Abstract (ITA)
Il presente lavoro ha ad oggetto la trattazione delle fattispecie di reato di cui agli artt. 572 (maltrattamenti contro familiari o conviventi) e 612 bis c.p. (atti persecutori), allo scopo di evidenziarne gli elementi costitutivi e i tratti differenziali, alla luce degli orientamenti espressi sul punto dalla Corte di cassazione e delle opinioni dottrinali, tenuto conto, altresì, delle modifiche normative che hanno riguardato tali ipotesi di reato, soprattutto con riferimento al relativo trattamento sanzionatorio, che, infatti, è stato sensibilmente inasprito, al fine di approntare una maggiore tutela penale alle vittime di tali delitti.
Inoltre, ci si soffermerà sul rapporto tra le due fattispecie di reato, nelle ipotesi di condotte realizzate nei confronti di persona con la quale si è avuto un rapporto di convivenza.
Per tali ragioni, saranno descritte le singole fattispecie delittuose, per poi affrontare il tema della relazione tra le stesse nei casi di condotte realizzate dopo la cessazione della convivenza.
Abstract (ENG)
The purpose of this work is to deal with the types of crimes referred to in articles 572 (mistreatment of family members or cohabitants) and 612 bis of the criminal code (persecutory acts), with the aim of highlighting their constituent elements and differential features, in light of the orientations expressed on this point by the Court of Cassation and of the doctrinal opinions, also taking into account, in this sense, the regulatory changes that have affected these types of crime, especially with reference to the related sanctioning treatment, which, in fact, has been significantly tightened, in order to provide greater criminal protection for the victims of such crimes.
Furthermore, we will focus on the relationship between the two types of crime, in the case of conduct carried out against a person with whom there was a cohabitation relationship.
For these reasons, the individual criminal cases will be described, and then the issue of the relationship between them will be addressed in cases of conduct carried out after the termination of cohabitation.
SOMMARIO: 1. Brevi cenni sul delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.); 2. Brevi cenni sul delitto di atti persecutori (art. 612 bis c.p.); 3. I rapporti tra i due delitti nelle ipotesi di condotte realizzate nei confronti di persona legata da relazione affettiva nell’orientamento della Corte di cassazione.
1. Brevi cenni sul delitto di maltrattamenti contro familiari e conviventi (art. 572 c.p.)
Il delitto in parola è previsto dall’art. 572 c.p., a mente del quale “Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, maltratta una persona della famiglia o comunque convivente, o una persona sottoposta alla sua autorità o a lui affidata per ragioni di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la reclusione da tre a sette anni.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità come definita ai sensi dell’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero se il fatto è commesso con armi.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a nove anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a ventiquattro anni.
Il minore di anni diciotto che assiste ai maltrattamenti di cui al presente articolo si considera persona offesa dal reato”.
La collocazione sistematica del reato ha sollevato diverse critiche, atteso che è stato inserito (al pari del delitto di abuso di mezzi di correzione di cui all’art. 571 c.p.) all’interno del capo dedicato ai reati contro l’assistenza familiare, anziché tra i reati contro la persona – come previsto nel Codice Zanardelli –, ove avrebbe dovuto essere correttamente collocato, tenuto conto del fatto che il contenuto offensivo della condotta si incentra sulla compromissione dell’incolumità fisica e dell’integrità psichica anche di soggetti estranei alla famiglia.[1]
Con riferimento all’individuazione dell’oggetto giuridico del reato, sussistono profondi contrasti in dottrina.
E invero, per alcuni è costituito dalla “integrità fisica e morale della persona”[2]; per altri, invece, lo scopo della tutela penale sarebbe rappresentato dalla “tutela dell’incolumità fisica di alcune categorie di persone, tra le quali quelle della famiglia”[3]; altra scuola di pensiero indica l’interesse giuridico protetto dalla disposizione la tutela della famiglia e, quale sub-oggetto, l’incolumità psico-fisica dei soggetti previsti dalla disposizione penale incriminatrice[4].
L’orientamento della Corte di cassazione ritiene che l’oggetto giuridico del precetto penale sia costituito dall’interesse dello Stato alla salvaguardia della famiglia da comportamenti vessatori e violenti e dalla tutela dell’incolumità fisica e psichica delle persone indicate dalla norma, interessate al rispetto della loro personalità nello svolgimento di rapporti connotati da vincoli familiari.
In sostanza, secondo la Suprema Corte, l’oggetto giuridico della tutela penale presidiata dalla fattispecie incriminatrice de qua, ad onta della collocazione sistematica che la vede inserita nel titolo XI “dei delitti contro la famiglia”, non si esaurisce nel mero interesse dello Stato alla salvaguardia della comunità familiare da comportamenti vessatori e violenti, ma si estende sino a ricomprendere la protezione della incolumità fisica e psichica delle persone specificamente indicate nella norma, vale a dire di coloro che, per rapporti di tipo familiare o di affidamento, si trovino nelle condizioni di subire, proprio nei contesti in cui dovrebbero ricevere maggiore protezione, condotte di prevaricazione fisica o morale.[5]
Nello specifico, infatti, è stato precisato[6] che l’oggetto giuridico del reato è costituito dall’integrità fisica e morale, dalla dignità e dalla libertà di autodeterminazione della persona.
Con riferimento al soggetto attivo, trattasi di un reato “proprio”, in quanto l’agente deve essere legato alla persona offesa da un rapporto familiare, di convivenza, deve essere investito di autorità nei suoi confronti o, in ogni caso, deve trovarsi in una delle situazioni previste dalla norma (educazione, cura, vigilanza o custodia, esercizio di una professione o di un’arte).
Si tenga conto, infatti che, in seguito alla modica legislativa introdotta con la L. n. 172/2012 – che ha esteso la tutela anche ai conviventi, modificando la rubrica dell’art. 572 c.p. da “maltrattamenti in famiglia” a “maltrattamenti contro familiari e conviventi” – si è inteso assicurare tutela penale non solo ai componenti della famiglia legale, ma altresì a quelli facenti parte di unioni di fatto fondate sulla convivenza.
Peraltro, con specifico riferimento al concetto di “famiglia”, si fa riferimento a ogni gruppo di persone, tra le quali – per le strette relazioni e consuetudini di vita – siano sorti rapporti di assistenza e di solidarietà, senza la necessità (a differenza del requisito della convivenza) della coabitazione.
L’elemento oggettivo del reato è costituito, appunto, dai maltrattamenti, i quali presuppongono una ripetizione di atti, che possono essere commissivi od omissivi, senza che siano qualificabili di per sé come reati.[7]
La condotta tipica, descritta in termini finalistici, ricomprende diversi atteggiamenti, unificati dall’essere caratterizzati dalla comune direzione, volta a maltrattare, ovverosia a cagionare nella persona offesa una continua situazione di sofferenza fisica o morale che ne comporta prostrazione o avvilimento.
Trattasi, infatti, di un reato abituale improprio[8] – potendo essere realizzato, come detto, attraverso atti che costituiscono di per sé reato (percosse, lesioni, minacce, ecc.) o mediante condotte non qualificabili autonomamente come illecito penale –, ma non di un reato permanente, atteso che i vari episodi possono verificarsi anche in tempi relativamente distanziati.[9]
E invero, la condotta penalmente rilevante (“maltratta”) del delitto in esame, deve ritenersi integrata da plurimi comportamenti di vessazione fisica o morale, espressi mediante azioni od omissioni ripetuti nel tempo, non necessariamente qualificabili, se singolarmente considerati, alla stregua di fatti di reato.
Infatti, ciò che qualifica la condotta come maltrattante, in un quadro di insieme, è che i comportamenti reiterati, operanti a diversi livelli (fisico, morale, sessuale o economico), nell’ambito di una relazione affettiva, siano volti a ledere la dignità della persona offesa, ad annientarne pensieri e azioni indipendenti, a limitarne la sfera di libertà e di autodeterminazione, a ferirne l’identità (anche di genere) con violenze psicologiche e umiliazioni.[10]
In tale prospettiva, deve osservarsi che il bene giuridico protetto dalla fattispecie in esame non può ritenersi compromesso ogni qual volta si verifichino fatti che ledano o pongano in pericolo l’integrità fisica e psichica, la libertà, l’onore e il decoro di una persona della famiglia o di altro soggetto indicato nella norma, richiedendosi, ai fini della configurabilità del reato in esame, che tali fatti, lungi dal poter essere atomisticamente considerati, si inseriscano in un contesto unitario, configurandosi come la componente di una più ampia condotta abituale, idonea a imporre al soggetto passivo un regime di vita vessatorio, mortificante e insostenibile.
Infatti, secondo l’orientamento consolidato della Corte di cassazione, il reato di cui all’art. 572 c.p. è consumato allorché siano compiuti, anche in un limitato contesto temporale e nonostante periodi pacifici[11], più atti, delittuosi o meno, di natura vessatoria, finalizzati a determinare sofferenze fisiche e morali alla vittima.[12]
Ha osservato, infatti, la Suprema Corte, conformemente a quanto evidenziato in dottrina, che il delitto di cui all’art. 572 c.p. è necessariamente abituale, caratterizzandosi per la sussistenza di comportamenti che assumono un connotato di disvalore e, dunque, acquistano rilevanza penale in ragione della loro stabile reiterazione nel tempo, per l’effetto cagionando durevoli sofferenze fisiche o morali nella vittima[13].
Ne consegue, quale logico e ineludibile corollario, che il delitto di maltrattamenti in famiglia può certamente dirsi sussistente ove risulti comprovata la sistematicità di condotte violente e sopraffattrici, ove, cioè, sia ravvisabile una serie continua di vessazioni, tali da configurare un’ampia condotta abituale e da determinare una costante sottoposizione della persona offesa a un regime di vita intollerabile e avvilente.
Per tali ragioni, la consumazione del reato coincide con la cessazione degli atti reiterati di vessazione,[14] a partire dalla quale decorrerà il termine di prescrizione.
Infatti, è stato chiarito sul punto che “Il reato di maltrattamenti in famiglia, configurando un’ipotesi di reato abituale, si consuma nel momento e nel luogo in cui le condotte poste in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti; fermo restando che, attesa la struttura persistente e continuativa del reato, ogni successiva condotta di maltrattamento compiuta si riallaccia a quelle in precedenza realizzate, saldandosi con esse e dando vita ad un illecito strutturalmente unitario; ne deriva che il termine di prescrizione decorre dal giorno dell’ultima condotta tenuta” (cfr., Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 52900 del 4 novembre 2016), salvo i casi in cui le condotte maltrattanti poste in essere successivamente alla modifica normativa siano intervenute dopo un significativo intervallo temporale, tale da far propendere per la autonomia dei fatti, eventualmente unificabili nel vincolo della continuazione.[15]
Con specifico riferimento alle ipotesi – che si verificano più di frequente – di condotte realizzate in ambito familiare o di convivenza, occorre distinguere, pertanto, tra il delitto di cui all’art. 572 c.p. e le ordinarie liti domestiche e, per fare ciò, è necessario verificare, al fine di ritenere integrata la fattispecie de qua, se sussista un’eventuale asimmetria di potere nel contesto familiare o di coppia in esame.
In sostanza, ricorrono le ordinarie liti familiari nelle ipotesi in cui le parti si pongono in posizione paritaria e si confrontano, anche con veemenza, su un piano di riconoscimento e di accettazione reciproca del diritto di ciascuno di esprimere il proprio punto di vista.
Ad esempio, in tal senso, la Corte di Cassazione[16] ha individuato alcuni criteri per cogliere la differenza tra le due situazioni, costituiti dalle seguenti circostanze: che vi sia o meno l’ascolto del giudizio o della volontà altrui; che la relazione sia consapevolmente e strutturalmente sbilanciata a favore di uno solo dei due (anche in ragione dell’identità sessuale); che emerga o meno un divario di potere, che dia luogo a comportamenti costanti di prevaricazione; che una parte approfitti delle condizioni soggettive dell’altra parte (quali l’età), per esercitare anche un controllo coercitivo che prevede la subordinazione dell’altro soggetto, attraverso offese e umiliazioni o mediante limitazioni della sua libertà personale o di esprimere il proprio punto di vista; che vengano poste in essere condotte ricattatorie o manipolatorie.
Pertanto, è integrato il delitto di maltrattamenti in famiglia quando la violenza viene realizzata sempre su un piano di disparità, mentre la conflittualità di coppia è caratterizzata da una posizione paritaria, in cui i protagonisti si riconoscono reciprocamente come soggetti dotati di eguale dignità e libertà e gli esiti del contrasto sono alterni, non prevedibili e tali da non ingenerare mai paura nell’altro.
Per tali motivi, il reato di maltrattamenti in famiglia, in quanto reato abituale, impone innanzitutto l’accertamento delle condotte dell’autore e del dolo, per poi inserire le stesse nella dinamica di relazione tra questi e la vittima, al fine di individuare l’eventuale condizione di sovraordinazione gerarchica, nell’ambito della quale si inscrivono i singoli e più gravi episodi che possono sostanziarsi in atti di violenza fisica o psicologica nei confronti del soggetto passivo.
Il reato di maltrattamenti in famiglia, infatti, consiste in una condotta abituale che si estrinseca nel comportamento “di chi infligge abitualmente vessazioni e sofferenze, fisiche o morali, a un’altra persona, che ne rimane succube, imponendole un regime di vita persecutorio e umiliante, che non ricorre qualora le violenze, le offese e le umiliazioni siano reciproche, con un grado di gravità e intensità equivalenti”.[17]
Il Giudice è tenuto, pertanto, a descrivere, in maniera precisa e puntuale, il contesto diseguale in cui si consuma la violenza realizzata dal soggetto attivo e il clima di umiliazione imposto alla vittima per lederne l’integrità.
Quanto all’elemento soggettivo, è richiesto il dolo generico, consistente nella coscienza e volontà di sottoporre la vittima a una serie di sofferenze fisiche e morali in modo continuativo e abituale.
Infatti, in adesione a una costante e condivisibile linea interpretativa, il dolo si identifica nella generica consapevolezza e volontà del soggetto maltrattante di infliggere una serie di sofferenze fisiche e morali alla vittima, senza che sia, invece, necessario che l’agente deliberi una volta per tutte di imporre ai familiari un penoso regime di vita e concepisca unitariamente le proprie condotte in senso strumentale alla realizzazione di tale obiettivo, secondo i connotati che più esattamente appartengono al reato continuato.
E invero, è stato precisato in dottrina[18] che la necessità che il dolo includa l’abitualità del comportamento non si spinge fino al punto di richiedere la rappresentazione mentale anticipata di tutti i singoli episodi di maltrattamento, essendo sufficiente che l’agente si renda conto della situazione di sofferenza fisica e morale che con il suo comportamento provoca.
In sostanza, il dolo del reato in parola deriva proprio dalla consapevolezza dell’agente della sofferenza a cui è stata già sottoposta la vittima e delle ulteriori vessazioni che le vengono inflitte con i successivi comportamenti da lui posti in essere.
È stato, invero, precisato, che “il dolo del delitto di maltrattamenti in famiglia non richiede la rappresentazione e la programmazione di una pluralità di atti tali da cagionare sofferenze fisiche e morali alla vittima, essendo, invece, sufficiente la coscienza e volontà di persistere in un’attività vessatoria, già posta in essere in precedenza, idonea a ledere la personalità della vittima”.[19]
La dottrina maggioritaria ritiene non configurabile il tentativo;[20] l’opinione minoritaria[21] lo ammette, nelle ipotesi in cui siano posti in essere atti, non in grado di cagionare la lesione al bene giuridico protetto dalla disposizione penale incriminatrice, ma che siano comunque caratterizzati dall’idoneità e dall’univocità a realizzare l’evento preso di mira dall’agente.
Il trattamento sanzionatorio è stato modificato – prevedendo un aumento della pena della reclusione da due a sei anni con quella attuale – dall’art. 9, comma primo, lett. a), L. n. 69/2019 (recante “modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e altre disposizioni in materia di tutela delle vittime di violenza domestica e di genere”).
Con riferimento alla questione relativa alla normativa da applicare per effetto di tale successione di norme penali, tenuto conto della natura abituale del reato in parola, la Suprema Corte ha precisato che “Il delitto di maltrattamenti in famiglia si consuma con la cessazione dell’abitualità delle condotte vessatorie, sicché, qualora la condotta si sia protratta successivamente all’entrata in vigore della legge 19 luglio 2019, n. 69, si applica il regime sanzionatorio più sfavorevole previsto da quest’ultima normativa, a prescindere dal numero di episodi commessi durante la sua vigenza e senza la necessità che gli stessi integrino, di per sé soli, l’abitualità del reato” (cfr., Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 23204 del 12 marzo 2024 e, in senso conforme, Cass. Pen., Sez. VI, Sent. n. 2979 del 3 dicembre 2020).[22]
Il comma secondo della disposizione incriminatrice prevede una circostanza aggravante a effetto speciale (con aumento di pena fino alla metà) se il fatto è commesso in presenza o in danno di persona minore, di donna in stato di gravidanza o di persona con disabilità ai sensi dell’art. 3 L. n. 104/1992 o se il fatto è commesso con armi.
Pertanto, la condotta aggravante può consistere non soltanto nel commettere i maltrattamenti in danno dei soggetti indicati dalla norma, ma anche nel farlo in loro presenza.
In tale seconda ipotesi, si ritiene che, oltre all’offesa nei confronti della vittima, il reato acquisisce una dimensione offensiva ulteriore, costituita nello scotimento della sensibilità di persone che versano in condizioni di particolare vulnerabilità.[23]
In particolare, si è sostenuto che tale scotimento può consistere o nel timore di poter subire analoghi trattamenti o in una particolare apprensione per il soggetto maltrattato (si pensi, ad esempio, al minore che subisca un trauma nell’assistere ripetutamente a maltrattamenti da parte di un proprio genitore).
Pertanto, alla luce di tali considerazioni, si può affermare che mentre nel caso di maltrattamenti posti in essere ai danni delle persone indicate dalla disposizione, la ratio dell’aggravante è costituita dalla maggiore gravità dell’offesa, in quanto realizzata nei confronti di soggetti particolarmente vulnerabili, nelle ipotesi di condotte realizzate in loro presenza, la ratio dell’aggravamento della sanzione risiede nella plurioffensività delle stesse che, infatti, si rivolgono direttamente al soggetto maltrattato, ma che sono indirizzate indirettamente al soggetto vulnerabile che vi ha assistito, il quale, peraltro, è considerato persona offesa del reato, a mente dell’art. 572, comma 4, c.p.
L’espressione in presenza richiede la presenza fisica del soggetto nel luogo dei maltrattamenti, sebbene non sia richiesto che sia stato anche testimone oculare degli stessi, purché vi assista ascoltandoli (si pensi al minore presente nella stanza attigua a quella dei genitori, ove si stanno realizzando le condotte maltrattanti).
L’orientamento della Corte di cassazione[24] ritiene, a tal riguardo, che non è richiesto, ai fini della configurabilità della circostanza aggravante, che gli atti di sopraffazione rivestano il carattere dell’abitualità, anche se è stato precisato, anche recentemente, che è comunque necessario che il minore assista a più episodi che, per numero, qualità e ricorrenza, siano tali da indurre a ritenere che sussista il rischio della compromissione del suo normale sviluppo psico-fisico.[25]
Per quanto attiene all’imputazione soggettiva della circostanza aggravante nell’ipotesi di condotta in danno occorre che l’agente percepisca la persona vulnerabile che assiste, mentre nel caso di maltrattamenti in presenza è sufficiente la colpa, non occorrendo che i maltrattamenti siano intenzionalmente o anche soltanto consapevolmente realizzati in presenza del soggetto, purché tale presenza fosse almeno prevedibile.
Con riguardo al fatto aggravato dall’uso di armi, la ratio di tale previsione normativa è da individuarsi nella particolare insidiosità e pericolosità del mezzo utilizzato.
Relativamente al comma 3 della disposizione in commento, parte della dottrina[26] ritiene si tratti di circostanze aggravanti speciali e, quindi, si tratterebbe di delitto aggravato dell’evento; altri autori[27] sostengono si tratti una fattispecie autonoma di reato in cui l’evento più grave viene imputato all’agente sulla base del solo rapporto di causalità con la condotta costitutiva del reato.
La Corte di Cassazione[28] ritiene che tale previsione normativa rappresenti una circostanza aggravante, precisando che la stessa è integrata dalle condotte di maltrattamento nel cui ambito si inscriva un’azione finale, dalla quale derivi l’evento previsto dalla norma, nelle ipotesi in cui i maltrattamenti, complessivamente considerati, abbiano idoneità concreta a offendere i beni tutelati dalla norma, di guisa che lo stesso costituisce il naturale sviluppo dell’unitaria e abituale condotta di maltrattamenti.
Con riferimento al concorso di reati, è opinione prevalente, in dottrina[29] e in giurisprudenza[30], che il delitto di maltrattamenti in famiglia assorba quelli di minacce e percosse, mentre il delitto di lesioni (anche lievi) concorre con quello di cui all’art. 572 c.p. nelle ipotesi in cui l’autore della condotta ha avuto non solo l’intenzione di maltrattare, ma anche di ledere l’integrità fisica del soggetto passivo (come chiarito da Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 42599 del 18 luglio 2018 e, in senso conforme, ex multis, Cass. Pen., Sez. III, Sent. n. 50208 del 29 aprile 2015).
Una diversa pronuncia[31] ha chiarito, invece, che è configurabile il concorso formale – e non l’assorbimento – tra le fattispecie incriminatrici previste dagli artt. 572 e 582 c.p. quando le lesioni risultano consumate in occasione della commissione del delitto di maltrattamenti, con conseguente sussistenza della circostanza aggravante dell’art. 576, comma primo, n. 5), c.p. (precisando che, in tale caso, non ricorre l’ipotesi del reato complesso, per la cui configurabilità non è sufficiente che le particolari modalità di realizzazione in concreto del fatto tipico determinino un’occasionale convergenza di più norme e, quindi, un concorso di reati, ma è necessario che sia la legge a prevedere un reato come elemento costitutivo o circostanza aggravante di un altro).
2. Brevi cenni sul delitto di atti persecutori (art. 612 bis c.p.)
La fattispecie di atti persecutori di cui all’art. 612 bis c.p. è stata introdotta dall’art. 7 D.L. n. 11/2009, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 38/2009.
La norma in parola stabilisce che “Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da un anno a sei anni e sei mesi chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita”.
La pena è aumentata se il fatto è commesso dal coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa ovvero se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici.
La pena è aumentata fino alla metà se il fatto è commesso a danno di un minore, di una donna in stato di gravidanza o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, ovvero con armi o da persona travisata.
Il delitto è punito a querela della persona offesa. Il termine per la proposizione della querela è di sei mesi. La remissione della querela può essere soltanto processuale. La querela è comunque irrevocabile se il fatto è stato commesso mediante minacce reiterate nei modi di cui all’articolo 612, secondo comma. Si procede tuttavia d’ufficio se il fatto è commesso nei confronti di un minore o di una persona con disabilità di cui all’articolo 3 della legge 5 febbraio 1992, n. 104, nonché quando il fatto è connesso con altro delitto per il quale si deve procedere d’ufficio”.
Il reato di “atti persecutori” è stato inserito nel nostro ordinamento a tutela della libertà morale della persona e ha a oggetto, come visto, condotte reiterate di minaccia e molestia che determinano nella vittima, alternativamente: un perdurante e grave stato di ansia o paura; un fondato timore per la propria incolumità o per quella di una persona comunque affettivamente legata alla vittima; la costrizione ad alterare le proprie abitudini di vita.
Il delitto in parola è un reato abituale[32], in quanto è necessaria la reiterazione delle condotte: è proprio il carattere seriale delle stesse a conferirle quella carica ossessiva tale da renderle, complessivamente considerate, idonee ad assumere rilevanza penale, anche nelle ipotesi in cui i singoli atti, autonomamente considerati, non sarebbero, di per sé, idonei a offendere il bene giuridico protetto dalla norma, assumendo disvalore soltanto quando realizzati in maniera sistematica.
Infatti, ai fini dell’integrazione della fattispecie è richiesta una serie di condotte con le quali il soggetto attivo minaccia o molesta la persona offesa, determinando, in questo modo, il verificarsi (di almeno uno) degli eventi previsti dalla disposizione penale incriminatrice.
E invero, è l’insieme ripetuto nel tempo delle singole condotte a rendere il fatto penalmente rilevante ai sensi dell’art. 612 bis c.p., atteso che, come osservato in dottrina,[33] nella reiterazione delle condotte risiede il particolare disvalore giuridico del fatto.
In sostanza, nel delitto di atti persecutori è alla campagna persecutoria del soggetto attivo nel suo complesso che deve guardarsi per determinarne la configurabilità, anche in relazione alla produzione dell’evento previsto dal precetto penale.
Per tali ragioni, la Suprema Corte ha precisato che “Il delitto previsto dell’art. 612-bis cod. pen., che ha natura di reato abituale e di danno, è integrato dalla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice e dal loro effettivo inserimento nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, che deve essere il risultato della condotta persecutoria nel suo complesso, anche se può manifestarsi solo a seguito della consumazione dell’ennesimo atto persecutorio, sicché ciò che rileva non è la datazione dei singoli atti, quanto la loro identificabilità quali segmenti di una condotta unitaria, causalmente orientata alla produzione dell’evento” (cfr., Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 7899 del 14 gennaio 2019, citata).
Con particolare riferimento alla reiterazione delle condotte, è stato precisato che il delitto non è configurabile in presenza di un’unica, per quanto grave, condotta di molestia e/o minaccia[34], anche se non è certo richiesta una lunga sequela di azioni delittuose[35].
Inoltre, secondo la Suprema Corte, il delitto si configura anche nell’ipotesi in cui i comportamenti si siano reiterati nel tempo anche a notevole distanza tra essi[36], con la precisazione che gli atti persecutori non devono essere tali da integrare una situazione con risvolti patologici (che integrerebbe il delitto di lesioni), essendo sufficiente, invece, che producano un effetto destabilizzante della serenità e dell’equilibrio psicologico della vittima.[37]
Tale caratteristica (ovverosia l’abitualità delle condotte), peraltro, ha indotto parte della dottrina, allo stato minoritaria, a considerare il reato a forma vincolata,[38] mentre l’opinione prevalente lo ritiene a forma libera, atteso che non è possibile individuare a priori la molteplicità dei comportamenti attraverso i quali la fattispecie si può realizzare.
Si tratta, inoltre, di un reato di evento e di danno, in quanto, ai fini dell’integrazione della fattispecie, è richiesto il verificarsi di almeno uno degli eventi previsti in via alternativa dalla disposizione penale incriminatrice.
L’art. 612 bis c.p., come detto, incrimina il fatto di colui che, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia o di paura, ovvero in modo da ingenerare un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva, ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita.
Come ricavabile dal dettato positivo, il delitto di atti persecutori richiede, innanzitutto, la reiterazione delle condotte, le quali devono consistere in minacce e/o molestie.
Per minaccia si intende la prospettazione di un male futuro e prossimo, la cui verificazione dipende dalla volontà dell’agente; per molestia, ogni attività che alteri dolorosamente o fastidiosamente il normale equilibrio psico-fisico di un individuo.
Da tali condotte reiterate devono poi discendere tre eventi, posti tra loro in rapporto di alternatività: un perdurante e grave stato di ansia o di paura nella vittima; un fondato timore per l’incolumità propria, di un prossimo congiunto o di persona legata alla vittima da una relazione affettiva; l’alterazione delle abitudini di vita della persona offesa.
Il reato è comune, potendo essere realizzato da chiunque, ma diviene proprio nelle ipotesi aggravate di cui all’art. 612 bis, comma 2, c.p., ovverosia di condotte poste in essere ai danni del coniuge, anche separato o divorziato, o di persona con la quale si è o si è stati legati da relazione affettiva.
Con riferimento all’elemento psicologico, è richiesto il dolo generico, atteso che la norma incriminatrice non richiedere che il soggetto attivo agisca per finalità ulteriori, che esulino dalla tipicità della fattispecie.
In tal senso, la Suprema Corte ha chiarito, con un consolidato orientamento[39], che il dolo generico “richiede la volontà di porre in essere più condotte di minaccia e molestia, nella consapevolezza della loro idoneità a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice e dell’abitualità del proprio agire, ma non postula la preordinazione di tali condotte – elemento non previsto sul fronte della tipicità normativa – potendo queste ultime, invece, essere in tutto o in parte anche meramente casuali e realizzate qualora se ne presenti l’occasione” .
Con riferimento alla consumazione del reato, la stessa coincide con il verificarsi di almeno uno degli eventi previsti, in via alternativa, dalla norma.
In dottrina vi è chi distingue[40] tra “consumazione” e “perfezionamento” del reato: la prima si ha con l’ultima delle condotte persecutorie, mentre la seconda con la reiterazione di una serie di comportamenti necessari e sufficienti a produrre uno degli eventi previsti dalla disposizione penale incriminatrice.
Tale impostazione è stata condivisa anche dalla Corte di cassazione[41], la quale, infatti, ha specificato che “Il delitto previsto dell’art. 612-bis cod. pen. ha natura di reato abituale di evento “per accumulo”, che si perfeziona al momento della realizzazione di uno degli eventi alternativi previsti dalla norma e si consuma al compimento dell’ultimo degli atti della sequenza criminosa integrativa della abitualità del reato, così che, in caso di contestazione “aperta”, il termine finale di consumazione coincide con quello della pronuncia della sentenza di condanna in primo grado, consentendo fino a quel momento l’estensione dell’imputazione alle condotte, frutto della reiterazione criminosa, realizzate dopo l’esercizio dell’azione penale”.
È ammesso il tentativo, nelle ipotesi in cui alla condotta complessivamente considerata non segue il verificarsi di uno degli eventi, per cause indipendenti dalla volontà del soggetto attivo.
Con riferimento alla remissione di querela – il cui termine è, come per i reati sessuali, di sei mesi (in luogo dei tre previsti ordinariamente dall’art. 124 c.p.) – la stessa, peraltro non consentita nei casi di condotte aggravate dall’essere state commesse mediante minacce reiterate ai sensi dell’art. 612, comma 2, c.p., è soltanto processuale.
In tal senso, va chiarito come per remissione processuale si intende non soltanto quella espressa davanti all’Autorità Giudiziaria ma, altresì, secondo il consolidato orientamento della Corte di cassazione, quella effettuata davanti a un ufficiale di polizia giudiziaria.
E invero, sul punto, la Suprema Corte[42] ha precisato che “In tema di atti persecutori, è idonea ad estinguere il reato non solo la remissione di querela ricevuta dall’autorità giudiziaria, ma anche quella effettuata davanti ad un ufficiale di polizia giudiziaria, atteso che l’art. 612-bis, comma quarto, cod. pen., facendo riferimento alla remissione “processuale”, evoca la disciplina risultante dal combinato disposto dagli artt. 152 cod. pen. e 340 cod. proc. pen., che prevede la possibilità effettuare la remissione anche con tali modalità”.
Il trattamento sanzionatorio è stato oggetto di diverse modifiche normative, che hanno previsto un aumento di pena, allo scopo di prevenire la realizzazione del delitto e di apprestare una maggiore tutela alle vittime, atteso che l’originaria pena massima di 4 anni di reclusione è stata innalzata alla pena di 5 anni di reclusione dall’art. 1 bis D.L. n. 78/2013, convertito, con modificazioni, dalla L. n. 94/2013, a sua volta aumentata nuovamente alla pena attuale, in forza dell’art. 9, comma 3, L. n. 69/2019.
In tal senso, per quanto attiene alla modifica del regime sanzionatorio, la Suprema Corte ha precisato che “Il delitto di atti persecutori, in quanto reato abituale, si consuma nel momento in cui ha luogo l’ultima condotta attuata dall’agente, sicché le modifiche “in peius” del regime sanzionatorio, introdotte dalla legge 19 luglio 2019, n. 69, trovano applicazione anche se intervenute dopo l’inizio della consumazione, ma prima della cessazione della abitualità” (cfr., Cass. Pen., Sez. V, Sent. n. 3427 del 19 ottobre 2023).
3. I rapporti tra i due delitti nelle ipotesi di condotte realizzate nei confronti di persona legata da relazione affettiva nell’orientamento della Corte di cassazione.
Con riferimento alle convivenze more uxorio, giova osservare come le recenti decisioni sul punto della Corte di Cassazione si basano sulla Sentenza della Corte costituzionale n. 98/2021 che, seppur in sede di valutazione di costituzionalità della possibile riqualificazione giuridica del fatto contestato ai sensi dell’art. 521 c.p.p. (e, dunque, con diretto riferimento a una questione processuale), rilevava l’impossibilità di poter esulare dal dato letterale della norma, allo scopo di rispettare il principio di tassatività del precetto penale di cui all’art. 25, comma 2, Cost., ragione per cui non si può assegnare al significato delle parole delle disposizioni penali un ambito di applicazione più ampio.
Il Giudice delle Leggi, infatti, osservava – relativamente alla fattispecie di cui all’art. 572 c.p. – che il termine “convivenza” non può essere dilatato al punto di ricomprendere i casi in cui un rapporto affettivo si sia protratto per qualche mese e sia stato caratterizzato da permanenze non continuative di un partner nell’abitazione dell’altro, così escludendo l’esistenza di una relazione idonea a far ritenere che la persona offesa sia persona appartenente alla stessa famiglia.
Pertanto, facendo proprie le valutazioni della Corte costituzionale, la Suprema Corte[43] ha specificato che “In tema di rapporti fra il delitto di maltrattamenti in famiglia e quello di atti persecutori, il divieto di interpretazione analogica delle norme incriminatrici impone di intendere i concetti di “famiglia” e di “convivenza” di cui all’art. 572 cod. pen. nell’accezione più ristretta, quale comunità connotata da una radicata e stabile relazione affettiva interpersonale e da una duratura comunanza di affetti implicante reciproche aspettative di mutua solidarietà ed assistenza, fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o, comunque, su una stabile condivisione dell’abitazione, ancorché non necessariamente continuativa, sicché è configurabile l’ipotesi aggravata di atti persecutori di cui all’art. 612-bis, comma secondo, cod. pen., e non il reato di maltrattamenti in famiglia, quando le reiterate condotte moleste e vessatorie siano perpetrate dall’imputato dopo la cessazione della convivenza “more uxorio” con la persona offesa”.
Nell’ipotesi in cui, invece, sussista tra i soggetti non più conviventi un legame solidaristico, ricorre il delitto di maltrattamenti in famiglia e non quello di atti persecutori.
E infatti, secondo la Corte di cassazione[44], “Nei casi di cessazione della convivenza “more uxorio”, è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia, e non invece quello di atti persecutori, quando tra i soggetti permanga un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita comune o dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale ex art. 337-ter cod. civ.”.
Tale approccio ermeneutico è stato confermato dalla Corte anche con riferimento alle ipotesi in cui le condotte maltrattanti siano poste in essere ai danni del coniuge con il quale il soggetto attivo ha interrotto la convivenza.
Infatti, è stato precisato che “Integrano il reato di maltrattamenti in famiglia, e non quello di atti persecutori, le condotte vessatorie nei confronti del coniuge che, sorte in ambito domestico, proseguano dopo la sopravvenuta separazione di fatto o legale, in quanto il coniuge resta “persona della famiglia” fino allo scioglimento degli effetti civili del matrimonio, a prescindere dalla convivenza”.[45]
Con tale pronuncia, la Corte di Cassazione ha affermato, in motivazione, che nei casi in cui le condotte vessatorie – fisiche o psicologiche – nei confronti del coniuge siano sorte nell’ambito domestico (e, pertanto, durante il matrimonio) e proseguano nonostante la cessazione del vincolo familiare, si configura il delitto di maltrattamenti in famiglia, atteso che con il matrimonio o l’unione civile la persona offesa resta “familiare” del soggetto attivo, ragione per cui ricorre il presupposto applicativo di cui all’art. 572 c.p.
In particolare, spiega la Suprema Corte, la separazione dispensa dagli obblighi di convivenza e di fedeltà, ma non da quelli previsti dall’art. 143, comma 2, c.c. (ovverosia di reciproco rispetto, di assistenza morale e materiale e di collaborazione) e, pertanto, il coniuge separato deve essere comunque considerato persona della famiglia.
Si giunge a tale conclusione, anche sulla base di quanto previsto dalle Convenzioni Internazionali[46], secondo le quali la violenza domestica tra coniugi spesso continua e si aggrava proprio in seguito alla scelta della persona offesa di separarsi.
Per tali motivi, tale interpretazione va ribadita – continua la pronuncia – quando le parti condividono un rapporto genitoriale, atteso che, in situazioni di pregressa violenza domestica, sono proprio i figli a costituire per il soggetto attivo l’occasione o lo strumento per proseguire le sue condotte maltrattanti ai danni della vittima.
Dunque, nelle ipotesi indicate ricorre il delitto di maltrattamenti in famiglia, laddove, invece, nei casi in cui tra il soggetto attivo e la vittima non siano sorti vincoli assimilabili a quelli tipici della famiglia o della convivenza abituale si configura il diverso reato di cui all’art. 612 bis, comma 2, c.p., ovverosia il delitto di atti persecutori aggravato dal fatto di essere stato commesso in danno del coniuge, anche separato o divorziato, o da persona che è o è stata legata da relazione affettiva alla persona offesa.[47]
In maniera ancora più esplicita, la Suprema Corte[48] ha chiarito che È configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia anche in danno di persona non convivente o non più convivente con l’agente nel caso in cui quest’ultimo e la vittima siano legati da vincoli nascenti dalla filiazione”, precisando, in motivazione, che tale impostazione deriva non già da una non consentita applicazione analogica dell’art. 572 c.p., ma perché la presenza di un figlio minore attesta la persistenza di un vincolo familiare, conseguente alla sussistenza a carico di entrambi i genitori di obblighi di mantenimento e di formazione.
Tale opzione ermeneutica è stata posta in discussione da altra impostazione interpretativa[49] che, privilegiando il dato letterale, ha qualificato le condotte violente o persecutorie realizzate da un convivente ai danni dell’altro – dopo la cessazione della convivenza e anche in presenza di figli della coppia – come atti persecutori aggravati ai sensi dell’art. 612 bis, comma 2, c.p.
Per tali motivi, al fine di stabilire una linea di demarcazione tra le due fattispecie, la Sentenza ha stabilito che il giudice di merito deve attribuire la qualificazione giuridica alle condotte dopo aver svolto i seguenti accertamenti di fatto: se il rapporto tra il soggetto attivo e la persona offesa fosse matrimoniale o di convivenza e se fosse cessato con una separazione – legale o di fatto – o con un’interruzione della convivenza.
Ebbene, la fattispecie concreta va qualificata ai sensi dell’art. 572 c.p. nel caso in cui le condotte siano state realizzate: nel corso della convivenza (o quando sia stata interrotta per l’adozione di una misura cautelare in atto) o nel corso della separazione tra i coniugi; nei casi in cui il delitto si è consumato nel corso di una convivenza già cessata, lo stesso va qualificato nella fattispecie di cui all’art. 612 bis, comma 2, c.p.
Sulla base del solco tracciato da tale sentenza, una più recente pronuncia[50] ha precisato che “In tema di maltrattamenti in famiglia, la mera genitorialità condivisa, al di fuori di un rapporto di coniugio o di convivenza ed in assenza di contatti significativi fra l’autore delle condotte e la vittima, non può costituire, da sola, il presupposto per ritenere sussistente un rapporto “familiare” rilevante ai fini della configurabilità del reato”, sottolineando che gli obblighi di formazione e mantenimento dei figli previsti dall’art. 337 ter c.c. a carico dei genitori non determinano un rapporto reciproco tra gli stessi, essendo il loro comune figlio l’unico soggetto interessato.
Tale sentenza, spiega, infatti, che non deve fuorviare l’orientamento della Corte[51] secondo il quale, nei casi di cessazione della convivenza more uxorio, è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia e non quello di atti persecutori aggravati ai sensi dell’art. 612 bis, comma 2, c.p., quando tra i soggetti permanga un vincolo assimilabile a quello familiare, in ragione di una mantenuta consuetudine di vita o dell’esercizio condiviso della responsabilità genitoriale, in quanto, la vicenda in esame, riguardava una situazione in cui l’imputato era quotidianamente presente nella vita e nell’abitazione dell’ex convivente e della figlia minore, per attendere ai compiti educativi e di assistenza relativi alla genitorialità.
Pertanto, la comune genitorialità non può, da sola, costituire un valido presupposto per ritenere esistente un rapporto familiare tra il soggetto attivo e la persona offesa, soprattutto quando tra i due non vi è stata alcuna convivenza.
Tale principio è stato ribadito, poi, da una pronuncia recentissima[52], con la quale la Suprema Corte ha confermato che, in tema di maltrattamenti in famiglia, la semplice genitorialità condivisa, al di fuori di un rapporto di coniugio o di convivenza e in assenza di significativi contatti tra il soggetto attivo e la vittima, non può costituire, da sola, il presupposto per far ritenere sussistente un rapporto “familiare” rilevante ai fini della configurabilità della fattispecie di cui all’art. 572 c.p.
In sostanza, le citate pronunce, sebbene abbiano dato continuità all’orientamento della Corte, secondo il quale è configurabile il delitto di maltrattamenti in famiglia quanto ci si trovi di fronte a vincoli familiari fondati sul matrimonio o a relazioni sentimentali che, per la consuetudine dei rapporti intrapresi, comportino il sorgere di vincoli affettivi e di aspettative di assistenza assimilabili a quelli della famiglia o della convivenza abituale, hanno precisato – rimeditando il precedente insegnamento di legittimità, tenuto conto di quanto espresso dalla Corte costituzionale con la Sentenza n. 98/2021 sopra richiamata e, dunque, in conformità al principio di tassatività di cui all’art. 25, comma 2, Cost. – che il rapporto per poter essere considerato di natura familiare, se non fondato sul matrimonio, deve basarsi su una concreta, effettiva e stabile convivenza more uxorio.
In tale prospettiva, infatti, si è precisato, con la pronuncia sopra richiamata, che la convivenza presuppone una stabile relazione affettiva e una duratura comunanza di affetti che sia fondata sul rapporto di coniugio o di parentela o sulla significativa condivisione dell’abitazione, ragione per cui, in assenza di tali elementi, nei casi di condotte vessatorie realizzate nei confronti dell’ex convivente – anche nei casi di coppie con figli – è integrata la fattispecie di atti persecutori aggravati ai sensi dell’art. 612 bis, comma 2, c.p.
In sostanza, la Corte di Cassazione ha precisato che, in presenza di condotte vessatorie (nel senso sopra descritto), la sola genitorialità non è idonea a configurare il concetto di famiglia – presupposto per integrare il delitto di cui all’art. 572 c.p. –, essendo necessario, altresì, che a tale situazione si accompagni, in concreto, una condivisione di aspetti legati alla vita di coppia (quali la coabitazione, anche se non continuativa, la gestione di vicende domestiche, l’educazione dei figli) e, dunque, un regime di vita comune, che comporti il sorgere di vincoli affettivi e di assistenza propri della famiglia o della convivenza.
La sussistenza, di tale comunanza e condivisione di interessi – morali, affettivi o economici – la cui valutazione è demandata al giudice di merito (che, a tale scopo, deve effettuare le valutazioni sopra esposte, come indicate dalla Corte di Cassazione) costituisce, pertanto, la linea di confine, nel caso di realizzazione di condotte maltrattanti che assumano rilevanza penale, tra la fattispecie di maltrattamenti in famiglia o contro conviventi e quella di atti persecutori aggravati ai sensi dell’art. 612 bis, comma 2, c.p.
[1] In tal senso, seppur con diverse motivazioni, Pisapia, Delitti contro la famiglia, UTET, 1953, p. 747; Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. VII, Utet, 1963, p. 926 ss; Santoro, Manuale di diritto penale, vol. IV, Delitti contro la famiglia, Utet, 1958, p. 301; Maggiore, Diritto penale, parte speciale II, Zanichelli, 1950, p. 695; Coppi, Maltrattamenti in famiglia, ESI, 1979, p. 230;
[2] Pisapia, op. cit., p. 747;
[3] Maggiore, op. cit., p. 695;
[4] Colacci, Maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli, Jovene, 1973, p. 17.
[5] Cfr., ex multis, Cass. pen., Sez. VI, Sent. 31 ottobre 2017, n. 49997.
[6] Come stabilito, tra le altre, da Cass. pen., sez. VI, 15 settembre 2022, n. 9187; Cass. pen., sez. VI, 8 luglio 2022, n. 30340; Cass. pen., sez. VI, 18 settembre 2020, n. 29542; Cass. pen., sez. VI, 12 gennaio 2016, n. 2625.
[7] Coppi, op. cit., p. 284 ss.;
[8] Fiandaca-Musco, Diritto penale, parte speciale, t. I, Zanichelli, 2020, p. 474;
[9] Coppi, op. cit.;
[10] Come chiarito da Cass. pen., sez. VI, 8 luglio 2022, n. 30340.
[11] Cass. pen., sez. II, 3 febbraio 2023, n. 11290.
[12] cfr., Cass. pen., sez. un., 29 gennaio 2016, n. 10959; Cass. pen., sez. III, 8 gennaio 2020, n. 10378; Cass. pen., sez. VI, 22 aprile 2022, n. 19847; Cass. pen., sez. VI, 14 dicembre 2022, n. 3377; Cass. pen., sez. VI, 3 luglio 2023, n. 37978.
[13] In tal senso, Cass. pen., sez. III, 21 febbraio 2017, n. 16543.
[14] G.D. Pisapia, op. cit., p. 525 ss.; v. altresì Coppi, op. cit., p. 257.
[15] Lo chiarisce Cass. pen., sez. VI, 31 marzo 2021, n. 24710.
[16] Cass. pen., sez. VI, 22 aprile 2022, n. 19847, citata.
[17] Cass. pen., sez. VI, 23 gennaio 2019, n. 4935.
[18] Fiandaca-Musco, op. cit., p. 474; Coppi, op. cit., p. 254.
[19] Cfr. Cass. pen., sez. III, 16 ottobre 2018, n. 1508; Cass. pen., sez. VI, 22 ottobre 2014, n. 1400.
[20] G.D. Pisapia, op. cit., p. 526, e vasta bibliografia ivi citata.
[21] Coppi, op. cit., p. 257 ss.
[22] Di diverso avviso un’isolata pronuncia, secondo la quale «in tema di maltrattamenti contro familiari e conviventi, ove parte della condotta sia commessa sotto la vigenza della disposizione incriminatrice di cui all’art. 572 cod. pen., come modificata in senso peggiorativo dall’art. 4, comma 1, lett. d), legge 1 ottobre 2012, n. 172, trova applicazione la norma sopravvenuta sfavorevole al reo nel solo caso in cui si collochi dopo la sua entrata in vigore un segmento di condotta sufficiente, di per sé, a integrare l’abitualità del reato» (Cass. pen., sez. VI, 24 gennaio 2023, n. 28218).
[23] Bartoli, La tutela della persona dalle aggressioni violente, in Bertolino (a cura di), Reati contro la famiglia, Giappichelli, 2022, p. 224 ss.
[24] Cass. pen., sez. VI, 9 febbraio 2021, n. 8323; Cass. pen., sez. VI, 25 ottobre 2018, n. 2003.
[25] Cfr., ex multis, Cass. pen., sez. VI, 17 gennaio 2025, n. 5026; Cass. pen., sez. VI, 25 giugno 2024, n. 31929; Cass. pen., sez. VI, 5 ottobre 2023, n. 47121.
[26] Per tutti, Mantovani, Diritto penale, parte generale, Cedam, 2020, p. 391.
[27] Coppi, op. cit., p. 262; Zuccalà, Il delitto preterintenzionale, Priulla, 1952, p. 75 ss., il quale ritiene si tratti di un delitto preterintenzionale.
[28] Cfr., Cass. pen., sez. VI, 11 maggio 2021, n. 41744; Cass. pen., sez. VI, 23 febbraio 2021, n. 16548.
[29] Coppi, op. cit., p. 259.
[30] Tra le altre, Cass. pen., sez. II, 13 dicembre 2012, n. 15571.
[31] Si fa riferimento a Cass. pen., sez. VI, 22 aprile 2022, n. 17872.
[32] Come chiarito anche dalla Corte di cassazione con le pronunce Cass. pen., sez. V, 12 febbraio 2020, n. 16977; Cass. pen., sez. V, 9 ottobre 2019, n. 3042; Cass. pen., sez. V, 14 gennaio 2019, n. 7899; Cass. pen., sez. V, 23 gennaio 2018, n. 8744; Cass. pen., sez. V, 3 febbraio 2017, n. 39758; Cass. pen., sez. V, 3 aprile 2017, n. 35588; Cass. pen., sez. V, 13 febbraio 2017, n. 25940; Cass. pen., sez. V, 17 novembre 2015, n. 12509.
[33] F. Mantovani, Diritto Penale, parte speciale, vol. I, Cedam, 2019, p. 392.
[34] Cass. pen., sez. V, 24 settembre 2014, n. 48391.
[35] Cass. pen., sez. V, 4 aprile 2013, n. 27798.
[36] Cass. pen., sez. V, 22 aprile 2021, n. 30525.
[37] Cfr., ex multis, Cass. pen., sez. V, 9 dicembre 2019, n. 4728; Cass. pen., sez. V, 17 febbraio 2017, n. 18646.
[38] In letteratura, si veda Cadoppi e altri, Diritto penale, vol. III, Utet, 2022, p. 363.
[39] Cass. pen., sez. I, 25 settembre 2020, n. 28682; in senso analogo, Cass. pen., sez. V, 7 novembre 2018, n. 61; Cass. pen., sez. V, 12 ottobre 2016, n. 50057; Cass. pen., sez. V, 10 aprile 2015, n. 42566.
[40] F. Mantovani, Diritto Penale, parte speciale, vol. I, Cedam, 2019, p. 393.
[41] Cfr., Cass. pen., sez. V, 11 dicembre 2019, n. 17000; in senso conforme, pur senza distinguere tra consumazione e perfezionamento, Cass. pen., sez. V, 20 gennaio 2020, n. 17350; Cass. pen., sez. V, 19 gennaio 2021, n. 12055; Cass. pen., sez. V, 9 marzo 2022, n. 8198.
[42] Cass. pen., sez. V, 17 dicembre 2020, n. 3034; Cass. pen., sez. V, 26 febbraio 2016, n. 18477.
[43] Cass. pen., sez. VI, 30 marzo 2023, n. 31390; nello stesso senso, tra le altre, Cass. pen., sez. VI, 28 settembre 2022, n. 38336; Cass. pen., sez. VI, 16 marzo 2022, n. 15883; Cass. pen., sez. VI, 16 febbraio 2022, n. 9663.
[44] Cass. pen., sez. VI, 26 novembre 2021, n. 7259.
[45] Cass. pen., sez. VI, 30 settembre 2022, n. 45400.
[46] Cfr., paragrafo 42 della Relazione esplicativa della Convezione di Istanbul sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica dell’11 maggio 2011, ratificata in Italia con la L. n. 77 del 27 giugno 2013;
[47] Come precisato, tra le altre, anche da Cass. pen., sez. VI, 30 novembre 2020, n. 37077; v. altresì Cass. pen., sez. VI, 25 giugno 2019, n. 37628.
[48] Cass. pen., sez. II, 29 settembre 2023, n. 43846.
[49] Cass. pen., sez. VI, 17 novembre 2021, n. 45095.
[50] Cass. pen., sez. VI, 30 maggio 2024, n. 26263.
[51] Cass. pen., sez. VI, 26 novembre 2021, n. 7259.