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Fallimento della società in house del Comune: la responsabilità penale del Sindaco dell’ente locale per il delitto di bancarotta.

Con la sentenza in allegato, il Giudice per le indagini preliminari del Tribunale di Salerno ha affermato la responsabilità penale del Sindaco, organo di vertice dell’amministrazione comunale, per i fatti di bancarotta connessi al fallimento di una società in house partecipata dall’ente locale.

La decisione in parola offre l’occasione per riflettere sull’interpretazione della nozione di ‘amministratore’ come autore dei reati di bancarotta, che ricomprenderebbe – secondo il giudice salernitano – anche il Sindaco del Comune che abbia esercitato o che avrebbe potuto esercitare il “controllo analogo” nei confronti della società in house fallita.

La soluzione interpretativa de qua consentirebbe, dunque, di non dover ricorrere – ai fini dell’affermazione della responsabilità penale – alla qualificazione a titolo di amministratori “di fatto” degli organi di vertice degli enti locali che siano soci di società a partecipazione pubblica, nonché di ovviare, ai medesimi fini, alla necessità di dover ravvisare un loro concorso nel delitto fallimentare commesso da altri.

Orbene, prima di entrare nel merito della pronuncia del Tribunale di Salerno, appare opportuno premettere brevi cenni sulla vicenda ad essa sottesa, che s’inserisce nell’ambito di un procedimento penale pendente a carico degli amministratori e dei membri del collegio sindacale di una società in house, nonché del Sindaco del Comune che deteneva la totalità delle quote sociali della società poi fallita.

Il Sindaco dell’ente pubblico territoriale ha optato, insieme a un componente del collegio sindacale, per la definizione del processo con il rito abbreviato, culminato con la sentenza di condanna qui in esame.

L’ipotesi di reato contestata al Sindaco dell’ente locale e al componente del collegio sindacale era quella di bancarotta fraudolenta prevista e punita dagli artt. 110 c.p., 216 e 223, co. 2, n. 2) R.D. n. 267/1942 (“legge fallimentare” o “l.f.”)[1], poiché, insieme con gli altri amministratori e sindaci della società, avrebbero cagionato con dolo o comunque per effetto di operazioni dolose il fallimento della società in house.

Venivano altresì contestate le circostanze aggravanti di cui all’art. 219, co. 1 e co. 2, n. 1) l.f. per aver cagionato un danno patrimoniale di rilevante gravità e aver commesso più fatti di bancarotta.

Tuttavia, è bene anticipare sin d’ora che dette circostanze risulteranno soccombenti all’esito del giudizio di bilanciamento con le attenuanti generiche concorrenti.

Le principali operazioni (dolose) contestate riguardavano: (i) il conseguimento di una perdita di esercizio che aveva ridotto il capitale sociale al di sotto del minimo consentito dalla legge, senza che venisse convocata l’assemblea straordinaria al fine di deliberare il necessario aumento del capitale ovvero la trasformazione o lo scioglimento della società; (ii) il continuo ricorso all’affidamento dei lavori a terzi, in assenza di procedure ad evidenza pubblica e di preventiva autorizzazione del Comune, con conseguente determinazione di irregolarità amministrative e contabili idonee a compromettere la situazione patrimoniale della fallita; (iii) l’assunzione di nuovi dipendenti in assenza delle condizioni economico-patrimoniali necessarie per sostenerne l’onere di spesa (“in un’ottica “assistenziale” che ha notoriamente conferito alle società a partecipazione pubblica la funzione di una sorta di ammortizzatore sociale[2]).

Tali operazioni venivano addebitate al Sindaco del Comune talvolta in qualità di autore principale e talaltra in veste di corresponsabile, mentre al componente del collegio sindacale veniva contestata essenzialmente la violazione dei doveri inerenti al proprio ufficio e la discendente causazione del fallimento sociale ai sensi dell’art. 40 cpv. c.p.

Per ragioni di brevità non si intende in questa sede approfondire la posizione del membro del collegio sindacale, preferendo soffermarsi invero sul giudizio di condanna espresso con riguardo alla posizione del Sindaco dell’ente locale.

Con riferimento a quest’ultimo, veniva accertata dunque la sussistenza di molteplici operazioni idonee ad integrare l’elemento tipico del reato oggetto di contestazione e veniva altresì appurato il nesso eziologico tra le suddette condotte e l’aggravamento dello stato di decozione della società.

Tuttavia, come noto, gli organi di vertice degli enti locali non risultano essere ricompresi fra i soggetti attivi della fattispecie bancarottizia di cui all’art. 223, co. 1, l.f., la quale, nella sua natura di ‘reato proprio’, annovera a titolo di autori del delitto soltanto gli amministratori, i direttori generali, i sindaci e i liquidatori della società dichiarata fallita.

Pertanto, sul piano giuridico, si appalesava come dirimente, ai fini dell’affermazione della responsabilità penale, la corretta qualificazione soggettiva del rappresentante legale dell’amministrazione comunale che deteneva la partecipazione totalitaria al capitale della società fallita; ciò, con due ipotesi sul tavolo: (i) amministratore (di diritto o di fatto) della fallita e, conseguentemente, autore del reato fallimentare; oppure (ii) soggetto estraneo alla gestione della fallita e, dunque, concorrente nel reato proprio altrui.

A tal fine, occorre innanzitutto, soffermarsi brevemente sulle nozioni di ‘società in house’ e di ‘controllo analogo’, entrambe contenute nel D.lgs. n. 175/2016 (“Testo unico in materia di società a partecipazione pubblica”), sulle quali è imperniata – come si dirà – la pronuncia in esame.

Ai sensi degli artt. 2, co. 1, lett. o) del D.lgs. n. 175/2016 si definiscono in house le società “sulle quali un’amministrazione pubblica esercita il controllo analogo o più amministrazioni esercitano il controllo analogo congiunto”.

Dette società sono disciplinate dall’art. 16 del D.lgs. n. 175/2016, ai sensi del quale risulta preclusa la partecipazione di capitali privati – salvo che sia prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata – ed è altresì necessario che risulti soddisfatto il requisito della c.d. “attività prevalente”, ossia che oltre l’ottanta per cento del fatturato delle società in house derivi dallo svolgimento dei compiti a esse affidati dall’ente pubblico o dagli enti pubblici soci.

Si intende in house, dunque, la società “costituita da uno o più enti pubblici per l’esercizio di pubblici servizi, di cui esclusivamente tali enti possano esser soci, che statutariamente esplichi la propria attività prevalente in favore degli enti partecipanti e la cui gestione sia per statuto assoggettata a forme di controllo analoghe a quello esercitato dagli enti pubblici sui propri uffici” (Cass. Civ., SS. UU., 25 novembre 2013, n. 26283).

Ai sensi dell’art. 2, co. 1, lett. c) D.lgs. n. 175/2016, per ‘controllo analogo’ si intende invece la situazione in cui l’amministrazione esercita su una società un controllo non dissimile da quello esercitato sui propri servizi, esercitando quindi un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata.

Tale controllo può anche essere esercitato da una persona giuridica diversa, che sia a sua volta controllata dall’amministrazione partecipante.

Il controllo analogo può essere altresì congiunto – ex art. 2, co. 1, lett. d) – allorché l’ente eserciti su una società, congiuntamente con altre amministrazioni, un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi. Detta situazione si verifica al ricorrere delle condizioni indicate all’articolo 5, co. 5, D.lgs. n. 50/2016 (“Codice dei contratti pubblici”)[3].

Come osservato nella pronuncia in esame (p. 116), la giurisprudenza – europea e nazionale – in materia qualifica come elementi costitutivi della nozione di ‘controllo analogo’:

“1) il possesso dell’intero capitale azionario che, tuttavia, da solo, è condizione necessaria ma non sufficiente a determinare il requisito strutturale;

2) il controllo del bilancio;

3) il controllo sulla qualità dell’amministrazione;

4) la spettanza di poteri ispettivi diretti e concreti, sino a giungere al potere del controllante di visitare i luoghi di produzione;

5) la totale dipendenza dell’affidatario diretto in tema di strategie e politiche aziendali”.

Si badi bene, il controllo analogo non deve essere identificato e confuso con l’influenza dominante che il titolare della partecipazione maggioritaria (o totalitaria) è in grado di esercitare sull’assemblea della società e sulla scelta degli organi sociali; “si tratta, invece, di un potere di comando direttamente esercitato sulla gestione dell’ente con modalità e con un’intensità non riconducibili ai diritti ed alle facoltà che normalmente spettano al socio (fosse pure un socio unico) in base alle regole dettate dal codice civile, e sino al punto che agli organi della società non resta affidata nessuna autonoma rilevante autonomia gestionale” (Cass. Civ., SS. UU., 25 novembre 2013, n. 26283).

È di tutta evidenza, allora, come la risoluzione del quesito relativo alla qualificazione soggettiva del Sindaco del Comune in seno alla fattispecie bancarottizia contestata dipenda proprio dall’interpretazione attribuita alla nozione di ‘controllo analogo’, inteso come potere di ingerenza da parte dell’azionista pubblico circa la gestione della società; ingerenza, che, travalicando le ordinarie facoltà riconosciute al socio dall’ordinamento, si traduce in una forma di soggezione gerarchica degli organi amministrativi della società, i quali – per l’effetto di questa – risultano assimilabili a uffici alle dipendenze dell’ente azionista[4].

L’art. 8 (“Controllo sugli organismi gestionali esterni”) del Regolamento in materia di controlli interni e di trasparenza per le cariche elettive e di governo del Comune de quo prevedeva, infatti, che il potere di controllo, fisiologicamente attribuito agli uffici dirigenziali dell’ente, fosse demandato all’organo politico (i.e. il Sindaco) nel caso in cui fossero state riscontrate delle situazioni tali da compromettere la “sana gestione finanziaria” della partecipata. In tali ipotesi, dunque, quest’ultimo sarebbe stato tenuto a esercitare – sulla base delle relazioni istruttorie dei dirigenti – il controllo analogo, acquisendo un potere di ingerenza diretta sulla gestione della società.

Secondo il Tribunale di Salerno, lo stato di difficoltà economico-finanziaria maturato dalla società partecipata appariva sicuramente idoneo integrare la suddetta fattispecie regolamentare, per effetto della quale il Sindaco avrebbe assunto la posizione di amministratore “di diritto” della società.

A conferma dell’esercizio in concreto del suddetto potere, assumeva particolare rilievo – secondo il Giudice – la partecipazione del capo dell’amministrazione comunale alle assemblee della società partecipata, ove avrebbe avallato le scelte gestorie degli amministratori, ivi inclusa l’assunzione dei nuovi dipendenti in assenza delle necessarie coperture di spesa, nonché l’affidamento di servizi a soggetti terzi da parte della società in house; inoltre, il Sindaco avrebbe interloquito con i creditori sociali con l’intento precipuo di dissuaderli dall’intraprendere iniziative legali nei confronti della società, che già versava in grave difficoltà finanziaria.

Non si sarebbe trattato, dunque, secondo il Tribunale, di una condotta omissiva “ma di un consapevole contributo offerto dal Sindaco del Comune ad una gestione della società patologicamente votata al dissesto” (p. 131).

Pertanto, in ragione della ritenuta valenza positiva delle condotte incriminate, l’organo di vertice dell’amministrazione comunale potrebbe rientrare, secondo il giudice salernitano, nell’alveo dei soggetti attivi del reato di bancarotta impropria (i.e.amministratore”).

La peculiare natura della società nell’ambito della cui gestione si sarebbero realizzati i fatti de quibus – nell’accezione ad essa attribuita dalla giurisprudenza richiamata in sentenza, volta a negare l’esistenza di un’alterità soggettiva fra l’ente e la società partecipata – renderebbe quindi possibile l’individuazione di soggetti responsabili della direzione e amministrazione diversi e ulteriori rispetto a quelli ai quali tali funzioni sono attribuite.

Ciò in ragione del fatto che “la società in house, come in qualche modo già la sua stessa denominazione denuncia, non pare […] in grado di collocarsi come un’entità posta al di fuori dell’ente pubblico, il quale ne dispone come di una propria articolazione interna. È stato osservato, infatti, che essa non è altro che una longa manus della pubblica amministrazione, al punto che l’affidamento pubblico mediante in house contract neppure consente veramente di configurare un rapporto contrattuale intersoggettivo (Corte cost. n. 46/13, cit.); di talché “l’ente in house non può ritenersi terzo rispetto all’amministrazione controllante ma deve considerarsi come uno dei servizi propri dell’amministrazione stessa” (così Cons. Stato, Ad. plen., n. 1/08, cit.). Il velo che normalmente nasconde il socio dietro la società è dunque squarciato: la distinzione tra socio (pubblico) e società (in house) non si realizza più in termini di alterità soggettiva” (Cass. Civ., SS. UU., 25 novembre 2013, n. 26283).

In ogni caso, la società a partecipazione (in tutto o in parte) pubblica resterebbe assoggettata – secondo la giurisprudenza di legittimità – al regime privatistico della società di capitali, con il conseguente rischio di fallimento.

Tale rischio conseguirebbe alla scelta del legislatore di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali partecipate dagli enti locali, “e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico, comporta che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza pena la violazione dei principi di uguaglianza e di affidamento dei soggetti che con esse entrano in rapporto ed attesa la necessità del rispetto delle regole della concorrenza, che impone parità di trattamento tra quanti operano all’interno di uno stesso mercato con identiche forme e medesime modalità” (Cass. Civ., sez. I, 7 febbraio 2017, n. 3196).

Nella particolare natura della società in house troverebbe composizione, dunque, secondo il giudice salernitano, l’“apparente contrasto” tra l’assoggettabilità della società a partecipazione pubblica alle regole civilistiche e l’assenza di alterità soggettiva tra socio e società, poiché essa, pur mutuando la forma tipica della società per azioni, rimarrebbe comunque di fatto “una longa manus dell’Amministrazione”.

Pertanto, la previsione di un potere di ingerenza in capo all’ente – con riferimento alle scelte gestionali, organizzative, economiche – sarebbe idoneo a caratterizzare la società come “in house”, indipendentemente dal fatto che il controllo analogo non sia stato effettivamente esercitato o sia stato esercitato in modo difforme al dettato statutario o normativo (cfr. Cass. Civ., SS. UU., 21 giugno 2019, n. 16741).

Dunque, se l’ente pubblico è titolare di un siffatto potere di comando sulla gestione dell’ente, rispetto al quale gli organi amministrativi verrebbero a trovarsi in posizione di subordinazione gerarchica, “non può che riconoscersi in capo al Sindaco, rappresentante legale dell’ente, il medesimo ruolo dell’amministratore, non come amministratore “di fatto” nel senso classico del termine, ma come soggetto che, in ragione della peculiare natura della società, è dotato di poteri di amministrazione e di gestione tipici dell’amministratore” (p. 130).

A tal fine, secondo il giudice salernitano, neppure rileverebbe il fatto che le concrete modalità di esercizio del potere analogo sarebbero state rimesse ai dirigenti e ai funzionari dell’ente né che, nella ripartizione delle competenze dell’ente pubblico, sarebbero spettati al Comune i poteri di indirizzo e controllo, in quanto era il Sindaco a rappresentare l’ente locale nella società (“longa manus” del Comune).

L’imputato avrebbe quindi direttamente perfezionato la fattispecie di reato proprio ex art. 223 l.f., nella sua qualità di amministratore “di diritto” della società, a prescindere dall’eventuale concorso degli altri imputati nello stesso delitto.

***

In conclusione, pur riconoscendo l’originalità interpretativa che caratterizza questa pronuncia, volta a valorizzare il rapporto sostanziale intercorrente tra l’ente pubblico e la società in house, non possono che condividersi le perplessità già espresse da altri autorevoli commentatori[5], circa il rischio – inviso al diritto penale – di una violazione del divieto di interpretazione analogica in malam partem della nozione di amministratore di cui all’art. 223 l.f.

D’altronde, la giurisprudenza, anche amministrativa, pur ritenendo – come evidenziato dalla sentenza in commento – le società di capitali a partecipazione pubblica senz’altro soggette al fallimento, ha parimenti riconosciuto che “il cd. “controllo analogo” esercitato dall’amministrazione sulla società partecipata serve a consentire all’azionista pubblico di svolgere un’influenza dominante sulla società, se del caso attraverso strumenti derogatori rispetto agli ordinari meccanismi di funzionamento, così da rendere il legame partecipativo assimilabile a una relazione interorganica; e tuttavia questa relazione interorganica non incide affatto sull’alterità soggettiva dell’ente societario nei confronti dell’amministrazione pubblica, dovendosi mantenere infine pur sempre separati i due enti – quello pubblico e quello privato societario – sul piano giuridico-formale, in quanto la società in house rappresenta pur sempre un centro di imputazione di rapporti e posizioni giuridiche soggettive diverso dall’ente partecipante” (Cass. Civ., sez. I, 22 febbraio 2019, n. 5346; Cass. Civ., SS.UU., 13 settembre 2018, n. 22406).

Sicché, la posizione degli enti comunali all’interno delle società a partecipazione totale (o parziale) pubblica è unicamente quella di socio in base al capitale conferito. Conseguentemente, soltanto in tale veste l’ente pubblico potrebbe influire sul funzionamento della società avvalendosi, non di già poteri pubblicistici, bensì dei soli strumenti previsti dal diritto societario, esercitabili in concreto per mezzo dei membri presenti negli organi della società.

Di talché, se è vero che la società in house ha natura privatistica, allora anche la sua organizzazione e i relativi poteri di gestione e di direzione dovrebbero considerarsi assoggettati alla disciplina civilistica, che attribuisce tali potestà soltanto a determinati soggetti qualificati, espressamente individuati legislatore, nella cui definizione appare arduo poter ricondurre soggetti ulteriori (i.e. il socio) quandanche quest’ultimi fossero dotati – come nel caso di specie – di appositi poteri di intervento nell’ambito delle vicende societarie.

Per leggere la Sentenza

[1] Le norme de quibus risultano oggi trasposte nel “Codice della crisi d’impresa e dell’insolvenza” (D.lgs. n. 14/2019), rispettivamente, agli artt. 322 e 329, in vigore dal 1° settembre 2021.

[2] Il Tribunale, pur riconoscendo che le assunzioni erano state determinate, in gran parte, dalla necessità di riconvertite lavoratori socialmente utili o comunque lavoratori che, per età o formazione, non erano in grado di trovare agevolmente altre occupazioni, affermava che, a prescindere dai motivi che hanno determinato le assunzioni, il “dato pacifico è che dette operazioni, idonee a compromettere la situazione economica della società, venivano compiute nell’interesse forse di una parte della comunità […], ma senz’altro non della società, anche a costo, considerata la notoria situazione di dissesto, di esposizione debitoria e di fragilità strutturale della […], di aggravarne ulteriormente il dissesto” (p. 132).

[3] Ossia quando: a) gli organi decisionali della persona giuridica controllata sono composti da rappresentanti di tutte le amministrazioni o enti partecipanti (singoli rappresentanti possono rappresentare varie o tutte le amministrazioni o enti partecipanti); b) le amministrazioni o enti sono in grado di esercitare congiuntamente un’influenza determinante sugli obiettivi strategici e sulle decisioni significative di detta persona giuridica; c) la persona giuridica controllata non persegue interessi contrari a quelli delle amministrazioni o degli enti controllanti.

 

[4] G. Barbato, La responsabilità penale del sindaco (organo politico) in ordine al fallimento della società in house partecipata dal comune, in Giurisprudenza Penale Web, 2020, 11, p. 4.

[5] C. Santoriello, Sindaco del Comune socio responsabile con fallimento della società in house, in Eutekne.info, 2020.

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