- La nuova aggravante del reato di istigazione a disobbedire alle leggi e l’inserimento del reato d’opinione nella lista dei reati ostativi alla concessione di misure alternative alla detenzione
Con il Disegno di legge 1660 si vorrebbe introdurre una nuova aggravante al comma 2 dell’art. 415 c.p., vale a dire al reato di istigazione a disobbedire alle leggi e all’odio fra le classi sociali. La predetta circostanza prevedrebbe un aggravamento della pena qualora la condotta sia diretta ad istigare persone recluse in carcere. La norma fa riferimento a chiunque pubblicamente incita alla disobbedienza alle leggi di ordine pubblico all’interno di un istituto penitenziario o con scritti o comunicazioni diretti a persone detenute.
Il reato previsto dall’art. 415 c.p. verrebbe poi inserito dall’art. 32 del medesimo Disegno di legge, nell’elenco di cui all’art 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, vale a dire fra i reati ostativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione, al pari di reati gravissimi quali l’omicidio e la prostituzione minorile.
Questo eventuale inserimento comporterebbe, peraltro, un importante effetto sulle misure cautelari, in quanto il giudice, nell’applicare la misura, potrebbe disporre la custodia inframuraria anche qualora la pena comminabile all’esito del giudizio risultasse inferiore a tre anni di reclusione. L’art. 275 co. 2 bis c.p.p. infatti esclude espressamente l’operatività del richiamato limite applicativo per i reati ostativi.
L’introduzione dell’aggravante in discorso, così come l’introduzione dei reati di cui si dirà nel successivo paragrafo, rimanda direttamente alle proteste carcerarie verificatesi in occasione dell’emergenza pandemica del 2020 e alla loro discutibile gestione. Numerose sono state le manifestazioni di solidarietà con i detenuti in protesta, alcune delle quali hanno dato vita a denunce proprio per il reato di cui all’art 414 c.p.. Vale la pena ricordare che in alcune occasioni, le proteste dei detenuti vennero duramente represse da parte della polizia penitenziaria e le relative condotte sono oggi oggetto di accertamento processuale con riferimento a gravi reati, quali la tortura e l’omicidio colposo. È dunque in un quadro pervaso da profonde tensioni interne agli istituti penitenziari ed inevitabilmente riflesse in un più ampio dibattito pubblico sulla situazione di oggettiva illegalità determinata dal sovraffollamento carcerario, che si vorrebbe introdurre un’aggravante al delitto di istigazione a disobbedire alle leggi nell’ipotesi in cui la condotta istigatrice sia rivolta ai detenuti.
Al contempo l’ipotesi aggravata andrebbe a innestarsi su una fattispecie abitualmente ricondotta ai c.d. reati d’opinione, con ogni conseguente frizione con il principio di materialità. Infatti, le condotte istigatrici, si manifestano per mezzo di opinioni proferite verbalmente o per iscritto, piuttosto che con atti materiali, e, a differenza che in altri reati commessi per mezzo della parola (es. la minaccia), questa non costituisce lo strumento diretto di offesa al bene giuridico, ma solo il possibile tramite fra la diffusione di un’idea e l’eventuale realizzazione di un’offesa. In altre parole, è solo per ‘mezzo’ di un soggetto terzo istigato che il bene giuridico può essere concretamente posto in pericolo.
Appare, dunque, evidente, già ad una prima lettura, come la generica criminalizzazione di condotte istigatrici ponga dei problemi su un duplice fronte. In primo luogo, essa restringe la libertà costituzionalmente riconosciuta di manifestare le proprie idee; sotto altro aspetto, ne risultano inevitabilmente lesi i principi di materialità e offensività.
Il solo fatto di evocare con la parola o con lo scritto dei reati già commessi in passato può trovare limitazione nelle fattispecie apologetiche, così come il semplice riferimento a reati che potrebbero essere commessi in futuro può essere astrattamente sussunto nelle fattispecie istigatrici, peraltro estese dall’art. 415 c.p. anche alla semplice disobbedienza alle leggi di ordine pubblico o all’odio di classe. In tali casi, l’esternazione dell’idea o dell’opinione non si traduce, peraltro, in un concreto comportamento illecito da parte di altro soggetto (caso in cui l’istigatore ne risponderebbe, ovviamente, a titolo di concorso morale), ma resta per l’appunto una mera manifestazione di pensiero.
Si tratta a ben vedere di un notevole arretramento della soglia di punibilità, come avviene abitualmente in tutti i reati di pericolo, ma con la particolarità appunto che il momento consumativo coincide esattamente con la prospettazione di un’idea, la proposta di intenti, il giudizio di valore su fatti accaduti o suscettibili di accadere, anziché con la predisposizione di atti propedeutici alla realizzazione di condotte materiali.
Affinché tali fattispecie possano comunque trovare una qualche cittadinanza nel nostro ordinamento esse non possono, pertanto, porsi in stridente contrasto con i principi costituzionali. Le ipotesi delittuose istituite in epoca antecedente a quella repubblicana, non necessitavano, all’epoca, di essere poste a confronto con l’ancora inesistente art. 21 Cost. che riconosce espressamente il diritto di esprimere le proprie idee, nonché con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, laddove all’art. 19 stabilisce che “ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza frontiere”.
Nell’attuale quadro istituzionale, democratico e costituzionale, si è resa viceversa obbligata un’interpretazione costituzionalmente orientata che potesse aiutare a discernere la libera manifestazione del pensiero dall’istigazione e dall’apologia penalmente rilevanti.
Chiamata ad assumere tale compito la Corte Costituzionale ha chiarito che “l’apologia punibile è solo quella comunicazione che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti (…) (Corte. Cost. Sent. n. 65 del 1970)”. La questione di costituzionalità era stata sollevata in un caso in cui veniva contestata l’istigazione a disobbedire all’art. 173 c.p.m.p., per un articolo sugli obiettori di coscienza alla leva militare, chiaro esempio di come argomentazioni dissenzienti finiscano spesso per divenire, poi, parte del comune bagaglio di civiltà di uno Stato, ulteriore ragione per diffidare della criminalizzazione delle idee.
In una ulteriore pronuncia il Giudice delle Leggi ha poi chiarito che la linea di demarcazione fra libertà del pensiero e istigazione penalmente rilevante è data dalla concretezza del pericolo che la condotta abbia effettivamente provocato al bene giuridico tutelato (Corte Cost. Sent. N.108 del 1974).
E ancora, in relazione alla contravvenzione di apologia del fascismo ex art. 5 della legge del 1952, la Corte Costituzionale ne ha sostenuto la perdurante legittimità solo nella misura in cui la stessa, costituzionalmente interpretata, non si riferisca, né mai potrebbe, a qualsiasi esternazione ed esaltazione del regime fascista e ai suoi delitti ma solo a quelle che trovano nel momento e nell’ambiente in cui sono compiute, circostanze tali, da renderle idonee a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste (Corte Cost. n. 74 del 1958).
Possiamo dunque affermare che il discrimine fra la libera espressione e la condotta istigatrice penalmente rilevante sia ravvisabile in quattro criteri sintomatici individuati dalla Giurisprudenza: a) il dato letterale delle espressioni; b) la diffusione del messaggio; c) l’autorevolezza dell’istigatore; d) il contesto spazio temporale in cui è svolta l’istigazione o l’apologia.
Seguendo tali dettami la Corte di Cassazione ha ritenuto di precisare come l’indispensabile idoneità a suscitare consensi alla commissione di reati vada valutata per ciò che qui interessa, con particolare attenzione in relazione al contesto spazio temporale in cui si svolge l’azione e alla qualità dei destinatari del messaggio. Infatti, occorre che il comportamento dell’agente sia tale da determinare il rischio, non teorico ma effettivo della commissione dell’altrui reato: “la condotta apologetica, consistente nella rievocazione pubblica di un episodio criminoso, deve avere concreta capacità di provocare l’immediata esecuzione di delitti o, quanto meno, la probabilità che essi vengano commessi in un futuro più o meno prossimo” (cfr. Cass. Pen. Sez. I, id. 17/11/1997, n. 11578 ric. Gizzo; Cass. pen. sez. I sent. n. 40552 del 20/10/2009)”, e, più recentemente, “dovendo il gesto apologetico manifestarsi con caratteristiche tali da rendere obiettivamente probabile, non astrattamente possibile la commissione di reati” (Cass. Pen. Sez. VI, ud. 18/04/2019, n. 31562). Inoltre, in tema di delitti contro lo Stato, ha chiarito che “non basta l’esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole esso possa apparire alla generalità delle persone dotate di un minimo di sensibilità umana, ma occorre che il comportamento dell’agente sia tale per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell’autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, della commissione di altri reati e, specialmente, di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato” (Cass. Pen. Sez. I del 5. 5. 1999 n. 8779).
Nelle citate pronunce risulta importante il richiamo al termine “probabilità” in luogo di “possibilità”, poiché quasi tutto è possibile in ipotesi, mentre probabili sono solo alcuni eventi, i quali appunto è più verosimile che accadano che non, o che comunque hanno una buona percentuale di possibilità che si realizzino e non solo una ipotetica astratta possibilità. Siamo infatti in presenza di reati di pericolo concreto, valutabile sulla base di un giudizio ex ante, e ritenuto idoneo a provocare la commissione di condotte materiali.
Indifferente è poi l’odiosità e la gravità di quanto istigato o glorificato, atteso che, come chiarito anche dalla Corte Europea, “la libertà di espressione vale non solo per le informazioni o idee accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti ma anche per quelle che offendono, indignano o turbano lo Stato o una qualsiasi parte della popolazione. Così vogliono il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non vi è società democratica” (cfr. sent. Lehideux et Isorni c Francia 23 settembre 1998, ric. n. 24662/94 par. 55; caso in cui venne ritenuta errata la condanna per un testo che esaltava il presidente francese Petain, collaborazionista nazista durante la seconda guerra mondiale) Il principio è stato da ultimo richiamato nel caso dello storico Perinçek, il quale era stato condannato in Svizzera per aver sostenuto che l’uccisione degli armeni ad opera dell’Impero Ottomano non potesse essere definito giuridicamente come genocidio. La Corte ha ritenuto errata la decisione svizzera che condannava lo stesso per il reato apologetico di crimini contro l’umanità (Perinçek c. Suisse, 17 dicembre 2013).
Numerose sono ad ogni modo le sentenze che hanno ribadito tale concetto (sent. Handyside c. Regno Unito 7/12/1976 ric. n. 5493/72 par. 49; sent. Otto Preminger Institut c. Austria 20/9/1994 ric. n. 13470/87 par. 49; Du Roy et Malaurie c. Francia 3/10/2000 ric. n. 34000/96 par. 27).
Occorre a questo punto ricordare che il reato di cui all’art. 415 c.p. è stato a sua volta oggetto di un precedente vaglio da parte della Corte Costituzionale per ciò che attiene alla condotta istigatrice dell’odio fra le classi sociali (secondo periodo del comma 1 dell’art. 415 c.p.). La Corte ha infatti dichiarato l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non limitava tale condotta delittuosa a quell’istigazione capace di realizzare effetti concreti sulla pubblica tranquillità (Sent. Cost. n. 108/74). A ben vedere è ravvisabile continuità con i principi sopra esposti.
Alla luce dei correttivi introdotti dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità ed in ragione del fatto che l’istigazione non accolta si distingue dal concorso morale per via della mancata adesione da parte di terzi al proposito delittuoso, ritiene chi scrive che si potrebbe semplificare affermando che l’istigazione costituzionalmente punibile si ponga come una sorta di tentativo di concorso morale, in quanto il fatto illecito non si realizza per la mancata adesione del terzo (circostanza non derivante dalla volontà dell’agente) ma ciò non toglie che la condotta istigatrice, possa essere ritenuta penalmente rilevante, solo laddove sia idonea alla realizzazione dell’intento. I requisiti individuati dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione ed i parametri della Corte Europea devono ritenersi criteri di idoneità in tal senso.
Occorre tuttavia precisare che tali importanti pronunce, non hanno impedito il proliferare negli ultimi anni di numerosi procedimenti, iscritti dalle Procure di tutta Italia, per le manifestazioni di pensiero più disparate: dalla pubblicazione di lettere di detenuti passate per tramite della censura, ai cori goliardici cantati in occasione di cortei o manifestazioni statiche, passando per gli imbrattamenti qualificati come istigazione con finalità di terrorismo (particolarmente emblematica in tal senso l’accusa di istigazione con aggravante eversiva per la scritta “pagate la cassa integrazione” seguita dal simbolo anarchico), finendo con le canzoni dei rapper accusati di istigare alla ricostruzione di formazioni terroristiche degli anni di piombo. Si ricordano, per finire, le accuse per libri di noti scrittori italiani e per tesi di laurea di giovani studenti, solidali con il movimento No Tav.
All’interno di questo quadro si inserisce il nuovo reato di istigazione a disobbedire alle leggi in carcere, la cui funzione apparente è quella di fornire una tutela preventiva rispetto ad altri due ulteriori reati di cui si propone l’inserimento: quello di rivolta in carcere e quello di rivolta nel c.p.r. entrambi configurabili anche per mezzo di resistenza passiva, della quale si dirà in seguito.
Come accennato, l’aspetto più significativo e critico della modifica dell’art. 415 c.p. appare tuttavia quella dell’iscrizione dello stesso nell’elenco dei delitti di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, con conseguente ostatività, in caso di condanna, alle misure alternative alla detenzione.
Desta sconcerto che proprio un reato che dovrebbe costituire un retaggio di una cultura giuridica illiberale, nonché un’eccezione straordinaria in ragione del proprio labile rapporto con la materialità e apparente contrasto con il diritto di manifestare il proprio pensiero, sia introdotto nella stessa lista di delitti gravissimi, con la conseguenza di non permettere la concessione di misure alternative alla detenzione. Non solo si rafforza dunque un reato d’opinione con una nuova aggravante, ma addirittura si sceglie di rinforzarne la deterrenza con lo spauracchio del carcere come unica pena possibile.
Si noti che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, ma con argomentazioni a fortiori applicabili al caso di specie, la Corte Costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità della norma penale nella parte in cui obbliga il giudice ad applicare una pena detentiva, proprio in ragione del diritto di manifestazione del pensiero che ne appare frustrato (Sent. Cost. 150/21). Ci si augura che medesima sorte possa avere, qualora introdotta, la norma prevista dall’art. 32 del DDL.
2. I nuovi reati di rivolta in carcere ex art. 415 bis c.p. e rivolta nei c.p.r. ex art. 14 t.u. imm., configurabili anche con resistenza passiva
Un’altra delle innovazioni che verrebbe introdotta con l’approvazione del disegno di legge, da prendere in considerazione con particolare attenzione, riguarda i nuovi reati istituiti con l’art. 415 bis c.p. e con la modifica dell’art. 14 del testo unico immigrazione.
I due delitti, pur riguardando situazioni di fatto differenti, e rubricati infatti rispettivamente come “Rivolta carceraria” e “disposizioni in materia di rafforzamento della sicurezza delle strutture di trattenimento” (c.d. C.P.R.), mirano a reprimere le medesime condotte, distinguendosi appunto per il luogo di commissione degli stessi, a seconda che si tratti di istituti di pena o di detenzione amministrativa.
Ci si limiterà pertanto, dopo alcuni brevi cenni sulle norme citate, ad affrontare l’aspetto più preoccupante introdotto dalle stesse. Vale a dire l’inserimento della condotta di resistenza passiva fra quelle per mezzo delle quali è possibile consumare il delitto, contrariamente a quanto stabilito dalla Giurisprudenza in tema di resistenza ex art. 337 c.p. per il soggetto non ristretto.
La nuova norma di cui all’art. 415 bis c.p., qualora approvata, sanzionerebbe chiunque all’interno di un istituto penitenziario, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione di ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite. Per espressa previsione della norma, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
Il reato è punito con una pena da 1 a 5 anni, aumentabile da 2 a 8 per i promotori, da 2 a 6 per i partecipanti se dal fatto derivano lesioni e da 4 a 12 per i promotori nel medesimo caso. Se dalla rivolta deriva come conseguenza non voluta la morte di alcuno la pena è della reclusione da 7 a 12 anni mentre in caso di lesioni gravi o gravissime e di morte di più persone la pena della sanzione più grave è aumentata fino al triplo.
L’art. 27 del DDL modifica in senso analogo l’art. 14 del Testo unico immigrazione introducendo per le medesime condotte, ivi comprese quelle passive, un reato punibile con reclusione da 1 a 4 anni, aumentata da 1 anno e 6 mesi a 5 anni per i promotori, da 2 anni a 6 in caso ne derivino come conseguenza non voluta lesioni gravi o gravissime e da 4 a 12 in tale medesimo caso per i promotori. Per finire la sanzione sarebbe da 7 a 15 anni o da 10 a 18, sempre distinguendo partecipanti e promotori, se dalla rivolta derivi come conseguenza non voluta la morte di alcuno, a prescindere dalle azioni specifiche del soggetto, il quale potrebbe aver concorso per mezzo della mera inottemperanza di cui si è detto.
Venendo a quello che è l’aspetto critico delle due novelle, occorre ricordare che nel nostro ordinamento per resistenza possono intendersi, sulla base di un’interpretazione sistematica che fa riferimento all’art. 337 c.p., quegli atti che comportino in alternativa, condotte di minaccia o di violenza poste in essere per impedire lo svolgimento delle funzioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.
Proprio in merito al reato di cui all’art. 337 c.p. la Giurisprudenza ha avuto modo di chiarire negli anni che non comportano resistenza né le condotte non violente, né quelle in cui la violenza si limiti ad un’azione non diretta a cagionare del male all’agente, ma come conseguenza non voluta di azioni di autoconservazione quali ad esempio il divincolamento.
Nello specifico può integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale la condotta di divincolamento “ogniqualvolta non costituisca una specie di reazione spontanea ed istintiva alla costrizione operata dal pubblico ufficiale ma integri invece un vero e proprio impiego di forza, diretto a neutralizzare l’azione del pubblico ufficiale ed a sottrarsi alla presa” (Cass. Sez. VI, ud. 5/3/2010, n. 8991). Del pari, è ormai pacifico in Giurisprudenza l’orientamento che indica come criterio discretivo della violenza nell’azione della fuga la sussistenza o meno della messa in pericolo dell’incolumità degli agenti o degli avventori della strada, di talché la mera fuga anche in auto, la quale non ponga in pericolo alcuno, non può essere assimilata né alla minaccia né alla violenza necessarie per consumare il delitto in esame. Sul punto la Suprema Corte ha chiarito che “integra l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 337 c.p. la condotta di chi, per sfuggire all’intervento delle forze dell’ordine, si dia ad una fuga che metta in pericolo l’incolumità degli utenti della strada e costringa le forze di polizia ad un inseguimento pericoloso” (Cass. Pen. IV, 14/07/2006, Campiciello; conforme Cass. Pen., Sez. I, 04/07/2019, n. 41408). Al contrario “non è ravvisabile il delitto ex art. 337 c.p. nei confronti di chi si limiti a una fuga in auto passiva, attuata cioè con modalità che non mettano in pericolo l’incolumità fisica degli agenti inseguitori o degli utenti della strada” (Cass. Pen. Sez. VI, 02/ 02 /2017, n. 17061).
Ulteriore limite apposto dalla giurisprudenza riguarda il rapporto teleologico che intercorre fra tali condotte e l’impedimento o la limitazione dello svolgimento delle funzioni dell’operante.
L’azione deve poi essere idonea a tale scopo, deve cioè poter concretamente poter interrompere o rallentare l’operato del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.
In assenza di tale connessione con l’atto del pubblico ufficiale ed in assenza di idoneità dell’azione (ivi compreso in caso di violenza) non potrà infatti ritenersi sussistere il reato. Lo svolgimento di una funzione da parte del pubblico ufficiale, in caso di resistenza, rileva ai fini della sussistenza dell’elemento oggettivo, mentre il fine specifico di impedire tale azione arricchisce la norma penale, e quindi restringe il penalmente rilevante garantendo il cittadino, ai soli fatti in cui l’agente miri espressamente ad ostacolare l’azione della pubblica amministrazione.
Infatti “nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale il dolo specifico si concreta nel fine di ostacolare l’attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto, cosicché il comportamento che non risulti tenuto a tale scopo, per quanto eventualmente illecito ad altro titolo, non integra il delitto in questione” (Cass. pen., Sez. VI, 04/05/2005, n. 37959).Nel caso richiamato l’agente di p.s. era stato addirittura aggredito, ma successivamente rispetto il compimento del proprio compito, la funzione non era stata ostacolata né l’imputato poteva interrompere, dopo, ciò che era avvenuto prima.
Nell’ipotesi delittuosa di nuovo conio, nella parte in cui si fa riferimento alla resistenza passiva, viceversa, si intende sanzionabile non l’azione che impedisce quella del pubblico ufficiale, quanto l’omessa obbedienza all’ordine dallo stesso impartito, anzi all’ordine impartito da qualsiasi membro appartenente al personale carcerario, anche privo di qualifica di pubblico ufficiale, stante il riferimento all’incaricato di pubblico servizio. La resistenza viene intesa, ci si spinge a dire, anche in termini di reato omissivo la cui condotta appare quella del mancato rispetto dell’ordine impartito.
Per finire, perché possa parlarsi di resistenza, come accennato, l’azione deve essere idonea ad impedire, almeno potenzialmente, lo svolgimento dell’attività del pubblico ufficiale. La condotta deve infatti “consistere in un comportamento idoneo ad opporsi all’atto che il pubblico ufficiale sta legittimamente compiendo, in grado di ostacolarne la realizzazione, sicché in mancanza di elementi che rendano evidente la messa in pericolo dell’incolumità e l’indiretta coartazione psicologica dei pubblici ufficiali, l’agente non deve rispondere di tale reato” (Cass. Sez. VI, 08/07/2002, n. 35448; De Santi).
Viceversa, lo si dice per completezza, non sarà mai invocabile la tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p., istituto appositamente escluso nel caso di resistenza a pubblico ufficiale già dal decreto sicurezza c.d. Salvini bis.
L’introduzione delle nuove fattispecie, pur facendo riferimento all’impedimento delle funzioni dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio, pone un duplice problema. In primo luogo, introduce come criteri di idoneità, espressamente, il numero delle persone coinvolte e il contesto in cui operano i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio, di fatto rendendo applicabile la norma a qualsiasi manifestazione di dissenso, con esclusione, forse di quella del singolo detenuto. Sotto altro aspetto, come già detto, facendo rientrare nella condotta di resistenza anche la resistenza passiva, spingendosi financo a ricomprendervi la semplice inottemperanza agli ordini, si crea un doppio standard di offensività a seconda che la condotta venga posta in essere dal detenuto o dal soggetto libero.
Vale la pena ricordare che proprio in uno dei casi per torture in carcere, noto alle cronache, gli agenti sono accusati anche di aver prodotto annotazioni false per giustificare i pestaggi dei detenuti, i quali avevano in realtà, era emerso dalle indagini, posto in essere dei meri mancati rientri in cella, temporanei, per protestare contro il divieto di colloquio con i familiari. Ebbene, per assurdo, introdotta la nuova norma, quei detenuti sarebbero imputati al pari degli agenti.
Come noto, il mancato rientro in cella e la battitura rappresentano alcuni dei pochi mezzi di protesta delle persone detenute. La previsione del reato in oggetto appare estremamente limitante il diritto di manifestazione del pensiero e della critica laddove prevede la punibilità di condotte passive o semplicemente omissive, non violente. Desta inoltre preoccupazione la possibile ricaduta interpretativa. A parere di chi scrive, il Legislatore, fornendo una descrizione di resistenza che comprenda anche quella passiva, apre una breccia nel sistema generale.
Sarà necessario prestare attenzione, dunque, qualora la norma entri in vigore, ad una possibile estensione di questa nuova concezione di resistenza, passiva ed omissiva, oggi prevista per i reclusi (condannati e non) domani forse per tutti. L’esperienza ci insegna, infatti, che norme destinate a categorie considerate degne di minore tutela, tendono poi ad essere estese a settori più vasti della popolazione.
Per finire, si noti che questo nuovo delitto viene inserito, per tramite dell’art. 32 del DDL, nell’elenco di cui all’art. 4 bis O.P., vale a dire fra quelli c.d. ostativi, ma di tale peculiarità si è già detto, accomunando tale fattispecie con quella dell’art. 415 c.p., per cui si rimanda a quanto già scritto.
3. Brevi cenni in relazione ad ulteriori innovazioni limitative del diritto di manifestazione del pensiero previste dal DDL. Blocchi stradali, aggravante c.d. No Ponte, terrorismo della parola.
Senza pretesa di esaustività, appare necessario svolgere brevi cenni in relazione ad ulteriori norme che verrebbero introdotte dalla Legge in esame e che meritano l’attenzione degli operatori del diritto in ragione del loro forte impatto sul diritto di manifestazione del pensiero, in termini simili a quelli già esposti.
Ci si riferisce in particolare all’elevazione a delitto della condotta di blocco stradale, alla previsione dell’aggravante di aver commesso il fatto in occasione di manifestazioni contro le grandi opere nell’art. 339 c.p. eall’introduzione del c.d. reato di “terrorismo della parola”.
L’articolo 14 del Ddl novella l’art. 1-bis del D.lgs. n. 66 del 1948. Intervenendo sul primo periodo della citata norma, la modifica trasformando la sanzione amministrativa in illecito penale, sostituisce il pagamento della somma da euro 1.000 a euro 4.000 per chi impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo, con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro, ed estende tale condotta a chi impedisce la libera circolazione anche su una strada ferrata.
Come si ricorderà, in occasione del DL 113/2018 era stata già elevata a reato la condotta di chi ostruisse la strada con oggetti. La novella appare dunque in linea con i precedenti decreti sicurezza.
Ulteriore previsione del DDL, si ravvede nell’introduzione di un’aggravante speciale ad effetto speciale, per mezzo della sostituzione del secondo periodo della norma. Questa circostanza prevede l’inasprimento della pena da un minimo di sei mesi a un massimo di due anni se il blocco stradale o ferroviario, attuato con il proprio corpo, è commesso da più persone riunite.
A tale riguardo, allarma la dichiarazione del Ministro Piantedosi che, confermando i timori della società civile ed in particolare delle associazioni a tutela dei diritti sociali e civili nonché dei sindacati, ha affermato che ritiene la norma perfettamente applicabile in caso di scioperi che interrompano la regolare circolazione delle merci.
Tale previsione segue pertanto la scia dei numerosi tentativi dei vari uffici della Procura della Repubblica di criminalizzare gli scioperi con iscrizioni per violenza privata ai sensi dell’art. 610 c.p.. In questi casi, infatti, essendo il delitto in questione posto a tutela della persona e non degli utili aziendali, i Giudici hanno correttamente assolto gli scioperanti.
Sotto altro aspetto appare evidente che la norma potrebbe applicarsi a qualsiasi riunione pubblica e manifestazione di pensiero che, per la partecipazione alla stessa, comporti l’occupazione della sede stradale (si pensi agli studenti che scelgano di non fare ingresso a nell’istituto per protesta).
Ad avviso di chi scrive la novella si pone in netto contrasto con il diritto di manifestazione del proprio pensiero, non solo per come previsto dalla Carta fondamentale, ma anche per come interpretato dal Giudice delle Leggi in occasione della declaratoria di parziale incostituzionalità di altro reato, vale a dire della contravvenzione di manifestazione non preavvisata ex art. 18 Tulps.
A tale riguardo occorre ricordare, a questo punto, che nel nostro ordinamento il diritto di manifestazione è libero e non assoggettato né assoggettabile ad alcuna autorizzazione. Questa sarebbe infatti in contrasto con la libertà d’opinione, che non è relegabile ad alcuni momenti preordinati ma che sussiste costantemente in capo al cittadino.
Viceversa, incombe sul promotore di ogni manifestazione l’onere di preavvisare l’Autorità per tempo, così da permettere alla stessa, eventualmente, di vietarla e solo per ragioni, comprovate, di sicurezza o incolumità pubblica (art. 17 cost).
La norma di cui all’art. 18 Tulps sanziona colui che ometta di preavvisare lo svolgimento della manifestazione, e si indirizza pertanto al solo promotore. Prima dell’intervento della Corte, tuttavia, la norma puniva anche il partecipante che prendesse la parola in tale occasione. La Corte Costituzionale ha tuttavia stabilito, con sentenza n. 90 del 1970 l’incostituzionalità della norma nella parte in cui prevedeva la punibilità di altri soggetti oltre al promotore. Nella motivazione la Corte ha chiarito che “é da ritenere che l’articolo stesso contraddica alla Costituzione allorché commina pena contravvenzionale contro coloro i quali nelle riunioni predette prendano la parola. Se anche si dovesse ritenere che le garanzie costituzionali del diritto in parola non siano rivolte solo a quelle fra le riunioni che abbiano come proprio scopo le manifestazioni o lo scambio del pensiero, é tuttavia certo che a queste esse si rivolgono in via primaria, così da far considerare la libertà di riunione quale uno degli strumenti necessari per la soddisfazione di quell’interesse fondamentale dell’uomo vivente in società, di scambiare con gli altri le proprie conoscenze, opinioni, convinzioni: ed é perciò che la sua disciplina non può non esigere un coordinamento con quella che l’art. 21 detta per assicurare la libertà di manifestazione del pensiero. Ora appare evidente come contrasti con quest’ultima disposizione la sanzione penale irrogata contro coloro ai quali nessun altro addebito si fa all’infuori di quello di avere in una riunione preso la parola, cioè, esercitata la facoltà corrispondente alla più propria ragione d’essere della riunione medesima”.
Ebbene, per mezzo di tale pronuncia è stata chiarita l’incostituzionalità di qualsiasi norma tesa a punire il partecipante alla manifestazione, atteso che non risulta punibile quello che prenda la parola nella stessa men che meno colui che vi prenda solo parte. La condotta di chi vi prendesse parte non era infatti prevista dalla norma, ma una previsione del genere apparirebbe ancor più incostituzionale.
A parere di chi scrive, il nuovo reato di blocco stradale rischia di aggirare questo importante principio, rendendo penalmente sanzionabili tutti i partecipanti ad una manifestazione, qualora questa occupi la sede stradale, con la conseguenza di una restrizione notevole del diritto di manifestazione dei cittadini, ai quali sarà consentito verosimilmente manifestare solo laddove non possano essere uditi o visti da alcuno, con conseguente frustrazione del diritto di cui all’art. 21 Cost.
Altra innovazione allarmante appare la modifica dell’aggravante di cui all’art. 339 c.p..
Come noto, tale aggravante è già suscettibile di aumentare la pena dei reati di violenza e di resistenza a pubblico ufficiale e ad incaricato di pubblico servizio fino a 15 anni di reclusione, qualora concorrano le ipotesi delle più persone riunite o del travisamento o dell’uso di armi.
Con il DDL si vorrebbe inserire una nuova ipotesi aggravante, ulteriore, applicabile nel caso in cui le condotte di violenza o minaccia a p.u. siano dirette contro l’istallazione di grandi opere. Appare evidente che la norma sia diretta a sanzionare più gravemente le condotte poste in essere in occasione delle manifestazioni aventi ad oggetto le contestazioni alle c.d. grandi opere o opere ed infrastrutture strategiche dello Stato.
Ovviamente ciò che preoccupa gli operatori del diritto, di norma, è l’innalzamento dei minimi edittali più che dei massimi, in quanto i primi impongono al Giudicante maggiore severità in caso di condanna. Tuttavia, non è da ignorare l’effetto che hanno tali previsioni, che stabiliscono pene draconiane per circostanze di non particolare allarme sociale, sulla pena in concreto irrogabile, per mezzo della paralisi di qualsiasi effetto riduttivo derivante delle attenuanti, nonché ai fini della prescrizione e soprattutto in termini di applicabilità delle misure cautelari.
Tale innovazione rischia di permettere la differenziazione della sanzione penale non sulla base di una maggiore o minore gravità del fatto materiale e nemmeno sulla base delle ragioni maggiormente riprovevoli che muovono l’agente (come nel caso dei futili motivi), ma solo sulla base delle motivazioni ideologiche poste a fondamento del dissenso, vale a dire l’opposizione alla realizzazione della grande opera, le quali non possono considerarsi di per sè indice di maggiore o minore gravità.
Evidenti e molteplici dubbi di costituzionalità si pongono sulla norma in questione. L’impressione è che il Legislatore voglia utilizzare il diritto penale non per sanzionare più o meno adeguatamente fatti che minaccino beni giuridici degni di tutela, quanto piuttosto miri a dotarsi di strumenti preventivi per la repressione e la deterrenza di opinioni contrastanti o incidenti di percorso nella realizzazione dei propri progetti.
Ulteriore ipotesi su cui pare necessario invitare a riflettere è rappresentata dal c.d. reato di terrorismo della parola, rubricato “Detenzione di materiale con finalità di terrorismo” e che verrebbe introdotto con il nuovo articolo 270 quinquies-3 c.p.. La norma, introdotta dall’art. 1 del DDL, punirebbe chiunque consapevolmente si procuri o detenga materiale contenente istruzioni sulla preparazione o l’uso di congegni bellici, armi o su tecniche di sabotaggio a servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo.
La relazione introduttiva all’articolo parla di terrorismo della parola e dichiara espressamente che la norma tende a rispondere all’esigenza di poter fornire una soluzione a quello che viene percepito come un problema: il fatto che i Giudici, in casi simili “non hanno potuto che assolvere” i detentori di tale materiale.
Si ricorda infatti che le medesime condotte di possesso di libri e manuali con istruzioni come quelle citate, venivano ricondotte, con non molta precisione, all’ipotesi di cui all’art, 272 c.p., di propaganda sovversiva, oggi abrogato.
Ebbene appare preoccupante la criminalizzazione di testi scritti, i quali potrebbero essere detenuti per i motivi più disparati di studio, collezionismo, curiosità. Il reato sarebbe punito a titolo di dolo specifico prevedendo che la detenzione sia per fini di terrorismo, ma appare evidente la difficoltà di discernimento delle finalità in caso di semplice detenzione, in assenza di ulteriori specificazioni della norma.
In primo luogo, tale norma pare superare un importante limite posto dalla Giurisprudenza proprio in tema di aggravante ex art. 270 sexies c.p. di finalità di terrorismo, vale a dire quello per cui, “per determinarne la sussistenza, non è sufficiente il compimento di qualsivoglia azione politica violenta, essendo necessario che la condotta sia potenzialmente idonea a creare panico, terrore e diffuso senso di insicurezza” (Cass. Pen. I Sez., 21. 12. 2020 n. 36816). Ebbene il nuovo reato introdotto, ipotizzando che la finalità di terrorismo possa accompagnare la mera detenzione di un libro, rende in ipotesi estensibile a qualsiasi condotta l’aggravante richiamata, superando le corrette valutazioni della Cassazione.
Di fatto l’ipotesi rischia di invertire il processo di interpretazione: non sarà dai fatti gravi evincibile la finalità terroristica ma viceversa dalla presunta finalità in tal senso, verrà ritenuto grave anche un fatto di per sé irrilevante quale la detenzione di un libro.
Proprio in tema di elemento psicologico il Giudice di legittimità aveva chiarito infatti che “non è sufficiente l’atteggiamento psicologico dell’agente, ma è necessario che la condotta posta in essere sia concretamente idonea a realizzare uno degli scopi indicati nel predetto articolo (intimidire la popolazione, costringere i poteri pubblici e compiere o astenersi dal compiere un atto, destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali” (Cass. Pen. Sez I, sent. 24. 5. 2011 n. 29480). Ebbene l’esistenza in sé di un reato di terrorismo la cui condotta è limitata alla detenzione di materiale informativo pare in contrasto con quanto indicato dalla Corte e presta il fianco al prolificare di numerosi procedimenti aggravati dalla finalità di terrorismo per fatti che non sono capaci di ingenerare quel livello di intimidazione pubblica. Immaginando i futuri processi aventi ad oggetto il mero possesso di libri, appare impossibile non pensare al capolavoro distopico di Bradbury.
In conclusione, appare necessaria ed ineludibile una maggiore riflessione prima dell’approvazione delle norme e che in ogni caso dovrà esserne vagliata la compatibilità costituzionale.
Il dissenso nelle nuove fattispecie di reato e nelle aggravanti introdotte con il DDL sicurezza
Con il Disegno di legge 1660 si vorrebbe introdurre una nuova aggravante al comma 2 dell’art. 415 c.p., vale a dire al reato di istigazione a disobbedire alle leggi e all’odio fra le classi sociali. La predetta circostanza prevedrebbe un aggravamento della pena qualora la condotta sia diretta ad istigare persone recluse in carcere. La norma fa riferimento a chiunque pubblicamente incita alla disobbedienza alle leggi di ordine pubblico all’interno di un istituto penitenziario o con scritti o comunicazioni diretti a persone detenute.
Il reato previsto dall’art. 415 c.p. verrebbe poi inserito dall’art. 32 del medesimo Disegno di legge, nell’elenco di cui all’art 4 bis dell’Ordinamento penitenziario, vale a dire fra i reati ostativi alla concessione delle misure alternative alla detenzione, al pari di reati gravissimi quali l’omicidio e la prostituzione minorile.
Questo eventuale inserimento comporterebbe, peraltro, un importante effetto sulle misure cautelari, in quanto il giudice, nell’applicare la misura, potrebbe disporre la custodia inframuraria anche qualora la pena comminabile all’esito del giudizio risultasse inferiore a tre anni di reclusione. L’art. 275 co. 2 bis c.p.p. infatti esclude espressamente l’operatività del richiamato limite applicativo per i reati ostativi.
L’introduzione dell’aggravante in discorso, così come l’introduzione dei reati di cui si dirà nel successivo paragrafo, rimanda direttamente alle proteste carcerarie verificatesi in occasione dell’emergenza pandemica del 2020 e alla loro discutibile gestione. Numerose sono state le manifestazioni di solidarietà con i detenuti in protesta, alcune delle quali hanno dato vita a denunce proprio per il reato di cui all’art 414 c.p.. Vale la pena ricordare che in alcune occasioni, le proteste dei detenuti vennero duramente represse da parte della polizia penitenziaria e le relative condotte sono oggi oggetto di accertamento processuale con riferimento a gravi reati, quali la tortura e l’omicidio colposo. È dunque in un quadro pervaso da profonde tensioni interne agli istituti penitenziari ed inevitabilmente riflesse in un più ampio dibattito pubblico sulla situazione di oggettiva illegalità determinata dal sovraffollamento carcerario, che si vorrebbe introdurre un’aggravante al delitto di istigazione a disobbedire alle leggi nell’ipotesi in cui la condotta istigatrice sia rivolta ai detenuti.
Al contempo l’ipotesi aggravata andrebbe a innestarsi su una fattispecie abitualmente ricondotta ai c.d. reati d’opinione, con ogni conseguente frizione con il principio di materialità. Infatti, le condotte istigatrici, si manifestano per mezzo di opinioni proferite verbalmente o per iscritto, piuttosto che con atti materiali, e, a differenza che in altri reati commessi per mezzo della parola (es. la minaccia), questa non costituisce lo strumento diretto di offesa al bene giuridico, ma solo il possibile tramite fra la diffusione di un’idea e l’eventuale realizzazione di un’offesa. In altre parole, è solo per ‘mezzo’ di un soggetto terzo istigato che il bene giuridico può essere concretamente posto in pericolo.
Appare, dunque, evidente, già ad una prima lettura, come la generica criminalizzazione di condotte istigatrici ponga dei problemi su un duplice fronte. In primo luogo, essa restringe la libertà costituzionalmente riconosciuta di manifestare le proprie idee; sotto altro aspetto, ne risultano inevitabilmente lesi i principi di materialità e offensività.
Il solo fatto di evocare con la parola o con lo scritto dei reati già commessi in passato può trovare limitazione nelle fattispecie apologetiche, così come il semplice riferimento a reati che potrebbero essere commessi in futuro può essere astrattamente sussunto nelle fattispecie istigatrici, peraltro estese dall’art. 415 c.p. anche alla semplice disobbedienza alle leggi di ordine pubblico o all’odio di classe. In tali casi, l’esternazione dell’idea o dell’opinione non si traduce, peraltro, in un concreto comportamento illecito da parte di altro soggetto (caso in cui l’istigatore ne risponderebbe, ovviamente, a titolo di concorso morale), ma resta per l’appunto una mera manifestazione di pensiero.
Si tratta a ben vedere di un notevole arretramento della soglia di punibilità, come avviene abitualmente in tutti i reati di pericolo, ma con la particolarità appunto che il momento consumativo coincide esattamente con la prospettazione di un’idea, la proposta di intenti, il giudizio di valore su fatti accaduti o suscettibili di accadere, anziché con la predisposizione di atti propedeutici alla realizzazione di condotte materiali.
Affinché tali fattispecie possano comunque trovare una qualche cittadinanza nel nostro ordinamento esse non possono, pertanto, porsi in stridente contrasto con i principi costituzionali. Le ipotesi delittuose istituite in epoca antecedente a quella repubblicana, non necessitavano, all’epoca, di essere poste a confronto con l’ancora inesistente art. 21 Cost. che riconosce espressamente il diritto di esprimere le proprie idee, nonché con la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, laddove all’art. 19 stabilisce che “ogni individuo ha diritto alla libertà di opinione e di espressione, incluso il diritto di non essere molestato per la propria opinione e quello di cercare, ricevere e diffondere informazioni e idee attraverso ogni mezzo e senza frontiere”.
Nell’attuale quadro istituzionale, democratico e costituzionale, si è resa viceversa obbligata un’interpretazione costituzionalmente orientata che potesse aiutare a discernere la libera manifestazione del pensiero dall’istigazione e dall’apologia penalmente rilevanti.
Chiamata ad assumere tale compito la Corte Costituzionale ha chiarito che “l’apologia punibile è solo quella comunicazione che per le sue modalità integri comportamento concretamente idoneo a provocare la commissione di delitti (…) (Corte. Cost. Sent. n. 65 del 1970)”. La questione di costituzionalità era stata sollevata in un caso in cui veniva contestata l’istigazione a disobbedire all’art. 173 c.p.m.p., per un articolo sugli obiettori di coscienza alla leva militare, chiaro esempio di come argomentazioni dissenzienti finiscano spesso per divenire, poi, parte del comune bagaglio di civiltà di uno Stato, ulteriore ragione per diffidare della criminalizzazione delle idee.
In una ulteriore pronuncia il Giudice delle Leggi ha poi chiarito che la linea di demarcazione fra libertà del pensiero e istigazione penalmente rilevante è data dalla concretezza del pericolo che la condotta abbia effettivamente provocato al bene giuridico tutelato (Corte Cost. Sent. N.108 del 1974).
E ancora, in relazione alla contravvenzione di apologia del fascismo ex art. 5 della legge del 1952, la Corte Costituzionale ne ha sostenuto la perdurante legittimità solo nella misura in cui la stessa, costituzionalmente interpretata, non si riferisca, né mai potrebbe, a qualsiasi esternazione ed esaltazione del regime fascista e ai suoi delitti ma solo a quelle che trovano nel momento e nell’ambiente in cui sono compiute, circostanze tali, da renderle idonee a provocare adesioni e consensi ed a concorrere alla diffusione di concezioni favorevoli alla ricostituzione di organizzazioni fasciste (Corte Cost. n. 74 del 1958).
Possiamo dunque affermare che il discrimine fra la libera espressione e la condotta istigatrice penalmente rilevante sia ravvisabile in quattro criteri sintomatici individuati dalla Giurisprudenza: a) il dato letterale delle espressioni; b) la diffusione del messaggio; c) l’autorevolezza dell’istigatore; d) il contesto spazio temporale in cui è svolta l’istigazione o l’apologia.
Seguendo tali dettami la Corte di Cassazione ha ritenuto di precisare come l’indispensabile idoneità a suscitare consensi alla commissione di reati vada valutata per ciò che qui interessa, con particolare attenzione in relazione al contesto spazio temporale in cui si svolge l’azione e alla qualità dei destinatari del messaggio. Infatti, occorre che il comportamento dell’agente sia tale da determinare il rischio, non teorico ma effettivo della commissione dell’altrui reato: “la condotta apologetica, consistente nella rievocazione pubblica di un episodio criminoso, deve avere concreta capacità di provocare l’immediata esecuzione di delitti o, quanto meno, la probabilità che essi vengano commessi in un futuro più o meno prossimo” (cfr. Cass. Pen. Sez. I, id. 17/11/1997, n. 11578 ric. Gizzo; Cass. pen. sez. I sent. n. 40552 del 20/10/2009)”, e, più recentemente, “dovendo il gesto apologetico manifestarsi con caratteristiche tali da rendere obiettivamente probabile, non astrattamente possibile la commissione di reati” (Cass. Pen. Sez. VI, ud. 18/04/2019, n. 31562). Inoltre, in tema di delitti contro lo Stato, ha chiarito che “non basta l’esternazione di un giudizio positivo su un episodio criminoso, per quanto odioso e riprovevole esso possa apparire alla generalità delle persone dotate di un minimo di sensibilità umana, ma occorre che il comportamento dell’agente sia tale per il suo contenuto intrinseco, per la condizione personale dell’autore e per le circostanze di fatto in cui si esplica, da determinare il rischio, non teorico, ma effettivo, della commissione di altri reati e, specialmente, di reati lesivi di interessi omologhi a quelli offesi dal crimine esaltato” (Cass. Pen. Sez. I del 5. 5. 1999 n. 8779).
Nelle citate pronunce risulta importante il richiamo al termine “probabilità” in luogo di “possibilità”, poiché quasi tutto è possibile in ipotesi, mentre probabili sono solo alcuni eventi, i quali appunto è più verosimile che accadano che non, o che comunque hanno una buona percentuale di possibilità che si realizzino e non solo una ipotetica astratta possibilità. Siamo infatti in presenza di reati di pericolo concreto, valutabile sulla base di un giudizio ex ante, e ritenuto idoneo a provocare la commissione di condotte materiali.
Indifferente è poi l’odiosità e la gravità di quanto istigato o glorificato, atteso che, come chiarito anche dalla Corte Europea, “la libertà di espressione vale non solo per le informazioni o idee accolte con favore o considerate inoffensive o indifferenti ma anche per quelle che offendono, indignano o turbano lo Stato o una qualsiasi parte della popolazione. Così vogliono il pluralismo, la tolleranza e lo spirito di apertura, senza i quali non vi è società democratica” (cfr. sent. Lehideux et Isorni c Francia 23 settembre 1998, ric. n. 24662/94 par. 55; caso in cui venne ritenuta errata la condanna per un testo che esaltava il presidente francese Petain, collaborazionista nazista durante la seconda guerra mondiale) Il principio è stato da ultimo richiamato nel caso dello storico Perinçek, il quale era stato condannato in Svizzera per aver sostenuto che l’uccisione degli armeni ad opera dell’Impero Ottomano non potesse essere definito giuridicamente come genocidio. La Corte ha ritenuto errata la decisione svizzera che condannava lo stesso per il reato apologetico di crimini contro l’umanità (Perinçek c. Suisse, 17 dicembre 2013).
Numerose sono ad ogni modo le sentenze che hanno ribadito tale concetto (sent. Handyside c. Regno Unito 7/12/1976 ric. n. 5493/72 par. 49; sent. Otto Preminger Institut c. Austria 20/9/1994 ric. n. 13470/87 par. 49; Du Roy et Malaurie c. Francia 3/10/2000 ric. n. 34000/96 par. 27).
Occorre a questo punto ricordare che il reato di cui all’art. 415 c.p. è stato a sua volta oggetto di un precedente vaglio da parte della Corte Costituzionale per ciò che attiene alla condotta istigatrice dell’odio fra le classi sociali (secondo periodo del comma 1 dell’art. 415 c.p.). La Corte ha infatti dichiarato l’incostituzionalità della norma nella parte in cui non limitava tale condotta delittuosa a quell’istigazione capace di realizzare effetti concreti sulla pubblica tranquillità (Sent. Cost. n. 108/74). A ben vedere è ravvisabile continuità con i principi sopra esposti.
Alla luce dei correttivi introdotti dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità ed in ragione del fatto che l’istigazione non accolta si distingue dal concorso morale per via della mancata adesione da parte di terzi al proposito delittuoso, ritiene chi scrive che si potrebbe semplificare affermando che l’istigazione costituzionalmente punibile si ponga come una sorta di tentativo di concorso morale, in quanto il fatto illecito non si realizza per la mancata adesione del terzo (circostanza non derivante dalla volontà dell’agente) ma ciò non toglie che la condotta istigatrice, possa essere ritenuta penalmente rilevante, solo laddove sia idonea alla realizzazione dell’intento. I requisiti individuati dalla Corte Costituzionale e dalla Cassazione ed i parametri della Corte Europea devono ritenersi criteri di idoneità in tal senso.
Occorre tuttavia precisare che tali importanti pronunce, non hanno impedito il proliferare negli ultimi anni di numerosi procedimenti, iscritti dalle Procure di tutta Italia, per le manifestazioni di pensiero più disparate: dalla pubblicazione di lettere di detenuti passate per tramite della censura, ai cori goliardici cantati in occasione di cortei o manifestazioni statiche, passando per gli imbrattamenti qualificati come istigazione con finalità di terrorismo (particolarmente emblematica in tal senso l’accusa di istigazione con aggravante eversiva per la scritta “pagate la cassa integrazione” seguita dal simbolo anarchico), finendo con le canzoni dei rapper accusati di istigare alla ricostruzione di formazioni terroristiche degli anni di piombo. Si ricordano, per finire, le accuse per libri di noti scrittori italiani e per tesi di laurea di giovani studenti, solidali con il movimento No Tav.
All’interno di questo quadro si inserisce il nuovo reato di istigazione a disobbedire alle leggi in carcere, la cui funzione apparente è quella di fornire una tutela preventiva rispetto ad altri due ulteriori reati di cui si propone l’inserimento: quello di rivolta in carcere e quello di rivolta nel c.p.r. entrambi configurabili anche per mezzo di resistenza passiva, della quale si dirà in seguito.
Come accennato, l’aspetto più significativo e critico della modifica dell’art. 415 c.p. appare tuttavia quella dell’iscrizione dello stesso nell’elenco dei delitti di cui all’art. 4 bis dell’ordinamento penitenziario, con conseguente ostatività, in caso di condanna, alle misure alternative alla detenzione.
Desta sconcerto che proprio un reato che dovrebbe costituire un retaggio di una cultura giuridica illiberale, nonché un’eccezione straordinaria in ragione del proprio labile rapporto con la materialità e apparente contrasto con il diritto di manifestare il proprio pensiero, sia introdotto nella stessa lista di delitti gravissimi, con la conseguenza di non permettere la concessione di misure alternative alla detenzione. Non solo si rafforza dunque un reato d’opinione con una nuova aggravante, ma addirittura si sceglie di rinforzarne la deterrenza con lo spauracchio del carcere come unica pena possibile.
Si noti che, in tema di diffamazione a mezzo stampa, ma con argomentazioni a fortiori applicabili al caso di specie, la Corte Costituzionale ha stabilito l’incostituzionalità della norma penale nella parte in cui obbliga il giudice ad applicare una pena detentiva, proprio in ragione del diritto di manifestazione del pensiero che ne appare frustrato (Sent. Cost. 150/21). Ci si augura che medesima sorte possa avere, qualora introdotta, la norma prevista dall’art. 32 del DDL.
2. I nuovi reati di rivolta in carcere ex art. 415 bis c.p. e rivolta nei c.p.r. ex art. 14 t.u. imm., configurabili anche con resistenza passiva
Un’altra delle innovazioni che verrebbe introdotta con l’approvazione del disegno di legge, da prendere in considerazione con particolare attenzione, riguarda i nuovi reati istituiti con l’art. 415 bis c.p. e con la modifica dell’art. 14 del testo unico immigrazione.
I due delitti, pur riguardando situazioni di fatto differenti, e rubricati infatti rispettivamente come “Rivolta carceraria” e “disposizioni in materia di rafforzamento della sicurezza delle strutture di trattenimento” (c.d. C.P.R.), mirano a reprimere le medesime condotte, distinguendosi appunto per il luogo di commissione degli stessi, a seconda che si tratti di istituti di pena o di detenzione amministrativa.
Ci si limiterà pertanto, dopo alcuni brevi cenni sulle norme citate, ad affrontare l’aspetto più preoccupante introdotto dalle stesse. Vale a dire l’inserimento della condotta di resistenza passiva fra quelle per mezzo delle quali è possibile consumare il delitto, contrariamente a quanto stabilito dalla Giurisprudenza in tema di resistenza ex art. 337 c.p. per il soggetto non ristretto.
La nuova norma di cui all’art. 415 bis c.p., qualora approvata, sanzionerebbe chiunque all’interno di un istituto penitenziario, partecipa ad una rivolta mediante atti di violenza o minaccia o di resistenza all’esecuzione di ordini impartiti, commessi da tre o più persone riunite. Per espressa previsione della norma, costituiscono atti di resistenza anche le condotte di resistenza passiva che, avuto riguardo al numero delle persone coinvolte e al contesto in cui operano i pubblici ufficiali o gli incaricati di pubblico servizio impediscono il compimento degli atti dell’ufficio o del servizio necessari alla gestione dell’ordine e della sicurezza.
Il reato è punito con una pena da 1 a 5 anni, aumentabile da 2 a 8 per i promotori, da 2 a 6 per i partecipanti se dal fatto derivano lesioni e da 4 a 12 per i promotori nel medesimo caso. Se dalla rivolta deriva come conseguenza non voluta la morte di alcuno la pena è della reclusione da 7 a 12 anni mentre in caso di lesioni gravi o gravissime e di morte di più persone la pena della sanzione più grave è aumentata fino al triplo.
L’art. 27 del DDL modifica in senso analogo l’art. 14 del Testo unico immigrazione introducendo per le medesime condotte, ivi comprese quelle passive, un reato punibile con reclusione da 1 a 4 anni, aumentata da 1 anno e 6 mesi a 5 anni per i promotori, da 2 anni a 6 in caso ne derivino come conseguenza non voluta lesioni gravi o gravissime e da 4 a 12 in tale medesimo caso per i promotori. Per finire la sanzione sarebbe da 7 a 15 anni o da 10 a 18, sempre distinguendo partecipanti e promotori, se dalla rivolta derivi come conseguenza non voluta la morte di alcuno, a prescindere dalle azioni specifiche del soggetto, il quale potrebbe aver concorso per mezzo della mera inottemperanza di cui si è detto.
Venendo a quello che è l’aspetto critico delle due novelle, occorre ricordare che nel nostro ordinamento per resistenza possono intendersi, sulla base di un’interpretazione sistematica che fa riferimento all’art. 337 c.p., quegli atti che comportino in alternativa, condotte di minaccia o di violenza poste in essere per impedire lo svolgimento delle funzioni del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.
Proprio in merito al reato di cui all’art. 337 c.p. la Giurisprudenza ha avuto modo di chiarire negli anni che non comportano resistenza né le condotte non violente, né quelle in cui la violenza si limiti ad un’azione non diretta a cagionare del male all’agente, ma come conseguenza non voluta di azioni di autoconservazione quali ad esempio il divincolamento.
Nello specifico può integrare il reato di resistenza a pubblico ufficiale la condotta di divincolamento “ogniqualvolta non costituisca una specie di reazione spontanea ed istintiva alla costrizione operata dal pubblico ufficiale ma integri invece un vero e proprio impiego di forza, diretto a neutralizzare l’azione del pubblico ufficiale ed a sottrarsi alla presa” (Cass. Sez. VI, ud. 5/3/2010, n. 8991). Del pari, è ormai pacifico in Giurisprudenza l’orientamento che indica come criterio discretivo della violenza nell’azione della fuga la sussistenza o meno della messa in pericolo dell’incolumità degli agenti o degli avventori della strada, di talché la mera fuga anche in auto, la quale non ponga in pericolo alcuno, non può essere assimilata né alla minaccia né alla violenza necessarie per consumare il delitto in esame. Sul punto la Suprema Corte ha chiarito che “integra l’elemento oggettivo del reato di cui all’art. 337 c.p. la condotta di chi, per sfuggire all’intervento delle forze dell’ordine, si dia ad una fuga che metta in pericolo l’incolumità degli utenti della strada e costringa le forze di polizia ad un inseguimento pericoloso” (Cass. Pen. IV, 14/07/2006, Campiciello; conforme Cass. Pen., Sez. I, 04/07/2019, n. 41408). Al contrario “non è ravvisabile il delitto ex art. 337 c.p. nei confronti di chi si limiti a una fuga in auto passiva, attuata cioè con modalità che non mettano in pericolo l’incolumità fisica degli agenti inseguitori o degli utenti della strada” (Cass. Pen. Sez. VI, 02/ 02 /2017, n. 17061).
Ulteriore limite apposto dalla giurisprudenza riguarda il rapporto teleologico che intercorre fra tali condotte e l’impedimento o la limitazione dello svolgimento delle funzioni dell’operante.
L’azione deve poi essere idonea a tale scopo, deve cioè poter concretamente poter interrompere o rallentare l’operato del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio.
In assenza di tale connessione con l’atto del pubblico ufficiale ed in assenza di idoneità dell’azione (ivi compreso in caso di violenza) non potrà infatti ritenersi sussistere il reato. Lo svolgimento di una funzione da parte del pubblico ufficiale, in caso di resistenza, rileva ai fini della sussistenza dell’elemento oggettivo, mentre il fine specifico di impedire tale azione arricchisce la norma penale, e quindi restringe il penalmente rilevante garantendo il cittadino, ai soli fatti in cui l’agente miri espressamente ad ostacolare l’azione della pubblica amministrazione.
Infatti “nel delitto di resistenza a pubblico ufficiale il dolo specifico si concreta nel fine di ostacolare l’attività pertinente al pubblico ufficio o servizio in atto, cosicché il comportamento che non risulti tenuto a tale scopo, per quanto eventualmente illecito ad altro titolo, non integra il delitto in questione” (Cass. pen., Sez. VI, 04/05/2005, n. 37959).Nel caso richiamato l’agente di p.s. era stato addirittura aggredito, ma successivamente rispetto il compimento del proprio compito, la funzione non era stata ostacolata né l’imputato poteva interrompere, dopo, ciò che era avvenuto prima.
Nell’ipotesi delittuosa di nuovo conio, nella parte in cui si fa riferimento alla resistenza passiva, viceversa, si intende sanzionabile non l’azione che impedisce quella del pubblico ufficiale, quanto l’omessa obbedienza all’ordine dallo stesso impartito, anzi all’ordine impartito da qualsiasi membro appartenente al personale carcerario, anche privo di qualifica di pubblico ufficiale, stante il riferimento all’incaricato di pubblico servizio. La resistenza viene intesa, ci si spinge a dire, anche in termini di reato omissivo la cui condotta appare quella del mancato rispetto dell’ordine impartito.
Per finire, perché possa parlarsi di resistenza, come accennato, l’azione deve essere idonea ad impedire, almeno potenzialmente, lo svolgimento dell’attività del pubblico ufficiale. La condotta deve infatti “consistere in un comportamento idoneo ad opporsi all’atto che il pubblico ufficiale sta legittimamente compiendo, in grado di ostacolarne la realizzazione, sicché in mancanza di elementi che rendano evidente la messa in pericolo dell’incolumità e l’indiretta coartazione psicologica dei pubblici ufficiali, l’agente non deve rispondere di tale reato” (Cass. Sez. VI, 08/07/2002, n. 35448; De Santi).
Viceversa, lo si dice per completezza, non sarà mai invocabile la tenuità del fatto ex art. 131 bis c.p., istituto appositamente escluso nel caso di resistenza a pubblico ufficiale già dal decreto sicurezza c.d. Salvini bis.
L’introduzione delle nuove fattispecie, pur facendo riferimento all’impedimento delle funzioni dei pubblici ufficiali e degli incaricati di pubblico servizio, pone un duplice problema. In primo luogo, introduce come criteri di idoneità, espressamente, il numero delle persone coinvolte e il contesto in cui operano i pubblici ufficiali e gli incaricati di pubblico servizio, di fatto rendendo applicabile la norma a qualsiasi manifestazione di dissenso, con esclusione, forse di quella del singolo detenuto. Sotto altro aspetto, come già detto, facendo rientrare nella condotta di resistenza anche la resistenza passiva, spingendosi financo a ricomprendervi la semplice inottemperanza agli ordini, si crea un doppio standard di offensività a seconda che la condotta venga posta in essere dal detenuto o dal soggetto libero.
Vale la pena ricordare che proprio in uno dei casi per torture in carcere, noto alle cronache, gli agenti sono accusati anche di aver prodotto annotazioni false per giustificare i pestaggi dei detenuti, i quali avevano in realtà, era emerso dalle indagini, posto in essere dei meri mancati rientri in cella, temporanei, per protestare contro il divieto di colloquio con i familiari. Ebbene, per assurdo, introdotta la nuova norma, quei detenuti sarebbero imputati al pari degli agenti.
Come noto, il mancato rientro in cella e la battitura rappresentano alcuni dei pochi mezzi di protesta delle persone detenute. La previsione del reato in oggetto appare estremamente limitante il diritto di manifestazione del pensiero e della critica laddove prevede la punibilità di condotte passive o semplicemente omissive, non violente. Desta inoltre preoccupazione la possibile ricaduta interpretativa. A parere di chi scrive, il Legislatore, fornendo una descrizione di resistenza che comprenda anche quella passiva, apre una breccia nel sistema generale.
Sarà necessario prestare attenzione, dunque, qualora la norma entri in vigore, ad una possibile estensione di questa nuova concezione di resistenza, passiva ed omissiva, oggi prevista per i reclusi (condannati e non) domani forse per tutti. L’esperienza ci insegna, infatti, che norme destinate a categorie considerate degne di minore tutela, tendono poi ad essere estese a settori più vasti della popolazione.
Per finire, si noti che questo nuovo delitto viene inserito, per tramite dell’art. 32 del DDL, nell’elenco di cui all’art. 4 bis O.P., vale a dire fra quelli c.d. ostativi, ma di tale peculiarità si è già detto, accomunando tale fattispecie con quella dell’art. 415 c.p., per cui si rimanda a quanto già scritto.
3. Brevi cenni in relazione ad ulteriori innovazioni limitative del diritto di manifestazione del pensiero previste dal DDL. Blocchi stradali, aggravante c.d. No Ponte, terrorismo della parola.
Senza pretesa di esaustività, appare necessario svolgere brevi cenni in relazione ad ulteriori norme che verrebbero introdotte dalla Legge in esame e che meritano l’attenzione degli operatori del diritto in ragione del loro forte impatto sul diritto di manifestazione del pensiero, in termini simili a quelli già esposti.
Ci si riferisce in particolare all’elevazione a delitto della condotta di blocco stradale, alla previsione dell’aggravante di aver commesso il fatto in occasione di manifestazioni contro le grandi opere nell’art. 339 c.p. eall’introduzione del c.d. reato di “terrorismo della parola”.
L’articolo 14 del Ddl novella l’art. 1-bis del D.lgs. n. 66 del 1948. Intervenendo sul primo periodo della citata norma, la modifica trasformando la sanzione amministrativa in illecito penale, sostituisce il pagamento della somma da euro 1.000 a euro 4.000 per chi impedisce la libera circolazione su strada ordinaria, ostruendo la stessa con il proprio corpo, con la reclusione fino a un mese o la multa fino a 300 euro, ed estende tale condotta a chi impedisce la libera circolazione anche su una strada ferrata.
Come si ricorderà, in occasione del DL 113/2018 era stata già elevata a reato la condotta di chi ostruisse la strada con oggetti. La novella appare dunque in linea con i precedenti decreti sicurezza.
Ulteriore previsione del DDL, si ravvede nell’introduzione di un’aggravante speciale ad effetto speciale, per mezzo della sostituzione del secondo periodo della norma. Questa circostanza prevede l’inasprimento della pena da un minimo di sei mesi a un massimo di due anni se il blocco stradale o ferroviario, attuato con il proprio corpo, è commesso da più persone riunite.
A tale riguardo, allarma la dichiarazione del Ministro Piantedosi che, confermando i timori della società civile ed in particolare delle associazioni a tutela dei diritti sociali e civili nonché dei sindacati, ha affermato che ritiene la norma perfettamente applicabile in caso di scioperi che interrompano la regolare circolazione delle merci.
Tale previsione segue pertanto la scia dei numerosi tentativi dei vari uffici della Procura della Repubblica di criminalizzare gli scioperi con iscrizioni per violenza privata ai sensi dell’art. 610 c.p.. In questi casi, infatti, essendo il delitto in questione posto a tutela della persona e non degli utili aziendali, i Giudici hanno correttamente assolto gli scioperanti.
Sotto altro aspetto appare evidente che la norma potrebbe applicarsi a qualsiasi riunione pubblica e manifestazione di pensiero che, per la partecipazione alla stessa, comporti l’occupazione della sede stradale (si pensi agli studenti che scelgano di non fare ingresso a nell’istituto per protesta).
Ad avviso di chi scrive la novella si pone in netto contrasto con il diritto di manifestazione del proprio pensiero, non solo per come previsto dalla Carta fondamentale, ma anche per come interpretato dal Giudice delle Leggi in occasione della declaratoria di parziale incostituzionalità di altro reato, vale a dire della contravvenzione di manifestazione non preavvisata ex art. 18 Tulps.
A tale riguardo occorre ricordare, a questo punto, che nel nostro ordinamento il diritto di manifestazione è libero e non assoggettato né assoggettabile ad alcuna autorizzazione. Questa sarebbe infatti in contrasto con la libertà d’opinione, che non è relegabile ad alcuni momenti preordinati ma che sussiste costantemente in capo al cittadino.
Viceversa, incombe sul promotore di ogni manifestazione l’onere di preavvisare l’Autorità per tempo, così da permettere alla stessa, eventualmente, di vietarla e solo per ragioni, comprovate, di sicurezza o incolumità pubblica (art. 17 cost).
La norma di cui all’art. 18 Tulps sanziona colui che ometta di preavvisare lo svolgimento della manifestazione, e si indirizza pertanto al solo promotore. Prima dell’intervento della Corte, tuttavia, la norma puniva anche il partecipante che prendesse la parola in tale occasione. La Corte Costituzionale ha tuttavia stabilito, con sentenza n. 90 del 1970 l’incostituzionalità della norma nella parte in cui prevedeva la punibilità di altri soggetti oltre al promotore. Nella motivazione la Corte ha chiarito che “é da ritenere che l’articolo stesso contraddica alla Costituzione allorché commina pena contravvenzionale contro coloro i quali nelle riunioni predette prendano la parola. Se anche si dovesse ritenere che le garanzie costituzionali del diritto in parola non siano rivolte solo a quelle fra le riunioni che abbiano come proprio scopo le manifestazioni o lo scambio del pensiero, é tuttavia certo che a queste esse si rivolgono in via primaria, così da far considerare la libertà di riunione quale uno degli strumenti necessari per la soddisfazione di quell’interesse fondamentale dell’uomo vivente in società, di scambiare con gli altri le proprie conoscenze, opinioni, convinzioni: ed é perciò che la sua disciplina non può non esigere un coordinamento con quella che l’art. 21 detta per assicurare la libertà di manifestazione del pensiero. Ora appare evidente come contrasti con quest’ultima disposizione la sanzione penale irrogata contro coloro ai quali nessun altro addebito si fa all’infuori di quello di avere in una riunione preso la parola, cioè, esercitata la facoltà corrispondente alla più propria ragione d’essere della riunione medesima”.
Ebbene, per mezzo di tale pronuncia è stata chiarita l’incostituzionalità di qualsiasi norma tesa a punire il partecipante alla manifestazione, atteso che non risulta punibile quello che prenda la parola nella stessa men che meno colui che vi prenda solo parte. La condotta di chi vi prendesse parte non era infatti prevista dalla norma, ma una previsione del genere apparirebbe ancor più incostituzionale.
A parere di chi scrive, il nuovo reato di blocco stradale rischia di aggirare questo importante principio, rendendo penalmente sanzionabili tutti i partecipanti ad una manifestazione, qualora questa occupi la sede stradale, con la conseguenza di una restrizione notevole del diritto di manifestazione dei cittadini, ai quali sarà consentito verosimilmente manifestare solo laddove non possano essere uditi o visti da alcuno, con conseguente frustrazione del diritto di cui all’art. 21 Cost.
Altra innovazione allarmante appare la modifica dell’aggravante di cui all’art. 339 c.p..
Come noto, tale aggravante è già suscettibile di aumentare la pena dei reati di violenza e di resistenza a pubblico ufficiale e ad incaricato di pubblico servizio fino a 15 anni di reclusione, qualora concorrano le ipotesi delle più persone riunite o del travisamento o dell’uso di armi.
Con il DDL si vorrebbe inserire una nuova ipotesi aggravante, ulteriore, applicabile nel caso in cui le condotte di violenza o minaccia a p.u. siano dirette contro l’istallazione di grandi opere. Appare evidente che la norma sia diretta a sanzionare più gravemente le condotte poste in essere in occasione delle manifestazioni aventi ad oggetto le contestazioni alle c.d. grandi opere o opere ed infrastrutture strategiche dello Stato.
Ovviamente ciò che preoccupa gli operatori del diritto, di norma, è l’innalzamento dei minimi edittali più che dei massimi, in quanto i primi impongono al Giudicante maggiore severità in caso di condanna. Tuttavia, non è da ignorare l’effetto che hanno tali previsioni, che stabiliscono pene draconiane per circostanze di non particolare allarme sociale, sulla pena in concreto irrogabile, per mezzo della paralisi di qualsiasi effetto riduttivo derivante delle attenuanti, nonché ai fini della prescrizione e soprattutto in termini di applicabilità delle misure cautelari.
Tale innovazione rischia di permettere la differenziazione della sanzione penale non sulla base di una maggiore o minore gravità del fatto materiale e nemmeno sulla base delle ragioni maggiormente riprovevoli che muovono l’agente (come nel caso dei futili motivi), ma solo sulla base delle motivazioni ideologiche poste a fondamento del dissenso, vale a dire l’opposizione alla realizzazione della grande opera, le quali non possono considerarsi di per sè indice di maggiore o minore gravità.
Evidenti e molteplici dubbi di costituzionalità si pongono sulla norma in questione. L’impressione è che il Legislatore voglia utilizzare il diritto penale non per sanzionare più o meno adeguatamente fatti che minaccino beni giuridici degni di tutela, quanto piuttosto miri a dotarsi di strumenti preventivi per la repressione e la deterrenza di opinioni contrastanti o incidenti di percorso nella realizzazione dei propri progetti.
Ulteriore ipotesi su cui pare necessario invitare a riflettere è rappresentata dal c.d. reato di terrorismo della parola, rubricato “Detenzione di materiale con finalità di terrorismo” e che verrebbe introdotto con il nuovo articolo 270 quinquies-3 c.p.. La norma, introdotta dall’art. 1 del DDL, punirebbe chiunque consapevolmente si procuri o detenga materiale contenente istruzioni sulla preparazione o l’uso di congegni bellici, armi o su tecniche di sabotaggio a servizi pubblici essenziali, con finalità di terrorismo.
La relazione introduttiva all’articolo parla di terrorismo della parola e dichiara espressamente che la norma tende a rispondere all’esigenza di poter fornire una soluzione a quello che viene percepito come un problema: il fatto che i Giudici, in casi simili “non hanno potuto che assolvere” i detentori di tale materiale.
Si ricorda infatti che le medesime condotte di possesso di libri e manuali con istruzioni come quelle citate, venivano ricondotte, con non molta precisione, all’ipotesi di cui all’art, 272 c.p., di propaganda sovversiva, oggi abrogato.
Ebbene appare preoccupante la criminalizzazione di testi scritti, i quali potrebbero essere detenuti per i motivi più disparati di studio, collezionismo, curiosità. Il reato sarebbe punito a titolo di dolo specifico prevedendo che la detenzione sia per fini di terrorismo, ma appare evidente la difficoltà di discernimento delle finalità in caso di semplice detenzione, in assenza di ulteriori specificazioni della norma.
In primo luogo, tale norma pare superare un importante limite posto dalla Giurisprudenza proprio in tema di aggravante ex art. 270 sexies c.p. di finalità di terrorismo, vale a dire quello per cui, “per determinarne la sussistenza, non è sufficiente il compimento di qualsivoglia azione politica violenta, essendo necessario che la condotta sia potenzialmente idonea a creare panico, terrore e diffuso senso di insicurezza” (Cass. Pen. I Sez., 21. 12. 2020 n. 36816). Ebbene il nuovo reato introdotto, ipotizzando che la finalità di terrorismo possa accompagnare la mera detenzione di un libro, rende in ipotesi estensibile a qualsiasi condotta l’aggravante richiamata, superando le corrette valutazioni della Cassazione.
Di fatto l’ipotesi rischia di invertire il processo di interpretazione: non sarà dai fatti gravi evincibile la finalità terroristica ma viceversa dalla presunta finalità in tal senso, verrà ritenuto grave anche un fatto di per sé irrilevante quale la detenzione di un libro.
Proprio in tema di elemento psicologico il Giudice di legittimità aveva chiarito infatti che “non è sufficiente l’atteggiamento psicologico dell’agente, ma è necessario che la condotta posta in essere sia concretamente idonea a realizzare uno degli scopi indicati nel predetto articolo (intimidire la popolazione, costringere i poteri pubblici e compiere o astenersi dal compiere un atto, destabilizzare o distruggere le strutture politiche fondamentali” (Cass. Pen. Sez I, sent. 24. 5. 2011 n. 29480). Ebbene l’esistenza in sé di un reato di terrorismo la cui condotta è limitata alla detenzione di materiale informativo pare in contrasto con quanto indicato dalla Corte e presta il fianco al prolificare di numerosi procedimenti aggravati dalla finalità di terrorismo per fatti che non sono capaci di ingenerare quel livello di intimidazione pubblica. Immaginando i futuri processi aventi ad oggetto il mero possesso di libri, appare impossibile non pensare al capolavoro distopico di Bradbury.
In conclusione, appare necessaria ed ineludibile una maggiore riflessione prima dell’approvazione delle norme e che in ogni caso dovrà esserne vagliata la compatibilità costituzionale.
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La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.
Foglio di via del Questore: per la Consulta non è necessaria la convalida del giudice.
La Consulta sull’obbligo di testimoniare del prossimo congiunto dell’imputato che sia persona offesa dal reato.
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