Cerca
Close this search box.

NON UCCIDERE. Breve excursus sull’abolizione della pena di morte in Italia, in Europa e nel Mondo

Il condannato era un uomo intelligente, coraggioso, forte, d’età matura, chiamato Legros. Ebbene, ve lo dico io, potete credermi o no, saliva sul patibolo e piangeva, bianco come la carta. È mai possibile? Non è forse un orrore? Chi mai piange di paura? Io non credevo che potesse mettersi a piangere di paura uno che non fosse un bambino, un uomo che non aveva mai pianto, un uomo di quarantacinque anni. Che accade nell’anima in quel momento, a quali convulsioni la portano? È un affronto fatto all’anima, nient’altro! è detto: «Non uccidere»; e allora, perché uno ha ucciso, s’ha da uccidere anche lui? No, non è lecito[1].

Dostoevskij[2], che mette in bocca queste parole al suo “Idiota” principe Myškin protagonista dell’omonimo romanzo, sapeva bene quello che prova un condannato a morte prima dell’esecuzione: arrestato e sentenziato alla pena capitale per aver fatto parte di un circolo di socialisti seguaci delle dottrine di Fourier, il mattino del 22 dicembre 1849 al futuro scrittore fu fatta indossare la camicia bianca del condannato e venne condotto davanti al plotone di esecuzione che attendeva lui e i suoi compagni nel cortile della Fortezza di Pietro e Paolo a San Pietroburgo.

In realtà non era che una macabra messa in scena allestita dal comandante della prigione, poiché lo Zar Nicola I aveva già tre giorni prima commutato la pena capitale in quella dei lavori forzati a tempo indeterminato, messa in scena grazie a cui, secondo testimonianze dei presenti, due dei condannati incanutirono all’istante, mentre il nostro Dostoevskij riprese a soffrire di attacchi di epilessia che lo accompagnarono sino alla morte.

IL DECLINO DEL PATIBOLO IN EUROPA

Ragionando con la mentalità propria di un individuo del XXI secolo, ci sembra quasi impossibile anche solo pensare che, fino a pochi decenni or sono, la pena di morte fosse contemplata dai codici penali ed eseguita in numerosi paesi del vecchio continente, alcuni decisamente insospettabili.

Nel civilissimo Regno Unito di Gran Bretagna e Irlanda del Nord, ancora nel 1814 un tale William Potter veniva giustiziato per aver tagliato un frutteto, mentre la tradizionale forma di esecuzione denominata “hanging, drawn and quartered” (letteralmente “impiccagione, sventramento e squartamento”) fu abolita solo nel 1870.

Restando oltre Manica, l’esecuzione dei minori di 18 anni è rimasta in vigore sino al 1933 e ancora nell’agosto del 1964, mentre i Beatles erano in giro per il mondo a cantare Twist and shout e I want to hold your hand, due ragazzi di 21 e 24 anni venivano impiccati.

Solo nel 1998 il Crime and Disorder Act ha abolito gli ultimi reati capitali (tradimento e pirateria violenta), mentre lo Human Rights Act del 1998 ha sostituito con l’ergastolo la pena di morte prevista per i reati militari.

Infine, 10 ottobre 2003, il Regno Unito ha ratificato il Tredicesimo Protocollo alla Convenzione Europea sui Diritti Umani che vieta la pena di morte in tutte le circostanze, Protocollo che è entrato in vigore il 1 febbraio 2004.

Passando alla vicina Francia, il cammino verso l’abrogazione della pena capitale è stato per certi versi anche più lento e difficoltoso.

Nel paese inventore della ghigliottina (che, paradossalmente, fu introdotta allo scopo di evitare inutili sofferenze al condannato, assicurandogli una morte istantanea), a parte un timido tentativo di abrogazione da parte della Convenzione Nazionale nel 1795 (abrogazione mai applicata poiché subordinata alla cessazione dello stato di guerra e comunque quasi subito revocata), si è fatto larghissimo uso della pena capitale almeno fino al 1905, anno in cui il Presidente della Repubblica Armand Fallières, per sue nobili convinzioni personali, iniziò a graziare sistematicamente tutti i condannati a morte.

Ma le Corti d’Assise d’oltralpe, sostenute dalla larghissima maggioranza dell’opinione pubblica, continuavano ad emettere sentenze capitali, e nel 1909 il povero Fallières dovette piegare il capo e cessare di concedere la grazia.

Nel 1939, in seguito allo scandalo seguito dall’esecuzione del pluriomicida tedesco Eugen Weidmann[3] furono vietate le decapitazioni pubbliche, ma continuarono quelle eseguite all’interno degli stabilimenti carcerari.

A partire dagli anni 70, grazie anche alla crociata condotta dall’avvocato Robert Badinter[4], la pena capitale fu messa sempre più in discussione in Francia, soprattutto dopo l’esecuzione di Christian Ranucci, un ventiduenne condannato e giustiziato per aver rapito e ucciso una ragazzina dodicenne, sulla cui effettiva colpevolezza restò sempre una consistente alea di incertezza.

L’ultima condanna eseguita in Francia – e in tutta l’Europa occidentale – fu quella di Hamida Djandoubi, un cittadino tunisino che venne ghigliottinato alle 4:40 del 10 settembre 1977 nella prigione di Marsiglia.

Pochi mesi dopo l’elezione di François Mitterand, Badinter, divenuto nel frattempo Ministro della Giustizia, avanzava una proposta di legge che vietava la pena di morte, da lui definita “disumana e inefficace”, ottenendone l’approvazione da parte dell’Assemblea Nazionale e la conseguente eliminazione della pena capitale dal codice penale francese.

In Germania, dove le condanne a morte si eseguivano mediante decapitazione, dopo una quasi abrogazione durante la Repubblica di Weimar, la pena capitale tornò decisamente in auge dopo l’avvento del Nazionalsocialismo, epoca in cui non solo fu applicata su larghissima scala (664 condanne pronunciate prima della guerra dal 1933 al 1939, oltre 30.000 durante la seconda guerra mondiale, se si sommano le pronunce dei tribunali ordinari e quelle delle corti marziali), ma addirittura in alcuni casi fu comminata per reati che, all’epoca della loro commissione, non erano puniti con la morte: è il caso di Marinus van der Lubbe, l’autore dell’incendio al Reichstag, giustiziato nel 1934.

Dopo la guerra le esecuzioni continuarono sia nella Repubblica Democratica Tedesca (l’ultima esecuzione di un civile fu nel 1972 con la messa a morte dell’infanticida Erwin Hagedorn) che nella Repubblica Federale di Germania, dove tuttavia essa fu abolita quasi subito con l’entrata in vigore nel 1949 della Grundgesetz, ossia la costituzione, il cui articolo 102 recita laconicamente “La pena di morte è abolita”.

Abbastanza recente è stata l’abolizione in Portogallo e in Spagna, dove le ultime esecuzioni capitali, avvenute rispettivamente nel 1974 e nel 1975, non sono poi così lontane nel tempo, mentre l’abbandono di tale pratica nei paesi del Nord Europa è avvenuta decisamente prima (l’ultima esecuzione in Norvegia risale al 1944, in Islanda addirittura al 1830).

Decisamente particolare è la situazione della Russia, tra i primi stati europei a vietare la pena di morte per opera dell’Imperatrice Elisabetta I nel lontano 1744, paese dove è tuttavia tornata tristemente in auge nel corso di quasi tutto il XX secolo, soprattutto in epoca sovietica, anche se in tale periodo è stata in realtà abrogata e ripristinata più volte.

Dissoltasi l’URSS, la neonata Federazione Russa ha continuato ad applicarla fino al 1994, anno in cui Andrej Chikatilo, accusato di aver rapito e ucciso più di 50 donne e bambini, è stato l’ultimo condannato alla fucilazione, eseguita nonostante le ripetute domande di grazia all’allora Presidente Boris Eltsin, contenenti finanche la supplica di “mandarlo in esilio come Napoleone su un’isola deserta o nella taiga insieme alle tigri”.

Dopo questa esecuzione la Russia ha aderito al Consiglio d’Europa, introducendo una moratoria (condizione obbligatoria per l’adesione) che dura sino ad oggi, per cui attualmente la pena capitale è ancora contemplata nel codice penale di tale paese, ma a seguito della moratoria divenuta sostanzialmente permanente dopo una pronuncia della Corte costituzionale del 2009, le condanne vengono tutte commutate in ergastolo.

A proposito del Consiglio d’Europa, va ricordato che già il Protocollo n. 6 alla Convenzione per la salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Liberta fondamentali, adottato a Strasburgo nel 1983, limitava l’ammissibilità della pena di morte negli ordinamenti degli stati aderenti ai soli atti commessi in tempo di guerra, mentre il Protocollo n. 11 adottato a Vilnius nel 2002, contiene le seguenti disposizioni: “Articolo 1 – Abolizione della pena di morte. La pena di morte è abolita. Nessuno può essere condannato a tale pena né giustiziato. Articolo 2 – Divieto di deroghe. Nessuna deroga è autorizzata alle norme del presente Protocollo ai sensi dell’articolo 15 della Convenzione. Articolo 3 – Divieto di riserve. Nessuna riserva è ammessa alle norme del presente Protocollo ai sensi dell’articolo 57 della Convenzione.

Ad oggi, in tutta Europa, solo la Bielorussia mantiene in vigore la pena di morte, sebbene la stessa non sia applicabile a chi è minorenne all’epoca del commesso reato, a chi ha più di 65 anni al momento della sentenza e alle donne incinte. L’ultima esecuzione risale al 2022.

IN ITALIA

Nel nostro paese la pena di morte, per i reati commessi in tempo di pace, è stata abrogata a far data dal 1 gennaio 1948 con l’entrata in vigore della Costituzione, mentre per i reati commessi da militari in tempo di guerra si è dovuto attendere fino al 1994, durante il primo governo Berlusconi, quando è entrata in vigore la legge n. 589 che l’ha eliminata anche dal codice penale militare di guerra[5].

Prima dell’Unità d’Italia, la situazione era differente nei vari Stati presenti nella penisola.

Mentre il Granducato di Toscana può fregiarsi del titolo di primo stato italiano ad aver abolito la pena capitale, addirittura nel 1786 con la cd. “Legge Leopoldina” emanata sotto il regno di Pietro-Leopoldo d’Asburgo-Lorena (il quale tuttavia la ripristinò già nel 1790 appena divenuto imperatore del Sacro Romano Impero), seguito dalla Repubblica di San Marino (abrogazione nel 1848, reintroduzione nel 1853 e definitiva abrogazione nel 1865) e dall’effimera Repubblica Romana (abrogazione nel 1849), negli altri stati fu presente almeno fino alla formazione del Regno d’Italia.

Anche se formalmente abrogata dall’entrata in vigore del codice Zanardelli nel 1889, già dal 1878 la pena di morte era di fatto scomparsa dal neonato Regno Sabaudo grazie al decreto di amnistia generale voluto e promulgato da Umberto I, ma il fatto che restasse in vigore nel codice penale militare (e in quelli coloniali) fece sì che la stessa venisse largamente applicata durante il primo conflitto mondiale, soprattutto ai danni di poveri soldati innocenti accusati di comportamento disonorevole (la cd.”decimazione”, ovverosia la messa a morte di un militare ogni dieci dopo un’estrazione a sorte[6]).

Con l’avvento del Fascismo la pena capitale venne presto reintrodotta: dal 4 novembre 1925 al 31 ottobre 1926 avvennero ben quattro attentati alla vita di Mussolini, il che indusse il Senato ad adottare a larghissima maggioranza la legge n. 2008/1926, con la quale venne ripristinata la pena di morte per “chiunque commette un fatto diretto contro la vita, l’integrità o la libertà personale” del Re, del Reggente, della Regina, del Principe ereditario e del Capo del Governo, oltre che per gli autori di alcuni gravi reati contro la sicurezza dello Stato (puniti con l’ergastolo o la reclusione dal codice Zanardelli).

Confermata e, anzi, estesa a numerosi reati comuni dal codice Rocco del 1930, la sanzione capitale fu comminata per 118 volte (con 65 esecuzioni) dalle Corti d’Assise, competenti fino al 1940 a giudicare dei reati comuni, e per 54 volte (con 53 esecuzioni) dal Tribunale Speciale per i reati politici (dal 1940 a tale Tribunale passò anche la giurisdizione per i reati comuni).

A seguito caduta del Fascismo, ad abrogare nuovamente la pena di morte per i reati comuni intervenne il decreto legislativo luogotenenziale n. 224 del 10 agosto 1944, il cui articolo 1 recitava: “Per i delitti preveduti nel Codice penale è soppressa la pena di morte. Quando nelle disposizioni di detto codice è comminata la pena di morte, in luogo di questa si applica la pena dell’ergastolo”, mentre tale sanzione restava in vigore per i reati di natura squisitamente politica, questa volta ai però ai danni dei fascisti[7].

In realtà tale abrogazione ebbe brevissima durata, poiché già all’indomani della fine della guerra fu emanato il decreto legislativo luogotenenziale n. 234 del 10 maggio 1945 che ripristinò la pena di morte per alcuni reati comuni quali la rapina e il sequestro di persona a scopo di estorsione[8].

L’efficacia di tale provvedimento, inizialmente limitata ad un anno, si protrasse in realtà anche nei primi due anni della neonata Repubblica Italiana, grazie a due decreti del Capo provvisorio dello Stato[9] che ne consentirono la proroga sino all’entrata in vigore della Costituzione avvenuta il primo gennaio 1948, il cui articolo 27 ha finalmente stabilito che “Non è ammessa la pena di morte[10]”.

Anche se può sembrare un dettaglio, tale proroga di soli 2 anni e mezzo produsse in realtà una mole impressionante di condanne a morte, ben 251 solo per delitti commessi da ex membri della Repubblica Sociale Italiana (di cui 91 eseguite).

L’ultima esecuzione per un crimine comune fu quella relativa alla cd. “Strage di Villarbasse”[11], avvenuta il 4 marzo 1947 alla presenza di fotografi e di giornalisti all’interno di un poligono di tiro sito nella località Basse di Stura a Torino.

Alle 5 di mattina del giorno successivo, presso Forte Bastia nei pressi di La Spezia, fu eseguita l’ultima fucilazione per un reato politico, ai danni dei repubblichini Aldo Morelli, Emilio Battisti e Aurelio Gallo, condannati l’anno precedente per collaborazionismo e sevizie.

Secondo il resoconto pubblicato dai giornali dell’epoca, l’esecuzione non fu esente da incidenti: dopo la prima raffica solo Morelli morì, mentre Battisti restò ferito e Gallo addirittura illeso, avendo addirittura l’animo di pronunciare queste parole: “Non dovreste più sparare, ma fate come volete”.

La seconda raffica del plotone lo uccise, mentre Battisti fu finito con il classico colpo di grazia alla nuca, colpo che pose termine alle esecuzioni capitali in Italia.

NEL MONDO

Secondo l’ultimo rapporto pubblicato da Amnesty International, nel 2023 più della metà degli stati del mondo hanno, de iure o de facto, abrogato la pena di morte: 112 stati sono integralmente abolizionisti, 23 stati sono considerati abolizionisti di fatto perché non eseguono condanne a morte da almeno 10 anni o hanno assunto l’impegno a livello internazionale a non ricorrere alla pena capitale; altri 9 stati hanno cancellato la pena di morte per i reati ordinari.

In totale, 144 stati non ricorrono più a questo strumento, mentre 55 lo mantengono in vigore, anche se solo 16 vi fanno ancora ricorso in concreto.

Al di là dell’Europa, dove come detto solo la Bielorussia la applica ancora, il continente dove la pena di morte è maggiormente applicata è senz’altro l’Asia, con Iran (quasi due terzi delle esecuzioni “ufficiali”, soprattutto per reati in materia di traffico di stupefacenti) e Cina (che non fornisce né statistiche né altro tipo di informazioni, ma dove si stima che le esecuzioni siano alcune migliaia all’anno) che fanno da padroni in materia.

Nel mondo occidentale, l’unico paese dove la pena capitale è ancora oggi eseguita sono gli Stati Uniti d’America, con 23 esecuzioni nel corso del 2023.

I PENSIERI DI UN CONDANNATO A MORTE

Chi scrive, è superfluo dirlo, ha in orrore la sola idea che un essere umano possa essere ucciso per mano dello stato, chiunque egli sia e qualunque sia il delitto di cui si è macchiato.

Per tale ragione, giudico estremamente preoccupante la tendenza in atto ad estendere oltre i suoi naturali confini il concetto di legittima difesa, poiché la dilatazione smisurata di tale scriminante può arrivare in alcuni casi a produrre una sorta di implicita riammissione della pena di morte, con la particolarità che l’esecuzione è demandata alla persona offesa o ad un suo prossimo e che l’intervento dell’organo giurisdizionale (Tribunale o altro) avviene non nella fase decisionale bensì in quella successiva, a mo’ di ratifica dell’esecuzione già avvenuta.

Ma qui si rischia di andare fuori tema, per cui è meglio tornare all’oggetto del presente articolo e chiudere lasciando a Dostoevskij[12], come veduto testimone d’eccezione, il compito di descrivere quali sono i pensieri di un uomo che sta per essere giustiziato: “Ma forse il dolore principale, il più forte, non è quello delle ferite; è invece di sapere con certezza che, ecco, tra un’ora, poi tra dieci minuti, poi tra mezzo minuto, poi ora, subito, l’anima volerà via dal corpo, e non sarai più un uomo, e questo ormai è certo; soprattutto il fatto che è certo. … Uccidere chi ha ucciso è un castigo senza confronto maggiore del delitto stesso. L’assassinio legale è incomparabilmente più orrendo dell’assassinio brigantesco. Chi è assalito dai briganti, chi è sgozzato di notte, in un bosco, o altrimenti, senza dubbio spera ancora di potersi salvare fino all’ultimo momento. … Mentre qui tutta quest’ultima speranza, con la quale è dieci volte più facile morire, te la tolgono con certezza; qui c’è una condanna, e appunto nella certezza che non vi sfuggirai sta tutto l’orrore del tuo tormento, e al mondo non c’è tormento maggiore di questo. Conducete un soldato, durante il combattimento, proprio davanti a un cannone, collocatelo lì e tirategli addosso: continuerà a sperare; ma leggete a questo stesso soldato la sentenza che lo condanna con certezza, ed impazzirà o si metterà a piangere. Chi ha detto che la natura umana è in grado di sopportare questo senza impazzire? … No, non è lecito agire così con un uomo!


[1]     Fëdor Michajlovič Dostoevskij, L’idiota, Einaudi, Torino, 1984, p. 23. Traduzione di Alfredo Polledro.

[2]     Per gli amanti di questo scrittore, segnalo che la pronuncia corretta è “Fiòdr Dastajèvski”.

[3]     I mezzi di informazione seguirono le fasi dell’esecuzione con una tale morbosità, e il pubblico accorso si diede a tali scene di isterismo, che ne nacque uno scandalo che addirittura oltrepassò i confini nazionali.

[4]     Morto nel febbraio di quest’anno, era solito dire: “Ghigliottinare non è altro che prendere un uomo vivo e tagliarlo in due”.

[5]     “Art. 1 Per i delitti previsti dal codice penale militare di guerra e dalle leggi militari di guerra, la pena di morte è abolita ed è sostituita dalla pena massima prevista dal codice penale. Sono abrogati l’articolo 241 del codice penale militare di guerra e tutte le disposizioni dello stesso codice e delle leggi militari di guerra che fanno riferimento alla pena di morte.

[6]     Tale crudele pratica, che per forza di cose finiva per colpire a caso degli innocenti, veniva spesso messa in atto dietro ordine dei comandanti militari senza nemmeno una pronuncia da parte delle corti marziali. Considerata un estremo mezzo di disciplina, è stata largamente applicata da tutti gli eserciti durante la prima guerra mondiale, a causa del crescente rifiuto da parte dei soldati di gettarsi all’attacco delle trincee nemiche senza alcuna protezione, andando così incontro a morte certa. Un’illustrazione di questa orribile prassi è stata mirabilmente fornita, a livello cinematografico, da Stanley Kubrick nel bellissimo “Orizzonti di gloria” (1957).

[7]     L’art. 2 del decreto legislativo luogotenenziale n. 159 del 27 luglio 1944 disponeva che “I membri del governo fascista e i gerarchi del fascismo, colpevoli di aver annullate le garanzie costituzionali, distrutte le libertà popolari, creato il regime fascista, compromesse e tradite le sorti del Paese condotto alla attuale catastrofe, sono puniti con l’ergastolo e, nei casi di più grave responsabilità, con la morte”, mentre per punire altri reati sempre di natura politica si riesumava addirittura la vigenza del codice Zanardelli.

[8]     Art. 1 “I delitti di rapina, di estorsione e di sequestro di persona a scopo di rapina o di estorsione, qualora siano commessi o con armi o profittando di circostanze di tempo, di luogo o di persona tali da ostacolare la pubblica o privata difesa o, comunque, con modalità di esecuzione tali da suscitare particolare allarme, sono puniti con la reclusione da venti a trenta anni e nei casi più gravi con l’ergastolo o con la morte.” Art. 2 “Chiunque promuove, costituisce o organizza, al fine di compiere reati contro la proprietà o violenza contro le persone, bande armate, è punito, per ciò solo, con le pene stabilite nell’articolo precedente. Alle stesse pene soggiacciono i capi ed i sovventori”.

[9]     D.C.P.S n. 6411 del 2 agosto 1946 e n. 192 del 11 aprile 1947.

[10]   La riserva originariamente contenuta in tale disposizione “se non nei casi previsti dalle leggi militari di guerra”, è stata soppressa dalla legge costituzionale n. 1 del 2 ottobre 2007. L’abrogazione costituzionale della pena capitale è stata attuata per mezzo dei decreti legislativi n. 21 (Disposizioni di coordinamento in conseguenza dell’abolizione della pena di morte) e n. 22 (Ammissibilità del ricorso per cassazione proposto dai condannati alla pena di morte) del 22 gennaio 1948.

[11]   La sera del 20 novembre 1945 quattro banditi originari della provincia di Palermo si introdussero, a scopo di rapina, nella casa padronale dell’avvocato Massimo Gianali sita nella cascina di Villarbasse, in provincia di Torino, dove massacrarono a sprangate e poi gettarono ancora vive in una cisterna 10 persone, poiché una di loro aveva riconosciuto un bandito cui era caduta per un attimo la maschera. La rapina fruttò 200.000 lire.

[12]   L’idiota, Einaudi, Torino, 1984, pp. 23-24. Traduzione di Alfredo Polledro.

Condividi su:

Articoli Correlati
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, sed do eiusmod tempor incididunt ut labore et dolore