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La rilevabilità ex officio della violazione del divieto di reformatio in peius

Cass., Sez. I, 30 novembre 2023 (dep. 8 febbraio 2024), n. 5517
Pres. rel. Di Nicola, P.M. Cocomello (Diff.)

Sommario: 1. La genesi normativa e l’evoluzione del divieto di reformatio in peius. — 2. La vicenda processuale sottoposta al vaglio della Corte di legittimità. — 3. La qualificazione del divieto come garanzia sostanzialmente penale e la sua valorizzazione in ambito processuale.

ABSTRACT

Con la pronuncia in esame, la Corte di legittimità è tornata ad occuparsi della controversa applicazione del divieto di reformatio in peius sotto un duplice profilo, confrontandosi, per un verso, con l’ipotesi di plurimi annullamenti con rinvio al giudice di appello e interrogandosi, per altro verso, sulla possibilità di intervenire anche d’ufficio per il ripristino della corretta determinazione del trattamento sanzionatorio, quando manca una specifica doglianza, sul punto, della difesa dell’imputato.
La sentenza merita di essere segnalata, perché esprime chiaramente l’intento della Corte di valorizzare la garanzia del divieto di reformatio in peius, non solo ribadendone l’operatività nel giudizio di rinvio, ma soprattutto ammettendo la rilevabilità ex officio della sua violazione nel corso del giudizio di legittimità, ai sensi dell’art. 609 comma 2 c.p.p., in ragione della natura sostanzialmente penale riconosciuta al disposto dell’art. 597 comma 3 c.p.p., che incide sulla legalità della pena e va, quindi, ricondotto all’alveo di tutela convenzionale delineato dall’art. 7 C.e.d.u.

With the judgment at issue, the Court of legitimacy reverted to the controversial application of the prohibition of reformatio in peius from a twofold perspective, dealing, on the one hand, with the hypothesis of multiple annulments with referral to the appeal judge and examining, on the other hand, the possibility of intervening even ex officio to restore the correct determination of the sanctioning treatment, when a specific complaint on this point from the defendant’s defense is missing.
The ruling deserves to be highlighted, because it clearly expresses the Court’s intention to enhance the guarantee of the prohibition of reformatio in peius, not only by reiterating its effectiveness in the referral proceedings, but above all by admitting the ex officio detectability of its violation during the judgment of legitimacy, pursuant to art. 609 paragraph 2 of the Code of Criminal Procedure, due to the substantially criminal nature recognized in the provisions of the art. 597 paragraph 3 of the Code of Criminal Procedure, which affects the legality of the sentence and must therefore be brought back to the scope of conventional protection outlined by the art. 7 ECHR.

1. La genesi normativa e l’evoluzione del divieto di reformatio in peius.

Il divieto di reformatio in peius — in forza del quale, nel caso di impugnazione proposta dal solo imputato, il giudice non può irrogare una pena più grave per specie e quantità, non può applicare una misura di sicurezza nuova o più gravosa di quella inflitta in primo grado e non può pronunciare sentenza di proscioglimento per una causa meno favorevole[1] — esprime un principio di origine antica[2], che ha trovato esplicito riconoscimento fin dalla prima codificazione sul processo penale[3], ma è stato anche sottoposto ad una continua e laboriosa elaborazione giurisprudenziale, volta a definirne l’ambito e i termini di operatività[4].

Si è discusso a lungo, soprattutto in dottrina, anche della ratio del divieto — ricondotta ad una mera scelta di politica legislativa[5], all’effetto devolutivo tipico dei mezzi di gravame[6], al diritto di difesa[7] o, più genericamente, al favor rei[8] — e della opportunità di eliminarlo in funzione dell’esigenza di razionalizzazione del sistema, introducendo un deterrente alle impugnazioni meramente dilatorie e pretestuose dell’imputato.

D’altra parte, già il codice del 1930 aveva quantomeno limitato la portata della garanzia, che poteva essere neutralizzata dall’appello incidentale proposto dal pubblico ministero[9].

In occasione della riforma codicistica del 1988, tornò ad intensificarsi il fronte dei fautori dell’abolizione del divieto, i quali sostenevano la proposta con argomenti diversi: alcuni valorizzavano la necessità di contenere i tempi di definizione dei processi, significativamente dilatati dalla possibilità, per l’imputato, di appellare la sentenza di primo grado senza esporsi al rischio di peggiorare la propria posizione processuale; per altri, invece, il divieto non avrebbe più avuto ragion d’essere nell’ambito di un codice di matrice accusatoria, poiché costituiva una sorta di inutile “temperamento” dell’ormai superato sistema inquisitorio[10].

L’orientamento opposto riteneva opportuno, invece, preservare il divieto di reformatio in peius, considerandolo un presidio necessario, perché volto a “compensare” i caratteri inquisitori propri del giudizio di secondo grado[11].

Il legislatore del 1988 ha scelto di mantenere ferma la previsione della garanzia[12], anzi estendendone l’efficacia, poiché l’attuale formulazione dell’art. 597 comma 3 c.p.p., quando l’appellante è il solo imputato, impedisce anche l’applicazione di una misura di sicurezza nuova o più grave, nonché il proscioglimento per una causa meno favorevole[13]. Tale estensione è stata, tuttavia, bilanciata con il ripristino dell’appello incidentale concesso anche al pubblico ministero, già previsto dal codice previgente, ma dichiarato incostituzionale prima della riforma del 1988[14].

La giurisprudenza di legittimità ha, tuttavia, nel tempo, assunto posizioni esegetiche volte a depotenziare l’effettività del principio — ponendosi, alcune volte, anche in evidente contrasto con il dettato normativo — soprattutto con riferimento alla disciplina della continuazione[15] e delle circostanze del reato[16].

Per quanto concerne, poi, l’operatività del principio nel giudizio di rinvio, la Corte di legittimità ha ritenuto necessario operare una distinzione a seconda dei motivi dell’annullamento: solo in presenza di vizi “sostanziali” della pronuncia impugnata — ovvero di errores in udicando[17] — la garanzia può trovare riconoscimento, in quanto solo in tale ipotesi può ritenersi consolidata la pregressa statuizione favorevole di rigetto dell’appello proposto dal pubblico ministero; viceversa, l’annullamento per ragioni di carattere processuale — imponendo l’integrale ripetizione del giudizio di appello — non consentirebbe di ritenere definitivamente “guadagnata” la decisione in mitius assunta nel precedente grado di impugnazione[18].

2. La vicenda processuale sottoposta al vaglio della Corte di legittimità.

La Suprema Corte, con la pronuncia in commento[19], ha ribadito la sua interpretazione del divieto di reformatio in peius, chiarendo, in particolare, le modalità applicative della disposizione nel caso di plurimi annullamenti con rinvio al giudice di appello, che determinino la progressiva formazione del giudicato.

Nella vicenda processuale sottoposta al vaglio della Corte, era stata affermata la penale responsabilità dell’imputato, all’esito del giudizio di primo grado, per i reati di omicidio, rapina e porto di un’arma in luogo pubblico, con condanna — previo riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche in regime di equivalenza con le contestate aggravanti — alla pena di ventotto anni di reclusione.

Tale pronuncia veniva confermata dal giudice di appello, che respingeva sia l’atto di gravame del pubblico ministero — il quale si doleva della concessione delle circostanze attenuanti generiche — sia quello dell’imputato, ritenendo, però, provata non la partecipazione materiale all’esecuzione dei delitti di rapina e di omicidio — come contestato in imputazione — ma la messa a disposizione dell’arma impiegata per realizzare tali reati.

Il ricorso per cassazione veniva proposto dal solo imputato — con acquiescenza, quindi, del pubblico ministero rispetto alla concessione delle attenuanti generiche — che lamentava il difetto di motivazione e il travisamento della prova in ordine all’accertamento della responsabilità penale.

La Suprema Corte, accogliendo l’atto di impugnazione, riscontrava la denunciata carenza di motivazione nella parte in cui il giudice territoriale — dopo aver escluso il diretto coinvolgimento dell’imputato nella materiale esecuzione dei delitti — aveva apoditticamente dedotto la consapevolezza, da parte del reo, dell’utilizzo dell’arma per la realizzazione delle contestate azioni delittuose[20].

Nel conseguente giudizio rescissorio, la Corte d’assise di appello — ritenendo insufficiente la mera disponibilità dell’arma a dimostrare la condivisione del successivo utilizzo della stessa da parte degli altri correi — assolveva l’imputato dai delitti di rapina e di omicidio.

Avverso tale sentenza proponeva ricorso per cassazione il pubblico ministero, che denunciava l’incongruenza dell’iter argomentativo della decisione sotto plurimi profili, censurando, in particolare, l’esclusione del ruolo di esecutore materiale dell’imputato e il credito conferito alla versione difensiva, sebbene contraddetta da altri, significativi elementi di prova acquisiti nel corso dell’attività istruttoria.

La Suprema Corte accoglieva l’impugnazione del rappresentante dell’accusa e rinviava il processo innanzi ad altro giudice di appello, affinché fosse rivalutata la posizione dell’imputato in punto di responsabilità[21].

All’esito del secondo giudizio rescissorio, l’imputato veniva riconosciuto autore materiale dei reati ascritti e — in accoglimento dell’originario appello proposto dal pubblico ministero — gli venivano negate le attenuanti generiche concesse dal Giudice di prime cure, con conseguente condanna alla pena dell’ergastolo.

La difesa proponeva nuovamente ricorso per cassazione, denunciando la illogicità e la contraddittorietà della motivazione con riferimento a diversi aspetti della regiudicanda, tutti attinenti, però, all’affermazione di responsabilità dell’imputato.

La Corte, pur giudicando infondati i motivi di ricorso, annullava senza rinvio la sentenza impugnata per la ritenuta violazione del divieto di reformatio in peius in cui era incorso il giudice di merito nella determinazione del trattamento sanzionatorio[22].

3. La qualificazione del divieto come garanzia sostanzialmente penale e la sua valorizzazione in ambito processuale.

La pronuncia merita di essere segnalata per le considerazioni espresse dalla Corte sulla operatività del divieto di reformatio in peius — laddove, in particolare, si succedano più annullamenti con rinvio al giudice di appello — e, soprattutto, sulla rilevabilità ex officio della sua eventuale violazione.

In relazione al primo aspetto, si è ribadito un assunto oramai consolidato nella giurisprudenza di legittimità, secondo cui il disposto dell’art. 597 comma 3 c.p.p. non si limita a regolare la cognizione del giudice di appello sull’impugnazione del solo imputato, ma ha una portata generale e deve trovare applicazione, pertanto, anche nel giudizio di rinvio[23]. Si è affermato, in particolare, che nel caso di annullamento della sentenza di condanna su ricorso dell’imputato in punto di sussistenza del reato e di affermazione della sua responsabilità, la pena irrogabile, laddove in sede di rinvio venga confermato il giudizio di colpevolezza, non può essere più grave, per specie e quantità, di quella inflitta dal giudice di prime cure[24]. Quando i motivi di impugnazione non comprendono il trattamento sanzionatorio, il punto deve ritenersi, infatti, precluso, con la conseguenza che il giudice del rinvio non può rideterminare la pena con effetti in malam partem per l’imputato[25]. Il divieto della reformatio in peius si estende, peraltro, a tutti gli eventuali, ulteriori giudizi di rinvio, nel senso che la comparazione fra le sentenze finalizzata alla individuazione del trattamento meno deteriore per l’imputato deve essere operata tra la pronuncia di primo grado e le successive, restando immodificabile, in senso peggiorativo, l’esito per lui più favorevole tra quelli intervenuti — a seguito della sua esclusiva impugnazione[26] — con le varie decisioni di merito succedutesi nel corso del processo[27].

Nel caso di specie, a sostegno della decisione adottata, i giudici di legittimità hanno osservato che il giudicato progressivo (o parziale) ricomprende non solo le pronunce su singole imputazioni[28], ma anche quelle che, nell’ambito della stessa contestazione, definiscono aspetti non più suscettibili di riesame[29]. Il giudicato interno alla singola imputazione — sempre secondo quanto affermato dalla Corte di cassazione nella sentenza in commento — può anche essere « flessibile », perché sottoposto alla condizione di una eventuale modifica in melius in favore dell’imputato che ha proposto il gravame, restando, invece, preclusa la riforma in peius della decisione impugnata[30].

Il riferimento normativo a cui sono stati ancorati tali assunti è il combinato disposto degli artt. 624 comma 1 e 627 comma 2 c.p.p., che assegnano al giudice della fase rescissoria gli stessi poteri decisori di chi aveva emesso la sentenza annullata, fatte salve le preclusioni del giudicato parziale — relativo alle « parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata » — e dell’acquiescenza per difetto di impugnazione[31].

È stato poi agevole per la Corte — muovendo dalle premesse appena illustrate — escludere la sussistenza di un rapporto di « connessione essenziale » tra il riconoscimento all’imputato delle circostanze attenuanti generiche e le altre statuizioni annullate nei due giudizi rescindenti[32], non essendovi alcuna interdipendenza logico-giuridica tra le questioni affrontate in punto di responsabilità e la decisione di attutire le conseguenze sanzionatorie dell’eventuale giudizio di condanna[33].

Bisognava risolvere, inoltre, il problema della rilevabilità d’ufficio della violazione del divieto di reformatio in peius, poiché il tema — pur se rilevante — non era stato devoluto alla Corte con i motivi di ricorso.

Al riguardo, i giudici di legittimità hanno individuato due argomenti a sostegno della cognizione ex officio.

È stata richiamata, per un verso, la previsione di cui all’art. 649 comma 2 c.p.p., che legittima il giudice a rilevare — pure in mancanza di una richiesta di parte — eventuali violazioni del divieto del bis in idem, configurabili — secondo la Corte — anche nei casi di giudicato « parziale » e « flessibile ». In altri termini, l’art. 649 c.p.p. detta una regola processuale di carattere generale, applicabile a qualunque tipo di giudicato, sia esso totale o parziale, attuale o potenziale, esplicito o implicito.

L’argomento suscita, tuttavia, qualche dubbio, poiché la nozione di giudicato « flessibile » o « condizionato » — quello, cioè, non ancora attuale, ma che potrebbe formarsi nel caso di esito negativo dell’impugnazione proposta dall’imputato — sembra concettualmente incompatibile con approdi oramai consolidati raggiunti, sul tema, dalla dottrina e dalla stessa giurisprudenza di legittimità. Si allude, in particolare, alla distinzione tra « giudicato progressivo » (o parziale) e « preclusione processuale »: il primo — come chiarito anche dalle Sezioni Unite[34] — si forma sul « capo » della sentenza, nel senso che la decisione acquista il carattere della definitività solo quando sono divenute irretrattabili tutte le questioni necessarie per pronunciarsi nel merito di ognuno dei reati ascritti all’imputato[35]; la decisione su singoli « punti » della regiudicanda non è suscettibile, invece, di passaggio in giudicato, potendo generare unicamente la preclusione correlata all’effetto devolutivo delle impugnazioni e al principio della disponibilità del processo nella fase delle impugnazioni stesse, da cui consegue il limite imposto alla cognizione del giudice del gravame, salvo che le norme processuali non prevedano poteri esercitabili ex officio[36]. Nel caso di condanna, ad esempio, la mancata impugnazione della affermata responsabilità dell’imputato fa sorgere la preclusione su tale punto, ma non basta a far acquistare alla relativa statuizione l’autorità di cosa giudicata, qualora, per quello stesso capo, la difesa abbia devoluto al giudice del gravame il controllo sulla sussistenza di determinate circostanze o sulla corretta quantificazione della pena[37].

Analogamente, nella vicenda esaminata, la statuizione relativa al riconoscimento delle attenuanti generiche — contenuta nella sentenza di primo grado e confermata dalla corte di appello — non è stata impugnata con ricorso per cassazione, sicché l’impossibilità di riesaminarne la fondatezza va ricondotta alla preclusione derivante dall’effetto devolutivo — che si traduce nel divieto di reformatio in peius — piuttosto che alla formazione di un vero e proprio giudicato progressivo, non potendo trovare applicazione, in mancanza di un annullamento parziale, neppure il disposto dell’art. 624 comma 1 c.p.p.[38].

In ragione di quanto sin qui osservato, la rilevabilità ex officio della violazione del divieto della reformatio in peius non poteva giustificarsi, nel caso di specie, con la formazione di un giudicato parziale e la conseguente operatività del disposto di cui all’art. 649 comma 2 c.p.p.

Appare condivisibile, invece, l’altro argomento addotto dalla Corte a sostegno del suo intervento officioso, che è stato motivato anche sulla scorta delle indicazioni fornite dalla giurisprudenza sovranazionale, secondo cui la previsione dell’art. 597 comma 3 c.p.p., sebbene sia inclusa nel codice di rito, deve essere considerata una disposizione di diritto penale sostanziale, poiché incide sull’entità della pena irrogabile nel caso di appello proposto dal solo imputato[39].

Di conseguenza, il giudice che, male interpretando la richiamata previsione normativa, applichi una sanzione illegale, viola anche il disposto dell’art. 7 C.E.D.U., la cui inosservanza può essere rilevata d’ufficio, ai sensi dell’art. 609 comma 2 c.p.p.[40], in forza degli obblighi internazionali, ex art. 117 Cost., a cui è vincolato il giudice nazionale[41].

La sentenza qui esaminata, al di là di qualche opinabile passaggio argomentativo, ha indubbiamente il pregio di aver massimizzato la portata della garanzia del divieto di reformatio in peius, non solo ribadendone l’applicabilità nel giudizio di rinvio — secondo l’orientamento costantemente espresso dalla giurisprudenza di legittimità  — ma soprattutto ammettendo la rilevabilità ex officio della sua violazione, in ragione della natura sostanzialmente penale del disposto dell’art. 597 comma 3 c.p.p. e della conseguente operatività delle guarentigie riconducibili al principio di legalità convenzionale sancito dall’art. 7 C.e.d.u.


[1] Resta salva, tuttavia, in forza al principio iura novit curia, la possibilità per il giudice di appello di conferire al fatto una diversa — ed anche più grave — qualificazione giuridica, a condizione che il mutamento del titolo di reato non determini una variazione della competenza del giudice di primo grado, che non venga aggravato il trattamento sanzionatorio e che il tema della corretta individuazione della norma incriminatrice sia stato introdotto in giudizio con i motivi di gravame (in giurisprudenza, ex multis, cfr. Cass., Sez. I, 6 ottobre 2022, n. 45466, in Cass. pen., 2024, 291; la tesi è condivisa da P.P. Paulesu, Il divieto di reformatio in peius: note a margine di una garanzia controversa, in Arch. pen. web, 2020, n. 1, 17 ss., il quale, però, ricorda che, « nel caso di variazione in peggio del titolo del reato ex abrupto nella sentenza d’appello, resterebbe comunque salva la possibilità dell’imputato di ricorrere per Cassazione ai sensi dell’art. 606, co. 1, lett. b), c.p.p. ».

[2] La natura del divieto della riformatio in peius è rimasta a lungo controversa: secondo alcuni, si tratta di norma eccezionale, mentre per altri — che rappresentano l’orientamento oggi prevalente — il divieto in questione assurge al rango di principio generale in materia di impugnazioni. Sul punto, si sono confrontati eminenti studiosi della materia, come G. Lozzi, Favor rei e processo penale, Milano, 1968, 121 ss.; M. Massa, Contributo allo studio dell’appello nel processo penale, Milano, 1969, 123 ss.; M. Pisani, Il divieto della reformatio in peius nel processo penale italiano, Milano, 1967, 60 ss.; G. Spangher, L’appello istruttorio nel processo penale, Milano, 1982, 658 ss. Più di recente, i termini del dibattito sono stati ripercorsi da F. Lazzarini, Il divieto di reformatio in peius tra incertezze dogmatiche e letture restrittive, in Sist. pen., 25 gennaio 2023, 12, il quale ha evidenziato che la natura della previsione rileva sotto un duplice profilo, « dovendosi chiarire se il divieto di reformatio in peius si applichi, nell’ambito del giudizio di appello, anche a fattispecie diverse da quelle espressamente menzionate dalla disposizione (pene, misure di sicurezza, formule di proscioglimento, benefici) e se il principio sia suscettibile di operare anche oltre i confini del giudizio di secondo grado ».

[3] La previsione del divieto era già contenuta nel codice di rito del 1865, che, all’art. 678, prescriveva: « l’accusato che avrà domandato la cassazione non potrà essere condannato ad una pena che o per la durata o nel genere sia superiore a quella statagli inflitta colla sentenza impugnata, tranne il caso non vi sia stata domanda di cassazione per parte del pubblico ministero ». Analoga era la previsione di cui all’art. 480 del codice del 1913, che estendeva, peraltro, la garanzia anche al giudizio di rinvio (art. 529 comma 2). Con il codice di procedura penale del 1930, tra i limiti al potere decisorio del giudice di appello, è stata inserita anche la revoca di eventuali benefici concessi all’esito del giudizio di primo grado. Per la disamina della portata del divieto di reformatio in peius nelle codificazioni previgenti, v. G. Delitala, Il divieto della reformatio in peius nel processo penale, Milano, 1927, 12 ss.; M. Pisani, Il divieto della reformatio in peius (dir. proc. pen.), in Noviss. dig. it., vol. XIV, Torino, 1967, 1122 ss.; G. Spangher, Reformatio in peius (divieto di), in Enc. dir., vol. XXXIX, Milano, 1988, 270 ss.

[4] Sono tanti gli interventi della Suprema Corte, nella sua composizione più estesa e autorevole, che si sono resi necessari per dirimere le numerose questioni insorte sulla portata applicativa del divieto di reformatio in peius. Tra le pronunce più recenti e rilevanti, si segnalano: Cass., Sez. Un., 17 dicembre 2020, n. 7578, in Cass. pen., 2021, 1964 ss., con nota di G. Todaro, Giudizio abbreviato, diminuente del rito, pena illegale, principio devolutivo, divieto di reformatio in peius: le Sezioni Unite e il composito mosaico della legalità, secondo cui il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato, che lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’art. 442 c.p.p. nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura prevista ex lege, anche quando la sanzione irrogata dal giudice di primo grado sia inferiore al minimo edittale, poiché l’accoglimento del gravame della difesa in ordine ad una delle componenti del trattamento sanzionatorio non può essere neutralizzato da improprie forme di “compensazione” con altro punto ad esso inerente, ma non devoluto alla cognizione del giudicante; Id., Sez. Un., 24 novembre 2016, n. 6296, in Diritto & Giustizia, 13 febbraio 2017, con nota di P. Borrelli, Continuazione in fase esecutiva e poteri del giudice di rideterminare in peius la pena irrogata per i reati-satellite, con la quale si è precisato che il giudice dell’esecuzione, in sede di applicazione della disciplina del reato continuato, non può quantificare gli aumenti di pena per i reati-satellite in misura superiore a quelli fissati dal giudice della cognizione con la sentenza irrevocabile di condanna (per l’approfondimento della questione, v. anche F. Boncompagni, Quantificazione degli aumenti di pena per i reati satellite in executivis, in Dir. pen. e processo, 2018, 71 ss.; R. Fonti, Reato continuato e quantificazione in executivis dell’aumento per i reati satellite: la parola passa alle Sezioni Unite, in Dir. pen. cont., 17 novembre 2016; B. Nacar, Procedimento di esecuzione e continuazione fra reati – La emenda della pena in ragione del riconoscimento della continuazione in executivis, in Giur. it., 2017, 2742 ss.); Id., Sez. Un., 27 ottobre 2016, n. 53153, in Cass. pen., 2017, 3545 ss., con nota di L. Camaldo, Le sezioni unite definiscono i poteri decisori del giudice d’appello in relazione alla provvisionale a favore della parte civile, che ha escluso la violazione del divieto di reformatio in peius nel caso di accoglimento della richiesta di una provvisionale proposta, per la prima volta, nel giudizio di secondo grado dalla parte civile non appellante.

[5] In tal senso, G. Delitala, Il divieto della reformatio in peius nel processo penale, cit., 104, il quale ha fermamente sostenuto l’assenza, nel divieto, di qualunque logica giuridica.

[6] In quest’ottica, tra gli altri, G. Bellavista, Il principio dispositivo nel procedimento penale di impugnazione, in Riv. proc. pen., 1960, 2 ss. Secondo V. Manzini, Trattato di diritto processuale penale italiano, Torino, 1952, 580, se il rappresentante dell’accusa — unico organo legittimato a proporre impugnazione agli effetti penali — ha ritenuto di dover prestare acquiescenza alla sentenza di primo grado, « è naturale che sia tolto al giudice il potere di sostituirsi al pubblico ministero ».

[7] Come osservato da A. Mingione, Divieto di reformatio in peius tra storture sistematiche e prospettive di riforma, in www.giurisprudenzapenale.com, 26 maggio 2019, 8, il divieto di reformatio in peius costituisce l’indispensabile premessa per conferire piena effettività alla potestà impugnatoria, esplicazione, a sua volta, del diritto di difesa costituzionalmente tutelato.

[8] Così G. Lozzi, Favor rei e processo penale, cit., 111; condividono tale impostazione A. Conz, Il sillogismo condizionale delle Sezioni unite in tema di reformatio in peius, in Arch. pen. web, 2014, n. 2, 2; A. Macchia, Linee evolutive del sistema d’appello alla luce della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, in Cass. pen., 2017, 2136 ss.; G. Sabatini, Reformatio in peius (dir. proc. pen.), in Noviss. dig. it., vol. XIV, Torino, 1967, 1125.

[9] L’appello incidentale del pubblico ministero era originariamente previsto anche dal codice del 1988 ed è stato, poi, abrogato dall’art. 4 d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11 (per interessanti riflessioni sul tema, v. G.M. Flick, Efficienza a costo zero: l’abolizione del divieto di reformatio in peius, in Cass. pen., 2017, 1757 ss.; L. Filippi, L’appello incidentale, Padova, 2000, 40 ss.). La storia dell’istituto è stata piuttosto travagliata: introdotto, per la prima volta, dal codice di rito del 1930, con la previsione dell’art. 515 comma 3 c.p.p., fu dichiarato incostituzionale da Corte cost., 10 novembre 1971, n. 177, sulla scorta del rilievo che « l’appello incidentale, essendo consentito ad una sola delle parti nel processo, turba l’equilibrio del contraddittorio, che si polarizza nell’imputato (e nel suo difensore), da un lato, e, dall’altro, nel pubblico ministero, portatori di interessi solitamente contrapposti ». Con il codice del 1988, è stato reintrodotto tale strumento di impugnazione — concedendolo, questa volta, sia al pubblico ministero che alle altre parti private — ed ha resistito, prima della sua abrogazione legislativa, ad un ulteriore incidente di legittimità costituzionale (Corte cost., 28 giugno 1995, n. 280, in Cass. pen., 1995, 3227 ss., secondo cui « quando il pubblico ministero deve decidere se impugnare o meno una sentenza, egli deve interrogare la propria coscienza in relazione al contenuto del provvedimento impugnabile e determinarsi secondo gli interessi generali della giustizia. Questo vale per l’appello principale, ma analoga considerazione può farsi per l’appello incidentale, con il correttivo del particolare profilo derivante dalla visione che il pubblico ministero possa essere indotto ad avere circa i contenuti della sentenza che il giudice di secondo grado potrebbe essere tratto a pronunciare in accoglimento dell’appello principale dell’imputato pervenendo a conclusioni che egli ritiene, ove fossero adottate, contrarie a giustizia. Se dunque è legittima l’acquiescenza del pubblico ministero nei confronti della sentenza di primo grado, non è accoglibile la tesi secondo la quale tutti i poteri che al pubblico ministero stesso competono dovrebbero esaurirsi nella proposizione dell’appello principale, con ciò restandogli precluso il ricorso all’appello incidentale »).

[10] Gli argomenti addotti dal fronte degli “abolizionisti” sono efficacemente rappresentati da P. Gaeta-A. Macchia, L’appello, in Aa. Vv., Trattato di procedura penale, a cura di G. Spangher, Torino, 2009, 334 ss.

[11] Per tutti, cfr. G. Spangher, Reformatio in peius (divieto di), cit., 272.

[12] La difesa del divieto della reformatio in peius, durante i lavori preparatori del codice del 1988, è compiutamente illustrata da M. Pisani, Divieto della reformatio in peius: appunti penalistici retrospettivi e considerazioni impolitiche, in Riv. dir. proc., 2013, 279 ss.

[13] Ad illustrare efficacemente il senso dell’innovazione introdotta è G.M. Flick, Efficienza a costo zero: l’abolizione del divieto di reformatio in peius, cit., 1761, il quale evidenzia come non vi sia stato « un semplice “travaso passivo” e tralaticio del divieto da un codice all’altro, ma un suo ampliamento con l’aggiunta della preclusione a introdurre delle situazioni di svantaggio giuridico o di fatto per l’appellante a quella di modificare in peius la pena ».

[14] Sul punto, v. supra, nota 9.

[15] Sul punto, si è registrata una copiosa elaborazione giurisprudenziale, caratterizzata, spesso, da approdi contrastanti. In particolare, Cass., Sez. Un., 12 maggio 1995, n. 5978, in Cass. pen., 1995, 3329, chiamata a pronunciarsi sui rapporti tra i commi 3 e 4 dell’art. 597 c.p.p., ha affermato che « le due norme regolano aspetti diversi del giudizio di appello, ma interagiscono, nel senso che il divieto della reformatio in peius ha una portata generale e pone un limite ai poteri del giudice, al quale, nei casi previsti dall’art. 597 comma 4 c.p.p., si aggiunge il dovere di diminuire “la pena complessiva irrogata” in misura corrispondente all’accoglimento dell’impugnazione. Diversamente dal divieto della reformatio in peius, che sorge “quando appellante è il solo imputato” (art. 597 comma 3 c.p.p.), il dovere di diminuire la pena, di cui all’art. 597 comma 4 c.p.p., esiste “in ogni caso”, cioè anche quando, oltre all’imputato, è appellante il pubblico ministero, la cui impugnazione può avere effetti di aumento sugli elementi della pena ai quali si riferisce, ma non può impedire le diminuzioni corrispondenti all’accoglimento dei motivi dell’imputato relativi a reati concorrenti o a circostanze ». Tale principio è stato ulteriormente ribadito da Cass., Sez. Un., 27 settembre 2005, n. 40910, in Cass. pen., 2006, 408 ss., secondo cui, « a seguito dell’introduzione di una previsione innovativa, come quella contenuta nel quarto comma dell’art. 597 c.p.p., appare superato l’orientamento giurisprudenziale, formatosi soprattutto sotto il vigore dell’art. 515 co. 3 c.p.p. del 1930, in base al quale il divieto della reformatio in peius andava riferito alla pena in definitiva irrogata e non ai singoli elementi che la compongono ed ai calcoli effettuati per giungere alla determinazione complessiva di essa. Deve, quindi, affermarsi che il divieto di reformatio in peius riguarda — oggi — non soltanto il risultato finale, ma anche tutti gli elementi del calcolo della pena ». In senso diametralmente opposto si è, tuttavia, espressa Cass., Sez. Un., 14 aprile 2014, n. 16208, in Cass. pen., 2014, 2854 ss., con nota di L. Ludovici, Le sezioni unite sui rapporti tra divieto della reformatio in peius e reato continuato, con la quale si è affermato che « l’applicazione del cumulo giuridico ed il corollario del meccanismo di unificazione del trattamento sanzionatorio presuppongono la individuazione dei termini che compongono il cumulo e la determinazione di un certo ordine della sequenza. Se muta uno dei termini (vale a dire, una o più delle regiudicande cumulate o il relativo “bagaglio” circostanziale) oppure l’ordine di quella sequenza (la regiudicanda-satellite diviene la più grave o muta la qualificazione giuridica di quella più grave), sarà lo stesso meccanismo di unificazione a subire una “novazione” di carattere strutturale, non permettendo più di sovrapporre la nuova dimensione strutturale a quella oggetto del precedente giudizio, giacché, ove così fosse, si introdurrebbe una regola di invarianza priva di qualsiasi logica giustificazione. In tali casi, pertanto, l’unico elemento di confronto non può che essere rappresentato dalla pena finale, dal momento che è solo questa che “non deve essere superata” dal giudice del gravame ». Ne consegue che « non viola il divieto di reformatio in peius il giudice di rinvio che, individuata la violazione più grave a norma dell’art. 81 cpv. c.p., in conformità a quanto stabilito nella sentenza della Corte di cassazione, pronunciata su ricorso del solo imputato, apporti per uno dei reati in continuazione un aumento maggiore rispetto a quello ritenuto dal primo giudice, pur non irrogando una pena complessivamente più gravosa ». Tale discutibile arresto delle Sezioni Unite è stato commentato in dottrina, tra gli altri, da A. Famiglietti, Un nuovo contrasto in materia di divieto di reformatio in peius, in Proc. pen. e giust., 2014, n. 6, 77 ss., nonché da G. Spangher, Un’altra violazione del divieto di reformatio in peius (…e non solo), in Giur. it., 2014, 1224. La richiamata pronuncia delle Sezioni Unite non ha impedito, tuttavia, la formazione di un indirizzo giurisprudenziale contrario, che ha ritenuto violato il divieto di reformatio in peius nel caso di mancata riduzione della pena finale, a seguito dell’estinzione di uno o più reati unificati dal vincolo della continuazione (in tal senso, Cass., Sez. I, 27 gennaio 2021, n. 8272, in C.E.D. Cass., n. 280651; Id., Sez. V, 6 marzo 2018, n. 31998, ivi, n. 272743). Per una compiuta ricostruzione del dibattito insorto sul tema, v. H. Belluta, Divieto di reformatio in peius, in Aa. Vv., Impugnazioni penali. Assestamenti del sistema e prospettive di riforma, a cura di M. Bargis – H. Belluta, Torino, 2013, 3 ss.

[16] Anche rispetto all’incidenza delle circostanze sull’applicazione del divieto di reformatio in peius, le Sezioni Unite hanno ritenuto salvaguardata la garanzia nel caso di conferma della pena irrogata con la sentenza di primo grado, nonostante la concessione di attenuanti o l’esclusione di aggravanti all’esito del giudizio di appello (in questi termini si è espressa Cass., Sez. Un., 18 aprile 2013, n. 33752, in Guida dir., 2013, n. 42, 74: « il giudice di appello, pur dopo avere escluso una circostanza aggravante o riconosciuto una ulteriore circostanza attenuante in accoglimento dei motivi proposti dall’imputato, può, senza incorrere nella violazione del divieto di reformatio in peius, confermare la pena applicata in primo grado, ribadendo il giudizio di equivalenza tra le circostanze, purché esso sia accompagnato da adeguata motivazione ». In senso analogo, Cass., Sez. III, 9 marzo 2023, n. 22091, in C.E.D. Cass., n. 284561; Id., Sez. V, 6 ottobre 2022, n. 209, in Diritto & Giustizia, 9 gennaio 2023. Contra, però, v. Cass., Sez. IV, 24 giugno 2021, n. 34342, in C.E.D. Cass., n. 281583; Id., Sez. III, 4 maggio 2018, n. 49163, in ivi, n. 275025). Anche alla luce di queste ultime pronunce, la dottrina ha prontamente segnalato un’apprezzabile inversione di tendenza nella giurisprudenza di legittimità, che ha indotto la Suprema Corte a ritenere prevalente la salvaguardia del divieto di reformatio in peius sulla illegalità della pena. Una ulteriore conferma di tale inversione di tendenza si rinviene nel decisum di Cass., Sez. Un., 17 dicembre 2020, n. 7578, cit., 1964 ss., secondo cui la prospettazione di valide censure dell’imputato sul trattamento sanzionatorio non può essere neutralizzata — in ossequio ad una inammissibile logica compensativa — dall’esigenza di correggere l’applicazione di una pena illegale sottosoglia, non censurata dal pubblico ministero (in proposito, cfr. F. Lazzarini, Il divieto di reformatio in peius tra incertezze dogmatiche e letture restrittive, cit., 22 ss.).

[17] Al riguardo, viene in rilievo la distinzione — già prospettata da autorevole dottrina — tra il rinvio in funzione “restitutoria” e quello in funzione “prosecutoria”. La seconda situazione si prospetta — com’è noto — nel caso in cui l’investitura del nuovo giudice nasca dall’esigenza di un nuovo giudizio per l’esame nel merito del provvedimento impugnato. Se ricorre tale eventualità, il rinvio appare necessitato dai limiti della competenza funzionale della Corte di cassazione. La prima situazione si manifesta, invece, laddove si riscontri un vizio nel precedente iter processuale, che impone la regressione del procedimento al momento in cui si è verificata la violazione, al fine di rendere possibile la rinnovazione dell’accertamento penale nel rispetto delle regole del rito. È d’obbligo il rinvio, sul punto, alle illuminanti considerazioni di E. Amodio, Rinvio prosecutorio e « reformatio in peius », in Riv. dir. proc., 1976, 543 ss.

[18] Come rilevato da C. Santoriello, Ripensare il divieto della reformatio in peius, in Arch. pen. web, 2017, n. 2, 3, l’imputato, in tal caso, è esposto « al terribile rischio di far valere la lesione dei suoi diritti, ma con la conseguenza ed a costo di subire un trattamento deteriore dopo che gli è stata riconosciuta la ragione delle sue censure ». Del resto, « quando il procedimento perviene al giudice del rinvio, non vi è alcun soggetto che abbia manifestato un interesse al riesame del profilo della pena: l’imputato ha ottenuto il risultato cui mirava, di ottenere una rivisitazione dell’an della sua responsabilità, mentre il pubblico ministero è stato acquiescente alle precedenti determinazioni dell’autorità giudiziaria ».

[19] Ci si riferisce a Cass., Sez. I, 30 novembre 2023, n. 5517, in Cass. pen., 2024, 2263 ss.

[20] Il primo annullamento fu disposto da Cass., Sez. I, 24 maggio 2019, n. 45902, in C.E.D. Cass., n. 276735.

[21] Il secondo annullamento si deve a Cass., Sez. V, 25 gennaio 2022, n. 8949, in C.E.D. Cass., n. 282894, che lasciava libero il giudice del rinvio di « riconsiderare l’intera condotta dell’imputato e di scegliere se ripercorrere la medesima strada già avviata con la sentenza annullata, configurando un contributo concorsuale del ricorrente non quale autore materiale diretto, ma come complice, fornitore dell’arma utilizzata per compiere i reati, ovvero riparametrare gli elementi probatori rispetto ad una diversa ricostruzione fattuale, fermo restando il dovere-potere di improntare la motivazione a criteri logici corretti, che non ripropongano errori metodologici già bocciati dalla sentenza rescindente ».

[22] Il riferimento è a Cass., Sez. I, 30 novembre 2023, n. 5517, cit., che ha evidenziato come il ricorrente prospettasse, in punto di responsabilità dell’imputato, una inammissibile rivalutazione degli elementi di prova. In particolare, con riferimento alla denunciata insussistenza del nesso di causalità, la Corte ha osservato che « si deve riconoscere il nesso in questione anche nei casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente più lontani ovvero ancora quando alla condotta delittuosa sia ricollegabile, come nel caso in esame, un’accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa ».

[23] In tal senso, ex multis, Cass., Sez. Un., 11 aprile 2006, n. 17050, in Cass. pen., 2006, 3135 ss., con nota di G. Spangher, Divieto della reformatio in pejus o poteri del giudice di rinvio?.

[24] In questi termini, Cass., Sez. II, 27 febbraio 2020, n. 7808, in C.E.D. Cass., n. 278680. Per ulteriori pronunce nello stesso senso, cfr. Cass., Sez. IV, 24 luglio 2023, n. 31840, in C.E.D. Cass., n. 284862; Id., Sez. II, 22 gennaio 2013, n. 3161, ivi, n. 254536; Id., Sez. IV, 10 ottobre 2008, n. 38820, ivi, n. 242119, che specificano il modus operandi del divieto di reformatio in peius nell’ipotesi di più rinvii: il limite al trattamento sanzionatorio applicabile è costituito dalla pena che, comparativamente, risulti la meno severa tra quelle irrogate. Per l’approfondimento di questo specifico aspetto, v. Marandola, Doppio annullamento, giudizio di rinvio e divieto di reformatio in peius, in Proc. pen. e giust., 2018, n. 3, 524 ss.

[25] Come precisato da Cass., Sez. II, 20 luglio 2016, n. 46307, in C.E.D. Cass., n. 268315; cfr., altresì, Cass., Sez. V, 15 dicembre 1997, n. 1133, ivi, n. 209559.

[26] Deve ritenersi irrilevante, per l’operatività del divieto della reformatio in peius, che la sentenza di primo grado sia stata appellata anche dal pubblico ministero, quando questi, come nella vicenda in esame, non abbia poi proposto ricorso per cassazione a seguito del rigetto dell’impugnazione di merito, prestando, così, acquiescenza alla pronuncia inizialmente contestata, sicché il solo imputato ha mantenuto in vita il procedimento penale.

[27] Al di là delle pronunce già richiamate supra, nota n. 24, v. anche Cass., Sez. II, 8 maggio 2009, n. 34557, in C.E.D. Cass., n. 245234.

[28] Rileva, a tal fine, la distinzione tra « capi » e « punti » della decisione. I primi corrispondono ai singoli reati per i quali è stata esercitata l’azione penale, che possono costituire, da soli, anche separatamente, il contenuto di una sentenza. Il concetto di « punto della decisione » ha, invece, una portata più ristretta, perché si riferisce a tutte le statuizioni suscettibili di autonoma considerazione, necessarie per emettere una decisione completa su un capo. Ne consegue che ad ogni capo corrispondono più punti della decisione — ognuno dei quali segna un passaggio obbligato per la completa definizione di ciascuna imputazione — come l’accertamento del fatto, l’attribuzione di esso all’imputato, la qualificazione giuridica, l’insussistenza di cause di giustificazione e, nel caso di condanna, la verifica di eventuali circostanze aggravanti e attenuanti, con la relativa comparazione, la determinazione della pena, la sospensione condizionale della stessa e le altre questioni dedotte dalle parti o rilevabili di ufficio.

[29] L’irrevocabilità della sentenza può essere, infatti, il risultato finale di un percorso frammentato, segnato da una pluralità di decisioni cristallizzate su singoli capi e punti in gradi diversi del processo, in corrispondenza di una graduale e simmetrica riduzione della regiudicanda, fino a quando questa, nella sua interezza, diventi irretrattabile e immutabile, essendo consumato il potere decisorio del giudice della cognizione sull’oggetto del giudizio: è questo il momento in cui la res iudicanda diventa res iudicata (tra le pronunce più recenti, cfr. Cass., Sez. Un., 29 ottobre 2020, n. 3423, in Cass. pen., 2021, 1476 ss.)

[30] Nel caso deciso dalla Corte, l’accoglimento dei motivi di impugnazione dell’imputato — con assoluzione dello stesso dalle imputazioni a lui ascritte — non avrebbe mai potuto comportare il riesame del punto concernente le attenuanti generiche, al più assorbendolo o lasciandolo intatto.

[31] In senso contrario — ma tale orientamento, giova ricordarlo, è assolutamente minoritario — Cass., Sez. VI, 14 aprile 1999, n. 5505, in Cass. pen., 2000, 3364 ss., ha osservato come « il principio del divieto di reformatio in peius vige nei rapporti tra il processo di primo grado e quello di appello, ma non nei rapporti tra due giudizi di rinvio a seguito di due annullamenti da parte della Corte di cassazione. E poiché il giudice di rinvio decide con gli stessi poteri del giudice che ha emesso la sentenza impugnata (art. 627 c.p.p.), il raffronto va fatto fra la decisione oggi impugnata (emessa in sede di rinvio con i poteri del giudice di appello) e la sentenza di primo grado, e non con la precedente sentenza di rinvio, da considerarsi tamquam non esset a seguito dell’annullamento ».

[32] Il riferimento è a Cass., Sez. I, 24 maggio 2019, n. 45902, cit., nonché a Cass., Sez. V, 25 gennaio 2022, n. 8949, cit., che avevano annullato le precedenti decisioni di merito per i rilevati vizi della motivazione in ordine al tipo di contributo concorsuale prestato dall’imputato.

[33] La ricorrenza di un’ipotesi di « connessione essenziale » deve essere scrutinata in concreto, valutando l’effettiva interdipendenza tra lo specifico profilo oggetto di annullamento e gli ulteriori aspetti non direttamente travolti dalla decisione. Al riguardo, Cass., Sez. V, 24 settembre 2020, n. 34983, in C.E.D. Cass., n. 280480, nel caso di annullamento della sentenza di appello per vizi motivazionali relativi al dolo omicidiario configurabile nel caso specifico, ha ritenuto non suscettibile di revisione il giudizio concernente la già riconosciuta aggravante del c.d. nesso teleologico tra l’omicidio (per il quale era stata pronunciata sentenza di annullamento) e altro reato prescritto. Secondo, invece, Cass., Sez. I, 7 febbraio 2020, n. 9049, in Giur. pen., 6 marzo 2020,il riconoscimento di circostanze attenuanti è strettamente connesso « al giudizio sulla fattispecie, sicché il mutamento della stessa non può che comportare il venir meno di preclusioni legate all’effetto devolutivo dell’appello ».

[34] Per Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2000, n. 1, in Cass. pen., 2000, 2967 ss., « l’art. 624 comma 1 c.p.p., che indubbiamente riconosce l’autorità del giudicato sia ai capi che ai punti della sentenza, non rappresenta, tuttavia, l’espressione di un principio applicabile al di fuori della specifica situazione dell’annullamento parziale, dato che la disposizione detta una regolamentazione particolare — attinente unicamente ai limiti obiettivi del giudizio di rinvio — e, dunque, è legata indissolubilmente alle peculiari connotazioni delle sentenze della Corte di cassazione e alla intrinseca irrevocabilità connaturata alle statuizioni dell’organo posto al vertice del sistema giurisdizionale, onde è da escludere che la disposizione stessa possa essere utilmente richiamata per sovvertire i principi generali desumibili dalle linee fondanti dell’ordinamento processuale relativo alle impugnazioni penali ». In maniera ancora più chiara, Cass., Sez. Un., 19 gennaio 1994, n. 4460, in Cass. pen., 1994, 2027 ss., ha affermato che, « non a caso, il legislatore del 1930 (e non diversamente quello del 1988) ha espressamente parlato di autorità di cosa giudicata solo in relazione alle parti della sentenza vagliate e non annullate dalla Corte di cassazione, il che ulteriormente conferma la diversa caratterizzazione delle situazioni processuali considerate nelle norme rispettivamente ricollegabili alla pronuncia in via definitiva emessa dal supremo giudice di legittimità e alla volontà del soggetto impugnante nell’attuazione di quel principio di disponibilità nei procedimenti di impugnazione, che si estrinseca nell’effetto parzialmente devolutivo dell’impugnazione stessa, cui consegue per le parti non impugnate della sentenza una mera preclusione processuale » (impostazione, questa, condivisa, da ultimo, anche da Cass., Sez. Un., 29 ottobre 2020, n. 3423, cit.).

[35] Nel caso di processo avente ad oggetto un solo reato, la sentenza passa, dunque, in giudicato nella sua interezza, mentre, nell’ipotesi di processo cumulativo o complesso, la cosa giudicata può coprire uno o più capi e il rapporto processuale proseguire per gli altri, investiti dall’impugnazione, sicché, in una simile situazione, è corretto parlare di « giudicato parziale ».

[36] In altri termini, pur essendo certamente vero che al giudice dell’impugnazione è interdetto l’esame del punto non impugnato e che l’accertamento ad esso corrispondente non è più controvertibile — fatta eccezione per la sussistenza di questioni rilevabili, anche d’ufficio, in ogni stato e grado del processo — tuttavia il fondamento della preclusione operante rispetto a quel punto non può essere rinvenuto nel « giudicato », riferendosi quest’ultimo, di regola, all’intera regiudicanda, coincidente con ogni singolo capo di imputazione e non già con le componenti necessarie per definire il giudizio su di esso.

[37] Le Sezioni Unite hanno precisato, inoltre, che « il riconoscimento dell’operatività del giudicato limitata ai capi della sentenza, con esclusione dei punti, non si traduce nell’adesione ad una linea interpretativa divergente dalla giurisprudenza consolidata, secondo cui, in caso di annullamento parziale ex art. 624 c.p.p., il giudicato formatosi sull’accertamento del reato e della responsabilità dell’imputato rende definitive tali parti della sentenza, con la conseguenza che il giudice di rinvio, investito della decisione sulla determinazione della pena, non può applicare le cause estintive del reato sopravvenute alla pronuncia di annullamento. Una attenta e approfondita disamina delle pronunce delle Sezioni Unite consente, infatti, di affermare che esse non costituiscono smentita dei risultati dell’indagine sin qui condotta, per la precisa ragione che la loro ratio decidendi risiede nella specialità della forza precettiva dell’art. 624, comma 1, c.p.p., a norma del quale “se l’annullamento non è pronunciato per tutte le disposizioni della sentenza, questa ha autorità di cosa giudicata nelle parti che non hanno connessione essenziale con la parte annullata” » (così, ancora, Cass., Sez. Un., 19 gennaio 2000, n. 1, cit.).

[38] Acquistano eccezionalmente, infatti, l’autorità di cosa giudicata — in forza della previsione speciale di cui all’art. 624 comma 1 c.p.p. (v. supra, nota n. 37) — le sole statuizioni su singoli punti della sentenza esaminate dalla Suprema Corte, ma diverse da quelle annullate ed a queste non necessariamente connesse, sempre che si sia in presenza di un annullamento parziale e non — come accaduto nel caso di specie — della mancata impugnazione della pronuncia relativa alla concessione delle attenuanti generiche.

[39] Ci si riferisce, in particolare, a Corte e.d.u., Sez. IV, 7 luglio 2015, Greco c. Italia, in Giur. pen., 12 febbraio 2016, con nota di V. Manca, La Corte EDU sulla compatibilità del divieto di reformatio in peius nel giudizio di rinvio a seguito di annullamento in Cassazione,secondo cui, « benché faccia parte del codice di procedura penale, le cui disposizioni regolano, di norma, la procedura da seguire per perseguire e giudicare i reati, l’articolo 597 comma 3 sopra citato può essere considerato una disposizione di diritto penale materiale, in quanto verte sulla severità della pena da infliggere quando l’appello viene interposto unicamente dall’imputato ».

[40] Al riguardo, Cass., Sez. III, 27 marzo 2019, n. 31282, in Cass. pen., 2021, 271 ss., ha sottolineato che, nel caso di questione incidente « sulla irrogazione della pena — nel senso di cui all’art. 7 CEDU — suscettibile di essere considerata illegale, l’applicabilità dell’art. 609 comma 2 c.p.p. è di ancor più immediata evidenza ». Va, tuttavia, precisato che la sussunzione della inosservanza del divieto di reformatio in peius nel concetto di « pena illegale » non sembra in linea con l’orientamento espresso da una parte della giurisprudenza, secondo cui tale nozione « non può estendersi sino al punto da includere profili incidenti sul regime applicativo della sanzione, a meno che ciò non comporti la determinazione di una pena estranea all’ordinamento per specie, genere o quantità. In altri termini, la pena è illegale non quando consegua ad una mera, erronea applicazione dei criteri di determinazione del trattamento sanzionatorio, alla quale l’ordinamento reagisce approntando i rimedi processuali delle impugnazioni, ma solo quando non sia prevista dall’ordinamento giuridico ovvero sia superiore ai limiti previsti dalla legge o sia più grave, per genere e specie, di quella individuata dal legislatore » (così Cass., Sez. Un., 31 marzo 2022, n. 38809, in Cass. pen., 2023, 97 ss.).

[41] In particolare, Cass., Sez. III, 12 settembre 2019, n. 47280, in Cass. pen., 2020, 2975 ss., ha ribadito che è « rilevabile d’ufficio, anche in sede di giudizio di legittimità, la questione relativa alla violazione delle disposizioni della C.e.d.u., così come interpretate dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, le cui sentenze, quando evidenziano una situazione di oggettivo contrasto della normativa interna con la Convenzione, assumono rilevanza anche nei processi diversi da quello nell’ambito del quale sono state pronunciate».

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