Il presente contributo analizza tre attuali momenti chiave del travagliato iter normativo dell’abuso d’ufficio: la recente riformulazione di cui al d.l. 76/2020; la recentissima proposta di abolizione (d.d.l. n. 808/2023); l’incriminazione prevista dalla Proposta di direttiva della Commissione europea COM(2023)234 sulla lotta contro la corruzione. Dopo un breve excursus generale sulla fattispecie, l’attuale formulazione viene esaminata ponendo in evidenza come con il d.l. 76/2020 non siano stati conseguiti né l’obiettivo di mettere il pubblico funzionario al riparo da iniziative giudiziarie imprevedibili (specie con riguardo alle ipotesi di conflitto di interessi) né, tantomeno, quello di garantire un livello di tutela delle pubbliche funzioni sufficiente e omogeneo. Procedendo da questa prospettiva, avvalorata dai dati sul rapporto fra il numero dei procedimenti e delle condanne, si sostiene come l’originaria debolezza strutturale della fattispecie, unitamente all’intrinseca contraddittorietà del nuovo precetto, abbiano determinato il fallimento anche della recente riformulazione giustificando, per converso, la proposta abolitiva. Inoltre, si è analizzata la Proposta di direttiva europea sulla corruzione (considerata da taluni studiosi come ostativa all’abolizione del reato), evidenziandone le carenze sotto il profilo della tipicità e della proporzionalità dell’incriminazione di abuso d’ufficio ivi contenuta. Attraverso le riflessioni conclusive si è tentato di proiettare il dibattito su di una progressiva integrazione fra ordinamento penale e amministrativo.
Abuse of functions: where do we stand?
This paper analyses three current key moments in the troubled regulatory process of abuse of functions: the recent reformulation as set out in Legislative Decree 76/2020; the very recent proposal to abolish it (Legislative Decree no. 808/2023); and the incrimination envisaged by the European Commission’s Proposal for a Directive COM(2023)234 on the fight against corruption. After a brief general excursus on the offence, the current wording is examined, highlighting how Law Decree 76/2020 did not achieve either the objective of sheltering public officials from unforeseeable judicial initiatives (especially with regard to hypotheses of conflict of interest) or, even less, that of guaranteeing a sufficient and homogeneous level of protection of public functions. Proceeding from this perspective, corroborated by the data on the ratio between the number of proceedings and convictions, it is argued that the original structural weakness of the case, together with the intrinsic contradictory nature of the new precept, have determined the failure even of the recent reformulation, justifying, conversely, the proposal for its abolition. In addition, the Proposal for a European Directive on Corruption (considered by some scholars as an obstacle to the abolition of the offence) was analysed, highlighting its shortcomings in terms of the typicity and proportionality of the incrimination of abuse of functions contained therein. Through the concluding reflections, an attempt was made to project the debate on a progressive integration of the criminal and administrative systems
SOMMARIO: 1. Tutto cambia perché nulla cambi: l’abuso d’ufficio a seguito della riforma di cui al d.l. 76/2020. – 2. Sulla proposta di abolizione della fattispecie (Disegno di legge n. 808, 19 luglio 2023). – 3. La Proposta di direttiva europea COM(2023)234 sulla lotta contro la corruzione: una soluzione “sgrammaticata”. – 4. Riflessioni conclusive: fra ineliminabili distorsioni applicative e progressiva integrazione con l’ordinamento amministrativo.
1. Tutto cambia perché nulla cambi: l’abuso d’ufficio a seguito della riforma di cui al d.l. 76/2020
L’abuso d’ufficio è una fattispecie che presenta un’intrinseca problematicità, poiché si pone come norma di chiusura dell’apparato penalistico dei reati contro la pubblica amministrazione, attestandosi al contempo come condizione e limite del sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa. La natura “ancipite” di questo reato, al confine fra il diritto penale e quello amministrativo, si riflette inesorabilmente sulla sua fisionomia, determinando rilevanti criticità in termini di tipicità e determinatezza del precetto.[1] Per questa ragione, storicamente, dottrina e giurisprudenza hanno tentato di definire i confini applicativi di questa fattispecie. Sotto questa prospettiva deve essere analizzata l’ultima riforma di cui al decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, che ha fatto seguito alle riformulazioni al testo originario del Codice Rocco del 1990 e del 1997.[2]
L’apprezzabile intento legislativo comune alle pur eterogenee disposizioni contenute nel d.l. 76/2020 è stato quello di attribuire maggiore determinatezza alla disposizione al fine di arrestare il fenomeno della c.d. “burocrazia difensiva”, inconciliabile con gli obiettivi europei di ripresa economica del Paese. L’approccio seguito risulta quindi in controtendenza rispetto alla “caccia” al funzionario infedele che ha caratterizzato invece la legge Severino e, ancor più, la legge Spazza-corrotti. Tuttavia, questa svolta in senso garantista, celebrata come una vera e propria rivoluzione copernicana, ha prodotto non poche storture di sistema e non sembrerebbe aver soddisfatto appieno la sua ratio ispiratrice. Prova ne è il fatto che le iscrizioni di reato per abuso d’ufficio risultano ancora copiose e che l’interpretazione giurisprudenziale della norma non sempre è univoca.
La norma sull’abuso d’ufficio non è stata integralmente riformulata, ma notevoli sono state le innovazioni introdotte dal legislatore del 2020 nella struttura della fattispecie a seguito della sostituzione dell’inciso «in violazione di legge o di regolamento» con l’articolata formula «in violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità». Il reato in esame, così come novellato, sembrerebbe ora configurabile nei soli casi in cui la violazione di legge da parte dell’agente pubblico abbia avuto ad oggetto: regole dettate da norme di legge o da atti aventi forza di legge, dunque non anche da meri regolamenti ovvero da altri atti normativi di fonte sub primaria; specifiche regole di condotta e non anche regole di carattere generale; regole formulate in termini tali da non lasciare alcun margine di discrezionalità all’agente, restando perciò esclusa l’applicabilità della norma incriminatrice laddove quelle disposizioni di condotta rispondano in concreto, anche in misura marginale, all’esercizio di un potere discrezionale. Diversamente, il riferimento all’elemento psicologico del dolo intenzionale è rimasto immutato. Allo stesso modo non è stata modificata la modalità alternativa di condotta meramente omissiva, consistente nella violazione dell’obbligo di astensione. In quest’ultima modalità di condotta la fonte normativa della violazione è da individuarsi nella norma penale stessa, seppure mediante il rinvio (ma solo per i casi diversi dalla presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto) ad altre fonti normative extra-penali che prescrivono lo stesso obbligo di astensione.[3]
Dunque, si è voluto restringere considerevolmente il “raggio di fuoco” del delitto di abuso d’ufficio, operando rispettivamente sulle norme generiche e sulle norme non vincolanti, giacché le prime possono porsi in contrasto con il principio di legalità (in particolare di precisione e prevedibilità), mentre le seconde, quelle non vincolanti, accentuano il rischio di sconfinamenti del giudice penale nella discrezionalità amministrativa.[4] Benché tali obiettivi, in linea di principio, siano ampiamente condivisibili, vi sono alcuni profili di criticità risultanti dalla nuova fisionomia del reato e dalla prassi applicativa che sembrano non garantire le esigenze di certezza che hanno ispirato il legislatore della riforma.
Un primo profilo che pone alcune perplessità riguarda i casi di c.d. eterointegrazione, id est di configurabilità del reato di abuso d’ufficio per violazione mediata di norme interposte. L’ipotesi più ricorrente nella prassi attiene al rilascio di permessi di costruzione in violazione delle previsioni in materia edilizia-urbanistica, quali ad esempio il Piano Regolatore o il Piano Strutturale Comunale.[5] La Corte di cassazione ha affrontato in più occasioni tale questione, giungendo però ad esiti interpretativi discordanti. Parte della giurisprudenza di legittimità ha accolto un’interpretazione restrittiva coerente con l’intentio legislatoris, negando che possa essere integrato l’abuso d’ufficio attraverso la condotta contraria a norme di fonte sub primaria.[6] In altri pronunciamenti, tuttavia, la giurisprudenza ha riconosciuto l’integrazione del reato individuando la “base legale” dell’abuso penalmente rilevante nel t.u. edilizia, dopo aver sottolineato come «il permesso di costruire, per essere legittimo, deve conformarsi alle previsioni degli strumenti urbanistici, dei regolamenti edilizi e della disciplina urbanistico-edilizia vigente…[rientranti nella categoria] degli atti amministrativi generali la cui violazione rappresenta solo il presupposto di fatto della violazione della normativa legale in materia urbanistica (art. 12 e 13 del d.P.R. n. 380 del 2001)[…], normativa a cui deve farsi riferimento, per ritenere concretata la “violazione di legge”, quale dato strutturale della fattispecie delittuosa ex art. 323 c.p. anche seguito della modifica normativa».[7] Com’era prevedibile, dunque, le imprecisioni della nuova formulazione legislativa hanno fatto sì che la la norma mantenesse la sua forza espansiva, permettendo ad una parte della giurisprudenza di non conformarsi alle istanze di politica criminale promosse con la riforma. Del resto, la disposizione della nuova fattispecie non prevede espressamente, come sarebbe stato auspicabile, che la regola di condotta sia “contenuta o direttamente prevista” dalla legge. Ciò ha determinato, inevitabilmente, esiti interpretativi incerti ed in evidente contraddizione con gli obiettivi di certezza e prevedibilità perseguiti dal legislatore.
Un ulteriore profilo di criticità nella nuova formulazione normativa – che ha animato il dibattito dottrinale – attiene al requisito negativo dell’assenza di residui margini di discrezionalità. Tale locuzione appare foriera (sia in punto di determinatezza della fattispecie sia di limite al sindacato penale sulle valutazioni amministrative) delle medesime incertezze applicative proprie della precedente formulazione.[8] La discrezionalità, invero, non costituisce una categoria univoca; al contrario, essa assume significati diversi in relazione al contesto applicativo. È sufficiente considerare le numerose sfaccettature che hanno assunto nel tempo il concetto di discrezionalità (amministrativa, tecnica, vincolata, politica, etc.), nonché i concetti inafferrabili di merito amministrativo e di eccesso di potere, per giungere alla conclusione che non si possa confidare nella tecnica normativa utilizzata.[9] Come acutamente rilevato, il rinvio all’assenza di margini di discrezionalità rende il precetto in parte “bianco”.[10] Tale “assenza” configura un elemento di reale integrazione, sebbene negativo, e perciò il giudice penale potrebbe paradossalmente esercitare un sindacato persino superiore sulle scelte amministrative adottate, ricorrendo all’indagine del fondamento del potere esercitato.[11] Ancorché tale rischio appaia – ad oggi – scongiurato, dal momento che la giurisprudenza si è finora dimostrata sensibile alla ratio restrittiva del precetto, non si può tuttavia escludere che in futuro – attraverso una interpretazione della disposizione normativa astratta – si giunga ad esiti distanti, se non opposti, rispetto a quelli voluti dal legislatore. D’altra parte, la disposizione incriminatrice è stata resa “bianca” in relazione ad un elemento extra-penale dal significato variabile. Ciò implica che la tassatività del precetto dipenda dalla interpretazione giudiziale delle disposizioni extra-penali che conferiscono e regolano il potere discrezionale, strumentale all’esercizio della funzione pubblica. A ciò si aggiunga che il requisito negativo dell’assenza di residua discrezionalità amministrativa non è sempre compatibile con l’invalido esercizio di essa, in particolare quando ricorre un’ipotesi di sviamento di potere. A tal proposito, si riporta un rilevante obiter dictum della Suprema Corte, con il quale sembra essersi aperta un’ulteriore breccia nell’intero impianto disegnato dal legislatore nel Decreto Semplificazioni. La Corte di cassazione ha affermato infatti che il residuo di discrezionalità impedisce l’attivazione della risposta penale salvo che «l’esercizio del potere discrezionale non trasmodi tuttavia in una vera e propria distorsione funzionale dai fini pubblici – c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità – laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito».[12] Tale soluzione, come evidente, non può essere accolta, dal momento che la valutazione sulla distorsione teleologica della funzione amministrativa determinerebbe un ritorno ad una concezione di abuso eminentemente soggettiva, antitetica rispetto alla natura di reato di evento voluta dal legislatore.[13] Peraltro, ciò consentire al giudice penale un sindacato sull’atto molto simile a quello sul vizio di eccesso di potere che, come osservato in dottrina, comporta in concreto una “consegna” al giudice delle “chiavi” del merito amministrativo.[14] Tale indirizzo ermeneutico, dunque, aprirebbe la strada ad un ennesimo scollamento fra l’obiettivo di politica criminale perseguito dal legislatore attraverso la riformulazione del precetto ed il c.d. diritto vivente.
Infine, come segnalato già in sede di primo commento, vi è un terzo e ulteriore elemento che – contrariamente alla logica di politica criminale del legislatore – appare in grado di (ri)dilatare nuovamente i confini applicativi della fattispecie di abuso d’ufficio. Ci si riferisce ai casi di omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto o negli altri casi prescritti, non interessati dalla riformulazione del precetto poiché speciali rispetto alle generica violazione di norme di legge o di regolamento. La capacità estensiva della fattispecie di omessa astensione, a seguito della riforma del 2020, risulta particolarmente rilevante in relazione alla locuzione «negli altri casi prescritti». Si è correttamente rilevato, infatti, come questa formula sia in grado di ricomprendere ipotesi di abuso d’ufficio in situazioni di conflitto di interesse disciplinate da fonti regolamentari e sub legislative e da regole, anche di fonte primaria, specifiche o non, che lasciano residuare margini di discrezionalità.[15].
Si pensi ad esempio al delicato tema del conflitto di interessi per c.d. “sodalizio professionale” nell’ambito dei concorsi per docenti universitari. L’assenza di conflitti di interesse, in capo ai dipendenti pubblici, è il presupposto sostanziale per la tutela della imparzialità del potere pubblico-amministrativo, tuttavia nel nostro ordinamento non esiste una definizione univoca di “conflitto di interesse”, né una norma che ne preveda in modo analitico tutte le ipotesi e gli elementi costitutivi.[16]
L’individuazione della situazione di conflitto di interesse è rimessa, pertanto, alla discrezionalità amministrativa dell’organo investito del potere decisionale, di volta in volta chiamato ad effettuare una scelta amministrativa. Sul piano processual penalistico spetta, dunque, al giudice penale chiamato a valutare la configurazione del reato di abuso d’ufficio “per omissione” il gravoso compito di definire – ex post – se nel caso portato alla sua attenzione ricorra o meno un’ipotesi di conflitto di interessi, in virtù del quale il pubblico funzionario si sarebbe dovuto astenere. Tale assetto, come evidente, determina un grave vulnus in termini di prevedibilità delle conseguenze del proprio agire da parte del pubblico agente, il quale si trova costretto a dover scegliere se procedere o meno all’adempimento delle sue funzioni senza alcun reale e certo parametro normativo di riferimento. Nel contesto dei concorsi universitari, in particolare, si registra un marcato deficit di fonti primarie e sub primarie.[17] A tal riguardo si è espressa di sovente la giurisprudenza amministrativa che ha tentato di stabilire in via ermeneutica il concetto di “sodalizio professionale”, specificando le ipotesi nelle quali ricorre un conflitto di interessi giuridicamente rilevante.[18] Secondo l’orientamento prevalente si ha conflitto di interessi qualora il rapporto fra giudicante e giudicato assume una rilevanza di intensità “speciale”, poiché «connotato da caratteri di stabilità e reciprocità di interessi di carattere economico»[19]; mentre non assurgerebbe a conflitto di interessi giuridicamente rilevante il mero “coautoraggio”, trattandosi di una pratica ricorrente e talvolta inevitabile nella prassi accademica.[20] In sostanza, si configura un conflitto d’interessi quando si possa ritenere – in virtù di un criterio meramente teleologico – che il potere amministrativo sia stato orientato al perseguimento di interessi di natura personale, ulteriori e diversi rispetto all’interesse pubblico.[21] Con una recente sentenza il Consiglio di Stato ha confermato questo indirizzo, ribadendo come la procedura concorsuale sia da considerarsi illegittima qualora intercorra fra le parti un rapporto personale di tale intensità da far sorgere il sospetto che il giudizio non sia stato improntato al rispetto del principio di imparzialità.[22] Tuttavia, muovendo da questa premessa, che valorizza la portata precettiva dell’art. 97 Cost., si impone al pubblico funzionario una valutazione circa la legittimità della sua azione sulla base degli “inafferrabili” principi di imparzialità e buon andamento, certamente troppo ampi e discrezionali perché possano orientare efficacemente la condotta del pubblico agente. Di conseguenza, stante l’immutata configurabilità del reato di abuso d’ufficio per omissione ante e post riforma del 2020, si può ragionevolmente prevedere che l’abuso d’ufficio per omessa astensione in caso di conflitto di interessi potrà costituire il “grimaldello” per riespandere la forza punitiva indeterminata che caratterizza, dalla sua origine, questa fattispecie di reato. In particolare, ciò risulta tanto più prevedibile con riguardo agli ambiti, quale quello dei concorsi universitari, in cui il concetto di conflitto di interesse è definito dalla mera interpretazione giurisprudenziale del lacunoso quadro normativo di riferimento. A questo avviso, dunque, onde evitare gravi disparità di trattamento con riferimento alla responsabilità del pubblico funzionario in relazione alle condotte omissive rispetto a quelle commissive, il legislatore potrebbe valutare un ulteriore sforzo di tipizzazione della disposizione dell’art. 323, segnatamente con riferimento alla seconda parte della norma inerente all’ipotesi di condotta omissiva, non interessata dalla restrittiva riformulazione del 2020. Diversamente, abbandonando la logica dell’estrema tipizzazione della fattispecie, per le ragioni di cui infra, non appare irragionevole la proposta abrogativa del reato tout court.
2. Sulla proposta di abolizione della fattispecie (Disegno di legge n. 808, 19 luglio 2023)
Come è noto, il 15 giugno 2023 il Consiglio dei Ministri ha approvato il disegno di legge n. S. 808, su iniziativa del Ministro della Giustizia Carlo Nordio, che contiene la proposta di abrogare l’art. 323 c.p. (si segnala che l’abrogazione dell’art. 323 c.p. è prevista altresì dalla proposta di legge C. 645 Pittalis, attualmente all’esame della Commissione Giustizia della Camera).
Nonostante i plurimi interventi normativi, di cui supra, volti a dare maggiore determinatezza alla disposizione (1990, 1997, 2012 e 2020) rimane ancora elevatissimo il numero di iscrizioni nel registro degli indagati: 4.745 nel 2021 e 3.938 nel 2022 (e alla rilevazione mancano sei uffici): di questi procedimenti, 4.121 sono stati archiviati nel 2021 e 3.536 nel 2022, i.e. il 79%. Il numero dei procedimenti per abuso di ufficio è però in forte calo (da 7939 nel 2016 a 5418 nel 2021). Mentre il il rapporto col numero delle condanne è pressoché invariato: da 82 nel 2016 a 18 nel 2021 per i processi giunti a dibattimento, oltre le 44 (sempre del 2021) innanzi alle Sezioni G.i.p./G.u.p.[23]
Questi dati si prestano a differenti, contrastanti letture. Partiamo con ciò che è pacifico: appare netta la riduzione del numero dei procedimenti iscritti nei tribunali ordinari. In particolare, nella sezione gip/gup si è assistito a una riduzione del 40% dei procedimenti iscritti: da 7.930 nel 2016 a 4.838 nel 2021. Tale dato dimostra che la riforma illustrata ha effettivamente ridotto l’ambito applicativo della norma. In secondo luogo, però, è incontestabile che la discrepanza fra il numero di procedimenti avviati e le relative sentenze di condanna sia tuttora esorbitante, poiché alla diminuzione del numero dei procedimenti è seguita in maniera direttamente proporzionale una diminuzione anche del numero delle condanne. Diversamente, ci si sarebbe aspettato che l’opera di tipizzazione normativa avrebbe portato sia ad una riduzione (persino superiore) dei procedimenti sia ad una più efficace e calibrata azione di persecuzione penale. Appare, invece, ancora decisamente eccessivo il numero di iscrizioni di reato per abuso d’ufficio nel 2022, a fortiori se rapportato al numero esiguo di condanne.
Taluni studiosi, tuttavia, interpretano questi dati in senso positivo, evidenziando che la discrepanza fra il numero dei procedimenti e le relative condanne sia sintomo di una nuova effettiva capacità di filtro da parte del giudice penale e delle procure, sulla scorta della recente formulazione del reato.[24] Tale considerazione non è da ritenersi del tutto condivisibile, anzi, è smentita dal dato aritmetico sul rapporto procedimenti-condanne, che è rimasto invariato ante e post riforma. Oggi, come allora, il numero dei procedimenti che si concludono con una sentenza di condanna è estremamente esiguo, si tratta di un rapporto di 1 a 100 circa. Questo rapporto, più che essere «prova di una capacità della giurisprudenza di selezionare rigorosamente gli abusi penalmente rilevanti», come sostenuto in dottrina,[25] è sintomo di una perpetua tendenza della magistratura inquirente ad avviare procedimenti penali ancorché, all’evidenza, non ricorrano gli elementi costitutivi del reato di abuso d’ufficio. Del resto, ieri, come oggi, tale fattispecie è utilizzata, più o meno esplicitamente, come “reato spia” di altri reati ovvero per sopperire alle carenze probatorie di fatti ascrivibili ad altre fattispecie.[26] Ciò peraltro in palese violazione della clausola di sussidiarietà con cui si apre la disposizione di cui all’art. 323 c.p.. In altri termini, il fatto che il numero di procedimenti sia rimasto così elevato e, soprattutto, che il rapporto con le effettive condanne sia così esiguo, esprime – oggi come allora – l’idea che l’abuso d’ufficio sia un reato onnivoro, capace di attrarre a sé qualsiasi distorsione del potere pubblico, quand’anche distante dalla tipizzazione legislativa. Tale discrepanza, che dati alla mano continua a persistere, tradisce altresì l’obiettivo di politica criminale perseguito dal legislatore: neutralizzare azioni giudiziarie pretestuose in ambito pubblicistico e, di conseguenza, eliminare il fenomeno della burocrazia difensiva. Numeri così elevati di procedimenti, per un così ridotto numero di condanne, fanno ragionevolmente dubitare della prudenza con la quale viene esercitata l’azione penale e incrementano la percezione del pubblico funzionario di essere esposto ad un rischio del tutto incalcolabile, poiché irrazionale.[27] Peraltro, sotto un diverso profilo, non si può concordare con coloro che sostengono che i dati in esame siano sintomo di una effettiva capacità di filtro della giurisprudenza poiché, come è oramai indiscusso, l’iscrizione nel registro degli indagati e il relativo procedimento rappresentano ex se una pena nei confronti di coloro i quali esercitano una pubblica funzione, inevitabilmente esposti alla mediatizzazione della notizia di reato ed al susseguente discredito sociale. Questa chiave ermeneutica, oltre ad esser coerente con le moderne concezioni allargate di pena, è suffragata dalla Corte costituzionale stessa che nel dichiarare in parte infondate e in parte inammissibili alcune questioni di legittimità costituzionale sollevate in relazione alla riforma del 2020, con la sentenza n. 8/2022, ha riconosciuto come, rispetto alla paura della firma, «poco conta l’enorme divario, che pure si è registrato sul piano statistico, tra la mole dei procedimenti per abuso d’ufficio promossi e l’esiguo numero delle condanne definitive pronunciate in esito ad essi. Il solo rischio, ubiquo e indefinito, del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi materiali, umani e sociali (per il ricorrente clamore mediatico) che esso comporta, basta a generare un ‘effetto di raffreddamento’, che induce il funzionario ad imboccare la via per sé più rassicurante. Tutto ciò, peraltro, con significativi riflessi negativi in termini di perdita di efficienza e di rallentamento dell’azione amministrativa, specie nei procedimenti più delicati».[28] Una presa di posizione così netta, un passo avanti così marcato, quanto auspicato, in termini di riconoscimento di una necessaria tutela dal, oltre che nel, processo penale da parte del Giudice delle leggi non può essere trascurato, tanto sul versante giurisprudenziale quanto legislativo. Non sorprende pertanto che il legislatore, sulla scorta di questa pronuncia, e alla luce della costante sproporzione fra numero di procedimenti e di condanne, sia tornato sul reato di abuso d’ufficio proponendone l’abrogazione. D’altra parte, l’attuale formulazione legislativa è riuscita nell’arduo compito di non soddisfare né i promotori di istanze liberali volte alla ripresa economica del paese né, ovviamente, i fautori di un modello maggiormente ispirato alla legalità e alla sicurezza. Un tale esito deriva dal fatto che, come evidenziato al paragrafo precedente, la norma ha lasciato margini di interpretazione ampi che permettono, tuttora, di formulare un numero elevato di iscrizioni di reato, lasciando però impunite le ipotesi maggiormente lesive dell’imparzialità delle pubblica amministrazione.[29] A ciò si aggiunga che l’attuale formulazione espunge dal campo applicativo della fattispecie anche le violazioni dei regolamenti, dove tuttavia si rinvengono le regole di condotta espresse e specifiche più vicine al caso concreto e perciò realmente idonee ad orientare l’operato degli amministratori. Si tratta, in sintesi, di una fattispecie, allo stato, insoddisfacente e ingiusta dal momento che non risolve né le problematiche inerenti al rischio incalcolabile dei pubblici amministratori di incorrere in un processo penale, né garantisce un controllo di legalità sufficientemente ampio.
3. La Proposta di direttiva europea COM(2023)234 sulla lotta contro la corruzione, una soluzione “sgrammaticata”
Come segnalato da taluni studiosi in sede di primo commento, la scelta abolitiva si porrebbe in contrasto con quanto previsto dalla proposta di direttiva anticorruzione recentemente avanzata dalla Commissione europea, aderente all’art. 19 della Convenzione di Merida del 2003 che si ispira, a sua volta, alla Convenzione interamericana del 1996.[30]
La corruzione è attualmente regolata solo in modo parziale e disomogeneo a livello UE, attraverso: la decisione quadro 2003/568/GAI del Consiglio che stabilisce requisiti relativi alla configurazione della corruzione come reato per quanto riguarda il settore privato; la convenzione del 1997 relativa alla lotta contro la corruzione nella quale sono coinvolti funzionari dell’UE o dei suoi Stati membri; la citata convenzione delle Nazioni Unite contro la corruzione (UNCAC) di Merida. Alla luce di un complesso normativo frammentato, la Proposta di direttiva in questione si propone di aggiornare e uniformare il quadro giuridico dell’UE in materia di lotta contro la corruzione, vincolando gli Stati membri all’adozione di norme di armonizzazione minima delle fattispecie di reato riconducibili alla corruzione e delle relative sanzioni, nonché di misure per la prevenzione del fenomeno corruttivo e di strumenti per rafforzare la cooperazione nelle relative attività di contrasto. L’obiettivo espresso dalla Commissione è netto e amplissimo: «garantire che tutte le forme di corruzione siano perseguibili penalmente in tutti gli Stati membri».[31] Tuttavia, tale obiettivo, così ambizioso, non sembra sorretto dal necessario fondamento giuridico. È vero che l’art. 83 par. 1 e 2 del TFUE menziona la corruzione fra le “sfere criminali” ritenute particolarmente gravi da giustificare un intervento unionale, ma il margine d’intervento del Parlamento e del Consiglio europeo è subordinato dallo stesso articolo alle sole ipotesi di reato che denotino una «dimensione transnazionale». La corruzione in senso proprio, in particolare quella legata al settore degli appalti pubblici, può senz’altro rivelare una dimensione transnazionale, ma non è altrettanto certo che ricorra questo carattere per le altre forme di reato quali l’abuso d’ufficio e l’intralcio alla giustizia, inopinatamente ricondotte della Commissione europea alla corruzione tout court.
Ciò premesso, come noto, ancorché ricorra la transnazionalità del fenomeno criminoso, l’intervento legislativo europeo deve in ogni caso essere sussidiario e proporzionato (art. 5, TUE). Sotto questo profilo la Commissione europea ha giustificato il suo intervento sostenendo, da un lato, che il quadro normativo frammentato esigesse una normativa unitaria e uniforme e, dall’altro, che vi fosse la necessità di un nuovo strumento europeo di adeguamento alle previsioni contenute nella Convenzione dell’ONU contro la corruzione (UNCAC) siglata a Merida, ritenuta il più esaustivo strumento giuridico internazionale in questo campo.[32] Con riguardo a quest’ultima dichiarata esigenza di ottemperanza agli obblighi convenzionali, tuttavia, sono molteplici le osservazioni che possono essere sollevate, posto che la Commissione europea sembra essersi spinta molto “oltre” rispetto a quanto previsto dalla stessa Convenzione di Merida.
In primo luogo, come rilevato nel parere redatto dalla XIV Commissione della Camera dei deputati (Politiche dell’Unione Europea) del 19 luglio 2023[33], la Convenzione di Merida garantisce maggior determinatezza rispetto alla formulata Proposta di direttiva, poiché impone la penalizzazione di un insieme determinato ed omogeneo di fattispecie criminali, segnatamente: la corruzione di pubblici ufficiali nazionali, la corruzione di pubblici ufficiali stranieri e di funzionari di organizzazioni internazionali pubbliche, la sottrazione, l’appropriazione indebita od altro uso illecito di beni da parte di un pubblico ufficiale, il riciclaggio dei proventi del crimine, l’ostacolo al buon funzionamento della giustizia.[34] Diversamente, la Proposta di direttiva europea sembra obbligare alla criminalizzazione di una serie eterogenea di fattispecie di reato, valutate in maniera diversa a livello internazionale.
In secondo luogo, non può essere trascurato il fatto che la Convenzione UNCAC, in rispondenza ai canoni di sussidiarietà e proporzionalità che impongono di tener conto della diversità e delle dinamiche dei rispettivi ordinamenti statali, prevede un’incriminazione meramente facoltativa per quanto riguarda l’abuso d’ufficio[35], la corruzione nel settore privato e l’arricchimento illecito. Al contrario, la proposta di direttiva in esame, oltre a sovrapporre fenomenologie criminali radicalmente dissimili, pone sullo stesso piano mere raccomandazioni internazionali e veri e propri obblighi convenzionali. Peraltro, in considerazione della recente proposta di abolizione del reato di abuso d’ufficio formulata con d.d.l. n. 808/2023, occorre valutare in modo più specifico l’opportunità, recte la legittimità, di ricomprendere questa fattispecie così generale (e peculiare al contempo) nel novero dei reati di corruzione transnazionale interessati dalla direttiva.
Con specifico riguardo all’abuso d’ufficio, l’art. 11 della Proposta di direttiva descrive il reato in parola come: «l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione delle leggi, da parte di un funzionario pubblico nell’esercizio delle sue funzioni al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo; l’esecuzione o l’omissione di un atto, in violazione di un dovere, da parte di una persona che svolge a qualsiasi titolo funzioni direttive o lavorative per un’entità del settore privato nell’ambito di attività economiche, finanziarie, imprenditoriali o commerciali al fine di ottenere un indebito vantaggio per sé o per un terzo».
Come evidente, si tratta di una formulazione estremamente ampia in grado di assorbire condotte già previste dalla Proposta di direttiva (come la corruzione o il traffico di influenze), che però non potrebbero essere agevolmente provate processualmente. Inoltre, una disposizione così ampia, incentrata sull’elemento dell’intenzionalità dell’indebito vantaggio, anziché sull’effettivo concretarsi del vantaggio indebito, introduce la possibilità di reprimere azioni anche meramente potenziali, quale ad esempio la mancata comunicazione di un conflitto di interessi in un contratto o in una transazione a cui il funzionario partecipa nell’esercizio delle sue funzioni. Corre l’obbligo di constatare che, stando alla disposizione contenuta nella Proposta, l’indebito vantaggio verrebbe a configurare un elemento soggettivo di natura teleologica, anziché un evento di materiale e necessaria verificazione. Una simile formulazione renderebbe superflua la dimostrazione che l’imputato abbia effettivamente ottenuto un vantaggio indebito, poiché risulterebbe sufficiente provare che l’imputato abbia agito allo scopo di ottenere un vantaggio indebito.[36] Ciò consentirebbe di perseguire in maniera arbitraria l’azione dei pubblici ufficiali, attraverso un’indagine subiettiva della condotta e a prescindere dalla dimostrazione di un danno effettivo per la pubblica amministrazione, in spregio dei principi di materialità e offensività del reato. Sotto un’altra prospettiva, la formulazione in esame, nonostante l’ampiezza, sembra non soddisfare appieno nemmeno le istanze di tutela dell’imparzialità amministrativa. Invero, l’art. 11 della Proposta UE non prende in considerazione l’abuso di funzioni allo scopo di arrecare un danno che, tipicamente, rappresenta uno dei casi di abuso più gravi (cd. abuso per prevaricazione). Né prende in considerazione la violazione di un dovere di astensione in presenza di un conflitto di interessi, come fa ad esempio l’art. 323 del codice penale italiano.
Infine, suscita perplessità anche la disposizione inerente all’abuso di funzioni nel settore privato (art. 11, comma 2), che equipara inopinatamente l’abuso di funzioni private a quello pubblico. L’unica spiegazione fornita nella relazione esplicativa appare decisamente tautologica: «Al fine di combattere la corruzione in modo globale, questa Direttiva dovrebbe coprire anche questo reato». Basti in questa sede evidenziare che la fattispecie di reato descritta dalla Proposta di direttiva è eccessivamente generica, il che potrebbe non solo ostacolare la certezza del diritto, ma anche avere un impatto negativo sulla ripresa economica dell’Unione, in evidente contraddizione con gli obiettivi del piano NextGenerationEu.[37]
Alla luce del quadro sin qui delineato, si ritiene che la Proposta di direttiva in esame sollevi forti dubbi sul rispetto del principio di proporzionalità (in relazione a quanto è necessario per raggiungerne gli obiettivi) e di alcuni principi fondamentali del diritto penale, quali: la prevedibilità, la determinatezza e l’offensività delle fattispecie di reato. Formulazioni così ampie e generiche, che paiono vere e proprie petizioni di principio, risultano peraltro in netta controtendenza rispetto alle più recenti evoluzioni del moderno diritto penale affermatesi proprio in seno alla CEDU, che impongono un più severo grado di precisione descrittiva della legge, sia in relazione al momento formativo della disposizione sia al momento interpretativo della stessa[38]. Oltre alla carenza di calcolabilità delle conseguenze del proprio agire, in ragione del marcato deficit di determinatezza, appare tradito altresì il principio di ragionevolezza (quale corollario di quello di uguaglianza) con riferimento al segnalato eccessivo livellamento tra il settore pubblico e quello privato. Fermo restando che, con specifico riguardo al reato di abuso d’ufficio, permangono forti dubbi sulla sussistenza del requisito della transnazionalità, posto che, alla luce delle esperienze applicative, tale reato involge principalmente dinamiche territorialmente circoscritte. Si ritiene, invero, che la formulazione di una fattispecie di reato così peculiare debba tenere conto delle specificità del fenomeno criminale e della cornice giuridico-costituzionale dei singoli Stati membri. Del resto, questa soluzione trova conferma nell’attuale panorama legislativo internazionale, all’interno del quale il reato di abuso d’ufficio viene previsto e punito in maniera eterogenea. Il codice penale francese, ad esempio, prevede un reato piuttosto generico denominato «échec à l’exécution de la loi» (art. 432-1 C.C.), che punisce la condotta di una persona investita di pubblici poteri che, nell’esercizio delle sue funzioni, prende misure «volte a ostacolare l’attuazione di una legge»; mentre, dal lato opposto, si trova l’approccio tradizionale del legislatore tedesco, che consiste nel rinunciare a un reato generale di abuso di funzioni per evitare un’eccessiva ingerenza della magistratura nell’attività amministrativa. In particolare, il codice penale tedesco – insieme ad altre disposizioni penali particolari – prevede un reato specifico denominato Rechtsbeugung (perversione giudiziaria della giustizia o della legge).
In sintesi, ancorché sia indubbiamente apprezzabile lo sforzo della Commissione di porsi un obiettivo tanto ambizioso e meritevole quale il contrasto della corruzione a livello europeo, non si può ignorare come tale intento dovrebbe essere accompagnato da un pari adeguato livello di tecnicismo e sensibilità giuridica. Altrimenti, quelle che abbiamo definito petizioni di principio, condivisibili in astratto, rischiano di risultare inefficaci in concreto, segnando un netto passo indietro in termini di legalità del sistema. L’ordinamento europeo non può prescindere dalle – proprie – conquiste giuridiche in tema di determinatezza e prevedibilità delle fattispecie di reato. Diversamente, per un singolare effetto paradosso, il rischio è che, perseguendo l’intento di eliminare le distorsioni di potere dal sistema, si concretizzi una macro distorsione dell’ordinamento stesso, che aprirebbe un’insanabile contraddizione giuridica nell’ordinamento eurounitario e con gli ordinamenti nazionali.
4. Riflessioni conclusive: fra ineliminabili distorsioni applicative e progressiva integrazione con l’ordinamento amministrativo.
Alla luce del quadro sin qui rassegnato appare evidente che la norma sull’abuso d’ufficio presenti un’intrinseca problematicità. Numerosi sono stati, invero, i tentativi di riformulazione del precetto, ma non è mutata la natura onnicomprensiva della fattispecie. I dati sui numeri di procedimenti avviati e la casistica giurisprudenziale estremamente eterogenea ci suggeriscono che questa figura di reato, ancorché modificata in senso restrittivo, continui a costituire una valvola di apertura del sistema, tanto sul versante teoretico quanto su quello della prassi giudiziaria. È un esito che tradisce la più evoluta concezione di tipicità penale che impone un grado di determinatezza del precetto tale da garantire una precisa calcolabilità in astratto e in concreto delle conseguenze del proprio agire. V’è da domandarsi, dunque, se occorra un ennesimo sforzo di tipizzazione legislativa, in particolare con riguardo alla parte di norma che attiene al dovere di omissione per conflitto di interessi (che come visto suscita rilevanti criticità ermeneutiche), oppure se sia preferibile ragionare in termini di opportunità politico-criminale circa la necessaria permanenza di questa fattispecie, a prescindere dalla tassatività della sua formulazione. A tal riguardo, sovente viene giustificata la permanenza di questa fattispecie in ragione della sua funzione di “reato spia”. Tuttavia, un reato è o non è. Non può invece essere accettata e, anzi, persino normalizzata l’idea che esistano fattispecie di reato volutamente generiche (recte, atipiche) per consentire una repressione penale generale, preventiva e strumentale. Del resto, l’esercizio dell’azione penale e il relativo processo non possono essere surrettiziamente tramutati in strumenti d’indagine ad ampio raggio. Ciò, a fortiori, in considerazione del fatto che il mero procedimento penale assume una peculiare capacità afflittiva – sotto forma di discredito sociale – nei confronti di coloro i quali rivestono una funzione pubblica elettiva.[39] L’attuale formulazione rappresenta, peraltro, una “pericolosa scorciatoia”, poiché depotenzia e quasi elimina il reato di abuso d’ufficio, sottraendo dalla sfera di azione le ipotesi più insidiose (connotate da incisivi poteri discrezionali del pubblico funzionario), ma al contempo, dati alla mano, non sembra cogliere l’obiettivo di salvaguardare il pubblico agente da iniziative giudiziarie infondate. Lo squilibrio tra iscrizioni della notizia di reato – oltre 4800 nel 2021 – e le decisioni di condanna, rimasto costante anche dopo le modifiche volte a ricondurre la fattispecie entro più rigorosi criteri descrittivi, è indicativo di questa anomalia, che ha portato alla proposta di abrogazione secca della fattispecie. A tal riguardo in dottrina si è osservato criticamente come l’abolizione potrebbe portare alla riespansione di altre figure di reato contigue, quali il peculato, la corruzione o la turbata libertà degli incanti.[40] Non si comprende, tuttavia, perché questo fenomeno di riassestamento del sistema dovrebbe esser salutato con sfavore. Il ricorso a fattispecie contigue risulta fisiologico e non comporta una diminuzione delle garanzie di legalità. Al contrario, i reati menzionati risultano, se non altro, maggiormente tipici e determinati (per natura e morfologia) rispetto al reato di abuso d’ufficio, talvolta utilizzato per sopperire a irrimediabili carenze probatorie, talaltra per esercitare un sindacato diffuso in ordine all’esercizio di potestà amministrative. L’abolizione si pone, dunque, come soluzione a queste annose e attuali tendenze, senza tuttavia pregiudicare le esigenze di tutela. Invero, il sistema dei delitti contro la pubblica amministrazione resta, comunque, un apparato repressivo estremamente vasto e articolato. Inoltre, l’intera gamma dei reati comuni è punita più gravemente se essi sono posti in essere con abuso dei poteri o con violazione dei doveri inerenti alla pubblica funzione o al pubblico servizio. Residua, peraltro, anche la possibilità di valutare, in prospettiva futura, specifici interventi additivi volti a sanzionare, con formulazioni circoscritte e precise, condotte meritevoli di pena. Si pensi alle possibili modifiche integrative riguardanti settori particolarmente sensibili quali quello degli appalti pubblici, dei concorsi e della giustizia. Il legislatore potrebbe valutare, ad esempio, un opportuno aggiornamento delle procedure espressamente considerate dall’art. 353, fino a ricomprendervi anche le procedure concorsuali, così risolvendo un possibile vuoto di tutela già denunziato in sede di primo commento.[41] Non può viceversa ritenersi condivisibile un approccio incentrato sul mero auspicio ad un equilibrato e restrittivo ricorso alla fattispecie di abuso d’ufficio da parte della giurisprudenza. L’affidamento all’interpretazione giudiziaria finirebbe per tramutarsi, invero, nella negazione della premessa, poiché non è sul piano della prassi applicativa che si può assicurare la certezza del diritto e, di conseguenza, eliminare il fenomeno della “burocrazia difensiva”. Risultano invece necessari interventi legislativi volti a conferire chiarezza e organicità all’ordinamento amministrativo, tanto sotto il profilo delle norme attributive del potere, quanto con riguardo all’implementazione dei sistemi di controllo multilivello (disciplinari, contabili ed erariali). É evidente come solo una nuova e ponderata disciplina dell’azione amministrativa potrà restituire al diritto penale un ruolo davvero residuale, affinché le iniziative giudiziarie riguardanti fattispecie incriminatrici basate sull’esercizio del potere amministrativo non trasmodino in un controllo di legalità imponderabile ex ante. In tal senso sembra essersi mosso il legislatore nel nuovo codice dei contratti pubblici (d.lgs. 36/2023) introducendo gli innovativi principi del risultato e della fiducia, che favoriscono e valorizzano l’iniziativa e l’autonomia decisionale dei funzionari pubblici al fine di garantire tempestività ed efficacia all’azione amministrativa. In una logica di progressiva integrazione fra i due ordinamenti, questi nuovi principi dovranno permeare anche il diritto penale, poiché impressi in una disciplina centrale sotto il profilo economico e giuridico dell’intero ordinamento e poiché espressivi di una rinnovata concezione sostanziale di buon andamento della pubblica amministrazione. Diversamente, si deve concludere per un necessario “passaggio di testimoni” fra ordinamento penale e amministrativo, atteso che non è concepibile una così significativa eterogeneità di principi regolatori della stessa materia.
[1] L’aggettivo “ancipite” viene abilmente utilizzato da MERLO, L’abuso d’ufficio. Tra legge e giudice, Torino, 2019.
[2] Per una disamina organica e completa sulla fattispecie e la sua evoluzione si rinvia, per tutti, al recente contributo di MATTEVI, L’abuso d’ufficio. Una questione aperta. Evoluzione e prospettive di una fattispecie discussa, Trento, 2022.
[3] In sede di primo commento, fra i numerosi contributi, si segnalano le riflessioni di PADOVANI, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in www.giurisprudenzapenale.it, 2020; GATTA, Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis, in www.sistemapenale.it, 2 dicembre 2020.
[4] GAROFOLI, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio, in Sistema Penale, 2023, 3.
[5] Il tema ha origini risalenti, per una prima analisi si veda: AMBROSETTI, Brevi note in tema di configurabilità dell’abuso di ufficio nell’ipotesi di rilascio di concessione edilizia in conformità dallo strumento urbanistico, nota a Corte di Cassazione, sez. 6. penale,9 luglio 1998., in Rivista giuridica di urbanistica, 1999, 339 ss.; per un approfondimento recente invece: PAGELLA, La Cassazione sull’abolitio criminis parziale dell’abuso d’ufficio ad opera del “decreto semplificazioni”, in www.sistemapenale.it, 19 maggio 2021.
[6] cfr. Cass., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442, in Sist. Pen., 2021.
[7] Cass., Sez. VI, 12 novembre 2020, n. 31873, in Giurisprudenza Penale, 2020; Cass., Sez. III, 28 settembre 2020, n. 26834, in CED. In dottrina, sul tema, v. CIOFFI, Abuso d’ufficio e diritto amministrativo. Il problema dei due ordinamenti, tra eterointegrazione e incorporazione, Dir. amm., 2023, 2, 285 ss.
[8] MERLI, Alcune riflessioni sul reato di abuso d’ufficio dopo l’ultima riforma, in Archivio Penale, 2021, 2; ALBERICO, Le vecchie insidie del nuovo abuso d’ufficio, in Sistema Penale, 2021, 4; BORSARI, A volte ritornano. Riforma dell’abuso d’ufficio e sperimentazioni applicative, in Sistema Penale, 2021, 9.
[9] Sulla nuova fattispecie, limitatamente ai profili di diritto amministrativo, a livello monografico, v. PERONGINI, L’abuso d’ufficio. Contributo a una interpretazione conforme alla Costituzione. Con una proposta di integrazione della riforma introdotta dalla legge n. 120/2020, Torino, 2020, il quale sostiene che al fine di arrestare definitivamente interpretazioni estensive ed elusive della fattispecie penale sia necessario riformare il reato di abuso di ufficio utilizzando il criterio selettivo della specifica indicazione delle fonti violate, quello selettivo della puntuale indicazione dei provvedimenti invalidi e quello della precisa enucleazione delle patologie che lo affliggono.
[10] In questi termini, si v. ALBERICO, Le vecchie insidie, cit.
[11]ALBERICO, Le vecchie insidie, cit.
[12] Cass. Pen., Sez. VI, 8 gennaio 2021, n. 442, in Sist. Pen., 2021.
[13] Per tutti v. PAGLIARO, L’antico problema dei confini tra eccesso di potere e abuso d’ufficio, in Dir. pen. proc., 1999, 110 ss.
[14] Così: SILVA, Elementi normativi e sindacato del giudice penale, Padova, 2014, 97 ss.
[15] In dottrina cfr. GAMBARDELLA,Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, in Sistema Penale, 2020, 7, 142 ss.; GATTA, Riforma dell’abuso d’ufficio, cit.
[16] Per un esame completo della fattispecie sotto il profilo amministrativo si rinvia, per tutti, al recente contributo di D’ANGELO, Conflitto di interessi ed esercizio della funzione amministrativa, Torino, 2020.
[17] La Legge n. 240/2010, ai sensi della quale vengono bandite le procedure di selezione per i concorsi in ambito universitario, non contiene specifiche disposizioni che regolano le potenziali situazioni di conflitto di interesse relative alla composizione delle commissioni di concorso. Inoltre, il d.p.R. 4 aprile 2016, n. 95, concernente il conferimento dell’abilitazione scientifica nazionale per il passaggio a ruolo dei professori universitari di prima e seconda fascia non annovera specifiche disposizioni in ordine ai casi di conflitto di interessi dei commissari, nel disciplinare le modalità di formazione e funzionamento della commissione nazionale per l’abilitazione alle funzioni di professore universitario di prima e seconda fascia. Pertanto occorrerà richiamare l’art. 11, comma 1 del d.P.R. n. 487/1994 secondo cui i componenti della Commissione sottoscrivono una dichiarazione di non sussistenza di incompatibilità come precisato ex lege dagli artt. 51 c.p.c. e 52 c.p, senza che le cause di incompatibilità ivi previste possano essere oggetto di estensione analogica.
[18] Con specifico riferimento all’ambito accademico, si veda: LORUSSO, Concorsi per docenti universitari: il conflitto d’interesse dei commissari, in Il diritto amministrativo, 2023, 10.
[19] Cons. St., Sez. VI, 30 luglio 2013, n. 4015, in www.giustizia-amministrativa.it.
[20] Ex plurimis, recentemente, Cons. St., Sez. III, 17 gennaio 2020, n. 420, in www.giustizia-amministrativa.it.
[21] Non esiste, dunque, né un parametro di rango normativo né univoci criteri di matrice giurisprudenziale. Dello stesso tenore le indicazioni fornite da ANAC che con la delibera n. 25 del 15 gennaio 2020, avente ad oggetto le «indicazioni per la gestione di situazioni di conflitto di interessi a carico dei componenti delle commissioni giudicatrici di concorsi pubblici e dei componenti delle commissioni di gara per l’affidamento di contratti pubblici» si è limitata a fornire una rassegna organica della giurisprudenza di riferimento senza provvedere all’enucleazione di un tassativo elenco di elementi da cui poter desumere il “conflitto di interessi”.
[22] Da ultimo: Cons. St., 21 ottobre 2022, n. 8980, in il dir. amm., con nota di Lorusso. Precedentemente, ex multis: Cons. St., Sez VI, 27 aprile 2015, n. 2119; Cons. St., Sez III, 28 aprile 2016, n. 1628
[23] Dati e statistiche tratti da MAGLIONE, Abuso d’ufficio verso la riforma: processi calati del 40% dal 2016, in Il Sole 24 ore, 13 dicembre 2022.
[24] GATTA, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra paura della firma, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in Sistema Penale, 2023, 5; GAROFOLI, L’annunciata riforma, cit., 6.
[25] Così, testualmente, GAROFOLI, ibid; la medesima considerazione è stata formulata anche da GATTA, ibid.
[26] In questi termini il Procuratore generale reggente di Bologna, Lucia Musti in Commissione Giustizia della Camera dei deputati, il 20 giugno 2023. Dello stesso indirizzo anche il p.g. di Perugia Raffaele Cantone, il quale ritiene essenziale la fattispecie di abuso d’ufficio per la sua funzione di “reato spia”, si veda l’intervento in audizione del 13 settembre 2023 presso la Commissione Giustizia del Senato, pubblicato in www.sistemapenale.it, 19 settembre 2023.
[27] Si è sostenuto, quanto al reato di abuso di ufficio, che vi possa essere un abuso dell’abuso d’ufficio, probabilmente da parte di chi formula denunce di frequente infondate, oltre che, in ipotesi, da chi lo utilizza per dare avvio a indagini dirette a controllare l’operato dei pubblici amministratori, in vista della contestazione di reati più gravi. Se così fosse, occorrerebbe chiedersi se il rimedio sia da rintracciare sul piano sostanziale o piuttosto su meccanismi di tipo processuale, valutando, tra l’altro, quale possa essere l’impatto applicativo delle recenti innovazioni della riforma Cartabia in punto di doveri del Pubblico Ministero nel concludere le indagini preliminari. Sul punto cfr. GAROFOLI, L’annunciata riforma, cit
[28] La questione di legittimità costituzionale concerneva l’art. 23, comma 1, del d.l. 16 luglio 2020, n. 76 ed era stata sollevata dal G.u.p. del Tribunale di Catanzaro non solo con riferimento all’art. 77 Cost., ma anche in relazione ai precetti di cui agli articoli 3 e 97 Cost., venendo a privare di rilevanza penale ogni forma di esercizio della discrezionalità amministrativa del p.u., sostanzialmente equiparandolo al privato. La sentenza 18 gennaio 2022 n. 8 è rinvenibile sul sito www.cortecostituzionale.it.
[29] PADOVANI in Vita morte e miracoli, cit. denuncia la grave menomazione dell’apparato repressivo a seguito della riforma di cui al d.l. Semplificazioni. L’illustre studioso ha definito la nuova norma un ircocervo, dal momento che lascia impuniti i più gravi fenomeni di abuso di potere (quelli connotati dalla discrezionalità amministrativa), mentre continua ad applicarsi alle violazioni bagatellari inerenti la violazione di precise regole vincolanti. Inoltre, secondo lo studioso, ciò determinerebbe una pericolosa riespansione di fattispecie contigue, quale ad esempio il peculato per distrazione. Sulla stessa posizione peraltro anche parte della giurisprudenza, con il presidente Giorgio FIDELBO, su tutti, che nel corso della Relazione al Convegno del 23 febbraio 2021 promosso dall’Associazione Veneta degli Avvocati Amministrativisti ha affermato che per un profilo di coerenza di sistema sarebbe auspicabile l’abolizione dell’attuale formulazione, considerato che all’arretramento nel contrasto alla illegalità amministrativa «non si è colto [nemmeno] l’obiettivo di mettere davvero il funzionario pubblico al riparo da iniziative giudiziarie».
[30] GAMBARDELLA, La “Proposta di Direttiva in materia di lotta alla corruzione” al vaglio del Parlamento: qualche riflessione sui reati di abuso d’ufficio e traffico di influenze, in www.sistemapenale.it, 27 luglio 2023; GATTA, L’annunciata riforma dell’abuso d’ufficio: tra “paura della firma”, esigenze di tutela e obblighi internazionali di incriminazione, in Sistema Penale, 2023, 5.Sotto altro profilo, secondo alcuni studiosi, l’abolizione esporrebbe la norma a possibili sindacati di costituzionalità (con effetti in malam partem), tanto per contrasto con l’art. 117 Cost. in relazione all’art. 19 della Convenzione di Merida, ratificata dal nostro Paese con la legge n. 116 del 2009, che impone una penalizzazione di condotte abusive, quanto perché, lasciando ‘scoperte’ ipotesi di strumentalizzazione a danno della pubblica amministrazione, creerebbe vere e proprie “zone franche” dell’ordinamento. Cfr. CUPELLI, Sulla riforma dell’abuso d’ufficio, in www.sistemapenale.it., 23 gennaio 2023.
[31] “Proposal for a directive of the European Parliament and of the Council on combating corruption, replacing Council Framework Decision 2003/568/JHA and the Convention on the fight against corruption involving officials of the European Communities or officials of Member States of the European Union and amending Directive (EU) 2017/1371 of the European Parliament and of the Council”, COM/2023/234, https://eur-lex.europa.eu/legal-content/EN/TXT/?uri=COM%3A2023%3A234%3AFIN.
[32] Ibid.
[33] Nella seduta del 19 luglio 2023, la XIV Commissione (Politiche UE) della Camera, nell’ambito dell’esame di sussidiarietà, ha adottato un documento recante parere motivato (Doc. XVIII-bis, n. 10), ai sensi della procedura per la verifica di conformità al principio di sussidiarietà di cui al Protocollo n. 2 allegato al Trattato di Lisbona, sulla proposta di direttiva sulla lotta contro la corruzione, contestandone sotto vari profili la conformità al medesimo principio nonché a quelli di attribuzione e proporzionalità. Il parere motivato è stato confermato dall’assemblea della Camera dei deputati nella seduta del 26 luglio 2023, www.camera.it/leg19/410?idSeduta=0147&tipo=stenografico#sed0147.stenografico.tit00030.
[34] Titolo III, Convenzione UNAC, 31 ottobre 2003, New York.
[35] Art. 19, titolo III, Convenzione, cit.
[36] MONGILLO, Strengths and Weaknesses of the Proposal for a EU Directive on Combating Corruption, in Sistema Penale, 2023, 7.
[37] Non sembra ragionevole parificare condotte caratterizzate da diversi livelli di offensività e gravità. Da ultimo, come segnalato in dottrina, l’esperienza di diversi Stati membri, tra cui l’Italia, indica che l’azione penale in contrasto all’abuso di funzioni nel settore privato non è facilmente realizzabile a causa delle difficoltà probatorie. Si concorda con chi, fra tutti, MONGILLO, Strengths and Weaknesses, cit., ritiene che sarebbe opportuno almeno limitare l’incriminazione nei confronti degli casi più gravi di “violazione dei doveri”.
[38] Le disposizioni formulate nella Proposta di direttiva, in particolare quelle esaminate, riguardanti l’abuso d’ufficio, sembrano contraddire gli indirizzi oramai granitici della Corte edu, secondo cui la legge deve essere enunciata con una precisione tale da permettere al cittadino di regolare la propria condotta e di prevedere «con un grado ragionevole di approssimazione in rapporto alle circostanze del caso» le conseguenze che possono derivare da un atto determinato, cfr. Corte, 26 aprile 1979, Sunday Times c. Regno Unito, Serie A, n. 30, par 49.
[39] Per un’approfondita analisi sulle differenze ontologiche fra Amtsträger (pubblici ufficiali) e Mandatsträger (agenti pubblici con mandato elettivo) e sull’opportunità di uno statuto penale differenziato si veda: UBIALI, Attività politica e corruzione, Torino, 2021.
[40] PADOVANI, Vita, morte e miracoli, cit.; FIDELBO, Relazione, cit.
[41] Sul rischio di un vuoto di tutela, cfr. GATTA, Concorsi pubblici “turbati”: per la Cassazione è configurabile l’abuso d’ufficio ma non la turbativa d’asta: un esemplare caso di vuoto di tutela che si prospetta con l’abrogazione dell’art. 323 c.p., in Sistema Penale, 2023, 6.