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IL MOG 231 E LA SUA ELUSIONE FRAUDOLENTA ATTRAVERSO IL C.D. MANAGEMENT OVERRIDE NELL’ULTIMA GIURISPRUDENZA DI MERITO: L’OCCASIONE È PROPIZIA PER UNA RICOGNIZIONE SUL TEMA

(nota a Tribunale di Milano, Sez. II Penale, n. 1070 del 25 gennaio 2024)

ABSTRACT

La sentenza del Tribunale di Milano, che qui si commenta, desta interesse poiché, nel pronunciarsi riguardo ad una ipotesi di elusione fraudolenta del MOG 231, a mezzo di management override, permette di misurare, in tale precipuo contesto giudiziario, la capacità persuasiva degli ultimi assunti della giurisprudenza di legittimità in tema di condotta elusiva. Il lavoro analizza, allora, i principali snodi ricostruttivi della decisione, ma l’occasione è altresì utile per una ricognizione su alcuni importanti postulati riconducibili al modello imputativo della «colpa di organizzazione», rispetto ai reati-presupposto degli apicali, e per ipotizzare, in prospettiva, degli interventi di modifica al testo vigente dell’art. 6 comma 1 l. c del d. lgs. n. 231 del 2001, in ordine alla prova liberatoria della persona giuridica.

The judgment of the Court of Milan, which is commented on here, arouses interest because, in ruling regarding a case of fraudulent elusion of the MOG 231, by means of management override, it allows us to verify, in this judicial context, the persuasive capacity of the latest assumptions of the jurisprudence of legitimacy on the subject of elusive conduct. The paper analyzes, then, the main reconstructive junctures of the decision, but the occasion is also useful for a reconnaissance of some important postulates attributable to the specific paradigm of corporate “criminal” liability, with respect to the management offenses, and to hypothesize, in perspective, interventions to modify the current text of art. 6 paragraph 1 l. c of Legislative Decree no. 231 of 2001.

Sommario: 1. L’oggetto della questione ed alcune preliminari note di contesto. – 2. Il requisito della elusione fraudolenta e le pregresse indicazioni ermeneutiche. – 2.1. Segue. Un rapido inciso: le dinamiche elusive nell’ipotesi del reato presupposto colposo. – 3. Il disposto “nuovo” del Tribunale di Milano. Un focus sulla elusione fraudolenta quale dissociazione tra management e politica d’impresa. – 4. Alcune considerazioni conclusive: uno sguardo oltre la norma.

1. L’oggetto della questione ed alcune preliminari note di contesto.

A distanza di due anni dalla definizione della ‘vicenda Impregilo’, vero e proprio leading case nel ‘sistema 231’, una nuova pronuncia del Tribunale di Milano (Sez. II Penale n. 1070 del 25 gennaio 2024) riafferma e consolida alcuni importanti postulati riconducibili al modello imputativo della «colpa di organizzazione» con riguardo ai reati-presupposto commessi dai vertici aziendali.

La sentenza suscita in effetti interesse proprio perché consente di misurare, in un diverso contesto giudiziario, la capacità persuasiva degli assunti interpretativi che nella ricordata vicenda Impregilo avevano segnato un fondamentale punto di svolta in tema di elusione fraudolenta.

Le argomentazioni offerte dal Collegio – nell’escludere la responsabilità della societas – permettono di fare emergere, accanto al riconoscimento della «idoneità del modello organizzativo» adottato dalla persona giuridica, il profilo controverso inerente all’onere della prova disciplinato dall’art. 6 del d. lgs. n. 231 del 2001 e dunque alla dimostrazione, tra l’altro, che «le persone hanno commesso il reato eludendo fraudolentemente i modelli di organizzazione e di gestione» (comma 1 l. c).

Il famigerato comma 1 l. c dell’art. 6, con le sue problematicità e difficoltà applicative, è stato sottoposto, com’è noto, diverse volte e sotto diversi punti di vista al vaglio della giurisprudenza.

Il dato che in questa sede interessa isolare attiene al requisito della «fraudolenza», il cui accertamento da parte dei Giudici milanesi parrebbe essere il risultato di una lettura ermeneutica in chiave mista (soggettivistica/oggettivistica) o comunque di una lettura differente rispetto a quella propriamente oggettivistica che pure è prevalsa, come diremo, nello scenario interpretativo.

Il caso di specie si riferisce ad un reato di false comunicazioni sociali, commesso dai soggetti apicali della società chiamata in giudizio, i quali, al fine di massimizzarne i profitti, segnatamente aumentando il margine lordo operativo, avevano destinato alcuni settori di attività (quello delle fatturazioni e degli open to capex) ad una gestione accentratrice, nelle mani di pochi manager, in totale difformità al principio di separazione delle funzioni aziendali, ed alterato i dati di performance e i report inviati alla casa madre e ai revisori, integrando così il fenomeno che in termini aziendalistici viene denominato «management override».

Si tratta, in sostanza, di una modalità di gestione informativa finanziaria in contrasto con il sistema di controllo interno degli enti attuata con lo scopo di contaminarne i processi di gestione, tanto sotto forma di inosservanza che di frode. Nel caso oggetto del pronunciamento in commento è emersa in seno alla società imputata – una s.p.A italiana operante nel campo delle telecomunicazioni, controllata da una multinazionale con sede all’estero – la realizzazione di pratiche illecite di override che i Giudici stessi riconducono ad uno «scenario in cui il comportamento aziendale diviene forzatamente improntato alla sistematica violazione ed aggiramento fraudolento di ogni regola, codice etico e modello organizzativo e, in presenza del quale, qualsiasi Modello seppur adeguato ed efficacemente attuato non sarebbe in grado di evitare comportamenti elusivi e manipolatori».

Attestata quindi l’adozione da parte della società del modello di organizzazione e gestione, il Tribunale di Milano ha ravvisato nel management override of controls l’operazione mediante la quale i soggetti apicali avevano eluso il MOG, che all’epoca dei fatti in contestazione si presentava idoneo ed adeguato a prevenire il reato ex art. 25-ter d. lgs. n. 231/2001, contestato alla persona giuridica.

Il comportamento degli apicali viene infatti ritenuto espressivo di una forza decettiva tale da superare, aggirandoli, i protocolli organizzativi racchiusi nel modello stesso.

Ebbene, tale assunto, tassello fondamentale della parte motiva della decisione, costituisce una conferma dei recenti approdi della Suprema Corte in tema di elusione fraudolenta, secondo la quale, come meglio vedremo, «il concetto di ‘elusione’ implica necessariamente una condotta munita di connotazione decettiva, consistendo nel sottrarsi con malizia ad un obbligo ovvero nell’aggiramento di un vincolo, nello specifico rappresentato dalle prescrizioni del modello; rafforzata poi dal predicato di ‘fraudolenza’ […], che […] vuole evidenziare […] una “condotta ingannevole, falsificatrice, obliqua, subdola”, tale da frustrare con l’inganno il diligente rispetto delle regole da parte dell’ente»[1].

Così ricostruite brevemente le vicende del procedimento e prima, però, di analizzare le questioni inerenti alla condotta elusiva, è utile in una visione di sistema ricordare, sia pure in maniera sintetica, le opzioni ermeneutiche che hanno avvolto il profilo della validazione giudiziale del modello in senso stretto, quale presupposto necessario per l’attivazione della verifica ulteriore della sua elusione fraudolenta. Occorre in particolare evidenziare come, in un contesto di particolare complessità strutturale, nel quale si uniscono, insieme a competenze tecnico-giuridiche, competenze di organizzazione aziendale, informatiche, ed altre ancora, tutte indispensabili per la costruzione del modello, data anche l’assenza di criteri e parametri definiti su struttura e funzione della compliance[2], per molto tempo la valutazione di idoneità del MOG sia stata, di fatto, bypassata dalla giurisprudenza, stabilendosi un automatico legame di conseguenzialità tra commissione del reato da parte del rappresentante-persona fisica e deficit di controllo (e di organizzazione) da parte dell’ente.

La stessa Cassazione nella prima decisione sul caso Impregilo[3], nel suo percorso argomentativo, in ordine al vaglio di adeguatezza si limita ad affermare che la valutazione della idoneità del modello non possa essere meramente teorica, ma debba basarsi su di un ragionamento applicato al caso concreto, volto a verificare le norme comportamentali aziendali e i presidi di controllo effettivamente attuati dall’ente in riferimento al reato-presupposto realizzatosi, richiedendo quindi al giudice una maggiore rigorosità nell’accertamento. Ma, al di là di queste brevi osservazioni, la decisione richiamata, ci pare, lungi dal creare un “precedente” a favore della validazione giudiziale del MOG, nulla aggiunga in ordine alla verifica di adeguatezza. Ribaltando la valutazione di merito[4], la Corte è giunta solo ad escludere l’idoneità del modello di Impregilo, nonostante esso risultasse conforme alle linee-guida delle associazioni di categoria di cui all’art. 6, co. 3, d.lgs. n. 231/2001. Ciò in ragione del difetto di indipendenza e dei vizi di composizione dell’Organismo di vigilanza, nonché ritenendo il MOG costruito in modo da consentire facilmente l’elusione dei protocolli da parte degli amministratori.

Si è assistito, di fatto, ad un’applicazione elusiva degli stessi importanti assunti contenuti nella celebre pronuncia TyssenKrupp[5], con peculiare riguardo alla rilettura in chiave costituzionale del meccanismo di imputazione ex art. 6 d.lgs. 231: la medesima Cassazione ha cioè trasformato l’onere di allegazione, che le Sezioni Unite avevano nel caso de quo ritenuto di far ‘seguire’ alla prova dell’accusa circa la carenza organizzativa[6], in un vero e proprio onere di dimostrazione della idoneità del MOG e della sua efficace attuazione.

La esperienza applicativa della giurisprudenza di legittimità dimostra, ancora, cadendo nella pericolosa deriva del “hindsight bias” – individuare il «know-how precauzionale-impeditivo del reato-presupposto» con prospettiva ex post (in forza “di quanto è successo”) – come rimanga taciuta la verifica sulla impedibilità della condotta degli amministratori, seconda la miglior scienza ed esperienza reperibile al momento del fatto, e si aderisca così ad un modello c.d. debole di ‘colpa di organizzazione’, scevra dei contenuti di tipicità realmente colposa[7]. Alla stregua, per contro, di un modello “forte” di ‘colpa di organizzazione’ occorrerebbe operare un giudizio ex ante e controfattuale volto alla individuazione del comportamento alternativo lecito ed esigibile dall’ente, ossia l’adozione ed efficace attuazione del Modello idoneo ad impedire l’illecito della specie di quello verificatosi, avendo in considerazione esclusivamente le circostanze conosciute o conoscibili dall’ente stesso, al momento della realizzazione del reato (c.d. giudizio a base parziale)[8]. Si tratta di una verifica che andrebbe effettuata alla stregua delle best practices aziendali che fungono da parametro di riferimento, quale preesistente e «positivizzato know-how precauzionale impeditivo dei reati presupposto, fondato […] su conoscenze consolidate e condivise nel momento storico in cui il fatto viene commesso circa i metodi di minimizzazione del rischio tipico»[9].

Sennonché, senza volersi addentrare in tali precipui aspetti, che fuoriescono dal focus della trattazione e sui quali si rimanda ai puntuali commenti elaborati in dottrina[10], può osservarsi in definitiva che nella prassi applicativa, ponendosi in una prospettiva di accertamento ex post, è prevalso un generale atteggiamento ‘colpevolista’ nei confronti dell’ente. Sebbene richiesta, in termini di imputazione soggettiva, la sussistenza di una colpa di organizzazione, in sede di legittimità non è stata approfondita la verifica di tale elemento soggettivo dell’illecito, per quanto concerne i suoi profili contenutistici e sistematici, esaurendosi la prova della responsabilità dell’ente in quella del requisito ascrittivo oggettivo.

Questo è accaduto sia in assenza di MOG, ma anche quando esso sia stato adottato dalla persona giuridica e dunque in presenza di profili utili ad “esplorare” lo schema imputativo della colpa di organizzazione, limitandosi invece la giurisprudenza a desumere la inidoneità del modello dall’avvenuta commissione del reato-presupposto, i cui requisiti oggettivi e soggettivi in capo alla persona fisica si sono, alla stregua di un vero e proprio automatismo, trasfusi sull’ente[11].

Nondimeno, lo scenario sembra essere mutato in forza della seconda pronuncia Impregilo, che, a distanza di otto anni dalla sentenza di appello-bis[12], pone (con esito assolutorio) definitivamente fine all’annosa vicenda, segnando un punto di svolta nella lettura della disciplina 231. Si tratta di una decisione di indubbio rilievo, già ampiamente analizzata[13], la quale, attraverso argomentazioni solide e con un lessico immune da ogni artificio retorico, declina in maniera chiara e diretta la «grammatica» del Decreto[14], indicando anzitutto – sulla scia di autorevoli precedenti[15] – che l’art. 6 non prevede alcuna inversione dell’onere della prova: ciò significa che la colpa di organizzazione è un elemento costitutivo dell’illecito, che compete all’accusa dimostrare.

Quanto più specificamente alla struttura del ‘tipo’ di illecito dell’ente, la sentenza – recependo i sopra richiamati ragionamenti interpretativi già prospettati dalla dottrina – ne accoglie una versione nella quale la colpa di organizzazione è costruita mutuando il modello di ascrizione della responsabilità penale alla persona fisica. In questo modo, il fatto-reato, ovvero il risultato colposo, diventa un elemento essenziale dell’illecito su cui orientare il nesso imputativo. Più in particolare, per l’addebito di responsabilità colposa, occorre che il risultato offensivo corrisponda proprio a quel pericolo che la regola cautelare violata era diretta a fronteggiare (criterio della copertura del rischio tipico); al pari, viene in considerazione il c.d. comportamento alternativo lecito, cioè l’ipotesi in cui, afferma la Corte, «l’osservanza della cautela avrebbe consentito di eliminare o ridurre il pericolo derivante da una data attività». Per valutare, poi, la idoneità del modello organizzativo il giudice dovrà idealmente collocarsi nel momento in cui il reato è stato commesso e verificarne la prevedibilità ed evitabilità, secondo il meccanismo epistemico della “prognosi postuma”.

Ma ancora, nella valutazione della idoneità del MOG, è da escludersi, neanche a dirlo, la scorciatoia del post hoc: la commissione del reato, si legge in sentenza, non equivale a dimostrare che il modello sia inidoneo. Il controllo sull’idoneità del modello, inoltre, non deve possedere una portata “totalizzante”, ma limitarsi a valutare l’impatto della violazione delle cautele con il rischio di reiterazione del reato della stessa specie. Riguardo al “criterio di giudizio” sul quale calibrare la verifica di adeguatezza, le linee guida, di cui all’art. 6, comma 3, del Decreto, benché provviste di un’efficacia meramente orientativa, unitamente alle indicazioni provenienti dalle associazioni di categoria, ambedue espressive di autonormazione, risultano idonee a guidare la decisione del giudice, che dovrà dare conto delle ragioni per le quali il loro rispetto non precluda di attestare comunque l’esistenza di una colpa di organizzazione.

In ordine, infine, alla funzione dell’Organismo di vigilanza, la pronuncia evidenzia che eventuali lacune strutturali e funzionali possono condurre a riconoscere la colpa dell’ente solo quando presentano un’efficienza causale rispetto all’evento, ovvero il reato-presupposto. Si rileva, in più, che non grava sull’Organismo un obbligo di preventivo controllo sugli atti del presidente o dell’amministratore delegato di una società; altrimenti, si determinerebbe una ingerenza, di fatto, nella gestione di quest’ultima, ben oltre i poteri riconosciuti dall’art. 6, comma 1 lett. b), del Decreto. Spettano invece all’Organismo compiti di controllo sistemico continuativo sulle regole cautelari predisposte e sul rispetto di esse nell’ambito del modello organizzativo[16].

Sulla base di siffatti parametri i Giudici, relativamente alla vicenda Impregilo, giungono a sancire la idoneità, nel momento in cui fu commesso il reato, del modello adottato dalla società con riguardo alla prevenzione dei cc.dd. illeciti di comunicazione, dovendosi tra l’altro tenere in debito conto la circostanza che la figura criminosa di aggiotaggio (art. 2637 c.c.) fosse stata inserita nel novero dei reati-presupposto della responsabilità collettiva soltanto alcuni mesi prima della commissione di detto reato da parte dei vertici societari. La società aveva comunque tempestivamente apprestato il modello di organizzazione e la pertinente procedura aziendale, avvalendosi delle linee-guida di categoria, che la legge stessa invita a considerare. La sentenza rinviene, inoltre, nella condotta degli imputati una elusione fraudolenta del modello, di tipo decettivo, avendo gli stessi falsificato i dati richiesti alle competenti funzioni aziendali e, come vedremo, accoglie un concetto di ‘elusione’ che implica inevitabilmente il requisito della fraudolenza, che si ritiene tutt’altro che sovrabbondante, posto che indicherebbe l’insufficienza di una mera, frontale violazione del modello, richiedendo anche una condotta ingannatoria. Rimediando al grave errore in cui sono incorse le precedenti decisioni, la Corte afferma, ancora, che anche il palese difetto strutturale dell’Organismo di vigilanza di Impregilo era privo di ogni relazione causale con il risultato offensivo: l’attività decettiva (che connota l’elusione fraudolenta) realizzata dagli imputati non si prestava ad essere impedita da un Organismo finanche adeguatamente formato. Neppure poteva pretendersi un sistema di flussi informativi, che ponesse l’organo nella condizione di manifestare una dissenting opinion rispetto al contenuto della comunicazione, e neppure, si conclude, ciò sarebbe stato utile, in quanto le scelte operative della società non competono all’Organismo medesimo, spettando ad altri organi la verifica dell’operato degli amministratori.

Tra gli aspetti sorprendentemente innovativi del dictum della Cassazione compare il ruolo dell’autonormazione, a cui la Corte, sub specie di linee guida e indicazioni delle associazioni di categoria, riconosce una valenza fondamentale nella verifica giudiziale del Modello. Questa esplicita presa di posizione lascia presagire un significativo mutamento di prospettiva quanto, in particolare, all’attivazione dei processi autoregolativi: strumenti di soft law, best practices, protocolli cautelari-pilota rientrano in un progetto tanto ambizioso, quanto difficile da realizzare, ma a cui il sistema deve necessariamente guardare, a meno di non voler riconsiderare in toto le coordinate del modello di responsabilità collettiva[17].

L’auspicio è che il nuovo approdo giurisprudenziale apra realmente ad una nuova stagione interpretativa, il cui maggior pregio è certamente quello di avere proiettato la ricostruzione della vicenda punitiva sulla persona giuridica, mostrando una inedita propensione a “maneggiarne” lo statuto, così da introdurre un metodo di accertamento più approfondito delle dinamiche imputative dell’illecito colposo all’ente, con il necessario vaglio di tutte le sue sequenze costitutive, anche (e finalmente) sul piano soggettivo, i.e. della colpa di organizzazione, di cui la prassi potrà fare buon uso.

2. Il requisito della elusione fraudolenta e le pregresse indicazioni ermeneutiche.

La sintetica ricostruzione sin qui operata è servita a portare alla luce, utilizzando un angolo visuale di tipo sistematico, gli snodi fondamentali che compongono l’accertamento dell’adeguatezza dei protocolli 231, quale necessario presupposto per la verifica ulteriore dei profili della elusione fraudolenta, in punto di esclusione della responsabilità della societas.

È facilmente intuibile, secondo la lettura più immediata del significato della opzione normativa di cui all’art. 6 del Decreto, che il giudizio di idoneità/effettività dell’assetto organizzativo, calibrato sul reato-presupposto, precede ed attiva l’accertamento dell’elusione fraudolenta, così come l’accertamento della condotta elusiva, che si lega causalmente al reato commesso, costituisce la riprova dell’avvenuto giudizio di adeguatezza preventiva della cautela violata[18].

La questione concernente il gravoso onere dimostrativo che l’art. 6 pone a carico dell’ente, nel caso del reato presupposto degli apicali, ha animato un dibattito mai risolto, ma molto più stringente, in verità, quando l’inversione probatoria, prevista dall’incipit della disposizione, non era ancora passata sotto la lente critica della giurisprudenza[19].

Nella odierna discussione scientifica, la riflessione dottrinaria è approdata ad un apprezzabile lavoro di analisi a cui si auspica possa aggiungersi un confronto utile con il diritto vivente, in attesa di verificarne gli indirizzi ultimi, che verosimilmente potranno condurre ad un consolidamento interpretativo (o magari, in prospettiva, ad un intervento del legislatore). 

Proprio quell’attività di studio consente di tastare il polso, come tenteremo di fare in questo lavoro, delle varie problematiche e dei contrasti interni ad una materia che rimane incerta e controversa.

Risulta invero difficile – guardando più da vicino la questione – ipotizzare che la persona giuridica conosca sempre e comunque gli sviluppi dell’illecito penale e possa addirittura provarne eventuali connotati fraudolenti.

In dottrina, allora, per evitare la disapplicazione della norma, si è ricostruito il significato dell’avverbio «fraudolentemente» in termini soggettivi, secondo quanto già comunemente ritenuto dalla stessa Cassazione relativamente alla fattispecie di false comunicazioni sociali, sia sotto la vigenza del vecchio testo dell’art. 2621 (ante riforma del 2002), sia sotto la vigenza di quello attuale[20]. In questa prospettiva, l’avverbio denoterebbe la mera intenzionalità dell’elusione sostenendosi, con minori difficoltà in termini di prova liberatoria dell’ente, la sufficienza di un dolo di elusione dei presidi impeditivi (c.d. concezione soggettiva)[21].

Altri Autori hanno individuato nel requisito della fraudolenza un rimando al collegamento tra elusione e reato, nel senso che la violazione si realizzerebbe consapevolmente in funzione del crimine. Da qui, si afferma la non necessarietà del carattere fraudolento dell’aggiramento dei presidi di controllo e vigilanza, ma al tempo stesso si ritiene che la formula normativa non si limiti a richiedere la mera violazione frontale del modello, ma reclami almeno dei comportamenti occulti o delle decisioni celate agli altri organi della persona giuridica[22].

Vi è chi, diversamente, ha prospettato una ulteriore lettura della clausola elusiva, descrivendola quale «elusione non concordata» ovvero «non simulata»: si sostiene cioè che non debba emergere una inosservanza precostituita del modello, frutto di una programmazione maturata nel contesto di un accordo collusivo tra ente e vertice, bensì un reale atteggiamento di infedeltà verso la societas[23].

La Cassazione, dal canto suo, aderisce sin da subito, con la prima pronuncia nel caso della società Impregilo s.p.A, ad una interpretazione rigorosa della prova della elusione fraudolenta da parte degli apicali, che impone il riscontro non di un mero dolo di elusione dei presidi impeditivi apprestati dal MOG, ma di una «condotta ingannevole, falsificatrice, obliqua, subdola», destinata a trarre in inganno la vittima, intendendo perciò il parametro dell’elusione fraudolenta come la «condotta di ‘aggiramento’ di una norma imperativa, non di semplice e ‘frontale’ violazione della stessa»[24].

L’avverbio «fraudolentemente» è letto, alla stregua di questo orientamento, in un’accezione puramente oggettiva[25], nel senso di richiedere artifici materiali; il che costituisce una ipotesi difficile a verificarsi ed altresì da provare, benché la nozione di fraudolenza sembri ricomprendere non solo l’inganno in senso stretto, che è «matrice di errore», ma anche la dissimulazione, che è «matrice di ignoranza»[26], e quantunque lo stesso concetto di frode non debba necessariamente coincidere con gli artifizi e i raggiri di cui all’art. 640 c.p.

Ora, in questa prima occasione, l’alterazione dei presidi organizzativi ad opera dei vertici della società Impregilo veniva considerata dalla Corte una «violazione frontale» delle prescrizioni del modello, in cui non si erano delineati i caratteri ingannatori.

Nella seconda decisione, del 2022, sulla medesima vicenda i Giudici giungono tuttavia ad una conclusione diversa, ritenendo che da parte degli autori del reato presupposto l’aver «approfittato dello spazio di autonomia tollerabilmente lasciato loro dal modello organizzativo in ragione del loro ruolo e, sì d’intesa tra loro ma in completo spregio dei dati elaborati e loro offerti dalle competenti strutture tecniche della società, l’aver alterato questi ultimi e divulgato ai mercati informazioni non veritiere, non rappresenta una mera violazione delle prescrizioni del modello. Una siffatta condotta, invero, risulta munita di efficacia decettiva nei confronti degli altri organi dell’ente, non soltanto perché tenuta senza il rispetto del procedimento di comunicazione previsto dal modello, ma altresì in quanto frutto di un accordo estemporaneo e tale, perciò, da rendere impossibile ogni interlocuzione da parte di qualsiasi altro organo sociale (non soltanto, cioè, dell’organismo di vigilanza, ma anche, ad esempio, del consiglio di amministrazione)» [27].

Ciò che muta nel percorso ricostruttivo della giurisprudenza è evidente: inizialmente si notava “semplicemente” che la natura fraudolenta della condotta del soggetto apicale (persona fisica) costituisse, «per così dire, un indice rivelatore della validità del modello, nel senso che solo una condotta fraudolenta appare atta a forzarne le “misure di sicurezza”». Il significato dell’avverbio «fraudolentemente» veniva indirizzato sulla condotta materiale dell’apicale, che era considerata decettiva per le sue oggettive modalità rispetto ai presidi organizzativi. Si riteneva che il requisito della fraudolenza, sebbene riferito ad un comportamento falsificatore, non fosse «necessariamente coincidente con gli artifizi e raggiri» di cui all’art. 640 c.p., e lo stesso costituiva oggetto di accertamento indipendentemente dall’atteggiamento del soggetto agente[28]. Nel più recente indirizzo giurisprudenziale, invece, la cifra della condotta elusiva è colta nel carattere «ingannevole e subdolo» di tale pratica quale «[…] intesa occulta e repentina tra i suoi autori in violazione del patto di fiducia che lega i rappresentanti dell’ente agli organi societari che hanno conferito loro tale ruolo»[29].

Così, il contenuto dell’agire “fraudolento” diviene il «profittamento di una occasionale situazione di inferiorità difensiva della vittima», mediante «un’astuta strategia» degli apicali della società, che si accordano, come nel caso di specie, «‘cogliendo l’attimo’ per un blitz che appunto profittasse del tempo e dell’occasione ideale per penetrare in una falla del sistema delle cautele in tale immediatezza non otturabile»[30], cioè uno spazio inevitabilmente estraneo alla possibilità di controllo del modello stesso.

Da questa ultima lettura può trarsi una conseguenza interpretativa importante, ossia che l’inciso normativo non sia ricostruibile alla stregua di una nozione puramente oggettiva, utilizzabile sempre e comunque, in termini di definizione generale, ma al contrario esprima un concetto «di relazione», da verificare in considerazione dell’oggetto dell’elusione – ovvero in riferimento al modo in cui «sono strutturati i profili della compliance non rispettati nel caso di specie» – e dei soggetti destinatari del comportamento fraudolento – «ovvero le figure aziendali che, grazie al truffaldino atteggiamento dei responsabili, non si sono avvedute della imminente elusione della procedura»[31].  

2.1. Segue. Un rapido inciso: le dinamiche elusive nell’ipotesi del reato presupposto colposo.

Le difficoltà di ricostruzione della nozione di elusione fraudolenta si acuiscono notoriamente con riguardo agli illeciti colposi. Come è stato osservato, si registra pure l’irrazionalità e l’inverosimiglianza della previsione normativa, costruita sul soggetto che si muove artatamente per distorcere l’agire dell’ente[32].

Il concetto di frode richiama, è ovvio, comportamenti subdoli, volontari, ovvero artifici o raggiri attraverso cui forzare le difese predisposte contro il rischio di reato dalla struttura organizzativa della persona giuridica. Detti comportamenti costituiscono solitamente atti dolosi; pertanto, si è posta la questione della conciliabilità da questo punto di vista della parte generale del Decreto 231 con il reato presupposto colposo: le problematiche di adattamento hanno portato parte della dottrina a negare l’applicabilità della disciplina ai reati colposi[33].

C’è da rilevare, in effetti, come l’agire con frode sembri davvero poco compatibile con l’atteggiamento colposo e perciò non volontario.

Tuttavia, considerando che la struttura del reato colposo è quella del reato di evento, vi è chi ritiene che la possibile rilevanza della volontà con riferimento alla condotta inosservante dovrebbe consentire l’operatività su questo piano dell’elusione fraudolenta, dato che la condotta elusiva si pone «fisiologicamente sul segmento della dinamica del reato colposo relativo alla violazione della regola cautelare»[34].

Viene in rilievo, così, un contesto caratterizzato dalla piena consapevolezza del comportamento inosservante elusivo, a cui risultano riferibili tutte le ricostruzioni della fraudolenza concepite per il reato presupposto doloso, come sopra prospettate. In tale ambito pertanto, in presenza degli altri requisiti ex art. 6 d. lgs. 231, pare che la societas possa beneficiare dell’esonero.

Per contro, potrebbe sembrare, a prima vista, che nelle altre manifestazioni colpose, ovvero quelle non caratterizzate da un agire inosservante consapevole, l’ente non vada esente da responsabilità.

Eppure, attraverso un’opera di adattamento della parte generale del Decreto al reato presupposto colposo in tema di fraudolenza, si è suggerito di riferire la stessa frode al «carattere occulto ed inaspettato dell’agire», compatibile con la forma di realizzazione colposa. La clausola di cui all’art. 6, comma 1 l. c), potrebbe consentire l’ingresso nella disciplina della responsabilità dell’ente del principio di affidamento (in ipotesi, rileverebbe l’affidamento che si poteva riporre nell’apparato organizzativo)[35]. Il che per- metterebbe di considerare fraudolente tutte le elusioni del modello all’interno di un comparto organizzativo valutato in prima battuta come adeguato.

Nondimeno, non si manca di evidenziare la opportunità di declinare, diversamente, una nozione unitaria della clausola elusiva ed evitare di darne letture diversificate per ogni tipologia di reato presupposto, con ciò richiamando alcuni tratti della definizione dell’elusione fraudolenta quale violazione «non concordata», ossia quelli che per ragioni di «logica probatoria» la rendono compatibile anche con le violazioni della regola cautelare inconsapevoli. Imboccando tale percorso interpretativo si afferma la possibilità di dare dimostrazione dell’autenticità della elusione: «proprio perché l’agire inosservante è inconsapevole è impossibile che l’elusione sia concordata. Come a dire, la prova è in re ipsa»[36].

Avremo modo più avanti di tornare sulle possibili letture alternative dell’inciso normativo (anche ma non solo per la difficile compatibilità con il reato presupposto colposo), ipotizzando, in prospettiva, degli interventi modificativi sul testo della disposizione. In ogni caso, è chiaro sin da ora che, se lo sganciamento della nozione di elusione da quella di fraudolenza è certamente augurabile de iure condendo, occorrerà valutare in che limiti la disciplina vigente lasci operare la prima anche in assenza della seconda, non prima però di avere provato, qui di seguito, a raccordare gli esiti attuali delle questioni interpretative emerse, al fine di verificare se e in quale misura essi compongano un quadro coerente.

3. Il disposto “nuovo” del Tribunale di Milano. Un focus sulla elusione fraudolenta quale dissociazione tra management e politica d’impresa.

Le linee interpretative appena tracciate costituiscono l’approdo lento e non sempre lineare al quale sembra essere pervenuta la giurisprudenza di legittimità.

L’indirizzo ultimo, come visto, parrebbe prima facie accogliere la ricostruzione del requisito di cui trattiamo in chiave oggettivistica, alla stregua di due postulati espressi nella decisione stessa: – «l’elusione va valutata, infatti, in riferimento non al precetto penale, bensì alle prescrizioni del modello organizzativo», pertanto è azione che non coincide con la condotta del reato presupposto; – «il concetto di ‘elusione’ implica necessariamente una condotta munita di connotazione decettiva» e il carattere di fraudolenza «vuole evidenziare l’insufficienza della semplice e frontale violazione delle regole del modello, pretendendo una condotta ingannatoria». Eppure, all’esito di questa valutazione la Corte non procede allo scrutinio dei presupposti oggettivi della condotta medesima (i.e. dei profili che la qualificano in termini ingannatori) ma opta per lo sviluppo di due diversi requisiti dell’azione cum fraude: la violazione in tal modo dell’obbligo di fedeltà dell’apicale, ossia quel «patto di fiducia che lega i rappresentanti dell’ente agli organi societari che hanno conferito loro tale ruolo», e la conseguente «dissociazione dello stesso dalla politica d’impresa», di talché «il reato costituisce il prodotto di una scelta personale e autonoma della persona fisica»[37].

Risulta chiaro così che l’accertamento giudiziale debba riguardare dapprima gli obblighi di prevenzione della societas di cui il modello deve essere espressione e in seguito involgere la condotta dei soggetti di vertice onde valutarne i tratti elusivi nei suddetti termini oppure verificarne la neutralità in punto di fraudolenza in relazione ad una compliance aziendale di per sé insufficiente e inadeguata alla prevenzione del reato. Si tratta di una valutazione da effettuare in concreto, sulla base delle precipue caratteristiche dell’ente, della sua struttura organica e del suo complessivo background imprenditoriale.

Si può facilmente notare come queste indicazioni di metodo siano idonee a costituire una linea ermeneutica valida, ma è altrettanto vero che alla stregua di detta impostazione la soluzione interpretativa risulta condizionata molto dalle specificità del contesto nel quale il singolo caso si inserisce.

Qual è, allora, dinanzi a tale precipuo “precedente”, la strada percorsa dal Tribunale di Milano nella vicenda del management override compiuto dai vertici della s.p.A. chiamata in giudizio?

Per verificare in che termini il giudice del merito possa utilizzare gli esiti interpretativi espressi in sede di legittimità nella distinzione tra ciò che è decettivo e ciò che non lo è, sembra utile inquadrare la tipologia di argomentazione offerta, nella sua decisione, dalla VI Sezione della Cassazione, in tema di fraudolenza, sotto il profilo propriamente linguistico-sintattico, oltre che dal punto di vista contenutistico-descrittivo.

Tra i pregi dell’ultima decisione Impregilo vi è quello di avere lavorato sull’«intensione» del termine “fraudolentemente”[38], ovvero non se ne è allargato il significato per ricomprendere altri segmenti di azione finora esclusi, ma si è operato sul concetto individuando i tratti necessari e sufficienti che lo caratterizzano, ossia le informazioni linguistiche che definiscono e accomunano le classi di oggetti cui l’enunciato stesso si riferisce. Per questa via, identificato l’apparato concettuale dell’espressione «fraudolentemente», diviene possibile ricavarne un significato utile per la nozione penalistica[39],  arrivando a considerarne come contenuto, lo abbiamo visto, il profittamento di una occasionale situazione di inferiorità difensiva della vittima (ovvero l’ente) mediante la violazione del dovere di fedeltà dell’apicale che si discosta dalla politica d’impresa.

È l’atteggiamento di infedeltà che qualifica il comportamento del vertice come elusivo e fraudolento, nel senso richiesto dalla norma, in quanto ingannevole, frutto di una scelta autonoma ed attuato in spregio a qualsivoglia regola dell’organizzazione etica.

Venendo così al caso scrutinato dal Tribunale di Milano, c’è da osservare che il Collegio ripropone fedelmente l’orientamento cristallizzato nell’ultima Impregilo, leggendo il significato della fraudolenza alla luce della policy aziendale.

I giudici milanesi, per parte loro, affermano che la condotta elusiva descritta dall’art. 6 comma 1 l. c corrisponde ad un comportamento dell’agente diretto all’aggiramento del modello, chiarendo che la verifica in tal senso debba riguardare le caratteristiche del comportamento dell’apicale e ricercare quella decettività tale da neutralizzare i presidi del modello, in modo da potersi affermare che «anche adottando un modello idoneo, di cui sia stata accertata l’efficacia in concreto, il reato si sarebbe comunque verificato».

Dal dibattimento, nel caso di specie, si è evinto «un quadro ambientale nel quale erano sorti e venivano perpetrati comportamenti fraudolenti sintetizzabili nel raggiungimento di obiettivi economici irraggiungibili, nella presenza di settori di attività […] gestiti da pochi manager così intaccando l’integrità del principio della separazione delle funzioni, nell’alterazione di dati e di report che venivano inviati alla casa madre e ai revisori con conseguente violazione delle procedure aziendali» (c.d. management override).

Le testimonianze rese in giudizio hanno, in particolare, rappresentato «un clima aziendale caratterizzato da uno stile di management accentrato ed autocratico», che ha causato «la sistematica violazione e l’aggiramento del sistema di governance e delle policy aziendali poste a base del sistema di controllo interno implementato dalla società, di cui il Modello rappresenta un sottoinsieme».

Dinnanzi a tali comportamenti, sottolineano i Giudici, «l’individuazione delle irregolarità e delle manipolazioni contabili diviene particolarmente complessa, poiché le modalità con cui le stesse vengono commesse sono particolarmente ingannevoli, comportando l’aggiramento dei presidi di controllo e anche la collusione di più soggetti, la dissimulazione delle violazioni delle procedure e la realizzazione di operazioni formalmente ineccepibili e tali da occultare la effettiva realtà delle cose». Il Tribunale tratteggia così in capo ai vertici della società una linea di azione dal contenuto ingannatorio – risultato di uno schema decisionale autonomo, non evitabile né prevedibile dagli altri organi sociali – e quindi violativa del patto di fiducia che dovrebbe tra loro intercorrere in seno alla organizzazione.

La pronuncia ha modo di precisare che la frode è stata palesata tramite una segnalazione anonima pervenuta attraverso il sistema del whistleblowing, procedura contemplata nel codice di comportamento della s.p.A. e volta ad integrare il modello organizzativo.

Ebbene, ciò detto, ci sembra costituire un profilo di peculiare interesse quello che attiene alla materiale verificabilità, in tale contesto fattuale, del comportamento degli apicali in relazione alla corporate strategy, considerando che risulta di non semplice accertamento nel caso del reato dei soggetti apicali la violazione della politica di impresa attraverso un atteggiamento di infedeltà all’ente, dato che di regola sono gli stessi apicali i costruttori della policy aziendale, così che le loro decisioni identificano le decisioni dell’ente. Occorre allora valutare – portando alla luce un tema più complesso oltre alla questione strettamente definitoria – se la condotta dell’organo apicale, nelle dinamiche operative della societas, rappresenti realmente una dissociazione dalla strategia del gruppo, così che il reato possa ritenersi frutto di una decisione della persona fisica, realizzato non come conseguenza di lacune dell’organizzazione, ma in presenza di un assetto organizzativo adeguato e quindi aggirabile solo mediante un comportamento ingannevole.

In altri termini, la questione riguarda la possibilità o meno nella vicenda di cui trattiamo di superare il dato della immedesimazione organica tra vertici ed ente e dunque di ipotizzare quella scissione (contemplata dalla norma) che dimostra l’agire secondo legalità della persona giuridica.

Nel caso di specie, c’è anzitutto da considerare il tipo di reato presupposto, ovvero un reato comunicativo rispetto a cui è in verità arduo immaginare una sicura prevenibilità nelle maglie della organizzazione[40]. Magari in sede applicativa avrebbe potuto valutarsi di negare in radice la possibilità per l’ente di prevedere quel rischio-reato di false comunicazioni sociali mediante una cautela specifica (da doversi aggirare cum fraude per la realizzazione dell’illecito), così da escludere a monte la rimproverabilità della società in punto di colpevolezza.

Ad ogni modo, assumendo – com’è emerso in giudizio – che la regola prevenzionistico-cautelare validamente approntata e idonea a fronteggiare il rischio-reato sia stata elusa fraudolentemente, va altresì considerata la tipologia di management in questione: la società assolta era una filiale controllata da una società britannica in Italia, in cui i vertici imputati si identificavano in un gruppo di pochi manager che non costituivano una diretta espressione della proprietà aziendale. Questi hanno realizzato operazioni di falsificazione dei bilanci tra il 2012 e il 2016 con ritocchi nell’ordine di 300 milioni di euro al fine di incidere sul margine operativo lordo e quindi occultare perdite di bilancio. A causa di tale vicenda, nell’autunno del 2016, gli apicali della s.p.A. italiana furono allontanati e il gruppo tagliò stime su ricavi e utili registrando per altro svalutazioni per oltre 600 milioni di euro. A seguito della segnalazione di un whistleblower che informò la casa madre della non conformità alla realtà  dei bilanci della controllata e delle condotte illecite realizzate dai manager italiani per gonfiare i bilanci del quadriennio 2013-2016 onde mascherare le perdite, la società estera presentava formale denuncia in Procura nel 2017 sostenendo che le presunte condotte illecite dei manager italiani fossero contro l’interesse della compagnia. A ciò si aggiunga che i dirigenti italiani non sono riusciti a provare, nel successivo giudizio, la circostanza che le principali transazioni finanziarie operate dall’ente imputato fossero condivise con i responsabili della casa madre. Le escussioni testimoniali hanno fatto emergere «un clima aziendale caratterizzato da uno stile di management accentrato ed autocratico», le cui pratiche contabili scorrette, di propria esclusiva iniziativa e d’intesa tra pochi apicali, all’oscuro degli altri organi sociali, in spregio a qualsivoglia principio riconducibile ad un modello di cultura organizzativa etica, hanno intaccato la stessa integrità della controllata italiana: cogliamo allora la figura dell’amministratore che disattende l’obbligo di fedeltà aggirando il MOG e contrapponendosi alla politica aziendale con una strategia di azione che non ne risulta diretta attuazione[41].

Per rappresentare quale fosse la politica d’impresa propria della società, il Tribunale di Milano osserva, nella pronuncia in commento, come emerga dai verbali di causa che «il Collegio sindacale si sia attenuto agli obblighi sullo stesso gravanti secondo il dettato dell’art. 2403 c.c. in considerazione del fatto che: – durante le riunioni in sede di consiglio di amministrazione, il collegio non ha mai avuto notizia, né il sospetto del compimento di operazioni imprudenti, azzardate o in conflitto di interessi; – durante gli incontri di cui sono stati analizzati i relativi verbali, il collegio ha ricevuto informazioni periodiche sull’andamento della gestione, dalla quale non sono emersi segnali di particolare criticità ed, anche laddove sono state evidenziate delle aree nelle quali erano stati individuati degli indici di sofferenza, quale quella del recupero dei crediti nello small e medium business, il collegio sindacale si è comunque sempre attivato per avere costanti aggiornamenti sul punto, ricevendo, dal parte degli amministratori, conferme in senso migliorativo di dette situazioni».

Le policies di gruppo (DoA; Reserved Powers; Group Trading Policy; The Way we work; Anticorruption&Bribery; Gift and Hospitality Policy; Charitable Donations and Sponsorship; Market Developments and Sales Incentives) contenevano, evidenzia lo stesso consulente del PM nella sua perizia, «specifiche procedure di prevenzione del rischio-reato che confluiranno nella parte speciale del Modello del 2016. […] Si tratta di politiche aventi carattere generale tese a dare delle linee guida comportamentali in settori di attività che sono sicuramente molto delicati nell’attività della società, vietando tassativamente la corruzione e la concussione e indicando, da un lato, le procedure da seguire, e, dall’altro, le modalità attraverso le quali i dipendenti potevano e dovevano denunciare eventuali situazioni dubbie. Trasversalmente strumentali alla corruzione e concussione sono da ritenersi anche le donazioni e le sponsorizzazioni, nonché le procedure volte a regolamentare le politiche di omaggi o ospitalità, oltre alle politiche di sviluppo del mercato, indicandosi modalità di comportamento auspicate, divieti ed eventuali canali di denuncia».

La riconosciuta validità preventiva del MOG della società chiamata in giudizio ha fatto leva, in definitiva, analizzandosi i verbali dell’Organismo di vigilanza, regolarmente nominato, e le policies di gruppo, sul dato secondo cui la c.d. attività di risk assessment sia stata effettivamente svolta e costantemente aggiornata (il MOG introdotto nel 2006 viene  aggiornato nel 2008, 2011 e 2016: nel 2011 i protocolli di gestione del rischio-reato erano contenuti nei verbali dell’Organismo di vigilanza e nel 2013 in allegati della ‘parte generale’, mentre nel 2016 erano confluiti nella ‘parte speciale’ del modello di organizzazione e gestione). A monte, risultano completi e adeguati sia il Codice di condotta, sia l’apparato sanzionatorio e il sistema disciplinare, nonché rispettati il sistema delle deleghe e le procedure di comunicazione, formazione e informativa sul modello stesso.

Così composto il quadro fattuale della vicenda, come è emerso nel procedimento, la «immedesimazione» tra i soggetti di vertice e l’ente parrebbe allora effettivamente superata dalla condotta fraudolenta degli apicali ovvero, secondo l’insegnamento tradizionale, «una condotta (…) ingannevole e subdola perché prodotta da un’intesa occulta e repentina fra i suoi autori»[42], che supera il descritto presidio di controllo e dunque appare non dominabile dall’ente, in quanto realizzata al di fuori del contesto sociale ed in totale autonomia da parte degli apicali condannati. Non pare quindi ravvisabile quel difetto di controllo che – nel costituire un fattore di agevolazione dell’elusione – avrebbe comportato la rimproverabilità della societas per il reato commesso da chi formalmente era deputato a rappresentarne la policy aziendale.

4. Alcune considerazioni conclusive: uno sguardo oltre la norma.

Nel ricercare criteri meno equivoci e comunque compatibili con le esigenze di mantenimento in vita del requisito della elusione fraudolenta, diretto ad attivare il meccanismo liberatorio dell’ente, si è molto insistito in via interpretativa, come visto, sul contesto in cui matura la scelta dei soggetti apicali.

La più recente giurisprudenza lavora per la salvaguardia di uno spazio applicativo dell’inciso normativo, ma le sue indicazioni, sebbene sembrino superarne la endemica vaghezza definitoria, attirano alcuni rilievi critici.

Può rilevarsi anzitutto che questa linea interpretativa, nel fotografare soltanto una peculiare manifestazione del fenomeno (l’aggiramento tramite approfittamento degli spazi lasciati aperti dalla compliance), si precluda la possibilità di operare come generale parametro di lettura della elusione richiesta dalla norma: una per tutte, essa appare del tutto inconciliabile con le dinamiche già di per di sé controverse del reato presupposto colposo ovvero quelle che involgono l’azione inosservante inconsapevole. Non è qui possibile trattenersi su questi precipui aspetti[43] se non per evidenziare la difficile ipotizzabilità in tali casi di un involontario posizionamento della condotta all’esterno dell’area di prevedibilità dell’ente.

Ed ancora, si è fatto notare come l’ultima lettura ermeneutica, che in definitiva riconosce o nega la frode sulla base del suo collocarsi all’interno o al di fuori dello spazio di controllo dei protocolli preventivi, porti con sé il rischio di agevolare dinamiche elusive «non autentiche», cioè previamente progettate in seno alla organizzazione per far usufruire all’ente della prova liberatoria dalla responsabilità, con ciò svilendosi di fatto la ratio giustificativa della stessa normativa 231: «un punto di “minore resistenza” della disciplina, probabilmente di per sé inevitabile, che solo un’attenta analisi del giudice, magari “sollecitata” da una lettura così orientata della fraudolenza, potrebbe in concreto rimuovere»[44].

Ad ogni modo, nonostante talune criticità, de iure condito l’orientamento adottato dall’ultima giurisprudenza sembra rappresentare una soluzione, per così dire, “di equilibrio” tra le diverse letture praticabili, nel senso che scongiura gli eccessi di una opzione rigorosa, ovvero quella di considerare in tema di elusione fraudolenta – con un gravoso compito di accertamento – sia l’esistenza di concreti comportamenti, diversi dalla condotta delittuosa tipica, specificamente orientati all’elusione del modello organizzativo, sia il nesso di causalità fra condotta elusiva e neutralizzazione del presidio cautelare (ciò che si dice costituire la riferibilità della fraudolenza alle «modalità» della condotta[45]). Ma si tratta di una lettura che evita altresì la reinterpretazione semantica data dalla suddetta concezione della fraudolenza intesa in termini di dolo intenzionale dell’apicale con riguardo tanto al reato presupposto quanto alla violazione delle cautele contenute nel modello organizzativo.

Eppure, nel riconoscere – in linea di principio – i meriti di un approccio interpretativo certamente garantista circa le questioni che involgono lo schema imputativo ex art. 6 del decreto 231, non possiamo esimerci dal considerare che, comunque si intenda la nozione di fraudolenza, (a valle) nella sede processuale, alla luce delle evidenti difficoltà ricostruttive, le iniziative probatorie delle parti continueranno verosimilmente ad incentrarsi sulla efficienza e sulla effettività degli strumenti organizzativi ed ispettivi, sulla loro idoneità a rendere difficilmente praticabili condotte elusive. Di più – nel senso della dimostrazione di un agire per frodare la sicurezza – è poco ipotizzabile[46].

Peraltro, alla stregua delle più recenti letture, combinandosi la valutazione della elusione fraudolenta in termini di condotta oggettivamente ingannatoria con la verifica dell’atteggiamento soggettivo dell’apicale che si dissocia dalla politica aziendale e viola l’obbligo di fedeltà, occorrerà che il giudicante utilizzi particolare cautela, all’esito della verifica sui presidi di sicurezza, nella valutazione della responsabilità dei vertici per il loro aggiramento. L’auspicio è che, cioè, si riesca a fronteggiare la tentazione di una soluzione interpretativa che richieda in capo agli apicali, per poterne affermare la punibilità, la commissione di condotte di spropositata valenza criminale ed ingannatoria tali da neutralizzare in radice ogni possibile idoneità preventiva dell’assetto organizzativo.

Difatti, la dimostrazione della elusione del modello risultato idoneo andrebbe operata rapportando le concrete caratteristiche dell’azione dei vertici ai doveri prevenzionistico-cautelari di cui l’ente in forza del d.lgs. n. 231/2001 è titolare e dunque non andrebbe condotta in termini assoluti, evocando comportamenti di insuperabile connotazione criminale ovvero fortemente ingannatori e di progettata organizzazione[47].

Ricordate allora le precipue difficoltà applicative, che si acuiscono con riguardo agli illeciti colposi (per la evidente difficoltà di conciliarvi la previsione di un’azione artatamente diretta a deviare le decisioni dell’ente), rimaniamo dell’idea che sarebbe auspicabile, de lege ferenda, che il riferimento nella norma alla «elusione fraudolenta» venisse riconsiderato, così da consentire al meccanismo liberatorio dell’ente di operare in una dimensione più compiuta.

In prospettiva, si potrebbe eliminare l’elemento della «fraudolenza», in modo da richiedere la sola ‘elusione’, con la principale conseguenza che il suo accertamento prescinderebbe dalla dimostrazione che l’aggiramento dei protocolli organizzativi si collochi al di fuori della possibilità di controllo dell’ente ovvero dalla dimostrazione della eccezionalità dell’accordo collusivo tra i vertici. Questo esito interpretativo sarebbe praticabile dal momento che la verifica della condotta elusiva rimanderebbe manifestamente alla valutazione dell’adeguatezza delle cautele preventive insite nel modello di organizzazione, dovendosi concludere necessariamente che se si è dovuto aggirare il MOG per commettere l’illecito vuol dire che l’organizzazione non è carente e dunque insufficiente alla prevenzione del rischio reato. Si tratta, ben vero, di una soluzione idonea a circoscrivere il rischio che la richiesta del connotato di fraudolenza, carico di incertezze, infici la matrice garantista del contesto normativo in cui si inserisce, creando una pericolosa spaccatura nelle dinamiche imputative della responsabilità della societas. Così come potrebbe valutarsi, in alternativa a questa opzione, di sostituire il requisito della «elusione fraudolenta» con un elemento neutro, quale la «violazione» del modello, che consentirebbe non solo di arginare i problemi di verificabilità connessi al concetto di fraudolenza in senso stretto, ma di superare, a monte, le stesse ambiguità che comunque sono insite nell’accezione letterale del termine ‘eludere’, che di per sé presuppone una valenza di artificio e perciò in questo senso ingannatoria[48].

C’è da mettere in conto che ad interventi di questo tipo si accompagni un potenziale allentamento dei criteri su cui poggia la verifica di rimproverabilità dell’ente, legato inevitabilmente alla possibilità – nella sede applicativa – di escludere la responsabilità collettiva anche nelle ipotesi in cui la condotta di elusione/violazione dei presidi organizzativi non sia valutabile in termini di estemporaneità ed occasionalità rispetto alle decisioni del soggetto collettivo. Ma al tempo stesso neppure è revocabile in dubbio che tali opzioni alternative alla soluzione normativa odierna, quantunque con qualche effetto da controbilanciare, permetterebbero effettivamente al sistema di operare, rendendo praticabile la prova liberatoria della persona giuridica.

Sul piano concreto, non resterebbe che augurarsi un particolare rigore nell’accertamento da parte del giudice, nella cui attenta valutazione ci sembra ragionevole poter confidare.   


[1] Cass. pen., Sez. VI, 15.06.2022, n. 23401, c.d. seconda pronuncia Impregilo.

[2] Sul punto, Rossi, Introduzione, in Id. (a cura di), La corporate compliance: una nuova frontiera per il diritto?, Milano, 2017, 1 ss.

[3] Cass. pen., Sez. V, 30.01.2014, n. 4677, con nota di Paliero, Responsabilità degli enti e principio di colpevolezza al vaglio della Cassazione: occasione mancata o definitivo de profundis?, in Le Società, n. 4, 2014, 469 ss.

[4] Corte App. Milano, 21.03.2012, n. 1824, in Fisco on line, 2012 e GUP Tribunale di Milano, 17.09.2009, con nota di Paliero, Responsabilità dell’ente e cause di esclusione della colpevolezza: decisione “lassista” o interpretazione costituzionalmente orientata?, in Le Società, n. 4/2010, 473 ss.

[5] Cass., Sez. Un., 24.04.2014, n. 38343, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2014, 1838 ss., con nota di Fiandaca, Le Sezioni Unite tentano di diradare il «mistero» del dolo eventuale e in Giur. it., 2014, 2565 ss., con nota di Bartoli, Luci ed ombre della sentenza delle Sezioni Unite sul caso Thyssenkrupp.

[6] Sulla scia di un importante e precedente arresto (Cass. pen., Sez. VI, 18.02.2010, n. 27735), è chiaro l’assunto in tal senso della sentenza Tyssen: «Nessuna inversione dell’onere della prova, pertanto, è ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente, gravando comunque sull’accusa la dimostrazione della commissione del reato da parte di persona che rivesta una delle qualità di cui al D. Lgs. n. 123, art. 5, e della carente regolamentazione interna dell’ente, che ha ampia facoltà di offrire prova liberatoria».

[7] Paliero, Colpa di organizzazione e persone giuridiche, in Enciclopedia del diritto – Reato colposo, Milano, 2021, 85.

[8] V. gli approfondimenti di Paliero, Responsabilità dell’ente e cause di esclusione della colpevolezza, cit., 480; Mongillo, Il giudizio di idoneità del modello di organizzazione ex d.lgs. 231/2001: incertezza dei parametri di riferimento e prospettive di soluzione, in RASE, n. 3/2011, 69 ss.; Manacorda, L’idoneità preventiva dei modelli di organizzazione nella responsabilità da reato degli enti: analisi critica e linee evolutive, in RTDPE, 2017, 49 ss.

[9] Così Paliero, Colpa di organizzazione e persone giuridiche, cit., 85. Cfr. inoltre, tra gli altri, D’arcangelo, Il sindacato giudiziale sulla idoneità dei modelli organizzativi nella giurisprudenza più recente, in Rivista231, 2015, 60. In giurisprudenza, Trib. Milano, 3.11.2010, in Dir. pen. cont., 3 novembre 2010.

[10] Per tutti, Piergallini, Paradigmatica dell’autocontrollo penale (dalla funzione alla struttura del “modello organizzativo” ex D.lgs. 231/2001), in Cass. pen., Giuffrè, 2013, Parte I, 376-399; Parte II, 842-867.

[11] Provando a ricercare le ragioni sottostanti a tale impostazione, si possono accogliere le giuste riflessioni di chi ha posto in evidenza, nel ragionamento della giurisprudenza, una «ipervalutazione del c.d. agente modello», dipesa anche «da una sorta di diffidenza nel giudicante, essendo in fondo gli stessi destinatari della disciplina a produrre le possibili fonti della loro colpa». Si è, nel diritto vivente, in altri termini, elevata «l’asticella sino a pretese oggettivamente e soggettivamente insostenibili per la societas eiusdem, specie se ci si misura con la realtà del panorama italiano», con una «scarsa attenzione alla concreta morfologia dell’impresa italiana, fatta per gran parte di piccole e medie imprese, non di ‘imprese modello’»: Manes, Realismo e concretezza nell’accertamento dell’idoneità del modello organizzativo, in Catenacci-D’ascola-Rampioni (a cura di), Studi in onore di Antonio Fiorella, vol. II, Roma, 2021, 1621 ss. Sul tema si rinvia altresì a De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato, profili storici,

dogmatici e comparatistici, Pisa, 2012, 324; Gargani, Responsabilità collettiva da delitto colposo d’evento: i criteri di imputazione nel diritto vivente, in www.lalegislazionepenale.eu, 11.01.2016, 14 ss.; Vitarelli, I reati in materia di sicurezza, dignità e correttezza del lavoro, in Lattanzi-Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, Vol. I – Diritto sostanziale, Torino, 2020, 524.

[12] Corte App. Milano del 10.12.2014.

[13] Cass. pen., Sez. VI, 15.06.2022, n. 23401, cit.: la si veda in Sist. pen., 27 giugno 2022, con nota di Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione pone fine all’estenuante vicenda “Impregilo” e in Sist. pen., n. 9 del 2022, 115 ss., con nota di Fusco e Paliero, L“happy end di una saga giudiziaria: la colpa di organizzazione trova (forse) il suo tipo.

[14] In questo senso i primissimi commenti: Piergallini, Una sentenza “modello”, cit., 2 ss.

[15] Per tutti, si rimanda alla nota sentenza Thyssen Krupp: Cass., Sez. Un., 24.04.2014, n. 38343, cit.

[16] Per una lettura approfondita di tali “nuove” coordinate applicative, Piergallini, Una sentenza “modello”, cit., 3 ss.

[17] Guarda con estremo favore a tali strumenti di soft law ed alle best practices Piergallini, (da ultimo) in Premialità e non punibilità nel sistema della responsabilità degli enti, in Dir. pen. e proc., n. 4/2019, 535. Tra gli altri, sul tema, v. Mongillo, Il giudizio di idoneità, cit., 81 ss.; Pezzi, D.lgs. n. 231/2001: la vexata quaestio dell’idoneità ed efficacia dei mog fra prospettive di riforma e fonti delle regole cautelari, in La Leg. pen., 8.10.2021, 10 ss.

[18] Per questa lettura, anche Tripodi, L’elusione fraudolenta del modello: prove di gestione ermeneutica, in Amati-Foffani-Guerini (a cura di), Scritti in onore di Nicola Mazzacuva, Pisa, 2023, 628 s.

[19] V. supra, nt. 6.

[20] Paliero, Responsabilità degli enti e principio di colpevolezza, cit., passim e Id., L’imputazione della responsabilità dell’ente per il fatto-reato dei soggetti apicali: Il punto di vista della Cassazione, in Le Soc., 2014, 444, ove l’Autore osserva come nel caso dell’art. 2621 c.c. l’accezione soggettiva allargava le maglie del penalmente rilevante; nel d.lgs. 231 del 2001 le restringerebbe. Per la lettura del requisito della fraudolenza quale espressione di un dolo di elusione v. anche Bartoli, Alla ricerca di una coerenza perduta… o forse mai esistita. Riflessioni preliminari (a posteriori) sul ‘‘sistema 231’’, in Borsari (a cura di), Responsabilità da reato degli enti. Un consuntivo critico, Padova, 2016, 28.

[21] Peraltro, nella stessa vicenda Impregilo i giudici di merito avevano accolto la lettura ‘soggettivistica’ della condotta elusiva (ossia la prova della intenzionalità elusiva delle procedure aziendali da parte dei soggetti apicali): GUP Tribunale di Milano, 17.09.2009, cit.; Corte App. Milano, 21.03.2012, n. 1824, cit. In argomento, v. altresì Manes, op. cit., 1632 s.; Manes-Tripodi, L’idoneità del modello organizzativo, in Centonze-Mantovani (a cura di), La responsabilità penale degli enti, Bologna, 2016, 142; De Nicola-Mancuso, Il rapporto tra il modello di organizzazione e gestione e il sistema di gestione della salute e sicurezza sul luogo di lavoro; lo “strano” caso dell’art. 30, D. Lgs. 81/2008, in Giur. pen., n. 1 bis/2021, 207.

[22] Sereni, L’ente guardiano. L’autorganizzazione del controllo penale, Torino, 2016, 91 ss.

[23] Tripodi, L’elusione fraudolenta nel sistema della responsabilità da reato degli enti, Padova, 2013, 80 ss. V. da ultimo Id., L’elusione fraudolenta del modello: prove di gestione ermeneutica, cit., 637.

[24] Cass. pen., Sez. V, 30.01.2014, n. 4677, cit.: sul punto approfonditamente si veda Sereni, L’ente guardiano, cit., 85 ss. A tale pronuncia fanno seguito altre decisioni analoghe, come Cass. pen., Sez. II, 9.12.2016, n. 52316, in materia di responsabilità collettiva nell’ambito dei gruppi di società.

[25] In dottrina condividono la concezione oggettivistica, tra gli altri, Pulitanò, La responsabilità “da reato” degli enti: i criteri di imputazione, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, 415 ss.; Alessandri, Riflessioni penalistiche sulla nuova disciplina, in Alessandri (a cura di), La responsabilità amministrativa degli enti, Milano, 2002, 25 ss.

[26] Il richiamo, in ordine alla nota dicotomia, è a Pedrazzi, Errore e inganno nei delitti contro il patrimonio, Milano, 1955, 271, come ripreso anche da Tripodi, L’elusione fraudolenta del modello: prove di gestione ermeneutica, cit., 634.

Il rischio insito nella impostazione oggettivistica è, ad ogni modo, ravvisabile nella circostanza che l’idoneità dei controlli, in relazione alla quale occorre verificare la fraudolenza, sia oggetto di un giudizio operato con la logica del «senno di poi», essendo «sempre possibile individuare una carenza organizzativa che, qualora fosse stata correttamente presidiata ex ante, avrebbe impedito la violazione del modello o avrebbe, comunque, imposto un più complicato sforzo decettivo»: in questi termini Fusco e Paliero, op. cit., 141. Parlano, in ordine alla dimostrazione della fraudolenza, di «probatio diabolica», Ferrua, Le insanabili contraddizioni nella responsabilità d’impresa, in D&G,2001, 80 e Gennai-Traversi, La responsabilità degli enti per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato. Commento al D. Lgs. 8 giugno 2001, n. 231,Milano, 2001, 48. Si tratta di un «onere probatorio ciclopico»in capo all’ente, con la conseguenza, tra l’altro, di appiattire su paradigmi oggettivistici la colpevolezza dell’ente, secondo Paliero, Soggettivo e oggettivo nella colpa dell’ente: verso la creazione di una “gabella delicti”?, in Le Società, 2015, 1285. A considerare «autenticamente diabolico» l’avverbio «fraudolentemente»contenuto nella norma è anche Piergallini, Una sentenza “modello” cit., 10 s. 

[27] Cass. pen., Sez. VI, 15.06.2022, n. 23401, cit.

[28] Cass. pen., Sez. V, 30.01.2014, n. 4677, cit.

[29] Cass. pen., Sez. VI, 15.06.2022, n. 23401, cit.

[30] Così, in dottrina, Fusco e Paliero, op. cit., 136.

[31] V. Santoriello, Una ragionevole ricostruzione della nozione di “elusione fraudolenta” del modello da parte dei vertici aziendali, in Il Penalista, 25 luglio 2022. 

[32] Pelissero, La responsabilità degli enti, in Manuale di diritto penale, XIII ed., a cura di Grosso, Milano, 2007, 871; Gargani, Delitti colposi, commessi con violazione delle norme sulla tutela della sicurezza sul lavoro: responsabile per definizione la persona giuridica?, in Aa. VV., Studi in onore di M. Romano, a cura di Bertolino-Eusebi-Forti, III, Napoli, 2013, 1961.

[33] V., tra gli altri, Guidi, La problematica compatibilità tra i criteri generali di ascrizione della responsabilità agli enti e l’art. 25 septies d.lgs. 231/2001, in Casaroli-Giunta-Guerrini-Melchionda (a cura di), La tutela penale della sicurezza, Pisa, 2015, 139 ss.; Ielo, Lesioni gravi, omicidi colposi aggravati dalla violazione della normativa antinfortunistica e responsabilità degli enti, in Resp. amm. soc. ed enti, 2008, 66.

[34] Tripodi, L’elusione fraudolenta del modello: prove di gestione ermeneutica, cit., 638. Cfr. altresì Castronuovo, Art. 25 septies, in Castronuovo-De Simone-Ginevra-Lionzo-Negri-Varraso (a cura di), Compliance. Responsabilità penale degli enti collettivi, Milano, 2019, 630.

[35] Gargani, Delitti colposi, cit., 1962 ss.

[36] Tripodi, ult. op. cit., 640.

[37] Cass. pen., Sez. VI, 15.06.2022, n. 23401, cit.

[38] Così Fusco e Paliero, op. cit., 137 ss., sottolineando che non siano ravvisabili problemi sotto il profilo della legittimità costituzionale in ordine a «una siffatta manipolazione del Tipo», la quale peraltro presenta una efficacia esimente, operando comunque in favorem rei. Altresì gli Autori evidenziano «che il concetto di cui discutiamo – sia esso indicato con i significanti frode e suoi derivati, truffa o altra espressione della stessa classe semantica – possa comprendere modelli comportamentali assai precisamente caratterizzati. Si tratta di comportamenti proattivi, causalmente orientati, indipendenti da rapporti speciali o da qualifiche personali che riguardino autore e vittima del reato; sono pure assenti note di disvalore intrinseco della condotta di sapore etico, che possano richiamare il concetto anglosassone, assai più vago e in parte anche extrapenalistico, di cheating (“fare il furbo”, essere sleale, barare al gioco), ma è in ogni caso la diversità di contesto che spiega come lo stesso significante “frode/fraudolento” ad esempio assuma, nella interpretazione giurisprudenziale, significati così divergenti sotto il profilo contenutistico e anche sistematico a seconda che venga declinato all’interno delle fattispecie di cui all’art. 640 c.p., piuttosto che all’art. 2621 c.c. o, ancora all’art. 223 co. 2 l. f.». Ai predetti Autori si rinvia pure per gli opportuni approfondimenti bibliografici sul procedimento linguistico dell’«intensione».

[39] Per un approfondimento circa i possibili significati e le diverse declinazioni penalistiche dell’avverbio de quo si rimanda al lavoro di Tripodi, L’elusione fraudolenta nel sistema della responsabilità da reato degli enti, cit., passim.

[40] Sul tema v. Piergallini, Una sentenza “modello” cit., 5; Tripodi, L’elusione fraudolenta del modello: prove di gestione ermeneutica, cit., 642 s.

[41] Per una ricostruzione dei risvolti fattuali ancor prima di quelli giudiziali della vicenda si rimanda all’approfondimento pubblicato su la Repubblica, Bt Italia, in primo grado otto condanne e tredici assoluzioni, 25 gennaio 2024.

[42] Cass. pen., Sez. VI, 15.06.2022, n. 23401, cit.

[43] V. Tripodi, ult. op. cit., 643.

[44] Ibidem. Diversamente Fusco e Paliero, op. cit., 143, i quali escludono la tesi che si tratti di una decisione «lassista», quantunque si adotti una linea garantista nell’interpretazione della disciplina dello schema imputativo della responsabilità collettiva per il reato dell’apicale.

[45] Paliero, Responsabilità dell’ente e cause di esclusione della colpevolezza, cit., 481.

[46] Cfr. sul punto Blaiotta, Sicurezza del lavoro e responsabilità dell’ente. Alla ricerca di una dogmatica, in Sist. pen., n. 5/2020, 66 s.

[47] Approfonditamente sulle forzature che l’adozione di parametri di questo tipo può comportare sul giudizio di validazione del MOG, Santoriello, Una ragionevole ricostruzione, cit., il quale peraltro rimarca come «l’onere organizzativo della persona giuridica (non consiste nel predisporre un assetto organizzativo idoneo ad escludere ogni possibilità di commissione dell’illecito, ma) si esaurisce nella predisposizione di procedure atte ad ostacolare, a rendere meno agevole e quindi meno probabile nel suo verificarsi la commissione di illeciti da parte degli apicali dell’impresa […]». Ed «[…] è rispetto a tali procedure (che abbassano il rischio di violazione della legge penale senza però eliminarlo del tutto) che va valutata la presenza di un’elusione fraudolenta».

[48] Per analoghe considerazioni in prospettiva di riforma si vedano Piergallini, Premialità e non punibilità nel sistema della responsabilità degli enti, in Dir. pen. e proc., n. 4/2019, 534 s.; Id., Una sentenza “modello” della Cassazione, cit., 10 s.; Tripodi, ult. op. cit., 634 s.; Castaldo, L’idoneità dei modelli organizzativi. Prospettive de iure condendo, in Fiorella-Gaito-Valenzano (a cura di), La responsabilità dell’ente da reato nel sistema generale degli illeciti e delle sanzioni anche in una comparazione con i sistemi sudamericani. In memoria di Giuliano Vassalli, Roma, 2018, 415; Cipolla, L’elusione fraudolenta dei modelli di organizzazione, in Arch. pen. web, 2, 2013, 6. Nella stessa direzione, si richiama altresì, nella sede legislativa, l’elaborato della Commissione Greco, costituita con d. l. 23 maggio 2007, nel quale si proponeva proprio l’eliminazione del requisito della elusione fraudolenta (soprattutto perchè incompatibile con il reato-presupposto colposo).

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