Cass., Sez. Un., 17 dicembre 2020 (dep. 26 febbraio 2021), n. 7578
Sommario: 1. Il principio affermato dal Collegio esteso nel contesto dell’abbreviato riformato dalla l. n. 103 del 2017. 2. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte. 3. La giurisprudenza precedente l’intervento delle Sezioni Unite. 4. Il dictum del Collegio esteso. 5. Brevi conclusioni.
1. Il principio affermato dal Collegio esteso nel contesto dell’abbreviato riformato dalla l. n. 103 del 2017.
Con una sentenza a rime obbligate, le Sezioni Unite hanno affermato che “il giudice di appello, investito dell’impugnazione del solo imputato che, giudicato con il rito abbreviato per reato contravvenzionale, lamenti l’illegittima riduzione della pena ai sensi dell’art 442 c.p.p., nella misura di un terzo anziché della metà, deve applicare detta diminuente nella misura di legge, pur quando la pena irrogata dal giudice di primo grado non rispetti le previsioni edittali, e sia di favore per l’imputato”.[1]
Molteplici sono i profili che vengono in rilievo per la risoluzione della questione sollevata e risolta dal Collegio esteso.
Punto di partenza è la legge 23 giugno 2017, n. 103 (cd. riforma Orlando) che, proprio di recente, ha significativamente inciso sul livello di premialità del rito abbreviato, disponendo che, in caso di condanna, la pena che il giudice determina, dopo aver tenuto conto di tutte le circostanze e delle norme sul concorso dei reati, è diminuita di un terzo se si procede per un delitto e della metà se si procede per una contravvenzione: previsione – quest’ultima – con l’evidente fine di rendere più “appetibile” la scelta del rito.[2] Per effetto della riforma, dunque, e per quel che rileva in questa sede, nel caso di condanna, la pena in concreto applicabile, risultante dal calcolo di tutte le circostanze, è diminuita della metà in caso di reati contravvenzionali.[3]
La diminuente di un mezzo si applica alle fattispecie anteriori all’entrata in vigore della l. n. 103 del 2017, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile, ai sensi dell’art. 2, comma 4, c.p., in quanto, pur essendo norma di carattere processuale, ha effetti sostanziali, comportando un trattamento sanzionatorio più favorevole seppure collegato alla scelta del rito[4].
La modifica non è andata esente da critiche. Anzi è emblematica di talune resistenze a non volere allargare eccessivamente la premialità in tema sanzionatorio al fini di non incrementare il rischio pratico di pene incongrue, o, comunque, poco comprensibili da una opinione pubblica il più delle volte bisognosa di esemplarità.
Non è un caso che nel progetto Canzio ben più ampio fosse lo sconto di pena previsto anche avendo riguardo ai delitti in base alla tipologia di reato.
Va anche detto che nella prassi la modifica ha inciso limitatamente, atteso che parte significativa delle contravvenzioni ricade nell’ambito di percorribilità da parte del pubblico ministero della richiesta di decreto penale di condanna. E con riferimento a tale procedimento la riduzione finale della pena è della metà rispetto al minimo edittale (v. art. 459, comma 2, c.p.p.) e non alla pena determinata in concreto dal giudice come nel nuovo art. 442, comma 2, c.p.p.; il criterio di ragguaglio speciale con la pena pecuniaria della pena detentiva giornaliera del nuovo art. 459, comma 1 bis, risulta ben più vantaggioso rispetto a quello generale di cui all’art. 135 c.p.
Senza dimenticare che gli aspetti premiali del decreto penale di condanna, sovrapponibili a quelli del patteggiamento, difficilmente indurranno all’opposizione ex art. 460 c.p.p. se non per usufruire dell’oblazione di cui agli artt. 162 e 162 bis c.p.
La riduzione della pena, poi, deve avvenire quale ultimo risultato della determinazione sanzionatoria e, quindi, anche dopo l’applicazione del cumulo giuridico in caso di concorso formale di reati o di continuazione.
La previsione della decurtazione della metà della pena inflitta per le contravvenzioni, configurandosi come norma penale di favore, impone che, quando sia ritenuta la continuazione tra delitti e contravvenzioni, la riduzione per il rito si debba effettuare distintamente sugli aumenti disposti per le contravvenzioni nella misura della metà e su quelli disposti per i delitti (nonché sulla pena base prevista per il delitto più grave) nella misura di un terzo[5].
Nel giudizio abbreviato celebrato dopo le modifiche introdotte all’art. 442, comma 2, dall’art. 1, comma 44, l. n. 103 del 2017, nel caso di omessa riduzione – non dedotta in sede di impugnazione – della metà della pena inflitta con sentenza definitiva di condanna per contravvenzione, non sono esperibili i rimedi né dell’incidente di esecuzione né della correzione di errore materiale, non vertendosi in ipotesi di pena illegale e neppure di errore nel computo aritmetico della pena, bensì di violazione del criterio stabilito dalla legge processuale nella determinazione della riduzione di pena per il rito, come tale denunciabile solo con gli ordinari mezzi di gravame[6].
In relazione al novum relativo alla diminuente prevista per la scelta del rito, i giudici di legittimità hanno peraltro affermato il principio secondo cui la riduzione di pena conseguente alla scelta del rito abbreviato, incidendo sul trattamento sanzionatorio concreto, ha ricadute necessariamente sostanziali, la cui natura non muta nonostante siano collegate non all’illecito penale in sé, ma ad un comportamento successivo, consistente nell’esercizio di una facoltà processuale. Pertanto, l’art. 442, comma 2, c.p.p., così come novellato dalla recente legge, nella parte in cui prevede che, in caso di condanna, la pena che il giudice determina tenendo conto di tutte le circostanze è diminuita della metà, anziché di un terzo, se si procede per una contravvenzione, pur essendo disposizione processuale, comporta un trattamento sostanziale sanzionatorio più favorevole e si applica, come stabilisce l’art. 2, comma 4, c.p. anche alle fattispecie anteriori, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile.[7]
Nella risoluzione della questione viene, poi, in rilievo il problema della “cognizione del giudice di appello”, che, in forza del cd. principio devolutivo di cui all’art. 597 c.p.p., è circoscritta ai soli “punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti”. L’effetto parzialmente devolutivo, dunque, non consente di intervenire su punti diversi da quelli toccati dall’impugnazione (ad eccezione dei casi tassativi di cui al comma 5 della medesima disposizione normativa) neanche in materia di trattamento sanzionatorio. La cognizione del giudice di appello è esercitabile unicamente sui punti relativi alle componenti di tale trattamento a cui si riferiscono specificamente i motivi proposti.
Ciò posto, al cospetto di un fondato motivo di appello che lamenti l’illegittima riduzione della pena in misura inferiore a quella prevista dalla legge per la diminuente del rito abbreviato, il giudice di secondo grado è tenuto, in virtù del principio devolutivo, a limitarsi ad adottare le conseguenti determinazioni in ordine alla quantificazione della pena nella misura corretta, omettendo di allargare la propria decisione ad altre componenti del trattamento sanzionatorio non investite dall’impugnazione.
Si realizzerebbe, invece, un inevitabile vulnus al principio in parola ove, in ragione di una ritenuta illegittimità in senso favorevole all’imputato della pena-base determinata in primo grado rispetto al limite minimo edittale, il giudice lasciasse inalterata la pena complessiva nella dimensione stabilita con la sentenza appellata. In sostanza, non vi è possibilità di compensare la riduzione non applicata per la diminuente del rito con un corrispondente indiretto aumento della pena-base, attingendo in senso sfavorevole all’imputato il tema della misura di quest’ultima (e, quindi, un punto non devoluto con l’impugnazione).
Nella vicenda in questione, poi, va considerata la operatività anche del divieto di reformatio in peius, essendo stato l’appello proposto dal solo imputato.
2. Il caso sottoposto all’attenzione della Corte.
Nel caso all’attenzione del Collegio esteso, all’esito del giudizio abbreviato, il Tribunale di Como condannava l’imputato alla pena di due mesi di arresto per il reato di cui all’art. 699 c.p. per avere portato fuori dalla propria abitazione un coltello a serramanico, arma per cui non è ammessa licenza.
In assenza di una precisazione del capo di imputazione in ordine a quale, fra le due distinte ipotesi regolate dall’art. 699 c.p., fosse contestata all’imputato, il giudice, pur ritenendo integrato il fatto storico descritto nel capo di imputazione, applicava la pena prevista dal primo comma dell’art. 699 cod. pen. (arresto fino a diciotto mesi) in quanto determinava la pena-base in tre mesi di arresto. Su di essa operava la riduzione di un terzo per il rito abbreviato.
L’imputato proponeva appello avverso la sentenza di primo grado deducendo: a) l’erronea qualificazione giuridica del fatto da ricondurre nell’ambito della previsione dell’art. 4, commi 2 e 3, della legge 18 aprile 1975, n. 110, e non dell’art. 699, comma 1, c.p.; b) l’erronea riduzione della pena per il rito operata nella misura di un terzo, anziché della metà, come stabilito dall’art. 442 c.p.p. per le contravvenzioni.
La Corte di appello di Milano, dal canto suo, riqualificava il fatto ai sensi dell’art. 4 della legge n. 110 del 1975 escludendo l’ipotesi del fatto di lieve entità ma, nel ravvisare la fondatezza del motivo di impugnazione relativo all’erronea diminuzione per il rito, non operava in concreto alcuna diminuzione della pena osservando che la stessa, pur in assenza della riduzione per il giudizio abbreviato nella misura della metà, era comunque più favorevole all’imputato rispetto a quella prevista dall’art. 4 della citata legge n. 110 del 1975 che stabilisce un minimo edittale di sei mesi di arresto. Contro la pronuncia della Corte territoriale, veniva proposto ricorso per Cassazione deducendosi violazione di legge in relazione alla determinazione della pena sotto vari profili.
La sentenza impugnata aveva ritenuto fondati i motivi di appello, riguardanti non solo la diversa qualificazione del fatto, ma anche l’entità della diminuente per il rito, pari ad un terzo invece che alla metà, prevista dall’art. 442, comma 2, c.p.p. per i reati contravvenzionali ma tale maggiore riduzione non era stata in concreto applicata in quanto la Corte territoriale l’aveva ritenuta assorbita nella quantificazione della pena inflitta dal Tribunale in misura erroneamente inferiore al minimo edittale.
In tal modo, però, secondo il ricorrente, era stato eluso il chiaro disposto normativo che impone al giudice di operare la riduzione per il rito in modo predeterminato a seconda che si tratti di delitto o di contravvenzione tenuto conto altresì del fatto che era stata effettuata una non consentita commistione dei motivi di appello accolti, i quali avrebbero dovuto essere esaminati distintamente disponendo, dapprima, la riqualificazione del fatto, ferma la pena-base inflitta in primo grado, per non incorrere nel divieto di reformatio in pejus e, successivamente, diminuendo detta pena per il rito nella misura corretta.
Investita della decisione sul ricorso, la Prima Sezione penale rilevava preliminarmente come il giudice di primo grado avesse affermato la piena fondatezza dell’imputazione senza discostarsi dall’ipotesi storico-giuridica formulata dal pubblico ministero (porto abusivo di un’arma per cui non è ammessa licenza) comportante la previsione edittale di pena compresa tra il minimo di diciotto mesi e il massimo di tre anni di arresto.
Pertanto, dal momento che la pena di tre mesi di arresto in concreto irrogata nei suoi confronti era evidentemente riferita alla cornice edittale prevista per la diversa fattispecie di porto di arma senza licenza (art. 699, comma 1, c.p.) stabilita fra il minimo di tre mesi e il massimo di diciotto mesi di arresto, essa, ad avviso di questa Sezione, doveva pertanto ritenersi illegale.
3. La giurisprudenza precedente l’intervento delle Sezioni Unite
Oltre a tale ultimo rilievo, veniva osservato come la decisione della Corte di appello di non ridurre la pena inflitta — così avendo ritenuto di doversi discostare dal principio di cui all’art. 597, comma 4, c.p.p., destinato a regolare gli effetti dell’accoglimento dell’appello dell’imputato su circostanze o reati concorrenti – nonostante la riconosciuta erroneità della misura della diminuente per il rito in presenza di un reato contravvenzionale, fosse conforme all’orientamento giurisprudenziale per il quale l’irrogazione in primo grado di una pena illegale vantaggiosa per l’imputato consente di negare in appello effetti di ulteriore favore.
Pur tuttavia, si faceva presente come a questo indirizzo esegetico se ne contrapponesse, però, un altro in base al quale il trattamento sanzionatorio che abbia comportato una pena illegale di favore per l’imputato è intangibile in mancanza dell’impugnazione del pubblico ministero.
In breve, secondo un primo orientamento, il comma 4 dell’art. 597 c.p.p. presuppone che la pena, sulla quale si dovrebbe operare la riduzione per effetto dell’accoglimento dell’appello proposto dall’imputato, sia stata irrogata nel rispetto dei limiti di legge. In assenza di questa condizione, la riduzione ulteriore della pena determinerebbe il perpetuarsi di una situazione di illegalità creatasi in primo grado a seguito di un trattamento sanzionatorio non conforme alle previsioni edittali.
Un secondo orientamento osserva per contro che il tenore letterale dell’art. 597, comma 4, c.p.p. non fa menzione del presupposto applicativo della conformità ai limiti edittali della pena irrogata in primo grado.
L’ordinanza sottolineava, inoltre, che la diminuente per il rito abbreviato ha natura processuale, pur con ricadute sostanziali sulla misura della pena, e ha un’incidenza predeterminata su quest’ultima costituendo in definitiva un posterius delle altre operazioni di commisurazione della pena.
Con decreto dell’8 ottobre 2020, il Presidente Aggiunto ha assegnato il ricorso alle Sezioni Unite penali e ha fissato l’udienza camerale del 17 dicembre 2020.
4. Il dictum del Collegio esteso.
Le sezioni Unite premettono che nessuno dei due indirizzi contrapposti si è misurato con la specificità della questione posta dal ricorrente: l’applicabilità della diminuente del rito abbreviato ad una pena illegittimamente determinata in primo grado in senso favorevole all’imputato. L’art. 597, comma 4, c.p.p., ricorda la sentenza, fa esplicito ed esclusivo richiamo alla inderogabilità dell’applicazione degli effetti sanzionatori favorevoli derivanti per l’imputato dall’accoglimento dell’appello che abbia comportato l’esclusione di reati concorrenti o di circostanze aggravanti, ovvero il riconoscimento di circostanze attenuanti. L’ipotesi del mancato riconoscimento della diminuente del rito abbreviato non è contemplata in un dato letterale specificamente descrittivo di altre fattispecie; il che non consente di attribuire alla norma citata un’efficacia direttamente risolutiva della questione controversa.
La norma di riferimento, a parere delle Sezioni Unite, è il comma 1 dell’art. 597 c.p.p. che limita la cognizione del giudice di secondo grado ai soli «punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti». L’individuazione della cognizione del giudice di appello nell’ambito dei motivi proposti restringe il contenuto della decisione all’accoglimento o alla reiezione di tali motivi, non consentendo di operare su punti diversi da quelli toccati dall’impugnazione[8].
Il principio devolutivo, ricordano le Sezioni Unite, impone che, anche in materia di trattamento sanzionatorio, la cognizione del giudice di appello si eserciti unicamente sui punti relativi alle componenti di tale trattamento a cui si riferiscono specificamente i motivi di impugnazione proposti[9]. Ciò comporta, con riguardo al caso di specie, che, una volta riconosciuta la fondatezza di un motivo di appello che lamenta l’illegittima riduzione della pena in misura inferiore a quella prevista dalla legge per la diminuente del rito abbreviato, il giudice di secondo grado debba limitarsi ad adottare le conseguenti determinazioni in ordine alla rideterminazione di tale riduzione nella misura corretta, omettendo di allargare la propria decisione ad altre componenti del trattamento sanzionatorio non investite dall’impugnazione. Una non consentita estensione della cognizione del giudice di appello, ammonisce il Collegio esteso, si verificherebbe ove, in ragione di una ritenuta illegittimità in senso favorevole all’imputato della pena-base determinata in primo grado rispetto al limite minimo edittale, si mantenesse la pena complessiva nella dimensione stabilita con la sentenza appellata; in tal modo, infatti, si compenserebbe di fatto la riduzione non applicata per la diminuente del rito con un corrispondente indiretto effetto di aumento della pena-base, attingendo in senso sfavorevole all’imputato il tema della misura di quest’ultima e, quindi, un punto non devoluto con l’impugnazione.
Il principio devolutivo, aggiunge la sentenza, deve essere integrato da quello pure sancito dall’art. 597, comma 1, c.p.p.: il potere-dovere del giudice dell’impugnazione di esaminare e decidere le richieste dell’impugnante; potere-dovere per effetto del quale una volta che sia stato proposto uno specifico motivo di appello, il giudice è tenuto a pronunciarsi sul tema dedotto[10]. Sicché, una volta che sia dedotta al giudice di appello una questione sulla lamentata violazione di legge nella commisurazione della diminuente del rito abbreviato a favore dell’imputato, la stessa deve essere esaminata e, ove ritenuta fondata, deve comportare le conseguenti determinazioni da parte del giudice.
L’art. 442, comma 2, c.p.p. impone la diminuzione secca della pena nella misura della metà per effetto dell’opzione difensiva per il rito abbreviato nei procedimenti nei quali sono contestati reati contravvenzionali. Al carattere tassativo di questa previsione nell’indicazione del quantum della riduzione il giudice non può sottrarsi, spettando correlativamente all’imputato il diritto a vedersi decurtata la pena nella esatta dimensione prevista dalla legge. L’inderogabilità dell’adempimento, ricordano le Sezioni Unite, è presidiata dall’art. 438, comma 6 ter, c.p.p., che impone al giudice del dibattimento di applicare la relativa diminuzione di pena se all’esito del dibattimento stesso ritenga erronea la declaratoria di inammissibilità della richiesta di giudizio abbreviato pronunciata dal giudice dell’udienza preliminare.
Assume rilievo, nel caso di specie, anche l’art. 597, comma 3, c.p.p., che impone al giudice di appello, in presenza dell’impugnazione del solo imputato, di non modificare in senso sfavorevole a quest’ultimo la pena determinata per un fatto, pur se sottoposto ad una diversa e più grave qualificazione nel giudizio di secondo grado.
Orbene, conclude il Collegio esteso, che, nel caso di specie non si può tener conto di tematiche non devolute al giudice di secondo grado, come quelle relative alla legittimità della pena-base rispetto ai minimi edittali.
In questa prospettiva, il riferimento alla previsione dell’art. 597, comma 4, c.p.p., ancorché non direttamente applicabile per le ragioni illustrate, recupera un suo significato ermeneutico che riceve conforto dalle finalità che ne hanno giustificato l’introduzione.
Le sezioni Unite, ricorda la sentenza, hanno più volte sottolineato la portata integrativa del comma 4 dell’art. 597 c.p.p. rispetto al generale divieto di reformatio in pejus di cui al precedente comma 3.
Sono tre, in sostanza, gli aspetti più significativi che vengono richiamati e ribaditi dalla pronuncia in questione:
1) l’obbligo di diminuzione della pena, in termini corrispondenti all’accolto motivo di appello dell’imputato, anche quando l’impugnazione sia stata altresì proposta dal pubblico ministero[11];
2) il divieto di irrogazione, da parte del giudice di appello, di una pena più grave in mancanza di impugnazione del pubblico ministero;
3) la doverosità di procedere alla diminuzione della pena nelle ipotesi indicate[12].
Secondo le sezioni Unite, è quindi possibile ritenere che l’art. 597, comma 4, c.p.p. comprenda anche una componente sostanzialmente rafforzativa e additiva rispetto al divieto di modifica della pena in senso peggiorativo per l’imputato, sancito dal comma 3.
La lettura logico-sistematica dell’art. 597 c.p.p., accompagnata dai lavori preparatori e dalla Relazione preliminare al codice di procedura penale del 1988, consente di affermare che il divieto di reformatio in pejus è norma, sì, eccezionale, rispetto al principio costituzionale di proporzionalità della pena (art. 27 Cost.), ma che tale principio deve essere posto in bilanciamento con il diritto di difesa sancito dall’art. 24 Cost., la cui pienezza ed effettività trova espressione (tra l’altro) nel diritto di proporre impugnazione. In questa prospettiva, chiosano le Sezioni Unite, l’accoglimento di censure validamente proposte mediante l’atto di impugnazione dell’imputato che lamenti l’inosservanza e la violazione di legge in ordine ad una delle componenti del trattamento sanzionatorio (nel caso in esame la corretta entità della riduzione per il rito prevista per il reato contravvenzionale) non può essere neutralizzato da improprie forme di “compensazione” con altro punto ad esso inerente, quale l’erronea individuazione della pena in violazione dei minimi edittali, non devoluto alla cognizione del giudice. In tal modo, infatti, oltre a violare le previsioni contenute nell’art. 597, commi 1 e 3, c.p.p., si vanificherebbe l’effettività del diritto di difesa, che postula non solo l’accesso al mezzo di impugnazione, ma anche, a fronte di un motivo fondato ritualmente prospettato, un provvedimento giudiziale che offra reale risposta e concreto rimedio al vizio dedotto.
Le Sezioni Unite scartano, perché priva di pregio, l’argomentazione che giustifica la mancata riduzione della pena inflitta in violazione dei minimi edittali dal primo giudice, pur in presenza dell’accoglimento di un motivo di appello sul trattamento sanzionatorio, con l’esigenza di non aggravare le conseguenze di un errore commesso nel precedente grado di giudizio: «l’adesione a questa interpretazione – afferma la sentenza – aggiungerebbe in realtà un errore ulteriore, sia pure di segno opposto, rispetto a quello riscontrato». E del resto, aggiunge, l’ordinamento appresta i suoi fisiologici rimedi attribuendo al pubblico ministero la facoltà di proporre impugnazione avverso una sentenza di condanna ad una pena che violi i minimi edittali che non può essere surrogata da un intervento correttivo officioso del giudice di secondo grado, che, superando la preclusione formatasi sul punto, si tradurrebbe, da un lato, nella non consentita estensione della cognizione oltre i limiti del tema devoluto, e, dall’altro, nella omissione del dovere di rispondere compiutamente al motivo di gravame proposto dall’imputato, dando piena attuazione alla richiesta con esso legittimamente dedotta.
Quanto alla dedotta natura (ulteriormente) illegale della pena che dovrebbe essere applicata in accoglimento del motivo di appello, le Sezioni Unite obiettano che la categoria della illegalità della pena è stata utilizzata con riferimento esclusivo ai casi in cui la sanzione applicata dal giudice sia di specie più grave di quella prevista dalla norma incriminatrice o superiore ai limiti edittali indicati nella stessa[13], situazioni nelle quali la pena illegale ridonda in senso sfavorevole all’imputato, e sono quindi ben diverse da quelle in cui la illegittima determinazione del trattamento sanzionatorio produce un risultato allo stesso favorevole.
5. Brevi conclusioni.
Dalla sentenza in commento ben si comprende come, una volta che sia dedotta dinnanzi alla Corte di appello una questione sulla lamentata violazione di legge nella commisurazione della diminuente del rito abbreviato a favore dell’imputato, la stessa debba essere esaminata e, ove ritenuta fondata, dovrà comportare le conseguenti determinazioni da parte del giudice.
Poiché il capoverso dell’art 442 c.p.p. prevede la diminuzione della pena nella misura della metà per effetto dell’opzione difensiva per il rito abbreviato nei procedimenti nei quali sono contestati reati contravvenzionali, il carattere tassativo di questa previsione scolpisce nitidamente il contenuto dell’obbligo decisorio sul punto, al quale il giudice non può sottrarsi, spettando correlativamente all’imputato il diritto a vedersi decurtata la pena nella esatta dimensione prevista.
Ne consegue che l’accoglimento di censure validamente proposte mediante l’atto di impugnazione dell’imputato che lamenti l’inosservanza e la violazione di legge in ordine ad una delle componenti del trattamento sanzionatorio (nel caso in esame la corretta entità della riduzione per il rito prevista per il reato contravvenzionale) non può essere neutralizzato da improprie forme di “compensazione” con altro punto ad esso inerente, quale l’erronea individuazione della pena in violazione dei minimi edittali, non devoluto alla cognizione del giudice.
Diversamente ragionando, giova ribadirlo, oltre a violare le previsioni contenute nell’art 597, commi 1 e 3, c.p.p., si finirebbe col vanificare l’effettività del diritto di difesa, che postula non solo l’accesso al mezzo di impugnazione, ma anche, a fronte di un motivo fondato ritualmente prospettato, un provvedimento giudiziale che offra reale risposta e concreto rimedio al vizio dedotto.
Del resto, poi, il nostro ordinamento appresta, in situazioni analoghe, i suoi fisiologici rimedi, laddove attribuisce al pubblico ministero la facoltà di proporre impugnazione avverso una sentenza di condanna ad una pena che violi i minimi edittali. La mancata iniziativa dell’organo funzionalmente competente non può essere surrogata da un intervento correttivo officioso del giudice di secondo grado.
Va infine rilevato che per la soluzione del problema, come puntualmente osservato da autorevole dottrina[14], si deve considerare, senza tenere conto della riduzione premiale del rito contratto, che in caso di pena illegale, in presenza dell’appello del solo imputato, opera il divieto della reformatio in peius.
Il dato opera anche in presenza della mutata e più grave qualificazione giuridica del fatto. L’unico elemento dissonante rispetto alle aspettative dell’imputato è dato dalle ricadute sulle pene accessorie fisse nonché, per il più grave fatto l’inapplicabilità della prescrizione possibile per il fatto ritenuto in prima istanza.
Qualora si sia trattato di rito abbreviato, l’elemento della premialità costituisce “una “variabile” indipendente non legata al fatto ma al rito operante in modo automatico per effetto dell’economia processuale, dell’accettazione del materiale d’accusa, delle intervenute sanatorie di invalidità”[15].
Dovrà conseguentemente ritenersi che il giudice d’appello che dovesse riconoscere che il giudice del rito non ha applicato correttamente l’abbattimento della pena, dovrebbe provvedere sia nel caso in cui si sia trattato di errore materiale di computo sia nel caso di operatività della previsione che fissa soglie diverse di abbattimento tra delitti e contravvenzioni.
Il dato dell’automaticità trova conferma in quanto previsto dall’art. 438, comma 6 bis, c.p.p., in tema di abbreviato per i reati puniti con l’ergastolo, ove si prevede che “qualora la richiesta di giudizio abbreviato proposta nell’udienza preliminare sia stata dichiarata inammissibile ai sensi del comma 1 bis, il giudice, se all’esito del dibattimento, ritiene che per il fatto accertato sia ammissibile il giudizio abbreviato, applica la riduzione di pena ai sensi dell’art. 442, comma 2, c.p.p.”.
Il discorso risulta agevole quando si tratta di situazioni di favore per l’appellante imputato[16].
Su queste basi, nel caso in cui il giudice d’appello qualifichi delitto una contravvenzione, pur lasciando immutata la pena, ancorché non corrispondente nella specie, dovrebbe applicare la più elevata misura dell’abbattimento di cui all’art. 442, comma 2, c.p.p.
A ben vedere, come puntualmente ed efficacemente osservato[17], la patologia sulla quale s’innesta la questione non nasce dall’imputato o dal divieto della refomatio in peius, ma dal mancato esercizio dei poteri di impugnativa del pubblico ministero, ovvero dalla carenza di una sua legittimazione esclusiva in punto di pena[18], in presenza di pena illegale.
Del resto, è noto che il divieto della reformatio è norma eccezionale, da bilanciare con il diritto di difesa come hanno fatto le Sezioni Unite, privilegiando il diritto alla libertà dell’imputato, conseguente all’esercizio del suo diritto di difesa, estrinsecatosi con l’appello. In tale contesto, vanno tuttavia evidenziate le inevitabili tensioni con il principio di stretta legalità processuale[19].
[1] Sez. Un., 17 dicembre 2020-26 febbraio 2021, n. 7578.
[2] Nato come fiore all’occhiello della codificazione del 1988, con una funzione deflattiva del dibattimento nel modello accusatorio, finalizzata a contrastarne l’eccessiva durata, il giudizio abbreviato ha avuto non poche difficoltà ad essere metabolizzato dal sistema penale processuale italiano e, proprio per questo, è stato il rito speciale maggiormente colpito dalle riforme della giustizia che si sono succedute negli ultimi trent’anni.
[3] In ordine alla nuova fisionomia del giudizio abbreviato dopo la riforma Orlando, si rinvia ai seguenti contributi: T. Alesci, La nuova fisionomia del giudizio abbreviato tra normativizzazione del dato giurisprudenziale e lacune interpretative, in La riforma Orlando. Modifiche al codice penale, codice di procedura penale e ordinamento penitenziario, a cura di Spangher, Pacini Giuridica, 2017, 181 ss.; E. Marzaduri, Il giudizio abbreviato: alcune riflessioni dopo la c.d. riforma Orlando, in Arch. Pen., Speciale riforme, 2018; V. Maffeo, I procedimenti speciali, in La riforma della giustizia penale, a cura di Scalfati, Torino, 2017, 149; G. Barrocu, Giudizio abbreviato: prove e strategie difensive, in Dir. pen. proc., 2017, 1233; ss. A. Bassi, Le modifiche in tema di rito abbreviato, in Riforma Orlando: tutte le novità, a cura di C. Parodi, Milano, 2017, 53 ss.; L. De Gennaro, Modifiche in materia di riti speciali. Giudizio abbreviato, in La riforma della giustizia penale, a cura di A. Conz – L. Levita, Roma, 2017, 109 ss.; L. Pistorelli, sub artt. 438 ss., in Codice di procedura penale, a cura di G. Canzio – R. Bricchetti, Milano, 2017, 3169 ss. Sui profili pratici e operativi del rito abbreviato si rinvia a F. Galluzzo-M.M. Monaco, Giudizio direttissimo e abbreviato, in Quaderni per la formazione del professionista. La difesa d’ufficio, serie diretta da G. Spangher, Pacini Giuridica, 2016.
[4] Cass. Pen., Sez. IV, sentenza n. 832 del 2018.
[5] Cass. Pen., Sez. II, sentenza n. 14068 del 2019; Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 39087 del 2019.
[6] Cass. Pen., Sez. I, sentenza n. 22313 del 2020.
[7] Così, Cass. Pen. Sez. IV, 11 gennaio 2018, n. 832.
[8] In questo senso, Sez. Un., sentenza n. 33572 del 2013; Sez. Un., n. 40910 del 2005.
[9] Sez. Un., sentenza n. 12872 del 2017.
[10] Sez. Un., sentenza n. 1 del 2000.
[11] Sez. Un., sentenza n. 5978 del 1995.
[12] Sez. Un., n. 40910 del 2005.
[13] Sez. Un., sentenza n. 33040 del 2015.
[14] G. Spangher, La pena dell’abbreviato e il divieto della reformatio in peius: inevitabili tensioni con il principio di legalità, in www.penaledp.it, 5 novembre 2020.
[15] Così ancora, G. Spangher, La pena dell’abbreviato e il divieto della reformatio in peius: inevitabili tensioni con il principio di legalità, cit.
[16] G. Spangher, La pena dell’abbreviato e il divieto della reformatio in peius: inevitabili tensioni con il principio di legalità, cit.
[17] G. Spangher, La pena dell’abbreviato e il divieto della reformatio in peius: inevitabili tensioni con il principio di legalità, cit.
[18] G. Spangher, La pena dell’abbreviato e il divieto della reformatio in peius: inevitabili tensioni con il principio di legalità, cit.
[19] G. Spangher, La pena dell’abbreviato e il divieto della reformatio in peius: inevitabili tensioni con il principio di legalità, cit. Sul principio di legalità processuale, per tutti, O. Mazza, Il principio di legalità processuale, in AA.VV., Procedura penale, Torino, 2020, 64 ss.