Corte e.d.u., 17 dicembre 2020, Saber v. Norvegia
1.- Sul tema, centrale e connaturato al diritto di difesa nella sua più ampia articolazione, della inviolabilità delle comunicazioni fra avvocato ed assistito, offre significativo spunto una recente decisione emessa dalla Corte e.d.u., il 17 dicembre 2020, nel caso Saber contro Norvegia, con la quale viene ribadito un principio sacrosanto che, tuttavia, stenta ad affermarsi nel nostro ordinamento anche a causa di un certo indirizzo giurisprudenziale che ha snaturato il senso dell’art. 103 c.p.p.
Sebbene la pronuncia afferisca all’ambito delle c.d. perquisizioni informatiche, consente comunque di sviluppare un ragionamento di più ampio respiro che investe il tema (invero diverso) della necessaria segretezza di quanto si dicano il cliente e il suo legale.
L’erosione del segreto delle conversazioni intercorse tra il difensore e il suo assistito, a cui assistiamo da anni, è un problema, prima ancora che giuridico, di civiltà; ma l’Europa, fortunatamente, interviene ed è proprio da qui che occorre ripartire per ritrovare la strada smarrita.
I. Il caso Saber v. Norvegia, 17 dicembre 2020 nella giurisprudenza europea
1.- La pronuncia trae origine dal ricorso proposto -ex art. 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali- da un cittadino norvegese alla Corte e.d.u. lamentando la violazione degli artt. 6 e 8 della Convenzione a fronte di un provvedimento di sequestro e perquisizione dei dati del suo smartphone contenente, tra le altre cose, la corrispondenza (via e-mail e sms) intercorsa con i suoi legali, difensori di fiducia in diverso procedimento nel quale era accusato di altro reato (per essere poi definitivamente assolto).
Invero, per quanto è dato comprendere dal testo della pronuncia (non si dispone, ancora, di una traduzione ufficiale), in quello ove erano stati disposti il sequestro e la perquisizione del telefono mobile, il sig. Saber era stato vittima di un tentato omicidio ad opera di due soggetti, le cui prove a carico dovevano ricavarsi dalla raccolta dei dati telefonici, necessari a stabilire possibili contrasti tra i sospettati e il ricorrente.
L’iniziale accordo tra la polizia e il sig. Saber -titolare dell’utenza telefonica- era nel senso che all’estrapolazione dei flussi telematici, previa eliminazione delle comunicazioni coperte da segreto professionale, provvedesse il Tribunale e non già le forze dell’ordine. Intesa, di seguito, venuta meno per decisione della stessa Autorità Giudiziaria (il Tribunale) che, richiamando una pronuncia nel frattempo emessa, in caso analogo, dalla Corte Suprema Norvegese, individuava nella polizia, attraverso l’applicazione analogica di una norma nazionale (l’art. 205 del codice di rito) e in assenza di normativa specifica sul punto, l’organo competente a procedere tanto alla selezione, quanto all’estrapolazione, dei dati informatici fornendo, così e per l’effetto, l’integrale contenuto del telefonino agli inquirenti.
Le doglianze articolate dal ricorrente innanzi le giurisdizioni Superiori (l’Alta Corte e la Suprema Corte norvegese) venivano rigettate in blocco e, nonostante le rassicurazioni in ordine ad un controllo preventivo circa le modalità della selezione dei dati protetti dal c.d. privilegio professionale per opera dell’autorità giudiziaria, il materiale sequestrato veniva passato “al setaccio” dagli inquirenti (per la precisione, da un singolo agente) senza alcuna supervisione giurisdizionale e in mancanza di un regime normativo a ciò dedicato, capace cioè di scandire «fasi, tempi e modalità» dell’opera di “filtraggio” onde scongiurare la compromissione del diritto di difesa.
Di qui il ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo per violazione degli artt. 6 e 8 della Convenzione censurandosi -principalmente- il procedimento relativo al sequestro, alla perquisizione e all’estrazione dei dati del cellulare poiché lesivo del diritto alla segretezza della corrispondenza come tutelato dalla Convenzione europea.
2.- Investita della questione, la Corte e.d.u. -con sentenza del 17 dicembre 2020- se, da un lato, ha certificato la violazione dell’art. 8, dall’altro, non si è pronunciata sull’inosservanza dell’art. 6 della Convenzione, stante l’inammissibilità sopravvenuta per l’assoluzione del ricorrente dalle accuse mossegli nel procedimento instaurato a suo carico.
Il ragionamento sviluppato nella decisione in commento prende avvio da un preciso monito secondo cui ciascuno Stato membro deve dotarsi di una legislazione sufficientemente chiara nello stabilire “circostanze, modalità e condizioni” legittimanti l’intervento delle autorità pubbliche in tema di sequestri e perquisizioni, specie quando investano le comunicazioni tra un avvocato ed il suo assistito.
Di tal che, l’assenza di una precisa disciplina normativa volta a regolamentare le cadenze procedurali dell’opera di “filtraggio” si traduce, nel concreto, in mancanza di garanzie di tutela del c.d. legal privilege.
Ciò stabilito, ovvie le conseguenze a trarsene: l’opera di selezione del materiale sequestrato, affidata alla incontrollata discrezionalità dell’operante, deve ritenersi lesiva dell’art. 8 della Convenzione.
Nel pervenire a tale conclusione, la Corte europea ha anche premesso l’importanza di apprestare garanzie certe in materia sol considerando l’impatto di tali misure con la vita privata, il domicilio e la corrispondenza. Necessità vieppiù avvertita quando trattasi di proteggere la riservatezza degli scambi tra avvocati e i loro assistiti e ciò perché “il segreto professionale è alla base del rapporto di fiducia esistente tra un avvocato e il suo cliente e che la tutela del segreto professionale è in particolare il corollario del diritto del cliente a non incriminarsi, il che presuppone che le autorità cerchino di dimostrare il loro caso senza ricorrere a prove ottenute con metodi di coercizione o oppressione in spregio alla volontà dell’imputato”, aggiungendo, inoltre, che “è chiaramente nell’interesse generale che chiunque desideri consultare un avvocato sia libero di farlo in condizioni che favoriscono una discussione piena e disinibita e che è per questo motivo che il rapporto avvocato-cliente è, in linea di principio, privilegiato (…) le persone che consultano un avvocato possono ragionevolmente aspettarsi che la loro comunicazione sia privata e confidenziale” ([1]).
2.1.- Prescindendo dal caso specifico che, come si diceva in esordio, aprirebbe a temi diversi ed ulteriori rispetto a quello, piuttosto circoscritto, che in tale sede si vuole affrontare (e cioè: la riservatezza delle comunicazioni tra avvocato ed assistito)([2]), si segnala l’importanza del passaggio motivazionale riguardante l’invito rivolto, dal giudice europeo, agli Stati membri di apprestare idonee (e chiare) garanzie per la tutela del rapporto avvocato/cliente, che gode di natura privilegiata; e non potrebbe essere diversamente posto che “in ballo” c’è il diritto di difesa, il cui effettivo esercizio implica, necessariamente, che il legale appresti la propria strategia difensiva, ovvero si confronti con il suo assistito, ovvero ne raccolga le confidenze, senza la preoccupazione di essere ascoltato dagli organi inquirenti.
E non si tratta di decisione isolata; in più di un’occasione, la Corte e.d.u. ha infatti riconosciuto come il rispetto del c.d. legal privilege misuri -in buona sostanza- il livello di democraticità di un Paese ([3]).
A titolo di esempio, senza alcuna pretesa di esaustività, si segnalano le seguenti pronunce: a)- caso Campbell c. Regno Unito, 25 marzo 1992, ric. n. 13590/13, che ha ritenuto tutelata dal segreto professionale, in base all’art. 8 Convenzione, la corrispondenza tra detenuto e legale([4]); b)- caso Rybacki contro Polonia, 13 gennaio 2009, chiarissimo nello stabilire che «il diritto dell’accusato a comunicare in modo riservato con il proprio difensore rientra tra i requisiti basilari del processo equo in una società democratica, alla luce del disposto dell’art. 6, paragrafo 3, lettera c), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali», pena la perdita di efficacia del mandato difensivo (negli stessi termini: casi Asciutto contro Italia, 27 novembre 2007 e Zagaria contro Italia, 27 novembre 2007); c)- caso Laurent c. Francia, 24 maggio 2018, ric. n. 13590/13, che ha riconosciuto come le interlocuzioni tra avvocato e cliente godano di uno status privilegiato, ai sensi dell’art. 8 Convenzione, sicché l’autorità non può controllarle, salvo non sospetti il compimento di un atto illecito, non rilevabile attraverso ordinari, e meno invasivi, mezzi di controllo; fermo, in ogni caso, il rispetto della proporzionalità tra l’ingerenza ed il fine suddetto; d)- caso Altay c. Turchia, 9 aprile 2019, ric. n. 11236 nel quale il giudice europeo, a fronte di un sequestro di un plico spedito dall’avvocato al suo assistito, ha ribadito come «il margine di apprezzamento dello Stato in ordine alla valutazione delle restrizioni ammissibili e dell’interferenza con la privacy del colloquio e della comunicazione con un avvocato è limitato solo per circostanze eccezionali, cosicché il prevenire la commissione di reati gravi o gravi violazioni della sicurezza carceraria e sicurezza, potrebbe giustificare la necessità di limitare questi diritti» riconoscendo, nel caso specifico, la duplice violazione dell’art. 6 e 8 della Convenzione (§15).
Ma se in Europa si assiste ad un “richiamo” al rispetto del rapporto confidenziale tra il legale e il suo assistito, ora sulla base dell’art. 6, ora richiamando l’art. 8 Convenzione, censurandosi le intromissioni ingiustificate ed erosive dell’ “attorney-client” (o più semplicemente “legal privilege”), in Italia si è smarrita la rotta anche a causa di un certo approdo giurisprudenziale che consente di ascoltare le conversazioni riservate per stabilire, solo successivamente, se siano inerenti alla funzione esercitata dal difensore([5]).
II. L’art. 103 c.p.p.: i limiti dell’attuale assetto normativo e gli spunti di riflessione
1.- Una considerazione pare opportuna: quanto a chiarezza del dato normativo, in riferimento alle prescrizioni di cui all’art. 103 codice di rito, il nostro ordinamento pare soddisfare gli standard europei.
Un vecchio dossier redatto dalla “Commissione CPR sull’art. 103 c.p.p.”, allora presieduta dall’avv. Renato Borzone, già rilevava come un certo indirizzo giurisprudenziale finiva per legittimare prassi distorte, consentendo di trasformare il divieto di intercettazione di cui all’art. 103 c.p.p. in una causa di inutilizzabilità successiva degli esiti captativi.
Rileggendolo mi sono stupita di come, nonostante il tempo trascorso, sei anni per la precisione, le problematiche siano sempre le stesse e le soluzioni prospettate per arginare il fenomeno ancora attuali.
Non è mistero per alcuno che le comunicazioni telefoniche tra il difensore ed il proprio assistito siano “ascoltate”, sebbene l’art. 103, 5° co., c.p.p. sia categorico nello stabilire il divieto di «intercettazione relativa a conversazioni o comunicazioni dei difensori, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite».
Il co. 7 dell’art. 103 c.p.p., invece, sanziona con l’inutilizzabilità i risultati captativi raccolti in violazione di legge; il che, però, rappresenta un rimedio da apprestare per eventuali attività illegittime, che potrebbero verificarsi in via del tutto eccezionale, non già costituire la regola.
La validità del ragionamento risulta confermata anche dal recente divieto introdotto con la c.d. riforma delle intercettazioni, come cristallizzato nel secondo periodo del medesimo co. 7 dell’art. 103 c.p.p., per il quale: «Fermo restando il divieto di utilizzazione di cui al primo periodo, quando le comunicazioni e conversazioni siano comunque intercettate, il loro contenuto non può essere trascritto, neanche sommariamente, e nel verbale delle operazioni sono indicate soltanto la data, l’ora e il dispositivo su cui la registrazione è intervenuta».
Sicché, lo schema parrebbe essere questo: le conversazioni tra legale e assistito non si ascoltano, non si registrano e -quindi- non si conservano; di contro, nei casi patologici in cui il contenuto venga erroneamente appreso, non può essere trascritto, neanche sommariamente nei c.d. brogliacci, ed è -ad ogni modo- processualmente inutilizzabile (fermi i divieti di cui all’art. 271, 2 e 3 co., c.p.p.).
2.- La recente riforma, nonostante l’introduzione di un secondo periodo all’interno del co. 7 dell’art. 103 c.p.p. nei termini anzidetti, ha mancato di coraggio, non prevedendo, ad esempio, alcuna sanzione per il mancato rispetto del nuovo divieto, ovvero nessuna nuova prescrizione in ordine all’impossibilità di ascoltare, registrare e infine conservare negli archivi di Procura le conversazioni coperte da segreto.
Il che, invece di risolvere definitivamente l’annosa questione, lascia ampi margini alle creazione di prassi distorte, consentendo, in linea di massima, al p.m. di accedere ad informazioni riservate, di scoprire la strategia difensiva, di riassestare eventualmente una claudicante ipotesi accusatoria e, già che ci siamo, di ricercare indizi di reato a carico dell’avvocato; pertanto non risulta scongiurato il pericolo di nuove (o la replica di vecchie) eccezioni al divieto di ascolto delle conversazioni tra avvocato e assistito.
E rischiamo, come in passato, di esser sepolti da circolari organizzative, da parte del Csm o delle singole Procure, volte a disciplinare il tema nello specifico, permettendo così all’autorità giudiziaria di colmare il vuoto lasciato da un disattento legislatore.
Insomma: se la nostra Costituzione (art. 24) ci dice che «La difesa è diritto inviolabile in ogni stato e grado del procedimento»; se il legislatore, di rimando, appresta specifiche garanzie vietando l’intercettazione tra avvocato ed assistito (art. 103 c.p.p.), ponendo così l’Italia, almeno in linea generale, nel giusto solco europeo, la S.C. di Cassazione manda tutto “a carte quarantotto”, finendo col consentire l’ascolto delle comunicazioni coperte da segreto e adducendo quale rimedio postumo l’inutilizzabilità del materiale intercettato.
Epperò così operando, si permette al soggetto chiamato a decidere dell’invalidità del dato probatorio intanto di apprenderlo.
Ma è persino ovvio che, se in una comunicazione coperta da segreto vi sia la confessione dell’indagato circa la commissione del reato addebitatogli, l’inutilizzabilità del compendio intercettato si atteggi a rimedio tutt’altro che rassicurante: l’informazione oramai è passata e risulta acquisita proprio da chi è chiamato a giudicare.
Per questo, l’unica garanzia per la tutela del diritto di difesa, è l’inascoltabilità a monte delle comunicazioni coperte da segreto, con conseguente divieto di registrazione e conservazione (quindi: immediata distruzione) dei dati acquisiti in violazione delle norme di legge.
3.- Uno spunto di riflessione in tal senso proviene dal già citato dossier ([6]) che proponeva, da un lato, l’abrogazione del co. 5 dell’art. 103 codice di rito (con soppressione , nel comma 7 del medesimo articolo, delle parole “intercettazioni di conversazioni o comunicazioni”), nonché l’introduzione di un nuovo articolo (103-bis c.p.p.) dal seguente tenore:
Art. 103 bis. Inviolabilità delle conversazioni e delle comunicazioni del difensore e dei suoi collaboratori.
«1. Sono inviolabili le conversazioni e le comunicazioni tra i difensori, gli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento nonché i consulenti tecnici e loro ausiliari e le persone da loro assistite.
- Non sono consentiti l’intercettazione, l’ascolto e l’acquisizione di dati relativi a conversazioni e comunicazioni dei difensori, dei loro sostituti, degli investigatori privati autorizzati e incaricati in relazione al procedimento, dei consulenti tecnici e dei loro ausiliari, né a quelle tra i medesimi e le persone da loro assistite, qualunque sia l’utenza o il sistema informatico o telematico oggetto di intercettazione.
- Il divieto di cui al comma che precede opera quando vi è nomina ai sensi dell’art.96 nonché quando emerge un rapporto fiduciario connesso alla funzione difensiva.
- In nessun caso il contenuto della conversazione o della comunicazione eventualmente intercettata può essere oggetto di annotazione sui verbali di cui all’art. 268, comma 2, di annotazione di servizio o di altra informativa, anche orale, all’autorità giudiziaria che procede.
- Fermo quanto previsto dall’art. 271, i risultati delle intercettazioni di conversazioni e comunicazioni eseguiti in violazione delle disposizioni precedenti, non possono essere utilizzati».
Inoltre, per rendere effettivamente operativo il divieto di intercettazione dei difensori s’era immaginato un blocco delle registrazioni (una sorta di black-list) da azionare quando l’assistito chiamasse il suo difensore; rimedio tecnicamente praticabile nell’ambito delle classiche intercettazioni telefoniche. Il che portava all’introduzione nell’art. 35, dopo il co. 5, delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice procedura penale, del seguente comma:
“6. In relazione a quanto previsto dall’art. 103 bis del codice, l’Autorità giudiziaria dispone in ogni caso il blocco automatico del sistema di registrazione delle conversazioni della persona sottoposta alle indagini con le utenze del difensore quando la nomina dello stesso già risulti in atti o emerga il rapporto fiduciario di cui al terzo comma dell’art. 103 bis. Negli altri casi, l’ascolto della conversazione, anche se avviene in momento successivo alla registrazione della stessa, è immediatamente interrotto nel momento stesso in cui dal suo tenore si comprende che la conversazione o la comunicazione sono connesse all’esercizio della funzione difensiva. In tali casi la registrazione è immediatamente distrutta dall’autorità giudiziaria ai sensi dell’art. 271 comma 3 del codice”.
Non si tratta di agognare un “privilegio di categoria”, ovvero di costruire una sorta di “zona franca”, come taluno ogni tanto brutalmente obietta, quanto invece di difendere con forza un principio cardine di qualsivoglia democrazia liberale. Nulla vieta di indagare e/o intercettare il legale, sempre che le prove di reato vengano ricercate altrove.
3.- Discorso parzialmente diverso va fatto per i casi in cui in cui il professionista sia intercettato quale indagato di un determinato delitto, ovvero il suo studio sia sottoposto a captazioni ambientali. Il problema meriterebbe più ampia (e forse autonoma) riflessione rispetto a quella che in tale sede può solo accennarsi.
Al netto dell’utilizzabilità delle intercettazioni, se regolarmente eseguite, afferenti alla specifica veste processuale di indiziato di reato, trattasi di stabilire i limiti di ascolto per le rimanenti conversazioni attinenti alla funzione di avvocato.
Quid iuris, nei casi in cui il legale (regolarmente) intercettato si relazioni con i suoi (più o meno numerosi) assistiti?
Certo i risultati non sono utilizzabili ma, per le ragioni dette, ciò rappresenta rimedio inadatto a preservare la segretezza dei colloqui con gli assistiti estranei al procedimento.
Pur tuttavia, anche in tali casi, va aperta una riflessione circa l’opportunità di introdurre talune prescrizioni volte ad evitare quantomeno l’ascolto delle registrazioni delle comunicazioni riservate (ad es. consentire allo stesso giudice che autorizza la captazione telefonica e/o ambientale di adottare i necessari provvedimenti anche di natura tecnica).
Ancora in tal senso, si riporta quanto elaborato dalla “Commissione CPR sull’art. 103 c.p.p.”
All’articolo 267 del codice di procedure penale, dopo il comma 1 è aggiunto il seguente:
“1.1. Nel decreto di cui al comma 1, quando debba disporsi una intercettazione tra presenti all’interno di uno studio legale ovvero una intercettazione di conversazioni o comunicazioni nei confronti di un legale sottoposto ad indagini preliminari, il giudice adotta i necessari provvedimenti, anche di natura tecnica, per evitare che l’ascolto possa riguardare conversazioni o comunicazioni connesse all’esercizio della funzione difensiva non concernenti i fatti per cui si procede”.
In conclusione: la soluzione offerta nel corso del tempo dalla S.C. di Cassazione, per la quale intanto si ascolta la conversazione per poi decidere se la stessa sia inascoltabile, non rilevando se l’utenza del difensore non sia intercettata, bastando la sottoposizione a controllo uditivo dell’indagato, abbisognerebbe di critica rimeditazione. L’impostazione del Supremo Collegio nullifica il divieto di intercettazione delle comunicazioni riguardanti l’avvocato e il suo assistito (art. 103 c.p.p.) e consente una “raccolta indifferenziata” del materiale captato. Operazione che, guardando all’Europa, pare non potersi più giustificare.
([1]) Trattasi di traduzione non ufficiale.
([2]) Tale pronuncia, invero, dovrebbe forse indurre ad una seria riflessione circa la compatibilità sovranazionale dell’uso del trojan o più in generale ad interrogarsi sul disallineamento della nuovissima disciplina in materia di intercettazioni telefoniche -introdotta con la legge di conversione 28 febbraio 2020, n. 7, ed entrata in vigore il 1 settembre 2020- rispetto al diritto europeo, e via di questo passo.
([3]) Si precisa che gran parte delle pronunce emesse dai giudici sovranazionali hanno individuato nell’art. 8 C.e.d.u. il pilastro normativo per censurare talune restrizioni in materia non mancando, tuttavia, di coinvolgere l’art. 6 della Convenzione a copertura delle guarentigie difensive e del “processo equo”.
([4]) Nella vicenda de qua la Corte aveva ammesso la possibilità, in presenza di ragionevoli motivi deponenti per un contenuto illecito di una missiva di un difensore al detenuto, che la autorità penitenziaria potesse aprire (ma non leggere) la lettera. Precisando, ancora, che la lettura della corrispondenza tra un detenuto e il suo difensore deve essere consentita soltanto in circostanze eccezionali, quando le autorità hanno un ragionevole motivo di credere che si sia verificato un “abuso del segreto professionale” in quanto il contenuto della corrispondenza costituisce un pericolo per la sicurezza del carcere o l’incolumità di altri, ovvero si appalesi di carattere criminale. Circa invece la possibilità di ravvisare un “ragionevole motivo”, la Corte aveva chiarito che bisogna aver riguardo all’insieme delle circostanze, presupponendo l’esistenza di fatti o di informazioni in grado di convincere un osservatore obiettivo che si stia abusando del canale di comunicazione tutelato dal segreto professionale.
([5]) A titolo di esempio si richiama: Sez. IV, 5 ottobre 2016, Marceraj, per la quale «L’art. 103, comma quinto. cod. proc. pen., nel vietare le intercettazioni delle conversazioni o comunicazioni dei difensori, riguarda l’attività captativa in danno del difensore in quanto tale ed ha dunque ad oggetto le sole conversazioni o comunicazioni -individuabili, ai fini della loro inutilizzabilità, a seguito di una verifica postuma– inerenti all’esercizio delle funzioni nel suo ufficio e non si estende ad ogni altra conversazione che si svolga nel suo ufficio o domicilio» (in Mass. Uff. n. 268.618); in tempi meno recenti, ma pressocché identici, Sez. VI, 10 ottobre 2008, n. 38578 «Invero il divieto di intercettazione di conversazioni o comunicazioni nei confronti dei difensori, sancito dall’articolo 103 c.p.p., comma 5, riguarda l’attività captativa in danno del difensore in quanto tale, e dunque nell’esercizio delle funzioni inerenti al suo ufficio, quale che sia il procedimento cui si riferisca, e non si estende ad ogni altra conversazione. La prescrizione anzidetta, pertanto, non costituisce un divieto assoluto di conoscenza ex ante, ma implica una verifica postuma del rispetto dei relativi limiti, la cui violazione comporta l’inutilizzabilità delle risultanze dell’ascolto non consentito ai sensi dell’articolo 103 c.p.p., comma 7 e la distruzione della relativa documentazione, a norma dell’articolo 271 c.p.p., richiamato dallo stesso articolo 103 c.p.p., comma 7»