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Automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici: inammissibile la q.l.c. dell’art. 371 bis c.p.

La Corte di cassazione, sezione sesta penale, dubita, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, della legittimità costituzionale dell’art. 317-bis del codice penale, nel testo vigente prima delle modifiche recate dall’art. 1, comma 1, lettera m), della legge 9 gennaio 2019, n. 3 (Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonché in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici), «nella parte in cui prevede l’automatica applicazione dell’interdizione in perpetuo dai pubblici uffici in caso di condanna, per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., ad una pena uguale o superiore a tre anni di reclusione». Il rimettente è chiamato a pronunciarsi su un ricorso per violazione di legge proposto da persona nei cui confronti, per il reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio disciplinato dall’art. 319 cod. pen., era stata applicata, a sua richiesta e con il consenso del pubblico ministero, la pena di anni quattro e mesi quattro di reclusione. Riferisce la Corte di cassazione che, in forza dell’art. 317-bis cod. pen. nel testo vigente all’epoca delle condotte (accertate il 29 novembre 2017 e il 13 gennaio 2018), con la medesima sentenza di patteggiamento il condannato era stato dichiarato interdetto in perpetuo dai pubblici uffici.

Proprio in conseguenza di tale interdizione, il ricorrente aveva chiesto di sollevare questione di legittimità costituzionale dell’art. 317-bis cod. pen., nel testo applicato ratione temporis, per violazione degli artt. 3 e 27 Cost. In punto di rilevanza, osserva come l’accoglimento delle questioni sollevate avrebbero un effetto «corrispondente all’interesse del ricorrente che eviterebbe l’applicazione perpetua della pena accessoria».

La Corte osserva che la nuova disciplina – oggetto di controversie interpretative – incide sul “patteggiamento ordinario”. Infatti, per effetto delle modifiche introdotte dalla legge n. 3 del 2019, gli imputati per i reati contro la pubblica amministrazione non si giovano più ope legis, in caso di “patteggiamento ordinario”, del beneficio della esenzione dalle pene accessorie previste dall’art. 317-bis cod. pen., poiché la valutazione sul punto è ora rimessa al giudice.

Oggetto di divergenti interpretazioni è, invece, l’estensione di tale potere discrezionale del giudice anche al patteggiamento cosiddetto “allargato”, in cui l’accordo processuale si riferisce a pene detentive di entità superiore ai due anni.

Mentre i lavori preparatori della legge n. 3 del 2019 potrebbero orientare verso la soluzione negativa – la relazione illustrativa al disegno di legge AC n. 1189 afferma che si intendeva rimettere alla «valutazione discrezionale del giudice l’applicazione delle sanzioni accessorie, nel caso di irrogazione di una pena che non superi i due anni di reclusione» – la stessa conclusione non è autorizzata dal tenore letterale degli artt. 444, comma 3-bis, e 445, comma 1-ter, cod. proc. pen.

Al giudice a quo, quindi, non è preclusa dalla legge la possibilità di operare una consapevole ed esplicita scelta tra le differenti soluzioni.

Le questioni di legittimità costituzionale sollevate sull’art. 317-bis cod. pen., in relazione all’asserita automatica applicazione della pena accessoria interdittiva a seguito di condanna per il reato di cui all’art. 319 cod. pen., sono state dunque dichiarate inammissibili, perché il giudice a quo omette di pronunciarsi proprio su questi decisivi aspetti, che condizionano ogni valutazione sul carattere asseritamente indefettibile della applicazione di tale pena.

La lacuna in parola, in definitiva, «compromette irrimediabilmente l’iter logico argomentativo posto a fondamento delle valutazioni del rimettente sia sulla rilevanza, sia sulla non manifesta infondatezza» (sentenze n. 194 e n. 61 del 2021; nello stesso senso, n. 264 del 2020, n. 150 del 2019; ordinanze n. 108 del 2020, n. 136 e n. 30 del 2018 e n. 88 del 2017). La riscontrata lacuna condiziona ineluttabilmente anche la valutazione sulla doglianza relativa al carattere fisso e perpetuo della pena interdittiva prevista dalla disposizione censurata, determinando l’inammissibilità, per le stesse ragioni, anche di questo secondo profilo delle questioni di legittimità costituzionale sollevate.

Lo stesso rimettente afferma, infatti, che la proposta censura di legittimità costituzionale «rileva in una duplice direzione», sia quella dell’automatismo e dell’indefettibilità dell’applicazione della pena accessoria dell’interdizione perpetua dai pubblici uffici prevista dall’art. 317-bis cod. pen., sia quella della fissità e perpetuità della sanzione: tali due profili «si saldano tra loro dando luogo ad un meccanismo sanzionatorio rigido che non appare compatibile con il “volto costituzionale della sanzione penale”».

Nella prospettazione del rimettente, l’asserita rigidità del complessivo trattamento sanzionatorio è dunque il risultato dell’intreccio dei due profili, come conferma un ulteriore passaggio dell’ordinanza, in cui si considera la «natura automatica e fissa del meccanismo in contrasto con i principi di proporzionalità e individualizzazione della pena».

Ne deriva che il rimettente avrebbe dovuto considerare il possibile venir meno, nell’ambito del patteggiamento, dell’automatismo nella applicazione della pena accessoria di cui all’art. 317-bis cod. pen., perché condizionante ogni valutazione sulla rigidità complessiva del meccanismo sanzionatorio censurato: l’ipotizzata discrezionalità nell’applicazione della pena accessoria, infatti, potrebbe comportare una diversa valutazione della disciplina, e dei suoi connessi effetti sul terreno della proporzionalità, incidendo sullo scrutinio di non manifesta infondatezza rimesso al giudice a quo (secondo lo stesso percorso argomentativo seguito dalla già citata sentenza della Corte di cassazione, sezione sesta penale, n. 6614 del 2021).

 

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