SOMMARIO: 1. Introduzione.- 2. L’ordinanza di rimessione e la questione problematica.-3. Le criticità strutturali dell’art. 416 bis.- 4. L’evoluzione pretoria sulla condotta di partecipazione.- 5. Il valore probatorio del rituale di affiliazione.- 6. L’informazione provvisoria delle Sezioni Unite.- 7. Conclusioni
Abstract. Il contributo analizza, alla luce della recente pronuncia delle Sezioni Unite, l’evoluzione pretoria registratasi in merito alla definizione della condotta di partecipazione associativa, esaminando, in chiave diacronia, le più rilevanti ricostruzioni dottrinali e giurisprudenziali sul punto.
Evidenziata l’atipicità definitoria connaturata al disposto normativo di cui all’art. 416 bis c.p e la frequente commistione tra tipicità e prova registratasi in punto di definizione della condotta partecipativa, si esamina il valore probatorio da attribuire al rituale di associazione non seguito da alcun atto di militanza associativa, al fine di stabilire se possa reputarsi, sic et simpliciter, sufficiente ai fini della contestazione del delitto di associazione mafiosa.
Infine, viene esaminata l’ordinanza provvisoria delle Sezioni Unite, che sembra non aver pienamente accolto le istanze garantiste sottese ai più recenti arresti giurisprudenziali, e si paventa il rischio che la soluzione fornita non possa definitivamente sopire il dibattito insorto in merito alla definizione del proprium della condotta partecipativa e dei suoi indici di rilevanza probatoria.
The contribution analyzes, in light of the recent ruling of the United Sections, the praetorian evolution recorded regarding the definition of the behavior of associative participation, examining, in a diachronic key, the most relevant doctrinal and jurisprudential reconstructions on this point.
The definitional atypicality inherent in the regulatory provisions referred to in art. 416 bis of the Criminal Code and the frequent mix of typicality and evidence recorded at the definition point of participatory conduct, the probative value to be attributed to the association ritual not followed by any act of associative militancy is examined, in order to establish whether it can be considered sufficient for the purpose of contesting the crime of mafia association.
Finally, the provisional ordinance of the United Sections is examined, which seems to have not fully accepted the guarantee requests underlying the most recent jurisprudential arrests, and there it’s feared that the solution provided may not definitively quell the debate that arose regarding the definition of participatory conduct and its probative relevance indices.
1. Introduzione
Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione, con una recente pronuncia[1], hanno definito la questione rimessa dalla prima sezione penale, componendo il contrasto insorto in ordine al valore probatorio da annettere al mero compimento di rituali di affiliazione mafiosa a consorterie di storica fama criminale, ove non emergano ulteriori indici di intraneità al sodalizio mafioso.
La questione involge, in realtà, tematiche ben più complesse, che attengono alla stessa formulazione della fattispecie incriminatrice, unanimemente definita a “tipicità incompiuta”[2], e alla difficoltà di pervenire ad una definizione puntuale della condotta di partecipazione associativa penalmente rilevante.
Invero, le significative oscillazioni ermeneutiche sul punto sono espressive di una strutturale incompiutezza definitoria della previsione normativa più che di un fisiologico contrasto esegetico attinente ad aspetti secondari della fattispecie incriminatrice. Tale circostanza rende ancor più pregnante l’esigenza di individuare in maniera perspicua gli elementi costitutivi necessari ad integrare il delitto base di partecipazione ad un’associazione mafiosa, avuto riguardo anche al severo trattamento sanzionatorio previsto per la condotta partecipativa.
È, infatti, opportuno evidenziare che la questione controversa non concerne la possibilità di ricondurre al dettato normativo di cui all’art. 416bis c.p. nuove forme di militanza associativa o peculiari modalità di interazione cooperativa tra gli associati, bensì la stessa definizione della condotta basica di partecipazione, che rappresenta la manifestazione primaria di adesione al sodalizio mafioso[3].
Tali considerazioni valorizzano l’imprescindibilità del chiarimento nomofilattico, finalmente intervenuto.
2. L’ordinanza di rimessione e la questione problematica
L’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite origina da un provvedimento di custodia cautelare, emesso dal Tribunale del riesame di Reggio Calabria, all’esito di una corposa attività investigativa concernente le condotte delittuose poste in essere da una cosca calabrese storicamente operante nel territorio dell’Aspromonte.
In particolare, dalle intercettazioni operate in fase investigativa, era emerso che i ricorrenti avevano portato a compimento il rituale di affiliazione ‘ndranghetista tradizionalmente osservato per l’adesione consortile, così suffragando il giudizio di gravità indiziaria sotteso all’emanazione della misura custodiale.
I ricorrenti, tuttavia, avevano impugnato il provvedimento deducendo che fosse affetto, in riferimento agli artt. 273 c.p.p e 416bis c.p., da violazione di legge e vizio di motivazione, in difetto di un percorso argomentativo che desse esaustivamente conto del compendio indiziario acquisito e dell’insufficienza del mero rituale di affiliazione a comprovare un’effettiva partecipazione al sodalizio mafioso.
Emerge, quindi, il nodo problematico dei requisiti strutturali richiesti per la contestazione della condotta partecipativa, laddove il compendio probatorio acquisito non fornisca elementi univocamente idonei ad attestare l’apporto di un contributo causale alla consorteria mafiosa ma comprovi il mero compimento di formalismi rituali.
Il timore di una deriva ermeneutica che reputi sufficiente la sola adesione formale ad una cosca criminale, sebbene dotata di una conclamata pericolosità, si coglie da una piana lettura dell’ordinanza di rimessione, in cui è costante la ricerca di un equilibrio tra l’esigenza di non lasciare impunite forme di reità di particolare allarme sociale e il rispetto dei principi costituzionali in materia penale, che precludono imputazioni fondate su responsabilità da status o da posizione.
Viene, altresì, paventata, ancorchè implicitamente, la possibilità che un’interpretazione prettamente formalistica possa avallare indebiti automatismi probatori, che si traducano in un’elusione delle garanzie poste a presidio della libertà individuale.
Per converso, muovendo dall’icastica perentorietà del dato letterale, l’ordinanza di rimessione rimarca che l’art. 416 bis, al primo comma, si limita a sanzionare “chiunque fa parte di un’associazione di tipo mafioso composta da tre o più persone”, senza qualificare ulteriormente le modalità mediante cui tale adesione deve estrinsecarsi.
Viene, dunque, adombrata la possibilità che, almeno per le “mafie storiche”, strutturalmente radicate sul territorio, debba reputarsi sufficiente il rituale adesivo, in piena consonanza ad un dettato normativo che non richiede il compimento di alcun atto esecutivo di militanza associativa.
La ricerca garantista di ulteriori indici di colpevolezza verrebbe, infatti, rimessa ad un’attività di creazione pretoria, del tutto sganciata dal tenore letterale della fattispecie, che finirebbe per preludere ad un’inevitabile discrezionalità giudiziaria, incompatibile con il principio di legalità formale.
Due, dunque, sono i temi di indagine, su cui si è registrato il maggior contrasto interpretativo: sul versante della tipicità, l’individuazione del minimum della condotta di partecipazione punibile, su quello della prova, il valore da attribuire agli indici sintomatici della partecipazione, tra cui, in primis, l’avvenuto compimento di un rituale di affiliazione.
Proprio per tali ragioni, è emersa la necessità di sollecitare un intervento nomofilattico che, alla luce del disposto normativo di cui all’art. 618 c.p.c.. possa conferire maggiore stabilità agli “indicatori consortili” di partecipazione individuati dal Supremo Consesso[4].
La prima Sezione Penale ha, dunque, formulato alle Sezioni Unite il seguente quesito: “se la mera affiliazione ad una associazione a delinquere di stampo mafioso cd. storica, nella specie ‘Ndrangheta’, effettuata secondo il rituale previsto dalla associazione stessa, costituisca fatto idoneo a fondare un giudizio di responsabilità in ordine alla condotta di partecipazione, tenuto conto della formulazione dell’art. 416-bis c.p. e della struttura del reato dalla norma previsto”.
3. Le criticità strutturali dell’art. 416 bis c.p
Si è in precedenza accennato che la controversa definizione della nozione di di partecipazione alle consorterie mafiose sia, preliminarmente, da imputare all’incompiutezza definitoria della fattispecie incriminatrice e al deficit di determinatezza che la caratterizza.
Pertanto, prima di effettuare una disamina del contenuto dell’informazione provvisoria resa dalle Sezioni Unite, occorre individuare compiutamente i limiti della previsione normativa e chiarirne la portata applicativa. Operazione che si rende necessaria anche al fine di distinguere tra la figura del partecipe, intraneo al sodalizio, e quella del concorrente esterno.
Oltretutto, sulla definizione della questione, indubbiamente incidono considerazioni di più vasta portata, attinenti all’esatta individuazione del momento consumativo del delitto associativo e della sua proiezione offensiva, in termini di reato di pericolo o di danno, che occorre, pertanto, esaminare almeno sommariamente.
L’inquadramento di tali aspetti, infatti, lungi dall’avere una portata meramente classificatoria, incide in maniera sostanziale sull’esatta configurazione della condotta partecipativa e consente di comprendere le argomentazioni addotte a sostegno dei contrapposti indirizzi pretori.
L’art. 416 bis è stato introdotto per approntare un efficace strumento di contrasto al fenomeno della criminalizzata organizzata di stampo mafioso, sulla scorta dell’evidente inadeguatezza dell’art. 416 c.p a reprimere complesse organizzazioni, gerarchicamente ordinate, dirette al perseguimento di fini criminali e all’ acquisizione di un pieno controllo del territorio[5].
Proprio tale esigenza ha indotto a calibrare il dettato normativo sulla scorta delle caratteristiche strutturali delle “mafie storiche”, quali Cosa Nostra, la Camorra e la ‘ndrangheta, che tradizionalmente hanno avuto quale obiettivo primario il controllo delle attività produttive e degli apparati pubblici.
La stessa formulazione normativa, ampiamente evocativa di richiami a sfondo sociologico e, per lo più, orientata a delineare le finalità perseguite dalle consorterie mafiose, ha consentito di effettuare interpretazioni evolutive che permettono di reprimere nuove forme di criminalità.
Si pensi, infatti, all’utilizzo di tale incriminazione con riguardo a fenomeni di nuova emersione, quali le mafie delocalizzate o straniere che, pur differenziandosi nettamente dal modello strutturale prefigurato dal legislatore storico, sono state sussunte nell’alveo del disposto di cui all’art.416bis.
Nondimeno se, da un lato, è connaturato alla stessa ratio legis della disposizione l’intento di enucleare un precetto più elastico, in grado di attagliarsi a tutte le forme di criminalità organizzata idonee a sprigionare le medesime condizioni di assoggettamento ed omertà derivanti dall’impiego del metodo mafioso, dall’altro, occorre scongiurare interpretazioni riduttive dei requisiti oggettivi della fattispecie, che conducano ad un’applicazione eccessivamente lata dell’incriminazione[6].
Deve, infatti, essere sempre adeguatamente valorizzato il proprium dell’incriminazione, che consiste nell’uso di un metodo mafioso, in grado di ingenerare nella collettività una condizione di omertà e di assoggettamento. Occorre, in sostanza, che vi sia un riscontro empirico che il sodalizio, per il perseguimento dei propri scopi delittuosi, si sia avvalso della forza di intimidazione connaturata al suo agire e che proprio mediante l’uso di tale forza abbia potuto perseguire i propri obiettivi.
La necessità che vi sia uno sfruttamento del metodo mafioso, descritto al terzo comma, ha indotto, sotto il profilo dogmatico, a qualificare tale delitto quale reato associativo a “struttura mista”, poiché in contrapposizione al delitto a struttura semplice di cui all’art. 416 c.p., richiede un quid pluris oggettivo rispetto all’organizzazione pluripersonale e ad un programma delittuoso, che si sostanzia proprio nell’avvalimento della forza d’intimidazione del vincolo associativo.
L’analisi di tale requisito strutturale ha, peraltro, sollecitato una riflessione sull’effettiva natura, di danno o di pericolo, del delitto in esame.
Tradizionalmente, infatti, si è affermato che la fattispecie de qua integrasse un reato di pericolo presunto, poiché la mera esistenza di un’organizzazione plurisoggettiva funzionale all’attuazione di un programma delinquenziale varrebbe ad integrare una consistente esposizione a pericolo dell’ordine pubblico.
La rilevanza, sociale e collettiva, del bene giuridico da presidiare legittimerebbe, pertanto, un arretramento della soglia di punibilità, consentendo di punire anche condotte meramente associative, a prescindere dalla realizzazione dei delitti – scopo.
Tale opzione di politica criminale viene anche giustificata alla luce della considerazione che la repressione penale non riposa solo sull’esigenza di prevenire la commissione dei reati avuti di mira dal sodalizio, ma è motivata anche dalle maggiori possibilità di successo dei propositi criminali, derivanti dalla possibilità di sfruttare l’apporto di tutti i consorti e l’organizzazione strutturale dell’associazione.
Tali considerazioni varrebbero a legittimare la deroga all’art. 115 c.p., poiché, in tal caso, non verrebbe sanzionata una mera intesa priva di manifestazioni esteriori, ma la costituzione fattuale di un’associazione che determina una minaccia per la sicurezza collettiva.
I beni giuridici esposti a pericolo per effetto della costituzione del vincolo associativo vengono individuati in rapporto alle finalità programmatiche del sodalizio enucleate dal dettato normativo.
Il reato è, infatti, considerato plurioffensivo, poiché contestualmente in grado di ledere l’ordine pubblico, la libertà di iniziativa economica, l’imparzialità e il buon andamento della pubblica amministrazione, il libero esercizio del voto, nonché la libertà morale dei cittadini, conculcata dallo stato di intimidazione cui sono indotti.
È evidente che la qualificazione del delitto in termini di reato di mero pericolo, che prescinde, dunque, dall’accertamento di una lesione effettiva dei beni giuridici dapprima elencati, non può che avere una consistente refluenza sull’individuazione del momento consumativo del delitto e sulla definizione della condotta di partecipazione punibile.
L’esposizione a pericolo dell’ordine pubblico, infatti, verrebbe integrata per effetto del mero ingresso del sodale nella compagine, ex se in grado di incrementarne le potenzialità delinquenziali in ragione dell’accresciuto numero di consociati. La consumazione del delitto si registrerebbe, pertanto, nel momento dell’adesione.
Altra parte della dottrina, osserva, invece, che proprio la caratterizzazione in termini oggettivi dell’uso del metodo mafioso operata dalla norma, indurrebbe a qualificare la consorteria mafiosa quale associazione che “delinque” e non “ per delinquere”[7]. L’offesa operata mediante l’uso di tale metodo andrebbe quindi apprezzata nel suo contenuto di danno e non di mero pericolo[8]. In questa prospettiva, la condotta meramente adesiva risulterebbe insufficiente, perché il profilo di danno dovrebbe necessariamente essere riconnesso al compimento materiale di un atto che rechi un effettivo contributo alla vita dell’associazione e la consumazione del delitto andrebbe ravvisata proprio in relazione a tale momento.
4. L’evoluzione pretoria sulla condotta di partecipazione
L’intrinseca carenza definitoria del disposto normativo di cui al comma 1 dell’art. 416bis c.p ha reso ineludibile un intervento suppletivo della giurisprudenza, chiamata a delineare i presupposti di rilevanza penale della condotta di partecipazione punibile.
Se, invero, le attività di direzione, promozione e organizzazione, incriminate al secondo comma, manifestano, sul piano descrittivo, una maggiore attitudine connotativa della condotta punibile, altrettanto non può dirsi per la laconica espressione del “far parte” di un’associazione di stampo mafioso.
La vaghezza descrittiva, dipendente anche dalle stesse caratteristiche criminologiche del fenomeno delittuoso in esame, si coniuga, oltretutto, con la tendenza della giurisprudenza a diversamente declinare la nozione di partecipazione in funzione del compendio probatorio disponibile[9]. Conseguentemente, l’individuazione dei requisiti costitutivi della partecipazione punibile sembra dipendere non soltanto dalla caratteristiche strutturali ed organizzative della specifica consorteria mafiosa, ma anche dalla quantità e qualità del materiale probatorio acquisito[10].
La particolare permeabilità di tale figura delittuosa alle esigenze processuali ha indotto, infatti, a parlare di una “processualizzazione delle categorie penali sostanziali”[11], rilette alla luce dei contingenti obiettivi di repressione penale emersi in sede giurisdizionale.
Si evidenzia che la “gestione prasseologica della fattispecie associativa di cui all’art. 416 bis”[12] si sarebbe spinta fino ad indurre un’inversione dell’ordinario procedimento sillogistico di applicazione delle disposizioni normative, enucleando soltanto ex post, sulla scorta dell’evidenze processuali, la definizione delle condotte penalmente rilevanti di partecipazione associativa.
In sostanza, “si è preso atto della reale efficacia performativa che la dimensione processuale e le logiche probatorie che in essa si animano esercitano sulle categorie sostanziali, colte nella prospettiva dinamica della loro realizzazione pratica”[13].
Proprio tali considerazioni consentono di comprendere le ragioni che hanno determinato la contestuale coesistenza di indirizzi eterogenei in merito all’individuazione dei requisiti strutturali della condotta partecipativa[14].
Effettuando una ricostruzione diacronica dei principali paradigmi ricostruttivi, è possibile cogliere un’evoluzione che simmetricamente rispecchia la transizione da un diritto penale di stampo soggettivo ad una moderna impostazione oggettivistica[15], più aderente al dettato costituzionale.
Le prime elaborazioni in tema di condotta di partecipazione tributavano, infatti, indubbia centralità all’elemento soggettivo dell’adesione psichica dell’intraneo alla consorteria mafiosa.
Secondo la concezione psicologica, la deliberata volontà di aderire al sodalizio, accrescendone le potenzialità criminali, varrebbe ad integrare ex se la condotta partecipativa, indipendentemente dal compimento di alcun atto espressivo di tale intendimento.
In sostanza, secondo tale orientamento, la nozione di partecipazione verrebbe a coincidere con la mera “affectio societatis” e, dunque, con la volontà di rendersi disponibili all’attuazione del programma criminoso della consorteria[16], realizzando una consistente enfatizzazione della componente soggettiva a detrimento di quella oggettiva.
È evidente che tale ricostruzione, integralmente incentrata sulla dimensione psichica del partecipe, si poneva in irredimibile contrasto con i principi di offensività e materialità[17], potendo condurre all’applicazione di sanzioni, peraltro di cospicua entità, per effetto di una volontà interiore non necessariamente estrinsecata.
A tali considerazioni, si aggiungevano, inoltre, le difficoltà probatorie connesse all’accertamento di una volontà psichica maturata nel foro interno dell’associato[18].
Pertanto, preso atto dell’insufficienza di un criterio di stampo prettamente soggettivistico, sganciato da qualunque riflesso empirico e materiale, progressivamente la giurisprudenza ha propugnato l’adozione di un modello maggiormente ancorato al riscontro fattuale della partecipazione dell’associato all’attività della consorteria.
A partire dalla nota sentenza Arslan, la Corte di Cassazione, rendendo manifesta tale esigenza, ha statuito che, ai fini della contestazione della condotta partecipativa, occorre che il partecipe realizzi “un contributo causale minimo, ma non insignificante alla vita dell’associazione”[19].
Con tale pronuncia, si evidenzia che coessenziale all’accertamento di una manifestata affectio societatis, è il riscontro probatorio dell’incidenza eziologica del contributo dell’intraneo sull’attuazione degli scopi delittuosi dell’associazione, così conferendosi rilievo al compimento di atti empiricamente valutabili[20].
La dottrina ha, tuttavia, evidenziato che, sebbene tale ricostruzioni manifesti una maggiore aderenza ai principi di offensività e materialità del fatto tipico, non riesce comunque a colmare il deficit di tassatività che inficia la fattispecie, non consentendo di circoscrivere in maniera univoca il novero delle condotte atte ad integrare la disposizione incriminatrice.
E’ stato, invero, evidenziato che “la caratterizzazione in chiave causale del contributo partecipativo non fornisce, infatti, all’interprete parametri predeterminati su cui fondare il giudizio di tipicità della condotta, risolvendosi, al contrario, in un criterio flessibile, e perciò variabile in ragione della situazione concretamente considerata”[21].
La nozione di partecipazione, così enucleata, permane ancora fluida e scarsamente selettiva, e suscettibile piuttosto di interpretazioni estensive, tali da “attrarre nell’area di operatività della fattispecie l’intera gamma delle condotte in astratto funzionali alla vita dell’associazione”[22].
Oltretutto, concepita in tali termini, la condotta di partecipazione finirebbe per sovrapporsi indebitamente all’ambito di operatività del concorso esterno in associazione mafiosa, atteso che in entrambi i casi ciò che risulterebbe dirimente sarebbe la mera attitudine causale del comportamento tenuto a recare un vantaggio all’associazione[23].
Ancorchè tale circostanza non possa produrre dei riflessi immediati su un piano strettamente pratico – essendo la sanzione comminata di eguale severità in entrambi i casi – si rischia però, in tal modo, di obliterare la distinzione tra condotte delittuose ontologicamente differenti, che finirebbero esclusivamente per distinguersi in ragione della sussistenza del requisito soggettivo dell’affectio societatis.
Si è obiettato, infine, che una prospettiva esclusivamente incentrata sull’apporto causale fornito dal partecipe colliderebbe col dato letterale della disposizione che, incriminando “chi fa parte” dell’associazione, sembra sottendere una piena compenetrazione nella compagine criminosa della consorteria e non solo una condotta di ausilio al perseguimento degli obiettivi delittuosi avuti di mira dalla stessa[24].
Per ovviare alle sueposte criticità è stata patrocinata un’ulteriore interpretazione, volta ad attribuire rilievo preminente al profilo organizzatorio, sulla scorta di elementi che siano sintomatici di uno stabile ed organico inserimento del partecipe nell’associazione.
Tale elaborazione, articolata nella duplice variante del modello organizzatorio c.d puro e di quello misto, ha certamente conseguito l’obiettivo di tracciare una demarcazione netta tra le distinte figure del partecipe e del concorrente esterno, non risultando quest’ultimo, all’evidenza, compenetrato stabilmente e organicamente nel tessuto criminoso del sodalizio.
Più precisamente, secondo il modello c.d puro, delineato dalla sentenza Graci[25], alla c.d “messa a disposizione” manifestata dal partecipe deve corrispondere uno speculare atto di accettazione da parte dell’associazione, che riconosca al sodale il ruolo di membro della compagine[26].
Tale interpretazione tassativizzante ha l’indubbio merito di circoscrivere le condotte punibili, esigendo, in un’ottica relazionale, un’univoca e concorde decisione dell’associazione di annettere il sodale al suo interno, così realizzando una fusione tra la dimensione individuale e collettiva del fenomeno delittuoso.
Si transita, dunque, da una fattispecie monosoggettiva causalmente orientata, priva di ogni tipizzazzione della condotta punibile, che si accontentava di “un contributo minimo seppure non insignificante alla vita dell’associazione”, ad un reato – accordo, a carattere bilaterale, che incrimina la stabile compenetrazione nella consorteria criminale[27].
Gli indici di rilevanza della partecipazione punibile, individuati dalla sentenza Graci, consisterebbero: nell’effettivo ingresso nel sodalizio, ancorchè non rituale; nella speculare accettazione dei sodali; nell’adesione alle regole della consorteria e nell’assunzione della corrispondente qualifica di membro dell’associazione che, a sua volta, implica un rispetto rigoroso delle gerarchie mafiose, “la messa a disposizione” per l’attuazione dei fini criminali del sodalizio, nonché l’imposizione degli ordini necessari a conseguire gli scopi delittuosi perseguiti dall’associazione.
Tale orientamento non si spinge fino al punto di pretendere che il partecipe abbia piena contezza dell’intero programma criminoso o che conosca singolarmente ciascuno dei sodali, essendo sufficiente, piuttosto, che si scorga “un vincolo funzionale in senso operativo che lega ogni adepto alla struttura associativa”.[28]
Anche tale ricostruzione, tuttavia, è stata esposta a critiche difficilmente superabili, per il concreto rischio che, conferendo rilievo centrale al ruolo rivestito, possa condurre a delle forme di responsabilità da status o da “formale appartenenza”.
Laddove, infatti, al conseguimento formale della qualifica di partecipe non corrisponda lo svolgimento di compiti espressivi del ruolo assunto, si perpetrerebbe la medesima lesione dei principi di offensività e materialità contestati ai fautori della concezione psicologica[29].
L’acquisita consapevolezza dell’insufficienza tanto del modello organizzatorio quanto di quello causale, singolarmente considerati, a fornire una nozione esaustiva e sufficientemente determinata della condotta di partecipazione, ha indotto ad elaborare un modello misto, in cui al profilo organizzatorio deve imprescindibilmente coniugarsi un apporto causale fornito dal partecipe[30].
Tale opzione ermeneutica persegue lo scopo di conferire maggiore spessore al contributo dell’intraneo, ancorandolo al compimento di atti dotati di una concreta offensività e simultaneamente sintomatici della funzione disimpegnata in seno al sodalizio.
Parte della dottrina ha, tuttavia, evidenziato che, nonostante le encomiabili premesse metodologiche di fondo, sul versante applicativo, tale impostazione si sia tradotta in “un artificio retorico fondato su logiche presuntive”[31] e che abbia riproposto sotto mentite spoglie l’applicazione del modello organizzativo puro.
Tali censure sono da imputare alle numerose pronunce che hanno statuito che il contributo del partecipe può anche consistere nella mera dichiarata adesione consortile, poiché questi, prestando la propria disponibilità ad agire per la cosca mafiosa, per ciò solo, ne accresce la potenzialità operativa e la capacità di penetrare nel tessuto sociale, anche in ragione dell’accresciuto numero dei suoi membri[32].
In questo modo la dimostrazione del contributo causale dell’intraneo sfumerebbe nel mero inserimento associativo, poiché l’adesione di un nuovo sodale genererebbe un rafforzamento ipso facto dell’associazione, che saprebbe di potersi avvalere dell’opera del partecipe ove ne abbia bisogno.
È evidente da tale prospettazione che, così inteso, tale modello nulla aggiungerebbe, in sostanza, a quello organizzatorio c.d puro, rischiando di ricadere nelle medesime derive formalistiche.
Questo profilo di debolezza si riannoda anche al vacuo tributo che viene effettuato all’apporto causale del partecipe. Ciò che viene richiesto, infatti, non è una verifica dell’attitudine causale del contributo dell’intraneo ad accrescere in modo empiricamente verificabile la pericolosità della consorteria, ma il mero compimento di atti di militanza associativa, che in sé potrebbero risultare del tutto sforniti di tale potenzialità.
Una sintesi reale dei due modelli prefigurati viene definitivamente attuata solo con la sentenza Mannino[33] che, in piena aderenza ai principi costituzionali, ha codificato una nozione meno ambigua di partecipazione, valorizzando la proiezione fattuale dell’inserimento organico nel sodalizio, mediante comportamenti espressivi del ruolo svolto. Dunque, tale ruolo fattivo deve essere manifestato mediante il compimento di atti di militanza associativa eziologicamente rilevanti per il perseguimento degli scopi dell’associazione, risultando insufficiente un mero ingresso formale nel tessuto criminale dell’associazione.
La pronuncia chiarisce che si tratta di una condotta “ che non deve necessariamente possedere – di per sé- una carica elevata di apporto causale alla vita dell’intera associazione o di un suo particolare settore, come richiesto per il concorrente esterno, ma deve in ogni caso porsi come comportamento concreto, teso ad agevolare il perseguimento degli scopi associativi in modo riconoscibile e non puramente teorico, sì da potersi ritenere condotta indicativa dello stabile inserimento del soggetto nel gruppo”.
Tale arresto propugna la valorizzazione di una prospettiva dinamico- funzionale, che non si arresta alla mera constatazione dell’acquisizione del ruolo statico di partecipe, conseguito formalmente mediante un rituale di adesione, ma che pretende che tale partecipazione fattiva si estrinsechi nell’attuazione dei compiti assegnati all’intraneo dal sodalizio[34].
Per conferire maggiore pregnanza alle enunciazioni di principio effettuate, le Sezioni Unite Mannino si soffermano anche sul “ piano della dimensione probatoria della partecipazione” , individuando “ gli indicatori fattuali dai quali, sulla base di attendibili regole di esperienza attinenti propriamente al fenomeno della criminalità di stampo mafioso, possa logicamente inferirsi il nucleo essenziale della condotta partecipativa, e cioè la stabile compenetrazione del soggetto nel tessuto organizzativo del sodalizio” Vengono, quindi, individuati, a scopo meramente esemplificativo, “indizi gravi e precisi, dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo, nonché della duratura, e sempre utilizzabile, “messa a disposizione” della persona per ogni attività del sodalizio criminoso”[35], tra i quali vengono annoverati “ i comportamenti tenuti nelle pregresse fasi di osservazione e prova l’affiliazione rituale, l’investitura della qualifica di “uomo d’onore”, oltre a molteplici, variegati e però significativi facta concludentia dai quali sia lecito dedurre, senza alcun automatismo probatorio, la sicura dimostrazione della costante permanenza del vincolo”.
Un ragionato ed analitico esame dei contenuti espressi nella sentenza Mannino viene effettuato nella sentenza Pesce[36] che, oltre a ribadirne la coerenza ai principi costituzionali, ne corrobora la validità alla luce di considerazioni sistematiche e di aderenza al dettato delle fonti sovranazionali.
Si ribadisce, infatti, l’insufficienza del mero accordo di ingresso alla consorteria, alla luce di una lettura combinata con il disposto dell’art. 270 quater, che sanziona la condotta di arruolamento con finalità di terrorismo anche internazionale. Con tale disposizione, il legislatore ha sanzionato espressamente la condotta di chi si sia meramente arruolato, senza aver ancora compiuto alcun atto delittuoso attuativo degli scopi dell’associazione terroristica, rendendo così manifesto che lo statico inserimento in una compagine associativa, ove non accompagnato da alcun atto esecutivo, non vale ad integrare il delitto di partecipazione associativa, invece punito a norma dell’art 270 bis[37].
L’esigenza di introdurre una disposizione ad hoc esalta la pregnanza della condotta partecipativa che non può esaurirsi nel riscontro formale di una mera adesione.
La necessità che l’intraneo, per definirsi autenticamente tale, apporti un contributo concreto e percepibile alla consorteria viene, inoltre, enfatizzata dalle disposizioni sovranazionali che individuano diverse forme di partecipazione attiva alla vita del sodalizio.
In tal senso dispone, in ambito UE, la Decisione quadro n.2008/841/GAI del Consiglio, relativa alla lotta contro la criminalità organizzata, che definisce la condotta di partecipazione come “ il comportamento di una persona che [ .. ] partecipi attivamente alle attività criminali dell’organizzazione, lvi compresi la fornitura di informazioni o mezzi materiali, il reclutamento di nuovi membri, nonchè qualsiasi forma di finanziamento delle sue attività, essendo consapevole che la sua partecipazione contribuirà alla realizzazione delle attività criminali di tale organizzazione”.
Pertanto, l’adesione alle indicazioni sovranazionali, funzionali a realizzare un’armonizzazione delle legislazioni dei diversi Stati membri, nonché il doveroso rispetto dei principi costituzionali, a giudizio della Corte, “portano a ritenere doverosa la connotazione della condotta partecipativa in senso dinamico (partecipazione attiva), evitando scorciatoie dimostrative correlate alla avvenuta dimostrazione del ‘nudo’ accordo di ingresso o di condizioni soggettive cui non si accompagni – in virtù della valenza di precisi dati istruttori – un preciso connotato di effettiva agevolazione”.
5. Il valore probatorio del rituale di affiliazione
Delineata l’evoluzione pretoria che ha cercato di definire lo statuto di tipicità dell’intraneità associativa, occorre valutare quale rilievo probatorio possa essere conferito alla celebrazione di un rituale di affiliazione alle consorterie mafiose di nota fama criminale, non seguito dal compimento di atti di militanza associativa.
Occorre, preliminarmente precisare che, nonostante le pregevoli conclusioni raggiunte sul versante definitorio e sostanziale, sempre più aderenti ad un diritto penale del fatto, si riscontra ancora una forte interferenza delle esigenze probatorie da soddisfare in sede processuale, che finiscono per ridisegnare in fatto la condotta di partecipazione, sulla scorta delle evidenze probatorie disponibili nel singolo procedimento[38].
È proprio sul terreno della prova, infatti, che acquisisce rilievo il compimento di formalismi rituali di inserimento nella consorteria criminali, per lungo tempo reputati sufficienti dalla giurisprudenza ad asseverare un intervenuto e stabile inserimento nel sodalizio.
È noto, infatti, che l’ingresso in consorterie di fama storica è spesso preceduto da liturgie scandite da formule e gesti rituali che conferiscono sacralità alla procedura di iniziazione dei nuovi adepti, che accedono ad una “nuova vita” a servizio della cosca, acquisendo la qualifica di “uomo d’onore”, che permane nonostante il mancato coinvolgimento nella realizzazione dei delitti – scopo.
Si pensi alla c.d “punciuta” siciliana, diretta a creare un vincolo di sangue tra consociati, al battesimo della ‘ndrangheta, consumato mediante l’incenerimento di un santino e regolamentato, persino, da codici tramandatisi negli anni, fino al giuramento di fedeltà camorrista che si conclude con la consegna del coltello del capo della riunione al nuovo affiliato.
Si è osservato che i rituali perfezionati dalle mafie storiche si articolano in tre distinti momenti: l’enunciazione di formule sacrali dirette a conferire un alone esoterico al rituale, l’esposizione di una figura sacra funzionale a conferire una validazione spirituale alla procedura, ed, infine, il compimento di un atto autolesionista espressivo del coraggio e della determinazione dell’uomo d’onore[39].
Al giuramento sacrale viene riconnesso il duplice effetto di sancire il definitivo ingresso dell’adepto alla consorteria e di individuare lo specifico ruolo che è chiamato ad adempiere a vantaggio del sodalizio, producendo una forte carica vincolante che rende più difficile il recesso dall’associazione.
Un insieme di barbare ritualità, altamente sintomatico delle intenzioni delittuose del nuovo aderente, che manifesta la propria disponibilità ad assecondare i desiderata della consorteria, per attuarne gli scopi e accrescerne le potenzialità operative.
Occorre, tuttavia, valutare se, nonostante la rilevanza del valore simbolico dell’affiliazione rituale, il dato del mero ingresso nella consorteria debba reputarsi sufficiente ai fini della contestazione del delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, laddove non sussistano ulteriori indicatori fattuali in grado di attestare uno stabile inserimento del sodale.
La tendenza a ritenere sufficiente il solo “giuramento di mafia” rinviene la sua genesi nei più importanti processi di mafia, ove i collaboratori di giustizia sovente erano in grado di testimoniare la sola avvenuta affiliazione rituale dell’imputato ma non riuscivano ad individuare in maniera specifica i contributi approntati a favore della cosca.
Tale prassi è stata, poi, suffragata dall’elaborazione del modello organizzatorio c.d puro, che riconnette alla mera assunzione di un ruolo formale la qualifica di intraneo all’associazione e, nelle sue interpretazioni più formalistiche vi scorge, in nuce, un implicito apporto causale a vantaggio della compagine criminale.
Numerose pronunce hanno, infatti, evidenziato che la qualifica di “uomo d’onore” non è espressiva di un’adesione morale meramente passiva ed improduttiva di effetti, ma si traduce automaticamente in una persistente offerta di ausilio, anche materiale, nonché nella profusione di ogni energia e risorsa per l’attuazione dei fini criminali dell’associazione.
Soluzione corroborata, peraltro, dalla qualificazione del delitto di cui all’art. 416 bis in termini di reato a condotta libera e pericolo presunto, per la cui consumazione sarebbe dirimente il momento in cui il soggetto entra a far parte della consorteria, mediante la sua “messa a disposizione”.
Espressiva di tale orientamento, è la recente sentenza Geraci, ove si precisa che “il reato di associazione di tipo mafioso si consuma nel momento in cui un soggetto entra a far parte dell’organizzazione criminale, senza che sia necessario il compimento, da parte dello stesso, di specifici atti esecutivi della condotta illecita programmata, poiché, trattandosi di reato di pericolo presunto, per integrare l’offesa all’ordine pubblico è sufficiente la dichiarata adesione al sodalizio, con la c.d. “messa a disposizione”, che è di per sé idonea a rafforzare il proposito criminoso degli altri associati e ad accrescere le potenzialità operative e la capacità di intimidazione e di infiltrazione del sodalizio nel tessuto sociale”[40].
La pronuncia evidenzia che, a favore di tale soluzione, milita anche il tenore testuale dell’art. 416bis, che ancora la punibilità al mero “far parte” dell’associazione, senza aggettivazioni ulteriori. Circostanza che si salda alla natura di delitto di pericolo del reato in esame, poiché “se la semplice partecipazione all’associazione, costituisce un reato di pericolo presunto perché mette in pericolo, ex se, l’ordine pubblico, si spiega anche il motivo per cui il legislatore non ha richiesto che la partecipazione abbia una particolare connotazione sotto il profilo causale”[41].
A parere della Corte, diversamente opinando, si produrrebbero conseguenze confliggenti con lo stesso tenore della disposizione incriminatrice.
Infatti, si tramuterebbe surrettiziamente la natura del delitto di associazione mafiosa, convertendolo da fattispecie di pericolo presunto a reato di evento e di danno, con la consequenziale necessità di fornire prova del nesso di causalità insistente tra la condotta (partecipazione associativa) e l’evento (rafforzamento della consorteria)[42].
Ulteriormente, si rischierebbe di determinare una sovrapposizione tra la condotta “di” associazione, legata all’assunzione del ruolo di partecipe, con quella “dell’associazione”, ovvero con quella diretta ad attuare il programma delinquenziale avuto di mira dalla consorteria, che si traduce nell’esecuzione dei delitti scopo.
Tale pronuncia non si pone, però, nel panorama giurisprudenziale quale arresto isolato, rinvenendo numerosi precedenti di analogo tenore.
Le medesime riflessioni, infatti, si scorgono nella trama argomentativa della sentenza Pontari[43], che evidenzia che: “è per l’alta simbologia di cui è permeata la cerimonia di affiliazione che non appare condivisibile ritenere che – in assenza di una qualche condotta che indichi quale sia il ruolo che l’affiliato ricopre nell’ambito associativo- la suddetta affiliazione abbia una valenza neutra ai fini della partecipazione all’associazione mafiosa”. Se non dovesse ritenersi integrato, come appare opportuno, il delitto di partecipazione non potrebbe disconoscersi che “l’affiliazione va considerata, quanto meno, alla stregua di un vero e proprio concorso morale proprio perché il raggiungimento degli scopi associativi è facilitato e rafforzato dalla consapevolezza di ciascun associato di poter fare preventivo affidamento sul contributo di ciascuno di essi”.
La pronuncia richiamata evidenzia anche la comunanza del sostrato culturale e ideologico tra il partecipe, appena affiliato, e la consorteria, che renderebbe superfluo “pretendere di individuare il ruolo di ciascuno ed attendere, per la sua punibilità, il momento in cui diventi operativo” , giacchè “chi entra in un’associazione mafiosa, vi entra perché ne condivide i valori su cui si fonda, per i quali egli si impegna a mettere a disposizione tutte le proprie energie, le proprie capacità e le proprie competenze, quando sarà il momento e quando ne sarà richiesto per il bene, la potenza ed il successo dell’organizzazione”.
A supporto di tali argomentazioni si adduce, spesso, la considerazione che il vincolo con l’associazione mafiosa risulta nella prassi difficilmente rescindibile, se non a seguito di una fattiva collaborazione con la giustizia, proprio perché i rituali di affiliazione, per l’alone di sacralità di cui si ammantano, vengono considerati, secondo la subcultura mafiosa, un momento di trapasso definitivo nel gruppo criminale.
Dunque, l’orientamento che aderisce al modello organizzatorio, reputa sufficiente, a riprova dell’intraneità del sodale, l’adesione alla consorteria mediante la c.d “messa a disposizione”. Pertanto, sul versante probatorio, specie per le mafie storiche, dovrà reputarsi sufficiente il riscontro fattuale dell’assunzione della qualifica di “uomo d’onore” mediante un rito di affiliazione formale.
Per converso, l’assunzione fattuale di tale ruolo, aliunde desunta, potrà condurre correttamente all’incriminazione, a prescindere dalla prova di tali ritualità.
Occorre evidenziare che l’orientamento ripotato è stato riferito in via quasi esclusiva alla cooptazione a mafie storiche, di conclamata pericolosità e risalente fama criminale, rispetto alle quali è più agevole concepire che la mera “messa a disposizione” rechi con sé in maniera immanente un contributo causale agli scopi della consorteria. Tale circostanza vale a creare una netta differenziazione in ordine all’individuazione del momento consumativo per la partecipazione ad “associazioni aperte”, che non postulano per l’ingresso rituali di affiliazione specificamente codificati, così creando un’evidente disparità di trattamento.
Invero, mentre per le mafie storiche la consumazione viene retrocessa al compimento del rituale di iniziazione, che conferisce il ruolo di “uomo d’onore”, per le altre associazioni la soglia minima di punibilità viene fatta coincidere con il compimento di un contributo materiale, espressivo dell’effettiva appartenenza alla cosca.
Sembra, dunque, che la maggiore pericolosità riconnessa alle mafie tradizionali valga a giustificare un’ulteriore arretramento della soglia punibilità, allontanando ancor di più la sanzione dal compimento di un atto materiale intrinsecamente lesivo, in spregio al principio di offensività.
Anche tale considerazione, ha indotto altra parte della giurisprudenza, sulla scorta di istanze più garantiste, ad elaborare una distinta ricostruzione, tesa ad evidenziare l’insufficienza del compimento di un rituale di affiliazione, non seguita da un’attivazione del soggetto a favore del gruppo criminale[44].
Proprio da tale contrasto origina la necessità di un intervento nomofilattico a composizione del dissidio ermeneutico, che garantisca l’uniformità delle decisioni giurisdizionali e la conseguente prevedibilità della sanzione.
Si è, infatti, obiettato che l’orientamento criticato ha operato una trasfigurazione di quelli che la sentenza Mannino ha qualificato come “meri indicatori probatori di intraneità” in elementi del fatto tipico, considerati sufficienti ad integrare in via diretta la consumazione della fattispecie associativa.
La più compiuta presa di posizione sul valore da annettere a tali indicatori si rinviene nella sentenza Pesce[45], che ha scrutinato la valenza, sostanziale o meramente probatoria, delle esemplificazioni casistiche operate nella sentenza Mannino, prendendo posizione proprio sul valore da ricondurre ai riti di affiliazione e al conferimento di una dote mafiosa.
In via preliminare, la pronuncia ha chiarito che tali indicatori, di carattere peraltro meramente esemplificativo, rilevano esclusivamente nella dimensione probatoria, non concorrendo a circoscrivere la condotta punibile, definita nei suoi tratti tipici in maniera più compiuta a partire dalla sentenza Mannino, con la conseguenza di non poter ritrarre dalla ricorrenza di uno degli stessi la prova della compiuta integrazione del delitto.
Si evidenzia, inoltre, che deve effettuarsi un’opportuna graduazione di tali indici, avendo una distinta capacità dimostrativa ed un differente grado di decisività. Mentre, infatti, i rituali di affiliazione scandiscono un accordo di ingresso, prodromico alla cooptazione dell’intraneo, che potrebbe non compier alcun atto esecutivo del proprio ruolo, diversamente il conferimento di doti, che sottendono un previo riscontro del passato criminale del soggetto “insignito”, viene considerato elemento sufficiente a provare l’intraneità del sodale[46].
Peraltro, se ai fini della consumazione del delitto, si reputasse sufficiente il riscontro di un avvenuto rituale di cooptazione, si finirebbe per reprimere l’accrescimento delle mere “potenzialità operative” del gruppo criminoso e non l’ausilio effettivamente prestato al perseguimento dei suoi scopi, con evidente lesione dei principi di proporzionalità della pena e di materialità del fatto punibile.
Senza contare che la significatività di tali rituali, in alcuni casi, risulta grandemente scemata, poiché attuata da soggetti legati da vincoli di parentela o affinità ad alcuni sodali, in ossequio a prassi familiari, senza che a tale formalismo venga simbolicamente accordato il valore di condivisione delle finalità della consorteria e volontà di attuarle[47].
Anche il riferimento ad una comunanza ideologica tra i sodali e il neo affiliato, che consentirebbe di prescindere dall’individuazione del ruolo concretamente assunto, segna un evidente abbandono dei canoni di materialità ed offensività del fatto tipico, per approdare a logiche di incriminazione fondate su “una mera volontà ribelle”, certamente incompatibili con un moderno diritto penale del fatto.
Infatti, il riferimento ai valori condivisi attua inevitabilmente una dilatazione della nozione di partecipazione, sganciata dal riferimento al compimento di atti esecutivi ed incentrata, invece, sulla persona del reo e sul suo status di “mafioso”, in evidente contrasto con gli approdi della sentenza Mannino che, proprio per scongiurare un ritorno ad un diritto penale d’autore, esige una concretizzazione empiricamente riscontrabile delle funzioni assunte in seno al sodalizio.
Per suffragare la tesi dell’insufficienza del mero status acquisito a seguito della cooptazione formale, si è anche richiamata la struttura costitutiva del delitto di cui all’art. 416bis. Si è precisato che la deroga al principio espresso all’art. 115 c.p., in virtù della quale è consentito sanzionare anche il mero pactum sceleris, rinviene la sua giustificazione con riguardo a tale delitto solo perché si tratta di un reato associativo a “struttura mista”, in cui la deroga alla non punibilità del mero accordo è compensata dall’attuazione, anche parziale, del programma criminoso.
Considerazione che rievoca, pertanto, la necessità di un’estrinsecazione materiale del ruolo rivestito, espressiva di uno stabile inserimento nel sodalizio[48].
6. L’informazione provvisoria delle Sezioni Unite
La disomogeneità degli indirizzi riportati e la conseguente imprevedibilità dell’applicazione della sanzione, hanno reso imprescindibile l’intervento delle Sezioni Unite, che sembrano aver adottato una soluzione compromissoria tra le prospettazioni riportate.
In primo luogo, l’informazione provvisoria prende posizione sulla nozione di condotta di partecipazione, sull’implicito assunto che la risoluzione della questione risulti logicamente preliminare rispetto alla definizione del valore probatorio da riconoscere alla formalizzazione dell’ingresso nella consorteria.
Nuovamente, quindi, viene esaltata la stretta correlazione tra la dimensione probatoria e la definizione dello statuto di tipicità del delitto associativo.
In adesione al paradigma organizzatorio, le Sezioni Unite chiariscono che “La condotta di partecipazione ad associazione di tipo mafioso si sostanzia nello stabile inserimento dell’agente nella struttura organizzativa della associazione”, senza che, però, al dato di tale compenetrazione si riconnetta necessariamente l’assegnazione di un ruolo specifico.
Precisano tuttavia, che “tale inserimento deve dimostrarsi idoneo, per le caratteristiche assunte nel caso concreto, a dare luogo alla “messa a disposizione” del sodalizio stesso, per il perseguimento dei comuni fini criminosi”.
La Corte, con espressioni che sembrano ricalcare l’impianto motivazionale della sentenza Graci, rinviene il disvalore della condotta punibile nella “messa a disposizione”, che rappresenterebbe il proprium della condotta partecipativa e della sua attitudine offensiva. Non viene, tuttavia, esplicitata la necessità che tale disponibilità si “concretizzi” mediante il compimento di atti espressivi del ruolo assunto.
Sembra, in sostanza, riproporsi il rischio che tale statuizione possa dare adito ad interpretazioni formalistiche, che riconnettono la consumazione del delitto al mero status di sodale, non accompagnato da alcuna forma di fattiva attivazione a vantaggio dell’associazione.
Si enfatizza, però, la rilevanza delle circostanze concrete, sulla scorta delle quali dovrà valutarsi l’effettiva idoneità dell’inserimento del sodale a dar luogo ad una “messa a disposizione” per il perseguimento degli scopi della consorteria.
Tale inciso, sebbene rappresenti un implicito richiamo al principio di offensività e alla necessaria attitudine causale dell’ingresso del sodale all’attuazione degli obiettivi criminali, potrebbe dare adito ad un approccio casistico che, lungi dal condurre all’auspicata uniformità interpretativa del dettato normativo, rischia di alimentare il contrasto ermeneutico.
Tale interpretazione, peraltro, conferisce assoluta centralità alla dimensione probatoria, perché è solo sulla scorta delle evidenze disponibili che sarà possibile valutare se “per le caratteristiche assunte nel caso concreto” la compenetrazione nel tessuto criminale abbia generato un’effettiva “messa a disposizione”.
Nuovamente i confini della tipicità della fattispecie verrebbero ridisegnati sulla base delle prove acquisite, non segnando quell’inversione di tendenza invocata dalla dottrina. L’autentica regola iuris applicata dal giudice, infatti, non verrebbe tratta da un precetto ormai cristallizzatosi per effetto di una stabile interpretazione, ma sarebbe enucleato a posteriori sulla base delle risultanze probatorie.
Con specifico riguardo al rilievo probatorio dell’affiliazione rituale, le Sezioni Unite sembrano aver aderito all’indirizzo che non reputa necessario alcun atto di militanza associativa per contestare la fattispecie associativa, coerentemente, peraltro, alla nozione di condotta di partecipazione dapprima delineata.
In particolare, hanno precisato che: “nel rispetto del principio di materialità ed offensività della condotta, l’affiliazione rituale può costituire indizio grave della condotta di partecipazione al sodalizio, ove risulti – sulla base di consolidate e comprovate massime di esperienza – alla luce degli elementi di contesto che ne comprovino la serietà ed effettività, l’espressione non di una mera manifestazione di volontà, bensì di un patto reciprocamente vincolante e produttivo di un’offerta di contribuzione permanente tra affiliato e associazione”.
Se tale arresto può rinvenire adeguata giustificazione con riferimento alle “mafie storiche”, di certo eguale pregnanza indiziaria difficilmente potrà essere riconosciuta all’ingresso in associazioni criminali di più recente emersione.
Si crea, dunque, il rischio di un ulteriore disallineamento che si sarebbe potuto prevenire se fosse stato, invece, valorizzato il compimento di un atto espressivo dell’effettivo inserimento nel sodalizio con un ruolo attivo.
Nella prospettiva delle Sezioni Unite, invece, il compimento del rituale adesivo sembra assorbire il rilievo del contributo materiale, poiché ad esso si riconnette l’effetto di un patto vincolante e di un’offerta di contribuzione permanente.
7. Conclusioni
In attesa di leggere le motivazioni, che daranno esaustivamente conto delle ragioni che hanno indotto le Sezioni Unite a ritenere l’adesione rituale al sodalizio sufficiente a fondare un giudizio di responsabilità, non possono non evidenziarsi alcuni profili di criticità.
Tale soluzione sembra, infatti, segnare una regressione rispetto allo statuto garantista delineato a partire dalle sentenze Mannino e Pesce, che avevano patrocinato una ricostruzione fondata su un’autentica valorizzazione dei principi di materialità e offensività del fatto tipico.
La riproposizione di un modello statico di adesione, ancorato all’acquisizione rituale del ruolo di mafioso, rischia di dare adito a valutazioni formalistiche potenzialmente foriere di un ritorno ad un diritto penale d’autore.
Né tale posizione potrebbe risultare giustificata da esigenze di semplificazione probatoria, che si tradurrebbero in un’ingiustificata lesione della libertà individuale del cittadino.
Oltretutto, la tendenza interpretativa tesa a valorizzare una manifestazione obiettiva della condotta punibile sembrava destinata a trovare sempre maggiore condivisione in giurisprudenza, anche con riguardo a distinti temi d’indagine, pur sempre correlati all’evanescenza del dato normativo di cui all’art. 416bis.
Significativa in tal senso è l’evoluzione pretoria registratasi con riguardo al fenomeno delle mafie atipiche o delle strutture delocalizzate, rispetto alle quali un largo fronte giurisprudenziale continua a ritenere insopprimibile la prova di un’estrinsecazione materiale della capacità di intimidazione discendente dall’uso del metodo mafioso”[49].
Ebbene, in tal senso, la pronuncia in commento segna una netta inversione di tendenza, ritenendo sufficiente, probabilmente per ragioni legate ad istanze repressive, la mera cooptazione formale all’associazione.
Il rispetto dei principi di materialità ed offensività, pure richiamati, sembra arrestarsi sul piano delle enunciazioni di principio, poiché si prescinde del tutto dal riscontro fattuale di tale ingresso nel sodalizio.
Anche il frequente rinvio, operato nell’informazione provvisoria, “agli elementi di contesto” o alle circostanze fattuali in grado di corroborare l’effettività dell’adesione, come anticipato, rischia di indurre ad un’eccessiva valorizzazione delle contingenze del caso concreto, incrinando ulteriormente il valore della certezza del diritto e della prevedibilità delle decisioni giudiziali[50].
In tal senso, si è probabilmente persa un’occasione per supplire definitivamente all’intrinseca carenza definitoria della fattispecie, conferendo maggiore concretezza al contributo partecipativo e, specularmente, degradando la statica e passiva adesione all’organigramma associativo a mero indizio di colpevolezza.
Infatti, nell’intento di consentire un’espressione più pregnante della funzione nomofilattica, l’art. 618 comma 1bis c.p.p conferisce peculiare stabilità alle decisioni delle Sezioni Unite, con la conseguenza che si sarebbe potuto raggiungere il duplice e concorrente obiettivo di sopire il contrasto ermeneutico sul punto e stabilizzare la portata della pronuncia, garantendo ai cittadini una ragionevole prevedibilità degli esiti processuali con carattere di durevolezza nel tempo.
D’altro canto, non può tacersi, che la soluzione offerta delle Sezioni Unite rappresenta probabilmente l’opzione più rispettosa del principio di legalità formale, poiché il dato normativo si limita ad incriminare la condotta di “chi fa parte”, senza richiedere alcun indice di esteriorizzazione ulteriore.
Sebbene la proiezione dinamica e fattuale del contributo partecipativo rappresenti un approdo ermeneutico garantista ed evolutivo, esula del tutto dal dato normativo e potrebbe rappresentare un’integrazione eccessiva della voluntas legis[51].
[1] Ordinanza provvisoria della Cassazione Penale, Sezioni Unite, ud. 27 maggio 2021, Presidente Cassano, Relatore Pellegrino;
[2] Secondo la definizione, testualmente, datane dall’ordinanza di rimessione alle Sezioni Unite formulata dalla Prima sezione penale della Cassazione n. 5071 del 2021. Analogamente, in dottrina, S.MOCCIA, La perenne emergenza: tendenze autoritarie nel sistema penale, II, Napoli, 2000 p. 65;
[3] Sul punto, cfr. V. MAIELLO, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni Unite, in Sis. Pen., n. 5/2021, p.6;
[4] Si veda, più diffusamente, l’ordinanza di rimessione n. 5071 del 2021, che nel ribadire con fermezza l’esigenza di un intervento chiarificatore delle Sezioni Unite della Cassazione, esplicita altresì i limiti da riconnettere ai numerosi precedenti giudiziali di legittimità che, lungi dal poter esplicare un effetto vincolante, possono esclusivamente orientare l’ermenuesi del dato normativo, in forza dell’accuratezza e della persuasività degli argomenti addotti;
[5] Sul punto, P. POMANTI, Principio di tassatività e metamorfosi della fattispecie. L’art. 416 bis c.p, in Arch. pen., 2017 n. 1, p. 5;
[6] In tal senso, I. MERENDA e C. VISCONTI, Metodo mafioso e partecipazione associativa nell’art. 416bis tra teoria e diritto vivente, in Dir. Pen. Cont, 24 gennaio 2019.
Si pensi anche alla recente pronuncia della Corte di Cassazione che ha derubricato, nel processo Mafia capitale, i fatti contestati da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime, ritenendo che non vi fosse stato l’impiego del metodo mafioso descritto dall’art. 416bis e, così, ribadendo la centralità dello stesso in seno all’incriminazione. Per una disamina più approfondita della vicenda ed una ricostruzione degli elementi strutturali dell’art. 416 bis c.p, si veda G. AMARELLI e C. VISCONTI, “Da ‘mafia capitale’ a ‘capitale corrotta’. La Cassazione derubrica i fatti da associazione mafiosa unica ad associazioni per delinquere plurime”, in Sis. pen, 18 giugno 2020;
[7] V. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, CEDAM, 1993, p. 50;
[8] TURONE, Il delitto di associazione mafiosa, Giuffrè 2015, p.359;
[9] Evidenzia che i diversi orientamenti pretori in tema di partecipazione ad associazioni mafiose mutano in ragione delle peculiarità della vicenda che viene, di volta in volta, in rilievo G. FIANDACA, Orientamenti della Cassazione in tema di partecipazione e concorso nell’associazione criminale, in Criminalità organizzata e sfruttamento delle risorse territoriali, a cura di Barillaro, Milano, 2004, p. 40;
[10] Cfr. I. MERENDA e C. VISCONTI, op. cit., p. 16;
[11] G. FIANDACA, Ermenutica e applicazione giudiziale del diritto penale, in Riv. It. Dir. Proc. Pen. , 2001, p 361;
[12] L’espressione è di G. DI VETTA, Tipicità e prova. Un’analisi in tema di partecipazione interna e concorso esterno in associazione di tipo mafioso, in Arch. Pen., 1/2017 p. 23, che ha effettuato una compiuta disamina dei rapporti di reciproca interferenza tra esigenze di semplificazione probatoria e ridefinizione del tipo normativo alla luce delle stesse. Nello stesso scritto, l’autore evidenzia che: “La speciale sensibilità che la fattispecie associativa manifesta in rapporto alle esigenze di prova emergenti nel corso del procedimento di accertamento altro non è che l’esatto riflesso del deficit di determinatezza che affligge tale figura incriminatrice, la cui esangue tipicità ben può essere considerata una sorta di “esasperazione” o approfondimento delle carenze di descrittività che già caratterizzavano48 l’associazione a delinquere semplice (art. 416 c.p.), sotto diversi profili (struttura organizzativa, condotta di partecipazione)”. Analogamente, v. G.INSOLERA, Il reato di associazione mafiosa: rapporti tra norme sostanziali e norme processuali, in Quest. Giustizia, n. 3/2002, p.576;
[13] G. DI VETTA, op. cit., p.2;
[14] Di “pluralità disorientante” di indirizzi ermeneutici sul punto hanno parlato G. FIANDACA e C. VISCONTI, Il patto di scambio politico mafioso al vaglio delle Sezioni Unite, in Foro.it, 2006, p.87;
[15] Sul punto, V. MAIELLO, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni Unite, in Sis. Pen. n. 5/2021, p.8;
[16] In tal senso, C VISCONTI, Contiguità alla mafia, Torino, 2003, p. 129;
[17] Taluni autori paventavano, inoltre, il rischio che l’applicazione di tale criterio potesse condurre anche alla violazione del principio di personalità della responsabilità penale, imputando al sodale – che abbia semplicemente manifestato la propria affectio societatis, senza fornire alcun apporto materiale – i crimini perpetrati dalla consorteria. Sul punto, G. FIANDACA, Criminalità organizzata e controllo penale, in Ind. pen., 1991, p.17
[18] V. I. GIUGNI, La nozione di partecipazione associativa penalmente rilevante tra legalità penale e disorientamenti ermeneutici, in Arch. Pen, n. 3/2018, p.3;
[19] Cass. pen, sez. I, 24 aprile 1985, Arslan, in Cass. pen., 1986, 822;
[20] V. MAIELLO, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni Unite, op. cit. p. 9, che evidenzia che “questa ristrutturazione concettuale realizza un indiscutibile miglioramento della qualità connotativa del reato nei rapporti col (modello normativo del) diritto penale del fatto – ristabilendo l’antecedenza dell’oggettivo sul soggettivo”;
[21] In tal senso, C. VISCONTI, ult. op. cit., p. 132;
[22] Così MAIELLO, Il concorso esterno in associazione mafiosa tra crisi del principio di legalità e diritto penale del fatto, in Il concorso esterno tra indeterminatezza legislativa e tipizzazione giurisprudenziale, Torino, 2014, p. 50;
[23] Cfr.G. FIANDACA e C. VISCONTI, Il patto di scambio politico mafioso al vaglio delle Sezioni Unite, op. cit., p . 88; Nello stesso senso opina G. DI VETTA, op. cit. p 48, che osserva che “se le differenze strutturali tra i due modelli di incriminazione si assottigliano e, in definitiva, si perdono, perché ciò che rileva per entrambe le figure incriminatrici è la capacità della condotta (del contributo esterno o interno) ad incidere causalmente sulle capacità operative
dell’organismo associativo, la proiezione sullo schermo della «riconoscibilità» (o prevedibilità oggettiva) della qualificazione giuridica, nella reciproca alternativa tra concorso interno od esterno, tende all’insignificanza”;
[24] V. I. GIUGNI, op. cit. p. 5;
[25] Cass. pen , sez. I, 1 settembre 1994, in Cass. pen. 1994, 539, ove si afferma che la condotta di partecipazione consiste “nel far parte dell’associazione, cioè nell’esserne membro attraverso un’adesione alle regole dell’accordo associativo e un inserimento, di qualunque genere, nell’organizzazione, con carattere di permanenza”. Orientamento successivamente ribadito dalle Sezioni Unite, nella sentenza Demitry, Cass. Sez. Un., 5 ottobre 1994, che precisa che per integrare la condotta partecipativa occorre “entrare nell’associazione e diventarne parte”;
[26] V. SPAGNOLO, L’associazione di tipo mafioso, 1997, p. 87, che evidenzia che “non è sufficiente che il soggetto << prenda parte>> all’associazione” dal momento che “il dato normativo richiede esplicitamente molto di più: richiede che egli <<faccia parte>> di essa. Per fare parte di un’associazione è necessario che la stessa, attraverso i suoi organi, accetti il soggetto come membro o comunque gli riconosca di fatto tale qualità”;
[27] V. V. MAIELLO, L’affiliazione rituale alle mafie storiche al vaglio delle Sezioni Unite, op. cit.p. 10;
[28] Così FIANDACA e VISCONTI, Il patto di scambio politico mafioso al vaglio delle Sezioni Unite, op. cit., p .88ss;
[29] V. MAIELLO, ult. op. cit, ha, infatti evidenziato che: “il tratto di scivolosità dell’approccio concerne il rischio che la fattispecie criminosa possa saldarsi alla qualifica solo formale (e alla condizione solo statica) di componente della consorteria, ogni qual volta i compendi cognitivi lascino emergere la prova del solo ingresso in cui non segua in alcuna forma l’agire associativo, in altri termini un facere intessuto di atti riportabili ad obblighi e poteri connessi al ruolo di partecipe”;
[30] Espressiva di tale orientamento è la sentenza Carnevale, 21 maggio 2003 n. 224181, secondo cui la partecipazione è “tanto nel momento iniziale quanto in tutto il suo svolgimento, destinata a combinarsi, con le condotte degli altri associati, in un’unione di forze per imprese che generalmente trascendono le capacità individuali”;
[31] L’espressione è di I. MERENDA e C. VISCONTI, op. cit. , p19;
[32] Ex multis Cass., Sez. II, 5 maggio 2020, Oliveri in CED Cass., n.215907; Cass., Sez. II, 26 gennaio 2005, Papalia e altri, in CED Cass., n. 230718;
[33] Cass., Sez. Un., 12 luglio 2005, in CED Cass., n. 231670;
[34] In senso conforme, anche la sentenza Mannino bis ,ove la Corte ribadisce che deve definirsi partecipe “colui che, risultando inserito stabilmente e organicamente nella struttura organizzativa dell’associazione mafiosa, non solo “è” ma “fa parte” della stessa: locuzione questa da intendersi non in senso statico, come mera acquisizione di uno status, bensì in senso dinamico e funzionalistico, con riferimento all’effettivo ruolo in cui si è immessi e ai compiti che si è vincolati a svolgere perché l’associazione raggiunga i suoi scopi, restando a disposizione per le attività organizzate della medesima”;
[35] Cass., Sez. un., 12 luglio 2005, Mannino cit;
[36] Cass. pen. Sez. I, 17 giugno 2016, n.55359;
[37] La sentenza Pesce ha precisato che “Lì dove il legislatore, in effetti, ha ritenuto di dover incriminare il mero reclutamento – anche per il solo reclutato – si è resa necessaria, come si è detto,una previsione incriminatrice ad hoc (è Il caso, come si è notato, della previsione introdotta dal d.l. n. 7 del 18.2.2015 in tema di terrorismo, con ulteriore novellazione dell’art.270 quater cod.pen., con previsione sanzionatoria massima pari a ad anni otto ) il che ulteriormente evidenzia, in via sistematica, come tale segmento del fatto, ove non accompagnato dalla prova di un minimum di attivazione, non possa ritenersi di per sè ricompreso nella nozione tipica di partecipazione (si veda, in rapporto alla fattispecie di cui all’art. 270 bis cod.pen., quanto affermato, circa l requisiti minimi della partecipazione, da Sez.I n. 22719 del 22.3.2013, ric. Lo Turco, rv 256489)”;
[38][38] V. I. MERENDA e C. VISCONTI, op.cit. p.21, ove si evidenzia che, a prescindere dall’adesione ad uno specifico modello ricostruttivo, si registra la necessità di adattare le definizioni della condotta di partecipazione alla effettiva realtà della consorteria criminale sottoposta a giudizio e alle prove acquisite nel processo, così ribadendo l’assoluta centralità della dimensione probatoria nell’elaborazione della condotta partecipativa;
[39] Cfr. G. FIORUCCI, L’importante è partecipare?, in Arch. Pen, 1/2021, p.13ss;
[40] Cass., Sez V, 3 giugno 2019, n. 27672 Geraci;
[41] Ibidem;
[42] Sul punto, V G. CANDORE, Gli elementi costitutivi del reato di partecipazione ad associazione di tipo mafioso, in Cass. pen., 9/2020, p 3226;
[43] Cass. pen., Sez. II, 31 maggio 2017 n. 27394;
[44] Secondo l’ordinanza di rimessione, emblematica di tale orientamento, sarebbe la sentenza in cui si afferma che: “ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione ad un’associazione di tipo mafioso, l’investitura formale o la commissione di reati-fine funzionali agli interessi dalla stessa perseguiti non sono essenziali, in quanto rileva la stabile ed organica compenetrazione del soggetto rispetto al tessuto organizzativo del sodalizio, da valutarsi alla stregua di una lettura non atomistica, ma unitaria, degli elementi rivelatori di un suo ruolo dinamico all’interno dello stesso» (Sez. 5, n. 4864 del17/10/2016, Di Marco, Rv. 269207-01)” nonché quella in cui si evidenzia che “ Ai fini dell’integrazione della condotta di partecipazione all’associazione di tipo mafioso, l’affiliazione rituale può non essere sufficiente laddove alla stessa non si correlino ulteriori concreti indicatori fattuali rivelatori dello stabile inserimento
del soggetto nel sodalizio con un ruolo attivo» (Sez. 1, n. 55359 del 17/06/2016, Pesce, Rv. 269040-01);
[45] Cass. pen., Sez I, 17 giugno 2006, definita unanimemente dalla dottrina “la presa di posizione più matura sul tema della partecipazione associativa”. In tal senso si sono espressi, I. MERENDA e C. VISCONTI, op cit, nonché V.MAIELLO, L’affiliazione rituale a mafie storiche op. cit.;
[46] V. D. BRANCIA, Sulla dichiarata adesione all’associazione mafiosa da parte di un singolo, il quale presti la propria disponibilità ad agire con la c.d. “messa a disposizione”, in Giur. pen. web, 12/2017, p.12, che evidenzia che viene ritenuta prova di stabile inserimento nel sodalizio anche la partecipazione ad un fondo di solidarietà volto ad aiutare i partecipanti dell’associazione che siano detenuti;
[47] Si pensi alla vicenda riguardante Giuseppe Greco, figlio del boss Michele Greco, condannato per il delitto di partecipazione ad associazione mafiosa, sulla scorta delle dichiarazione rese dai collaboratori di giustizia che avevano riferito della sua formale cooptazione a Cosa nostra, sebbene questi avesse intrapreso la professione di regista e fosse chiaro che tale affiliazione rappresentasse un mero ossequio alla figura paterna. Per una più compiuta descrizione della vicenda si veda G. FIANDACA, Orientamenti ermeneutici op.cit, p .44ss; Sul punto la sentenza Pesce ha precisato che, in tali contesti, la celebrazione di un rituale di affiliazione può essere espressiva di “automatismi sociali e familiari (piuttosto) che indice, immediato ed autosufficiente, della effettiva intraneità”;
[48] Tali posizioni dottrinali, sebbene più mature e meditate, sono state talvolta sposate in maniera ambigua dalla giurisprudenza che, pur prestando formale ossequio ai principi espressi, ne ha tradito la sostanza, mediante la riproposizione di criteri formalistici. Si pensi a Cass. pen, Sez. VI, 20 novembre 2015, Alcaro e altri, in CED. Cass., n. 265536, ove si afferma che il dato “dell’investitura formale non seguita da altri comportamenti materiali, potrebbe assumere tutt’altro significato probatorio quando involga la posizione di soggetti che, per il ruolo sociale o i compiti istituzionali che li connotano, costituiscano, già solo per il conferimento della qualifica, possibili o consapevoli strumenti di potenziamento dell’associazione”;
[49] In tal senso, Cass. pen., Sez. VI, 13 settembre Vicidomini, in CED Cass.,n. 271103, ove si afferma che si deve raggiungere la prova che “l’associazione abbia conseguito in concreto, nell’ambiente in cui opera, un’effettiva capacità di intimidazione che deve necessariamente avere una sua esteriorizzazione, quale forma di condotta positiva”;
[50] Giova ricordare che, nel noto caso Contrada, la Corte europea dei diritti dell’uomo aveva censurato proprio la vaghezza descrittiva dell’art. 416bis e la conseguente imprevedibilità dell’applicazione della sanzione;
[51] La stessa ordinanza di rimessione ribadisce la funzione di “mediazione accertativa” della giurisprudenza, che impone di tener a mente”i limiti che il modello di tipicità formale vigente nel nostro sistema penale pone all’operatività di ogni forma di creazionismo giurisprudenziale”.