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Il reato di abuso d’ufficio tra formalizzazione del tipo e diritto giurisprudenziale: una questione ancora aperta

Il reato di abuso d’ufficio tra formalizzazione del tipo e diritto giurisprudenziale: una questione ancora aperta*

Sommario

  1. Premessa: ancora una riforma per l’abuso d’ufficio. 2. La sentenza della IV sez. della Corte di Cassazione n 1146/2020. 3. La rilevanza dell’eccesso di potere nella fattispecie riformata. 4. La storia infinita del reato di abuso d’ufficio: il sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa. 5. Il parziale fallimento della novella del 1997.  6. Brevi considerazioni conclusive.

 

  1. Premessa: ancora una riforma per l’abuso d’ufficio

Con il d.l. n. 76 del 16 luglio 2020, c.d. decreto semplificazioni, convertito con l. n. 120 dell’11 settembre 2020, il governo ha voluto realizzare un «intervento organico volto alla semplificazione dei procedimenti amministrativi, all’eliminazione e alla velocizzazione di adempimenti burocratici, alla digitalizzazione della pubblica amministrazione, al sostegno all’economia verde e all’attività di impresa»; a questi fini, tra l’altro, «viene definito in modo più puntuale il reato di abuso d’ufficio, affinché i funzionari pubblici abbiano certezza su quali sono gli specifici comportamenti puniti dalla legge»[1].

Il reato di abuso d’ufficio viene quindi nuovamente riformato – è la quarta versione dal 1930 ad oggi – nella direzione, già intrapresa con la riforma del 1997, di una ulteriore e maggiormente tassativa delimitazione della condotta punibile.

Questo almeno è l’intento dichiarato, in funzione di una esplicita lotta alla c.d. “amministrazione difensiva” e alla “paura della firma”. L’articolo 23  interviene sulla prima delle due modalità di realizzazione del reato di abuso previste dall’art. 323 c.p., lasciando invece inalterata la seconda, la c.d. omessa astensione”: cercando di ovviare ad alcune delle questioni interpretative che si erano presentate con riferimento al testo vigente, e di contrastare la tendenza espansiva particolarmente incisiva e diffusa nella magistratura, ma avallata altresì da parte – pur minoritaria – della dottrina stessa, si muove nella direzione di una più stringente descrizione dei requisiti costitutivi del tipo. Il bersaglio principale dell’operazione è quella interpretazione che arrivava ad includere l’eccesso di potere tra le modalità di realizzazione del fatto, principalmente (ma non solo) con la riconduzione dell’art. 97 cost. tra le norme di legge la cui violazione era contemplata quale condotta rilevante[2], perpetuando un diffusivo sindacato del giudice penale sulla discrezionalità del pubblico amministratore. Per arrivare a questo risultato, il legislatore sostituisce la locuzione “violazione di norme di legge e di regolamento” con quella più stringente “violazione di specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalità”, producendo una parziale abolitio criminis rispetto alle violazioni non più ricomprese. Ora, a prescindere dalle intenzioni, che sono chiare, del legislatore, la questione che si pone, e che viene posta da tutte le voci di commento, già molto numerose, sulla riforma in oggetto, è se sia davvero riuscito a contenere le spinte centrifughe del formante giurisprudenziale e, comunque, in caso di risposta affermativa, se ad un abuso d’ufficio così angusto non sarebbe stata preferibile una sua definitiva abrogazione.

 

  1. La sentenza della IV sez. della Corte di Cassazione n 1146/2020

La Corte di Cassazione con la sentenza 1146/2020 si pronuncia sul nuovo reato di abuso d’ufficio a brevissima distanza dalla sua riformulazione ad opera della l. 120/2020[3]. La pronuncia può essere vista come un iniziale e provvisorio banco di prova della effettività delle modifiche introdotte rispetto agli scopi dichiarati dal legislatore, effettività messa in dubbio già da molte ed autorevoli voci della dottrina penalistica[4].

Per una migliore comprensione dei passaggi chiave della pronuncia della Suprema Corte, può essere opportuno un cenno al fatto oggetto di giudizio: all’imputato era stato contestato di avere, con vari atti organizzativi e conclusiva deliberazione, illegittimamente dequalificato il Servizio di prevenzione e protezione dell’azienda, da struttura complessa a struttura semplice, con conseguente intenzionale demansionamento, giuridico ed economico, del suo Direttore.

Nonostante la intervenuta prescrizione del reato nel caso concreto, la Corte verifica la riconducibilità del fatto – avvenuto prima dell’entrata in vigore della legge di riforma – nella nuova fattispecie, concludendo in senso negativo ed arrivando così ad annullare le sentenze di merito “perché il fatto non costituisce più reato”.

La Corte riconosce che la nuova disposizione «ha un ambito applicativo ben più ristretto rispetto a quello definito con la previgente disposizione normativa», e questo, come emerge dalla motivazione, sotto vari punti di vista.

In primo luogo in quanto viene sottratto al giudice penale «l’apprezzamento dell’inosservanza di principi generali o di fonti normative di tipo regolamentare o subprimario (neppure secondo il classico schema della eterointegrazione, cioè della violazione mediata di norme di legge interposte)»; in secondo luogo  in quanto la condotta produttiva di responsabilità penale del pubblico funzionario deve essere «connotata, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, dalla violazione di regole cogenti per l’azione amministrativa….specificamente designate in termini completi e puntuali»; in terzo luogo, in quanto le suddette regole comportamentali non devono consentire al pubblico funzionario di agire in un contesto di discrezionalità amministrativa, anche tecnica, da intendersi, a detta della Corte, nel senso di scelta di merito dell’interesse primario pubblico da perseguire in concreto, scelta  effettuata all’esito di una ponderazione comparativa tra gli interessi pubblici e quelli privati.

Non si può mettere in dubbio che tali affermazioni facciano intravedere una direzione interpretativa che si allinea alle intenzioni sottese all’intervento riformatore: restringere l’ambito di rilevanza penale dell’abuso d’ufficio, precisando i requisiti di fattispecie per rimodulare e contenere il sindacato del magistrato penale sull’attività amministrativa.

In effetti la pronuncia della Corte sembra rassicurare rispetto al rischio – da molti evocato – di una persistenza delle derive in senso estensivo che si erano progressivamente consolidate sotto la vigenza della neoriformata fattispecie di abuso, e nonostante i requisiti in essa richiamati[5]. In molti hanno criticato la scelta riformatrice, e non solo o non tanto con riguardo alla sua opportunità, quanto in funzione proprio delle sue probabilità di successo.

A prescindere dalle buone intenzioni, scrive Gaetano Insolera, il fallimento (“il veneficio dei pozzi)” del diritto penale liberale, si verifica anche «quando per inseguire la certezza del diritto, si fa a pugni con i fatti, scivolando poi, in aggiustamenti frutto della inesauribile capacità della giustizia di scopo affidata alla giurisprudenza»[6].

In particolare, la Corte sembra aver risposto a chi ha profetizzato la inadeguatezza delle “correzioni” normative rispetto allo scopo, almeno sotto due fondamentali profili: da un lato sbarrando la strada ad un possibile perpetuarsi dell’espansione della condotta di inosservanza di norme di legge attraverso il recupero dell’art. 97 cost., – e dei principi di imparzialità e buon andamento della attività amministrativa ivi enunciati-  tra le norme di legge rilevanti; dall’altro, confutando la ipotesi di inclusione nel tipo, attraverso il fenomeno della eterointegrazione, della violazione di norme subprimarie e/o meramente procedimentali[7].

Ora, lo sbarramento esplicito alla considerazione dell’art. 97 cost. quale parametro legale della condotta tipica, operato dalla Corte, dovrebbe riversare i suoi effetti anche sulla radicale esclusione dell’eccesso di potere dall’ambito dei vizi rilevanti ex art. 323 c.p.: esclusione che è obbiettivo primario della riforma ed è espressa nella norma nelle forme di elemento negativo del fatto (dalle quali non residuino margini di discrezionalità)[8]. Una tale aspettativa viene in realtà in parte delusa. Dopo aver puntualizzato che, secondo la nuova disposizione, la responsabilità penale si arresta davanti all’esercizio del potere discrezionale, anche nel caso di mera discrezionalità tecnica, la Corte infatti precisa: «sempreché l’esercizio del potere discrezionale non trasmodi in una vera e propria distorsione funzionale dei fini pubblici- c.d. sviamento di potere o violazione dei limiti esterni della discrezionalità- laddove risultino perseguiti, nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito; oppure si sostanzi nell’alternativa modalità della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in situazione di conflitto di interessi».

La precisazione apre evidentemente una breccia nel muro di cinta alzato dall’intervento di riforma, consentendo di entrare e indagare anche laddove si sia in presenza di attività per le quali “residuinino margini di discrezionalità”. A ben vedere le aperture sono due: ma solo una si mantiene nel rispetto della lettera della legge, attraverso il richiamo alla condotta di inosservanza dell’obbligo di astensione; mentre l’altra ne costituisce evidentemente una forzatura, pur supportata dalla condivisibile esigenza di assegnare alla fattispecie rinnovata una sua ragione d’essere.

 

  1. La rilevanza dell’eccesso di potere nella fattispecie riformata.

La storia e l’evoluzione normativa ed interpretativa del reato di abuso di ufficio è la storia della difficile ricerca di un corretto equilibrio nella relazione del sindacato penale con la discrezionalità amministrativa. Il riconoscimento di una, certo ben definita, potestà di controllo del giudice penale sulla attività discrezionale è «presupposto logico» della stessa esistenza del reato; solo in presenza di condotte riconducibili alla discrezionalità del pubblico amministratore si può realmente ipotizzare una offesa al bene giuridico di riferimento: imparzialità e buon andamento della pubblica amministrazione[9]. La negazione radicale, dunque, fa venir meno la ragione stessa della incriminazione; d’altro canto, la dilatazione senza limiti va ad incrinare il fondamento del principio della separazione dei poteri e della legalità stessa.

Schematizzando, riguardo al complesso rapporto tra abuso d’ufficio ed eccesso di potere, possiamo individuare tre diversi punti di vista; una prima posizione esclude che l’eccesso di potere, in qualsiasi sua forma, debba rilevare ai fini della configurabilità del reato. Una tesi opposta apre invece alla rilevanza penale dell’eccesso di potere tout court (sia intrinseco che estrinseco): l’esercizio arbitrario del potere discrezionale, pur in assenza di una violazione formale, deve poter essere comunque sindacabile[10].

Infine, una (sostanzialmente condivisibile) tesi intermedia limita la rilevanza penale ai casi di eccesso (o sviamento) di potere c.d. estrinseco, ritenendo che possano assumere rilievo penale solo i casi in cui l’esercizio del potere discrezionale conduca al soddisfacimento di un interesse del tutto estraneo al modello giustificativo del potere stesso[11]. E’ a questa ultima linea di pensiero che ci sembra si sia allineata la recente pronuncia della Cassazione, nel momento in cui circoscrive la applicabilità della nuova fattispecie a quei casi di attività discrezionale, in cui risultino perseguiti, «nel concreto svolgimento delle funzioni o del servizio, interessi oggettivamente difformi e collidenti con quelli per i quali soltanto il potere discrezionale è attribuito». Eccesso di potere c.d. estrinseco, dunque; inoltre, è senz’altro significativa, in senso garantistico, la puntualizzazione che gli interessi siano oggettivamente difformi e collidenti, con quelli propri della P.A.: una apertura al solo eccesso di potere “oggettivo” che sembra ribadire la natura di reato di evento della fattispecie, altro aspetto troppo spesso sottovalutato dalla prassi applicativa[12].

Certo, è opportuno segnalarlo: un tale (pur condivisibile) punto di vista sconta la necessità di forzare il dato testuale: forzatura probabilmente facilitata dalla carente tecnica legislativa[13].

La strada per un recupero dell’eccesso di potere nel reato di abuso d’ufficio è evidentemente meno problematica, invece, nel momento in cui, come scrive la Corte, l’esercizio del potere discrezionale «si sostanzi nell’alternativa modalità di realizzazione della condotta, rimasta penalmente rilevante, dell’inosservanza dell’obbligo di astensione in situazioni di conflitto di interessi».

In questa ipotesi, infatti, l’apertura sembra essere autorizzata (volutamente?) dal legislatore che si è concentrato sulla prima delle due modalità di realizzazione del fatto, trascurando e lasciando dunque inalterata la seconda. L’espansione dell’ambito applicativo della seconda modalità di configurazione dell’abuso, quale strumento di recupero di tutti quei casi in cui l’eccesso di potere sia realizzato nella forma dell’omessa astensione, era già stata indicata in dottrina quale via “naturale” e privilegiata per un “legale” ridimensionamento dell’obbiettivo esplicitato dal legislatore[14].

 

  1. La storia infinita del reato di abuso d’ufficio: il sindacato del giudice penale sull’attività amministrativa.

Per capire il significato e i limiti della attuale riforma, può essere opportuno ricapitolare molto brevemente la storia normativa del reato di abuso d’ufficio dalla originaria formulazione presente nel codice Rocco, passando per la riforma del 1990 e poi dalla versione del 1997[15].

Come noto la fattispecie riveste originariamente e nelle intenzioni del legislatore del ’30, una funzione di norma di chiusura del sistema delle incriminazioni contenute nel capo I del titolo II del c.p., volta a ricomprendere qualsiasi irregolarità del pubblico funzionario e a garantire la fedeltà del pubblico amministratore; questo ruolo era coerente con la natura sussidiaria della fattispecie che si apriva con una clausola di riserva generale, con la sua configurazione quale reato di mera condotta a dolo specifico, con la estrema laconicità della descrizione del fatto tipico, incentrato sull’abuso dei poteri inerenti le funzioni[16]. A fronte di questa formulazione, fortemente carente sul piano della tassatività e destinata a ricomprendere fatti di modesta gravità, coerentemente, si prevedeva una sanzione di modesta entità. La fattispecie era tra l’altro residuale rispetto alle ben più gravi ipotesi previste dagli artt. 314 e 324: il Peculato (per distrazione) e il tanto discusso e poi abrogato Interesse privato in atti d’ufficio. Il testo normativo consentiva facilmente l’inclusione nella nozione di abuso di potere di tutte quelle condotte del pubblico ufficiale che, pur rispettose delle regole formali di disciplina dell’esercizio del proprio potere, avesse tuttavia uno scopo diverso da quello per cui il potere gli era originariamente attribuito. Vi era cioè ricompreso anche il cattivo uso del potere inteso in senso soggettivo, che apriva la strada alla rilevanza penale ex art. 323 c.p. anche alle violazioni dei c.d. limiti interni della discrezionalità amministrativa [17].

A fronte delle critiche serrate nei confronti della scarsa tassatività della fattispecie, che così come formulata si prestava ad essere strumento di penetrante controllo sull’operato della Pubblica amministrazione da parte del giudice penale, il legislatore del 1990, nell’ambito della più  generale riforma dello Statuto penale della Pubblica amministrazione interviene su più fronti, da un lato per attribuire al reato di abuso una maggiore centralità, dall’altro per precisarne più rigidamente i confini in modo da limitare quel rischio ubiquitario di intromissione della repressione penale nell’attività del pubblico amministratore, in grado di originare una vera e propria forma di “amministrazione difensiva”. Vengono abrogati, dunque, il peculato per distrazione e la fattispecie di interesse privato in atti d’ufficio; si modifica la clausola di sussidiarietà, limitandola ai fatti di reato più gravi; si sdoppia la gravità sanzionatoria a seconda che la finalità di vantaggio sia di natura patrimoniale o non patrimoniale; viene tuttavia mantenuta la struttura di reato di condotta a dolo specifico. Il nuovo abuso d’ufficio, quindi, copre lo spazio prima occupato sia dal vecchio art. 323, sia dall’art. 324 c.p., sia dal peculato per distrazione, assumendo la veste di fattispecie cardine nel sistema dei reati contro la pubblica amministrazione: con il che la riforma non solo non argina i rischi emersi con la originaria formulazione, ma anzi, li accentua, data anche l’estensione soggettiva agli incaricati di pubblico servizio e il notevole inasprimento sanzionatorio. Nella prassi, infatti, il concetto di abuso d’ufficio venne dilatato in maniera tale da esasperare ancora di più il rapporto tra magistratura penale e sfera amministrativa, trasformando le indagini penali in vere e proprie “mine vaganti” per i pubblici amministratori[18].

 

  1. Il parziale fallimento della novella del 1997.

Per ovviare al fallimento radicale della riforma del 1990, il legislatore torna ad intervenire sul reato di abuso di ufficio con la l. 234/1997. L’intento principale è ancora una volta quello di delineare in modo più rigoroso e tassativo gli estremi del fatto tipico in modo da arginare gli straripamenti della prassi e ricondurre il controllo penale sull’attività dei pubblici amministratori nei limiti del principio della divisione dei poteri, allentando altresì la paura del rischio penale e la conseguente paralisi della attività amministrativa[19]. L’obbiettivo è perseguito attraverso uno stravolgimento della precedente formulazione. Il nuovo reato di abuso d’ufficio, infatti, si trasforma da fattispecie di condotta a dolo specifico a fattispecie di evento a dolo intenzionale; scompare dalla descrizione della fattispecie il riferimento all’abuso – che permane solo nella rubrica legislativa – e si descrive in termini più stringenti la condotta tipica: «al posto di un abuso innominato e generico» si è voluta sperimentare la configurazione «di un abuso nominato e tipico»[20] attraverso il richiamo alle condotte di violazione di norme di legge e di regolamenti e di omessa astensione in presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto (o negli altri casi prescritti).

E’ noto a tutti come anche la riforma del 1997 non abbia sortito l’effetto auspicato e la nuova formulazione sia stata oggetto di una riconversione ermeneutica, sostanziale riscrittura del testo che ha di fatto determinato un ritorno alle origini[21].

Il ruolo sempre più centrale del formante giurisprudenziale sulla definizione degli elementi di fattispecie degli ultimi decenni è cosa nota ed incontestabile. Sempre più si dibatte sulla alterazione degli spazi di azione e delle competenze della giurisprudenza e del legislatore e sulla spesso critica e criticabile tendenza della prima a straripare e atteggiarsi più che a interprete, a vero e proprio creatore della legge. Spesso, d’altro canto, questo meccanismo perverso è favorito in modo più o meno consapevole ed intenzionale dallo stesso legislatore che abdica al proprio ruolo di selettore dei fatti punibili predisponendo fattispecie a tipicità aperta, delegando quindi il giudice ad assumere il ruolo di garante della certezza in sua vece; la comprensione della fattispecie, la certezza, le garanzie per il destinatario della norma, non possono dunque che darsi ex post, quando la giurisprudenza avrà avuto modo di pronunciarsi.

Non è questo il meccanismo di distorsione che ha dato luogo al fiorire di un diritto giurisprudenziale distante, talora radicalmente dissonante rispetto alla voluntas legis, con riferimento al nuovo art. 323 c. p.[22]. In questo caso, infatti, come è stato riconosciuto diffusamente, il legislatore del 1997 compie un passo in avanti sul terreno della precisione/determinatezza[23]; la sua intenzione, esplicitata anche durante i lavori preparatori, è rivolta all’esclusione dell’eccesso di potere dall’ambito di rilevanza dell’abuso d’ufficio, e, nonostante la scelta sia contestata da parte autorevole della dottrina, non si può negare che si sia chiaramente manifestata con la definizione della condotta tipica prevista dalla prima parte dell’articolo: la violazione di legge o di regolamento. La ragione che ha portato la magistratura a sfondare il recinto così tassativamente innalzato dal legislatore è legata, probabilmente, proprio all’eccessivo rigore, all’eccessiva selettività della nuova fattispecie che finiva per restringere il suo focus su quelle « attività tanto vincolate da rendere ictu oculi evidente l’illegittimità», calando così «una cortina impenetrabile proprio sulle distorsioni funzionali più gravi, compiute nell’ambito dell’attività discrezionale più ampiamente intesa».

Questo spiegherebbe la reazione della giurisprudenza «rispetto alla spinta esercitata dal formante legislativo, una reazione sintomatica di un vero e proprio gioco di forze, sfociata in una «sostanziale “riscrittura” del testo legislativo» [24].

I profili di criticità dell’art. 323 in vigore fino al recentissimo intervento di riforma si sono incentrati in maniera particolarmente incisiva sulla descrizione della condotta tipica[25]: la violazione di norme di legge o di regolamento. Il riferimento al regolamento, tuttavia, passibile di un vistoso contrasto con il principio di riserva di legge, è stato progressivamente circoscritto e reso rapidamente “innocuo”;[26] il fulcro delle maggiori discussioni è rimasta dunque la portata del significato della violazione di legge, che ha subìto progressivamente una dilatazione che ha posto nel nulla la prospettiva originaria da cui aveva preso le mosse la stessa riforma.

D’altro canto, come già detto, la scelta legislativa si era già fin dall’inizio presentata come discutibile e rischiosa, in quanto idonea a portare a soluzioni interpretative opposte ma altrettanto criticabili[27].

Da un lato, assecondare le istanze restrittive del legislatore avrebbe comportato una applicazione formalistica della norma, applicabile solo alle attività vincolate della pubblica amministrazione, evidentemente marginali e prive di una reale portata offensiva nei confronti del bene giuridico. Una sorta di appiattimento del rilievo penale sulla mera irregolarità amministrativa, con il rischio di lasciare fuori dal divieto penale le condotte denotate da effettiva gravità, generalmente realizzate attraverso l’attività discrezionale[28]. Dall’altro lato, ampliare l’area della violazione di legge fino a ricomprendere norme di principio, come ad esempio lo stesso art. 97 cost., o – facendo leva su di una valorizzazione della legge 241/1990 – l’eventuale inadeguatezza dei mezzi per il raggiungimento degli obbiettivi di economicità ed efficienza, avrebbe in definitiva posto nel nulla l’effettività della riforma mantenendo privo di limiti il controllo del giudice penale sull’attività amministrativa, considerata penalmente significativa anche se conforme a disposizioni legali o regolamentari.

La giurisprudenza, dopo una fase iniziale di allineamento rispetto al rigore voluto dal legislatore[29], come detto, ha progressivamente accolto interpretazioni maggiormente estensive, fino ad includere tra le condotte riconducibili al contenuto precettivo dell’art. 323 c.p. anche il c.d. sviamento di potere, sia interno che esterno: la violazione di legge, infatti, sarebbe integrata in tutti quei casi in cui il pubblico funzionario abbia agito per scopi esclusivamente personali, o comunque estranei alla pubblica amministrazione, trasgredendo così le norme attributive del potere, strettamente collegato al raggiungimento di uno specifico scopo, di natura pubblicistica, che è condizione di legalità del potere stesso. Tale impostazione aveva altresì trovato conferma ad opera  delle Sezioni Unite secondo le quali una violazione di norma di legge rilevante ex art. 323 c.p., si sarebbe integrata non solo quando la condotta del pubblico ufficiale fosse «svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione»[30].

La violazione di norme di legge viene così in definitiva letta come violazione della legalità amministrativa tout court, e il potere esercitato per un fine diverso da quello che dovrebbe animare il pubblico amministratore nell’esercizio della funzione è fuori dalla legalità e rappresenta uno “sviamento” penalmente rilevante come abuso di ufficio[31]; il rischio di un trasmodare del sindacato penale sul merito amministrativo è del tutto evidente.

 

  1. Brevi considerazioni conclusive

Nonostante lo sforzo di tipizzazione e di selezione dei fatti punibili, l’abuso riformato nel 1997 ha continuato sotto vari aspetti a riproporre le stesse problematiche conosciute dall’abuso innominato e dall’abuso del 1990. Inoltre, come da più voci rilevato, l’osservazione empirica e fattuale sembra confermare i dubbi sulla tenuta della fattispecie alla prova della coerenza: una grande quantità di processi penali iniziati a carico dei pubblici amministratori per il reato di abuso d’ufficio, ma numeri molto meno rilevanti di sentenze ed un numero ancora più esiguo di sentenze di condanna; la maggior parte dei procedimenti per il reato di abuso nascono in presenza di sospetti di reati più gravi, generalmente di fatti di corruzione (l’abuso è infatti considerato il reato-spia per eccellenza); i fatti oggetto di indagini risultano molto spesso da un punto di vista criminologico di scarso rilievo, sovrapponibili ad illeciti di natura amministrativa o disciplinare[32].

Stretto, quindi,  tra il rischi di una dilatazione pervasiva e persecutoria nei confronti dei pubblici amministratori, che si trovano a fare i conti con un rischio incontrollato di restare imbrigliati nelle maglie dello stigma penale, e la possibilità di ridursi ad una riproduzione non originale di fatti appartenenti all’area del disvalore amministrativo e disciplinare, l’abuso d’ufficio continua ad essere al centro di un dibattito particolarmente vivace, non sopito, anzi forse addirittura rinvigorito, dalla recente riforma. Punto fermo: trovare la chiave per garantire una certezza ex ante, che la contrapposizione tra formante legislativo e formante giurisprudenziale continua a precludere.

La presa d’atto che abuso d’ufficio e uso distorto del potere, (quindi patologie della discrezionalità amministrativa), sono ontologicamente connessi e che «l’idea di erigere una cinta immunitaria intorno alla discrezionalità amministrativa rappresenta di per sé una flagrante violazione del principio di uguaglianza»[33] trova espressione in prese di posizione disparate – spesso contrapposte – sulle soluzioni ipotizzabili.

Da un lato, c’è chi ritiene opportuni i ritocchi in senso ulteriormente selettivo, proprio per cercare di chiudere tutte le falle che la prassi applicativa ha dimostrato essere lasciate aperte dalla formulazione del 1997; in effetti anche altre proposte di riforma presentate andavano chiaramente in questa direzione: una per tutte la articolata proposta “Castaldo-Naddeo”[34]; ma già anche nel 1996 la proposta di “spacchettamento” presentata dalla “Commissione Morbidelli”[35]. Le obiezioni a questo genere di soluzioni sono legate per lo più alla memoria di ciò che è già ripetutamente stato. E che rischia di ripetersi[36].

Dall’altro lato, troviamo la posizione di chi, pur condividendo una riduzione – non certo un annullamento – dell’ingerenza della magistratura penale nell’attività del pubblico amministratore che agisca nell’ambito dei poteri discrezionali, prende atto, tuttavia, dei fallimenti di tutti i tentativi fin qui fatti, e ritiene l’unica strada percorribile quella dell’abrogazione tout court del reato di abuso d’ufficio[37]; la proposta è meno provocatoria di quello che a prima vista potrebbe sembrare, soprattutto se inserita in un progetto di riorganizzazione della normativa di settore della pubblica amministrazione e di potenziamento dell’illecito amministrativo. In ossequio, peraltro, al canone della sussidiarietà ed extrema ratio del diritto penale, la ri-espansione di altre fattispecie di reato esistenti, quali ad esempio il peculato, consentirebbe di riassorbire (solo) quei fatti di abuso dotati di meritevolezza e necessità di pena: ipotesi di sviamento di potere che si risolvano in una realizzazione – effettiva – di interessi estranei e collidenti con quelli propri della attività amministrativa, oggettivamente verificabili, in quanto tali capaci di incidere sul buon andamento, sull’efficacia, sull’imparzialità, della pubblica amministrazione. Alle due opzioni se ne affianca una terza, probabilmente di compromesso, tuttavia dotata di una certa attrattiva: non rinunciare ad una incriminazione, ad hoc, dei comportamenti dotati di effettiva capacità offensiva dei beni in gioco ma, contenere lo spirito di iniziativa della magistratura, ribadendo la volontà del legislatore, attraverso una norma di interpretazione autentica[38]. Sempre, tuttavia, nella consapevolezza che la maggior parte delle criticità si annidano fuori dal diritto penale e dunque qualsiasi sia l’opzione prediletta, non potrà per raggiungere il suo scopo, che affiancarsi ad una azione di riforma complessiva della pubblica amministrazione e di potenziamento delle misure extrapenali di supporto[39].

 

*Il presente scritto è destinato agli Scritti in onore di Gaetano Insolera

[1] Vedi il comunicato stampa diffuso il 7 luglio 2020, pubblicato sul sito del Governo, www.governo.it

[2] L’eccesso di potere era ricompreso nella fattispecie previgente anche sulla base della argomentazione per cui esercitare un pubblico potere, in maniera distorta rispetto al fine per cui il predetto potere è stato conferito ad un pubblico funzionario, significa violare la ratio del precetto attributivo integrando così una violazione di legge (vedi ad es. Pagliaro, L’antico problema de confini tra eccesso di potere e abuso d’ufficio, in DPP, 1999, 1,106 ss.).

[3] Sulla pronuncia cfr. anche le prime osservazioni di B. Romano, Il nuovo abuso d’ufficio e l’abolitio criminis parziale, in Pdpen 19.01.2021; D’Avirro, Lo sviamento di potere nel nuovo reato di abuso d’ufficio: un ritorno al passato, in ilpenalista.it., 3 febbraio 2021.

[4] Sulla nuova fattispecie, G. Amato, Abuso d’ufficio: meno azioni punibili. Così la nuova riforma svuota il reato, in GD, 8 agosto 2020; Ballini, Note minime sulla riformata fattispecie di Abuso d’ufficio, in DisCrimen, 10.08.2020; Collazzo, La nuova disciplina dell’abuso d’ufficio: la metamorfosi del gattopardo, in questa rivista, 25.01.2021; Gambardella, Simul stabunt vel simul cadent. Discrezionalità amministrativa e sindacato del giudice penale: un binomio indissolubile per la sopravvivenza dell’abuso d’ufficio, in Sistema penale, 7/2020, p. 133; Gatta, Da spazza-corrotti a basta paura: il decreto-semplificazioni e la riforma con parziale abolizione dell’abuso d’ufficio, approvata dal Governo “salvo intese” (E la riserva di legge?), ivi, 17 luglio 2020; Id. Riforma dell’abuso d’ufficio: note metodologiche per l’accertamento della parziale abolitio criminis,  ivi, 2 dicembre 2020; Manna-Salcuni, Dalla burocrazia difensiva alla difesa della burocrazia? Gli itinerari incontrollati della riforma dell’abuso d’ufficio, in La legislazionepenale.eu, 17.12.2020; Murro, La riforma dell’abuso d’ufficio nel decreto semplificazioni, in questa rivista, 17.07.2020; Naddeo, I tormenti tra teoria e prassi. Discrezionalità amministrativa e infedeltà nel nuovo art. 323 c.p., ivi, 10.08.2020;  Nisco, La riforma dell’abuso d’ufficio: un dilemma legislativo insoluto ma non insolubile, in Sistema penale, 20 novembre 2020; Padovani, Vita, morte e miracoli dell’abuso d’ufficio, in Giurisprudenza penale web, 28 luglio 2020; Perin, L’imputazione per abuso d’ufficio: riscrittura della tipicità e giudizio di colpevolezza, in lalegislazionepenale.eu, 23.10.2020; , B. Romano, (a cura di), Il “nuovo” abuso di ufficio, Pisa, 2021;  V.Valentini, Burocrazia difensiva e restyling dell’abuso d’ufficio, in DisCrimen, 14.9.2020.

[5] In particolare profetizzano il rischio di un perpetuarsi della tendenza interpretativa giurisprudenziale, almeno per alcuni degli elementi di fattispecie, Gambardella, op. cit.162; Gatta, Riforma dell’abuso d’ufficio, cit., 5; Fiandaca, Merlo, Riformare, abolire? C’è una terza via per il reato fantasmatico di abuso d’ufficio, in Il Foglio, 24 giugno 2020; Padovani, op. cit., 10 ss.; V. Valentini, op. cit., 9 ss.

[6] Insolera, Quod non fecerunt barberini fecerunt barbari, in DisCrimen, 31.07.2020

[7] Da tenere invece “attenzionata” la linea interpretativa proposta dalla precedente pronuncia della Corte di Cassazione, che, vista la mancanza di un inserimento che faccia esplicito riferimento selettivo alle fonti primarie di legge nell’ipotesi di inosservanza degli obblighi di astensione “negli altri casi prescritti”, ritiene di potersi recuperare la rilevanza delle fonti sub primarie, nello specifico i regolamenti, attraverso la via della violazione mediata di legge. Cfr. Cass. 17 settembre 2020, n. 31873, su cui già Gatta, Riforma, cit., 4; B. Romano, La prima pronuncia della Cassazione sul “nuovo” abuso di ufficio e l’abolitio criminis parziale, in www.ilpenalista.it, 11.12.2020.

[8] Così Padovani, op cit., 10.

[9] Così letteralmente Gambardella, op. cit., 159.

[10] Tale impostazione aveva altresì trovato conferma ad opera  delle Sezioni Unite secondo le quali una violazione di norma di legge rilevante ex art. 323 c.p., si sarebbe integrata non solo quando la condotta del pubblico ufficiale fosse «svolta in contrasto con le norme che regolano l’esercizio del potere, ma anche quando la stessa risulti orientata alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è attribuito, realizzandosi in tale ipotesi il vizio dello sviamento di potere, che integra la violazione di legge poiché lo stesso non viene esercitato secondo lo schema normativo che ne legittima l’attribuzione» Cass. Sez. Un. 29 settembre 2011, n. 155, in CP. 2012, p. 2410 ss.

[11] Per una ricostruzione dettagliata delle posizioni sopra schematizzate, Gambardella, op. cit., 146; Nisco, op. cit., 2 ss.; Perin, op. cit., 7 ss.; Pisani, Abuso d’ufficio, in Canestrari, Cornacchia, De Simone (a cura di), Manuale di diritto penale. Parte speciale. Delitti contro la Pubblica amministrazione, Bologna, 2015, 264; Ubiali, Abuso d’ufficio e atti discrezionali della pubblica amministrazione: l’archiviazione del procedimento nei confronti del Presidente di Regione Lombardia Attilio Fontana, in Sistema penale, 21 maggio 2020; Vallini, L’abuso d’ufficio, in Palazzo (a cura di) Reati contro la Pubblica amministrazione, Napoli, 2011, 297 ss.

[12] Puntualizza che l’eccesso non può che avere contenuto oggettivo, e che, dunque, la volontà e l’intenzione del soggetto agente, quali che siano «non possono da sole configurare il vizio in parola e quindi la condotta del reato»,  Stortoni, Delitti contro la Pubblica amministrazione, in AAVV, Diritto penale. Lineamenti di parte speciale, Milano, 2016, 196.

[13]Vera e propria analogia in malam parte secondo Manna-Salcuni, op. cit., 11.

[14] In tal senso, Gambardella, op.cit. 151; Gatta, Riforma, cit., 6; Nisco, op. cit., 9; Padovani, op. cit., 9; V.Valentini, op.cit., 12; ritengono invece che anche questa operazione sarebbe in contrasto con la nuova disposizione, Manna -Salcuni, op. cit., p. 11: da un lato non sarebbe affatto scontato «che la precisazione per cui l’attività discrezionale non costituisce condotta penalmente rilevante non sia riferibile anche alla condotta omissiva. In effetti, pur avendo la condotta omissiva una formulazione meno stringente rispetto a quella attiva, parte della dottrina ritiene che l’obbligo di astensione debba essere comunque previsto dalle stesse fonti presupposto della condotta attiva (dunque leggi). La mancata duplicazione del concetto può essere dovuta per evitare una ripetizione e non appesantire la formulazione linguistica della norma. Sarebbe inoltre paradossale escludere la penale rilevanza dell’eccesso di potere dalla condotta attiva, per mantenerla in quella omissiva».

[15] Per una approfondita ricostruzione del percorso normativo dell’abuso d’ufficio, di recente Perin, op. cit., a cui si rinvia anche per le complete citazioni della migliore letteratura.

[16] Su cui per tutti, Stortoni, L’abuso di potere nel diritto penale, Milano, 1976.

[17] Per tutti Bricola, In tema di illegittimità costituzionale dell’art. 323 c.p., in RIDPP, 1996, 984-998, ora in Canestrari, Melchionda, (a cura di) Scritti di diritto penale, v. II, Tomo I, 2245, Milano 1997

[18] Così Fiandaca Musco, Diritto penale, PS, IV ed. 245; Stortoni, I delitti, cit., 192; lo stesso Autore precisa come in questa fase l’impiego spregiudicato della norma è più spesso riscontrabile nelle iniziative dei Pubblici Ministeri di apertura delle indagini e formulazione delle incriminazioni che nelle pronunce giurisprudenziali (Intervento in Castaldo (a cura di), Migliorare le performance della Pubblica amministrazione. Riscrivere l’abuso d’ufficio, Torino, 2018, 118.

[19] Come riporta Gambardella (op.cit., 136), si legge nei lavori parlamentari relativi alla riforma del 1997, che tra le varie questioni critiche che avevano portato la riforma dopo così poco tempo della fattispecie di Abuso d’ufficio, vi era il fatto che «la formulazione della norma consentiva l’indagine del giudice penale sull’attività discrezionale della pubblica amministrazione prevedendo il famoso eccesso di potere».

[20] Così M. Romano, I delitti contro la Pubblica amministrazione, Commentario sistematico, Milano, 2019. 260

[21] Coì Padovani, op.cit., 7; vedi anche le riflessioni di Donini, Osservazioni sulla proposta Castaldo-Naddeo, di riforma dell’art. 323 c.p. La ricerca di un’ultima ratio ancora più tassativa contro il trend generale dell’espansione penalistica, in Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione, cit., 95.

[22] Donini, op.cit., 96; Padovani, op. cit., 7, secondo il quale questo è motivato dalla evidente asimmetria logica della nuova formulazione che legava la responsabilità penale del pubblico amministratore esclusivamente alle attività vincolate, assolutamente irrilevanti e bagatellari rispetto alle attività discrezionali che, secondo l’interpretazione letterale avrebbero finito per essere escluse del tutto.

[23] Naddeo, Abuso d’ufficio: tipicità umbratile o legalità crepuscolare del diritto vivente? Dogmatica di categorie e struttura del tipo nella prospettiva de lege ferenda, in Migliorare le performance della Pubblica amministrazione, cit., 32; Perin, op.cit., 6; M. Romano, 259; Stortoni, Intervento, cit., 119.

[24] Padovani, op.cit., 9; Petrin, op.cit.,

[25] Anche se non sono mancate questioni in ordine all’accertamento del dolo intenzionale, spesso presunto dalla realizzazione dell’evento; e sulla definizione della c.d. doppia ingiustizia. (Gambardella, op.cit., 139; Perin, op.cit., 6 e ss.; Pisani, Abuso d’ufficio, cit., 271; Stortoni, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, cit., 202 e ss.).

[26] Per tutti M. Romano, I delitti contro la Pubblica amministrazione, cit., 306.

[27] Sui rischi della lettura formalistica della norma, sposata anche in un primo momento dalla giurisprudenza, tra i tanti, Pellissero, I delitti contro la Pubblica amministrazione, in Bartoli, Pellissero, Seminara, Diritto penale, Lineamenti di parte speciale, Torino, 2021, 516.

[28] Così Donini, op. cit., 97; Fiandaca, Musco, Diritto penale parte speciale, v. I, V edizione, Bologna, 2012, 253; Gambardella, op. cit., 145; Manna, Salcuni, op. cit., 3; Padovani, op.cit., 7.

[29] Solo in via esemplificativa, espressiva della tendenza retrittiva, filo legislativa, Cass. 10.11.1997, n. 1163

non è più «consentito al giudice penale entrare nell’ambito della discrezionalità amministrativa, che il legislatore ha ritenuto, anche per esigenze di certezza del precetto penale, di sottrarre a tale sindacato».

[30] Cass. Sez. Un. 29 settembre 2011, n. 155, in Cass. Pen. 2012, p. 2410 ss. Sul particolare contesto di riferimento della pronuncia, e la non generalizzabilità dei principi in essa contenuti, vedi tuttavia, D’Ascola, Intervento in Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione, cit., 103.

[31] Collazzo, op. cit.; Naddeo, Abuso d’ufficio: tipicità umbratile, cit., 36.

[32] Cfr. Fiorella, Sulla c.d. amministrazione pubblica difensiva: l’abuso d’ufficio come spauracchio? in Migliorare le performance della Pubblica amministrazione, cit.,110; Naddeo, ivi, 31; Perongini, Le ragioni che consigliano l’abrogazione del reato di abuso d ufficio, ivi, 13; Stortoni, Intervento, cit., ivi, 117; Secondo Gambardella, «l’argomento delle statistiche giudiziarie basato sull’elevato  divario fra numero di contestazioni in materia di abuso d’ufficio e sentenze di condanna per lo stesso – … non sarebbe ascrivibile alla scarsa determinatezza della fattispecie incriminatrice, bensì piuttosto alla scarsa attenzione nella gestione delle iscrizioni delle notizie di reato oltreché delle indagini preliminari» (op. cit.,139).

[33] Padovani, op.cit., 9.

[34] Su cui, Castaldo (a cura di) Migliorare le performance della Pubblica Amministrazione. cit., (ed in particolare gli interventi di Naddeo, Abuso d’ufficio; tipicità umbratile o legalità crepuscolare del diritto vivente? cit., 31; Donini, Osservazioni sulla proposta, cit., 94); vedi altresì Nisco, op.cit., 11; Perin, op. cit, 12 ss.

[35] G. De Francesco, Le fattispecie dell’abuso di ufficio: profili di ermeneutica e di politica criminale, in CP. 1999, 1633 ss.; Manes, Abuso d’ufficio e progetti di riforma: i limiti dell’attuale formulazione alla luce delle soluzioni proposte, in RIDPP 1997, 1202 ss; Padovani, op.cit., 13; Pagliaro, op.cit., 106 ss.; Perin, op.cit., 12.

[36] Così, emblematicamente, Manna, Salcuni, op.cit., 2: «Non può però non chiedersi comunque come sia possibile che la riforma del 1990, quella del 1997, infine, quella del 2020 siano animate dalla stessa finalità politico criminale, segno evidente del fallimento dei precedenti interventi legislativi».

[37] Perongini, op. cit., p. 13; B. Romano, Il nuovo abuso d’ufficio, cit., Stortoni, Intervento, cit., 121; Nisco, op. cit.,

[38] In questo senso Insolera, op. cit., 3; Manna-Salcuni, 4;

[39] Sul punto si riscontra una sostanziale unanimità di vedute.

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