Paolo Mieli sulle colonne del Corriere della sera ha giustamente ironizzato sul nuovo “metodo ungherese”, sottolineando che “la quasi totalità dei giuristi italiani (ministri ed ex ministri di Giustizia, magistrati di ogni livello, presidenti ed ex presidenti della Corte Costituzionale) non troverà — come fino ad oggi non ha trovato — alcunché da eccepire all’applicazione del «metodo ungherese»”, concludendo, amaramente, che “siamo portati a pensare che in Italia d’ora in poi entrerà in vigore il «metodo ungherese» di cui quella descritta è stata l’esperienza pilota”.
Noi abbiamo invece molto da eccepire sul “metodo ungherese”, perché esso rappresenta in modo pessimo la magistratura italiana.
Dopo il “caso Palamara” ed il monito del presidente della Repubblica, ci saremmo aspettati un cambio di passo per restituire credibilità alla magistratura agli occhi dell’opinione pubblica. Ed invece l’unica iniziativa è stata quella del Procuratore generale della Cassazione che ha precisato come non vi sia alcuna responsabilità disciplinare per quei magistrati che fanno “autopromozione” per ottenere progressioni di carriera e promozioni. Eppure la Costituzione parla di “promozioni” dei magistrati meritevoli, non di quelli che si auto-promuovono. Si aggiungono ora le “rivelazioni” dell’avvocato Amara, che già dal dicembre 2019 davanti ai P.M. di Milano, si è autoaccusato come partecipante di una loggia segreta, denominata “Ungheria”, della quale farebbero parte una quarantina di politici, magistrati, avvocati, imprenditori e forze dell’ordine, con la finalità, tra le altre, di pilotare le nomine del C.S.M. e delle Procure più importanti. Sulla vicenda, che potrebbe essere un’invenzione, a fini calunniatori e ritorsivi, da parte del “pentito” o di suoi mandanti oppure una “resa di conti” tra magistrati o anche la sincera confessione di una consorteria dedita a illeciti affari, i vertici della Procura milanese ritennero di non iscrivere nessuno nel registro degli indagati, evidentemente non ritenendo fondate né le accuse né le confessioni dell’avvocato. E questo è già un primo punto critico che dimostra quanta discrezionalità sia oggi attribuita al P.M. sul se e quando procedere all’iscrizione nel registro delle notizie di reato. E infatti il sostituto Storari che aveva ricevuto le dichiarazioni di Amara, ritenendo doverosa l’iscrizione e necessario l’approfondimento investigativo, quattro mesi dopo l’interrogatorio dell’avv. Amara rimasto senza seguito, si lamentò di questa inerzia, ma, anziché farlo in modo formale con una missiva al procuratore della Repubblica e al procuratore generale, procedette soltanto in via confidenziale con l’allora consigliere del CSM Davigo, al quale dice di aver consegnato copia dei verbali (segreti) di Amara, dopo essere stato rassicurato dal collega del CSM circa la liceità di tale comportamento.
L’intento di Storari era sicuramente quello di sollecitare l’iscrizione e le indagini, ma dalla consegna dei verbali a Davigo non ottenne alcun risultato perché trascorse ben un anno senza iscrizione e senza indagini. Infatti Davigo, che dice di non aver ricevuto “verbali”, ma fotocopie di dichiarazioni, e averne parlato “con chi di dovere”, non portò il C.S.M. a conoscenza della questione, come avrebbe dovuto fare, ma ne parlò soltanto in via informale e riservata con membri del C.S.M., ma anche con qualche parlamentare, sottolineando la presenza in quei verbali del nome di un altro membro del C.S.M., Ardita, che era stato fino a qualche tempo prima suo grande amico nonché compagno di corrente, ma con il quale si erano ormai interrotti i rapporti. E si deve riconoscere che Ardita è stato l’unico finora a poter dimostrare la propria estraneità alla “loggia Ungheria”, mentre le altre persone indicate dall’avvocato Amara come partecipanti della loggia segreta rimangono tuttora nel “girone dei sospetti”.
Ma, dopo che, a ottobre, Davigo è andato in pensione, quei verbali, come capita alle cose non custodite, sono stati misteriosamente distribuiti, in forma anonima, forse ad opera della segretaria dello stesso Davigo, tra magistrati e giornalisti e persino ad un altro componente del C.S.M. Di Matteo, il quale è stato l’unico che, coraggiosamente, ha portato la questione allo scoperto informandone ufficialmente e per la prima volta il C.S.M.
Insomma, la “loggia Ungheria” magari è inesistente o inconsistente, ma il pericolo vero sta nel modo in cui Storari e Davigo hanno gestito la vicenda: essendo magistrati ci saremmo aspettati che seguissero le “vie legali” e non quelle informali e confidenziali. Anche perché i due magistrati sono pubblici ministeri che, nella loro carriera, hanno incriminato, e talvolta messo in cella, tante persone proprio per non aver seguito alla lettera la legge e ora proprio loro, che dovrebbero dare l’esempio, la calpestano. Più in generale, dalla vicenda emergono comunque faide all’interno delle Procure e tra le diverse Procure, un “uso privato” delle indagini, “manine” che spediscono dossier compromettenti. Insomma, un clima di veleni e “corvi” che non giova certo alla credibilità della magistratura.
Il “metodo ungherese”
Paolo Mieli sulle colonne del Corriere della sera ha giustamente ironizzato sul nuovo “metodo ungherese”, sottolineando che “la quasi totalità dei giuristi italiani (ministri ed ex ministri di Giustizia, magistrati di ogni livello, presidenti ed ex presidenti della Corte Costituzionale) non troverà — come fino ad oggi non ha trovato — alcunché da eccepire all’applicazione del «metodo ungherese»”, concludendo, amaramente, che “siamo portati a pensare che in Italia d’ora in poi entrerà in vigore il «metodo ungherese» di cui quella descritta è stata l’esperienza pilota”.
Noi abbiamo invece molto da eccepire sul “metodo ungherese”, perché esso rappresenta in modo pessimo la magistratura italiana.
Dopo il “caso Palamara” ed il monito del presidente della Repubblica, ci saremmo aspettati un cambio di passo per restituire credibilità alla magistratura agli occhi dell’opinione pubblica. Ed invece l’unica iniziativa è stata quella del Procuratore generale della Cassazione che ha precisato come non vi sia alcuna responsabilità disciplinare per quei magistrati che fanno “autopromozione” per ottenere progressioni di carriera e promozioni. Eppure la Costituzione parla di “promozioni” dei magistrati meritevoli, non di quelli che si auto-promuovono. Si aggiungono ora le “rivelazioni” dell’avvocato Amara, che già dal dicembre 2019 davanti ai P.M. di Milano, si è autoaccusato come partecipante di una loggia segreta, denominata “Ungheria”, della quale farebbero parte una quarantina di politici, magistrati, avvocati, imprenditori e forze dell’ordine, con la finalità, tra le altre, di pilotare le nomine del C.S.M. e delle Procure più importanti. Sulla vicenda, che potrebbe essere un’invenzione, a fini calunniatori e ritorsivi, da parte del “pentito” o di suoi mandanti oppure una “resa di conti” tra magistrati o anche la sincera confessione di una consorteria dedita a illeciti affari, i vertici della Procura milanese ritennero di non iscrivere nessuno nel registro degli indagati, evidentemente non ritenendo fondate né le accuse né le confessioni dell’avvocato. E questo è già un primo punto critico che dimostra quanta discrezionalità sia oggi attribuita al P.M. sul se e quando procedere all’iscrizione nel registro delle notizie di reato. E infatti il sostituto Storari che aveva ricevuto le dichiarazioni di Amara, ritenendo doverosa l’iscrizione e necessario l’approfondimento investigativo, quattro mesi dopo l’interrogatorio dell’avv. Amara rimasto senza seguito, si lamentò di questa inerzia, ma, anziché farlo in modo formale con una missiva al procuratore della Repubblica e al procuratore generale, procedette soltanto in via confidenziale con l’allora consigliere del CSM Davigo, al quale dice di aver consegnato copia dei verbali (segreti) di Amara, dopo essere stato rassicurato dal collega del CSM circa la liceità di tale comportamento.
L’intento di Storari era sicuramente quello di sollecitare l’iscrizione e le indagini, ma dalla consegna dei verbali a Davigo non ottenne alcun risultato perché trascorse ben un anno senza iscrizione e senza indagini. Infatti Davigo, che dice di non aver ricevuto “verbali”, ma fotocopie di dichiarazioni, e averne parlato “con chi di dovere”, non portò il C.S.M. a conoscenza della questione, come avrebbe dovuto fare, ma ne parlò soltanto in via informale e riservata con membri del C.S.M., ma anche con qualche parlamentare, sottolineando la presenza in quei verbali del nome di un altro membro del C.S.M., Ardita, che era stato fino a qualche tempo prima suo grande amico nonché compagno di corrente, ma con il quale si erano ormai interrotti i rapporti. E si deve riconoscere che Ardita è stato l’unico finora a poter dimostrare la propria estraneità alla “loggia Ungheria”, mentre le altre persone indicate dall’avvocato Amara come partecipanti della loggia segreta rimangono tuttora nel “girone dei sospetti”.
Ma, dopo che, a ottobre, Davigo è andato in pensione, quei verbali, come capita alle cose non custodite, sono stati misteriosamente distribuiti, in forma anonima, forse ad opera della segretaria dello stesso Davigo, tra magistrati e giornalisti e persino ad un altro componente del C.S.M. Di Matteo, il quale è stato l’unico che, coraggiosamente, ha portato la questione allo scoperto informandone ufficialmente e per la prima volta il C.S.M.
Insomma, la “loggia Ungheria” magari è inesistente o inconsistente, ma il pericolo vero sta nel modo in cui Storari e Davigo hanno gestito la vicenda: essendo magistrati ci saremmo aspettati che seguissero le “vie legali” e non quelle informali e confidenziali. Anche perché i due magistrati sono pubblici ministeri che, nella loro carriera, hanno incriminato, e talvolta messo in cella, tante persone proprio per non aver seguito alla lettera la legge e ora proprio loro, che dovrebbero dare l’esempio, la calpestano. Più in generale, dalla vicenda emergono comunque faide all’interno delle Procure e tra le diverse Procure, un “uso privato” delle indagini, “manine” che spediscono dossier compromettenti. Insomma, un clima di veleni e “corvi” che non giova certo alla credibilità della magistratura.
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