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Acquisizione di screenshot consegnato alla polizia giudiziaria: è un documento?

1. La Suprema Corte si è occupata da tempo delle modalità di acquisizione e della utilizzabilità nell’ambito di un procedimento penale degli screenshot e dei messaggi WhatsApp conservati nella memoria di un telefono cellulare. Nella sentenza in esame, la Corte riafferma il principio, ormai consolidato, secondo cui è legittima l’acquisizione come documento di una pagina di un “social network” mediante la realizzazione di una fotografia istantanea dello schermo (“screenshot“) di un dispositivo elettronico sul quale la stessa è visibile”, in quanto i messaggi WhatsApp e gli S.M.S. conservati nella memoria di un telefono cellulare hanno natura di documenti ai sensi dell’art. 234 c.p.p.

2. Sotto questo profilo, la sentenza è in linea con la giurisprudenza, che è da tempo attestata sulla natura documentale, ai sensi dell’art. 234 c.p.p., degli screenshot e della messaggistica WhatsApp. Pur riconoscendo il suo contenuto di messaggio, la suprema Corte afferma che, in sostanza, tali messaggi, al pari di un qualsiasi documento, sono strumenti rappresentativi, la cui genesi è del tutto indipendente dal procedimento penale, non potendosi ritenere tale ciò che avviene nel processo o per il processo (tra le prime pronunce, v. Cass., sez. V, 21.9.1992, n. 10654). La giurisprudenza è infatti ormai unanime nel ritenere che le conversazioni intrattenute attraverso l’utilizzo di strumenti informatici costituiscono una forma di memorizzazione di un fatto storico comparabile ad una prova documentale e, pertanto, utilizzabile ai fini probatori nel processo penale (tra le tante v. Cass. sez. V, 6.1.2018, n. 1822).  La giurisprudenza richiama il concetto di prova documentale, così come definito dall’art. 234 c.p.p., che ricomprende ogni scritto o altro documento in grado di rappresentare fatti, persone o cose mediante la fotografia, la cinematografia, la fonografia o qualsiasi altro mezzo. Anche le conversazioni contenute nelle chat di WhatsApp sono pertanto considerate dalla giurisprudenza una forma di memorizzazione di un fatto storico comparabile ad una prova documentale e, pertanto, utilizzabile ai fini probatori nell’ambito del processo penale. La tesi può suscitare qualche perplessità soltanto nei casi in cui la conversazione tramite messaggistica sia ancora in corso, perché, essendo essa asincrona, può svolgersi anche in tempi e battute non immediatamente ravvicinati. In queste ipotesi è difficile negare che una conversazione sia ancora in corso e dovrebbe quindi trovare applicazione la disciplina dettata per le intercettazioni. Ma tale eventualità sembra da escludere nella fattispecie concreta, anche se il principio affermato dalla Corte potrebbe in futuro essere impropriamente esteso alla messaggistica in itinere.

3. Ma l’aspetto relativamente nuovo della decisione qui commentata consiste nell’aver superato il limite che la precedente giurisprudenza aveva stabilito per l’utilizzabilità degli screenshot e della messaggistica WhatsApp. La giurisprudenza, infatti, si era correttamente radicata nel senso di ritenere che la loro utilizzabilità dovesse essere condizionata dall’acquisizione del supporto (telematico o figurativo) contenente la menzionata registrazione, dal momento che la trascrizione svolge una funzione meramente riproduttiva del contenuto della prova stessa (Cass., sez. II, 6.10.2016, n. 50986; Cass., sez. V, 29.9.2015, n. 4287; nel senso contrario di prescindere dal supporto dal quale lo screenshot è estratto, v. invece Cass., sez. II,1.7.2022, n. 39529, Misciali).  Ragionevolmente, la condizione che il dispositivo contenente la messaggistica sia nella disponibilità degli inquirenti è posta dalla giurisprudenza per consentire alle parti e poi al giudice di estrarre dal dispositivo sequestrato copia originale dei messaggi rilevanti ai fini della decisione. Infatti, la copia fotografica o, peggio ancora, la trascrizione del messaggio non può avere alcun attendibile valore probatorio senza il sequestro del dispositivo fisico che contiene l’originale. La sentenza commentata, invece, ritiene legittima l’acquisizione dello screenshot anche in assenza dell’apparecchio da cui è avvenuto il loro invio o sul quale esso è pervenuto e quindi prescinde dalla disponibilità fisica del device in capo agli inquirenti, consentendone l’utilizzabilità anche senza il sequestro del dispositivo, dal quale si afferma che sarebbero stati estratti.

Si ribadisce infatti il principio secondo le dichiarazioni della querelante trovavano riscontro nelle fotografie riprodotte negli screenshot prodotto dalla stessa.

4. La pronuncia non è del tutto nuova, perché già in precedenza si era affermato, in senso conforme, che i messaggi WhatsApp e gli S.M.S. conservati nella memoria di un telefono cellulare, avendo natura di documenti, ai sensi dell’art. 234 c.p.p., sono legittimamente acquisibili mediante mera riproduzione fotografica, non trovando applicazione né la disciplina delle intercettazioni, né quella relativa al sequestro di corrispondenza di cui all’art. 254 c.p.p. (Cass., sez. VI, 12.11.2019, n. 1822/2020, T., CED Cass. 278124-01). Si era anche precisato che, qualora non sia in corso un’attività di captazione delle comunicazioni, il testo di un messaggio S.M.S., fotografato dalla polizia giudiziaria sul display dell’apparecchio cellulare su cui esso è pervenuto, ha natura di documento la cui corrispondenza all’originale è asseverata dalla qualifica soggettiva dell’agente che effettua la riproduzione, ed è, pertanto, utilizzabile anche in assenza del sequestro dell’apparecchio (Cass., sez. I, 20.2.2019, A., CED Cass. 275895 – 02, n. 21731). 

Ma su questa tesi, che sta pericolosamente prendendo piede, sia lecito manifestare qualche perplessità. Infatti, in assenza del dispositivo-contenitore, la riproduzione fotografica di uno screenshot o di un messaggio WhatsApp non consente di avere la certezza dell’identità del mittente, del destinatario, né tantomeno del contenuto del messaggio. In altre parole, l’ammissibilità di una tale prova dubbia, senza il sequestro dell’apparecchio cellulare e senza una rituale estrazione dei messaggi dallo stesso mediante la c.d. copia forense, darebbe ingresso nel processo a qualsiasi riproduzione, tra l’altro incontrollabile, di fotografie o di messaggi WhatsApp con mittente, destinatario e contenuto di incerta provenienza.

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