Comunità Europee, n. 55 del 24 febbraio 1997, p. 27 e ss.

[22] Per completezza si segnala che il 15 marzo 2017 è stata approvata la direttiva 2017/541/UE destinata a sostituire la decisione quadro 2002/475/GAI.

[23] Si è deciso, infatti, di occuparsi esclusivamente del tema del c.d. terrorismo politico interno, oggi apparentemente meno rilevante di quello internazionale fondamentalmente a contenuto religioso.

[24] Dati ricavati da N. Balestrini, P. Moroni, L’orda d’oro, 1968-1977. La grande ondata rivoluzionaria e creativa, politica ed esistenziale, di N. Balestrini, P. Moroni, Milano 1988, Introduzione.

[25] Francesco Cossiga (1928-2010) all’epoca era Ministro dell’Interno. Il suo nome è legato alla storia della Repubblica Italiana. Da Presidente della Repubblica rivendicò la paternità e la doverosità dell’operazione Stay Behind, meglio nota come ‘Gladio’.

[26] Era stato lo stesso Giuliano Vassalli ad ascrivere espressamente ad Arturo Rocco tale volontà legislativa, cfr. G. Vassalli, Propaganda sovversiva e sentimento nazionale in Giur. cost., 1966, I, p. 1018 ss.

[27] G. Lattanzi, E. Lupo, Codice penale, Rassegna di giurisprudenza e dottrina, VI, Milano, 2015, p. 178 ss.

[28] Cass. pen., sez. I, 11 luglio 1987, n. 11382, in De Jure on line.

[29] Si dava così avvio alla temporanea compressione delle ordinarie garanzie democratiche, diventata elisione permanente. Sulla patologia delle norme dell’emergenza e sui riflessi in tema di processo neoinquisitorio, ineludibile è la lettura di S. MOCCIA, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 1997, p. 29 e ss.

[30] Cfr. A. Gioia, Terrorismo internazionale, cit., p. 5 e ss. L’autore sottolinea come in tale convenzione sia rinvenibile una prima definizione organica di terrorismo all’art. 2 par. 1.

[31] Su tale strumento di diritto internazionale vedi anche V. Todeschini, Ripensare il terrorismo nel diritto internazionale. Una ricerca sul concetto giuridico di terrorismo internazionale di Stato, in Jura Gentium, X, n. 1, 2013, p. 7 e ss.

[32] Sulle definizioni di terrorismo, anche alla luce delle disposizioni internazionali, c. fra gli altri A. Valsecchi, Il problema della definizione di terrorismo, in Riv. it. dir. proc. pen. 2004, p. 1127 ss., nonché F. Viganò Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica ed art. 270 bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, in Cass. pen., 2007, p. 3953B.

[33] Queste le testuali dichiarazioni del relatore Boscetto, in Atti del senato, XIV Legislatura, 858° seduta pubblica, venerdì 29 luglio 2005, Resoconto sommario e stenografico, p. VII.

[34] Analizza gli interrogativi definitori ed ermeneutici delle condotte con finalità di terrorismo consustanziali alla rubrica dell’art. 270 sexies c.p., V. MASARONE, Politica criminale e diritto penale nel contrasto al terrorismo internazionale, cit., p. 209 e ss.

[35] A. Cavaliere, Il contrasto al terrorismo tra esigenze di tutela e garanzie individuali, in Dir. pen. proc., 2017, fasc. 8, p. 1089.

[36] E da tale possibilità potrebbe scaturire un danno patrimoniale, o addirittura di immagine, come evidenziato da A. Cavaliere, Il contrasto al terrorismo, cit.

[37] Sul tema del dolo specifico in subiecta materia G. MARINUCCI, E. DOLCINI, G. L. GATTA, Manuale di diritto penale, Parte Generale, 9ª ed., Milano, 2020, pp. 539-540.

[38] Definisce l’eversione come ‘sottoipotesi’ del terrorismo nell’art. 270 sexies c.p. F. Viganò, Terrorismo di matrice islamico-fondamentalistica ed art. 270 bis c.p. nella recente esperienza giurisprudenziale, in Cass. pen., fasc. 10, 2007, p. 3953B.

[39] L. Brizi, L’illecito penale costruito ex latere subiecti: la “finalità di terrorismo” alla prova del diritto penale del fatto in Dir. pen. cont., n. 1/2017, numero monografico, Terrorismo e sistema penale: realtà, prospettive, limiti, p. 15 e ss.

[40] Ancora la disamina di L. Brizi, L’illecito penale costruito ex latere subiecti, cit., p. 24 e ss, che rammenta peraltro la celebre sentenza “No Tav”, Cass. pen., Sez. VI, 15 maggio 2014, n. 28009.

[41] Vasta la letteratura in merito. Si segnala da ultimo, senza pretesa alcuna di esaustività, G.N. Berti, Un’idea esagerata di libertà. Introduzione al pensiero anarchico, Milano 2015; A. Senta, Utopia ed azione, per una storia dell’anarchismo in Italia (1848-1984), Milano, 2015.

[42] Edoardo Massari (Baleno) e Maria Soledad Rosas (Sole) furono arrestati il 5 marzo 1998 insieme a Silvano Pellissero. All’alba del 28 marzo, dopo ventitré giorni di prigionia, Baleno si suicidò nel carcere di Torino. Analoga scelta ebbe a compiere Sole l’11 luglio.

[43] Ci si riferisce al noto pensiero di G. Jakobs, Diritto penale del nemico? Una analisi sulle condizioni della giuridicità, in A. Gamberini, R. Orlandi (a cura di), Diritto penale e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 109 e ss., espresso anche in altri lavori dello stesso Autore; v. pure G. Jakobs – M. Cancio Meliá, Derecho penal del ciudadano y derecho penal del enemigo, Madrid, 2003, p. 21 e ss.

[44] Cfr. M. Donini, Il diritto penale di fronte al nemico? in Cass. pen., 2006, p. 734 e ss., nonché Id. Diritto penale di lotta vs diritto penale del nemico, in A. Gamberini, R. Orlandi, (a cura di), Diritto penale e diritto penale del nemico, Bologna, 2007, p. 131 e ss.

[45] Una scienza molto morale e molto estetica, dunque, ma forse poco verace, o se si preferisce una scienza sul dover essere del diritto penale, più che riferita al suo essere normativo vigente. Così M. Donini, Il diritto penale di fronte al nemico?, cit., p. 736 e ss.

[46] È il caso del c.d. processo alla Autonomia Operaia a carico, tra gli altri, di Toni Negri, Emilio Vesce, Oreste Scalzone, nel quale l’operato del p.m. Calogero fu fortemente sostenuto proprio dal Pci. Sul tema si segnala, tra gli altri, L. Ferraioli, Lineamenti di un processo inquisitorio, in Dei delitti e delle pene, 1/1983, p. 202 e ss; G. Palombarini, Il processo 7 aprile nei ricordi del giudice istruttore, Venezia 2014; D. Fiorentino – X. Chiaramonte, Il caso 7 aprile, Il processo politico dall’Autonomia Operaia ai No Tav, Milano-Udine 2019.

[47] Sulle scelte interamente politiche e sul riconoscimento del conflitto sociale e politico e dei suoi protagonisti sarà lo stesso Francesco Cossiga a riflettere criticamente. Si veda G. BIANCONI, Cossiga e gli ex BR, le lettere inedite: Mi sento in colpa per la sua prigionia in Corriere della Sera, 7 agosto 2020, disponibile in www.corriere.it.

[48] M. Caterini, Criminalità, politica e mass media, in Pol. dir., 2013, p. 601 e ss.

[49] In tema di sicurezza si invita a leggere sinotticamente il d.l. n. 13/2017, convertito con l. n. 46/2017, nonché il d.l. n. 14/2017, convertito con l. n. 48/2017 (decreti c.d. Minniti) con il d.l. n. 113/2018, convertito con l. n. 132/2018, unitamente al d.l. n. 53/2019, convertito con l. n. 77/2019 (decreti c.d. Salvini), per apprezzarne le molteplici analogie e le, invero rare, differenze.

[50] Di criminalizzazione identitaria, di variabilità dello status di nemico scrive M. Caterini, Il diritto penale del nemico “presunto”, in Pol. dir., 2015, p. 635 e ss.

[51] La genesi di questa espressione si deve a S. Cohen, Folk Devils and moral panic, Londra, 2002, trad. it., Demoni popolari e panico morale, Milano-Udine, 2019.

[52] Sempre S. Cohen, Demoni popolari e panico morale, cit., p. 50 e ss.

[53] In realtà, stante la contestazione, il fatto appare un danneggiamento più che un incendio.

[54] Il che conferma le intuizioni contenute in J. VERGES, Strategia del processo politico, Milano 1968, e G. SPAZZALI, La zecca e il garbuglio, Dai processi allo Stato alla Stato dei processi, Milano 1981.

[55] Su reato impossibile, materialità e offensività, v., nell’ambito di una vasta letteratura, spec. M. Caterini, Reato impossibile ed offensività. Una indagine critica, Napoli 2004, passim.

[56] Z. Bauman, Modernità liquida, Roma-Bari, 2002.

[57] Dal comunicato stampa della Procura della Repubblica di Bologna, 13 maggio 2020.

[58] G. Agamben, Lo Stato d’eccezione. Homo sacer, II, Torino, 2003, p. 9 e ss.

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