1. La cornice normativa.
La “Legge Gozzini” (l. 10 ottobre 1986, n. 663), come noto, ha introdotto nella l. 26 luglio 1975, n. 354 l’art. 30-ter, che disciplina l’istituto dei “permessi premio”[1]. Tale previsione, al comma 5, contiene una clausola ostativa che preclude la concessione di permessi a coloro che, durante l’esecuzione della pena, riportino condanne o siano anche soltanto sottoposti a processo penale per un delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena. Costoro, infatti, possono essere ammessi al beneficio soltanto dopo due anni dalla commissione del fatto[2].
La norma manifesta la volontà del legislatore di incentivare la buona condotta del condannato, inducendolo ad astenersi dal commettere azioni delittuose durante l’esecuzione della pena, prospettando, in caso contrario, l’impossibilità di accedere al beneficio.
D’altro canto, gli elementi fattuali che fungono da presupposto – esercizio della azione penale ovvero condanna per un delitto doloso commesso nel corso dell’esecuzione – agganciano la preclusione a una sorta di presunzione di irregolarità della condotta tenuta dal condannato[3]. Si può dire, allora, che il legislatore, in presenza di tali elementi, ha inteso comprimere la discrezionalità della quale invece gode il magistrato di sorveglianza nel compiere la valutazione richiesta dai commi 1 e 8 dell’art. 30-ter ai fini della concessione del permesso.
La previsione è già stata esaminata dalla Corte costituzionale con differenti esiti: mentre è stata ritenuta rispettosa dei principi costituzionali per i condannati adulti[4], è stata dichiarata illegittima limitatamente ai condannati minorenni[5].
Tuttavia, il magistrato di sorveglianza di Spoleto, con l’ordinanza in rassegna, ha sollevato ancora la questione di legittimità costituzionale, chiedendo di rinnovare lo scrutinio compiuto all’epoca.
2. Le censure.
L’ordinanza muove una serrata critica al congegno contenuto nell’art. 30-ter, comma 5, e denuncia una pluralità di incongruenze sul piano costituzionale, evocando quali parametri gli artt. 3, 27, comma 2, e 3 Cost. nonché, per il tramite dell’art. 117 Cost., gli artt. 6 C.E.D.U. e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Dopo aver ricostruito la vicenda sottoposta al suo giudizio, anche per delineare la rilevanza della questione, il magistrato di sorveglianza premette che la norma impedisce qualsiasi valutazione nel merito dell’istanza proposta dal condannato – in caso di condanna o di esercizio della azione penale, il giudice non può andare oltre una pronuncia in rito e deve perciò dichiararla inammissibile – e aggiunge che non sono possibili letture differenti, anche alla luce di quanto stabilito in precedenza dalla Corte costituzionale[6].
È, dunque, uno sbarramento invalicabile: la preclusione, pur spiegando effetti in un periodo di tempo limitato, è invincibile e insensibile a qualsiasi progresso in concreto compiuto dal condannato nel periodo di detenzione successivo al fatto stigmatizzato. Tale connotato è poi inasprito della natura assoluta della clausola ostativa, che colpisce indistintamente il condannato, senza preoccuparsi di dosare l’effetto preclusivo secondo la gravità del reato per il quale è stata pronunciata la condanna o è stata elevata l’imputazione.
Ciò posto, il rimettente prende in considerazione la precedente pronuncia del Giudice delle leggi, che, come detto, aveva dichiarato infondata una questione di identico tenore.
Due argomenti sostengono la richiesta di rimeditare il precedente.
Per un verso, il magistrato di sorveglianza ricorda come in quell’occasione la Corte costituzionale invitò comunque il legislatore a rivedere l’impianto normativo, suggerendo di definire meglio il catalogo di reati dolosi ai quali attribuire attitudine preclusiva. E il fatto che tale invito non sia stato raccolto, nonostante siano trascorsi oltre ventisette anni, è sintomatico, secondo il magistrato di sorveglianza, della maturata necessità di un intervento più energico del Giudice delle leggi affinché supplisca a tale inerzia.
Per altro verso, l’ordinanza evidenzia la metamorfosi del contesto normativo e la formazione di una sensibilità differente rispetto alle questioni penitenziarie, ancorché siano state già affrontate in passato. Da questo punto di vista, è menzionato il progetto di riforma redatto dalla Commissione Giostra, che proponeva di eliminare la previsione[7], e le pronunce, anche più recenti, con le quali la Corte costituzionale ha rimeditato alcune sue precedenti statuizioni[8]. Del resto, verso una rivisitazione delle clausole ostative fondate sulla commissione di condotte delittuose sospingono pure altre declaratorie di illegittimità costituzionale[9].
Tratteggiato un quid novi che consente di superare il giudicato costituzionale[10], il magistrato di sorveglianza denuncia un primo profilo di irragionevolezza, che affiora dalla comparazione con altre disposizioni dell’ordinamento penitenziario. In effetti, se è vero che esistono numerose previsioni che dalla commissione di un reato durante l’esecuzione della pena fanno discendere effetti negativi per il condannato, è anche vero che una ricognizione su tali previsioni consente di notare che il legislatore le ha calibrate in maniera differente. A ben vedere, infatti, tali ripercussioni sono collegate quasi sempre a una pronuncia di condanna definitiva[11] e la loro portata, nella diversa ipotesi in cui il presupposto applicativo è rappresentato dalla mera condizione di imputato, è fortemente limitata[12]. Nella maggior parte dei casi, poi, il catalogo di reati rilevanti è delineato in maniera puntuale, dando rilievo a categorie di illeciti che presentano il tratto comune della gravità[13].
Un ulteriore profilo critico, che aggrava la disparità di trattamento, discende dalla considerazione che i meccanismi preclusivi appaiono meno rigidi nella materia delle misure alternative alla detenzione. Paradossalmente, la previsione de qua determina un assetto nel quale il condannato può accedere alle misure alternative alla detenzione, ma non ai permessi premio che, rispetto alle prime, hanno una minore portata liberatoria. Una incongruenza esasperata dal fatto che tali istituti, nella dinamica trattamentale, hanno spesso quale presupposto proprio l’esperienza proficua dei permessi premio: se, come ha chiarito anche la Corte costituzionale[14], il permesso premio ha una funzione propulsiva, di stimolo alla adesione al progetto trattamentale, una preclusione tanto estesa nel tempo rischia di vanificare, nel biennio di interdizione, qualsiasi possibilità di emenda.
D’altro canto, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della Direttiva 2016/343/UE sulla presunzione di innocenza, il giudice rimettente intravede la necessità di una profonda revisione critica della scelta di valorizzare promiscuamente la condizione di imputato e quella di condannato, equiparandole sic et simpliciter. Invero, l’acquisizione della qualità di imputato discende da una scelta del pubblico ministero, esaminata soltanto successivamente da un giudice, e non possiede la stabilità necessaria per il consolidamento di effetti tanto significativi sulla posizione del condannato. E tale ultima problematica è acuita spesso dalla durata del processo che “può consumare (e normalmente consuma) anche interamente il biennio di ostatività” prima che si sia giunti alla sentenza definitiva. In questa ottica, l’entrata in vigore della Direttiva suggerisce di superare il precedente approdo della Corte costituzionale, che aveva confinato la rilevanza della presunzione di innocenza nell’ambito del solo procedimento a carico dell’imputato, escludendo che potesse irradiarsi anche in altre procedure ovvero tutelare interessi differenti.
Le distorsioni e le aporie fin qui tratteggiate determinano la violazione del principio di uguaglianza e della presunzione di non colpevolezza, ma inducono il magistrato di sorveglianza a ravvisare pure una compromissione della funzione rieducativa della pena e, quindi, un contrasto tra l’art. 30-ter e l’art. 27, comma 3, Cost. L’ordinanza evidenzia, con le parole della Corte costituzionale, che nell’ordinamento non sono ammesse disposizioni che accordino prevalenza assoluta alle esigenze di prevenzione sociale in danno di quelle di recupero dei condannati[15] e sottolinea come nel bilanciamento tra queste contrapposte esigenze sia sempre necessario un vaglio della magistratura di sorveglianza[16].
Dunque, denunciando l’irragionevolezza della previsione, tanto alla luce dell’ambito applicativo e dell’estensione della sua portata, quanto per l’equiparazione di situazioni soggettive diverse, il magistrato di sorveglianza investe la Corte costituzionale della questione.
3. Meccanismi ostativi e disparità di trattamento nella legge sull’ordinamento penitenziario.
L’ordinanza in rassegna mette a nudo una caratteristica, nient’affatto pregevole, dell’ordinamento penitenziario: il testo della legge 26 luglio 1975, n. 354 è stato appesantito da un accumulo di clausole ostative, risultato degli interventi settoriali, spesso – ma non sempre – di matrice emergenziale e securitaria[17], che si sono succeduti nel mezzo secolo trascorso dalla sua entrata in vigore[18]. Sono clausole diverse tra loro per presupposti ed effetti, ma pure per l’istituto rispetto al quale operano. Da questo punto di vista, si può dire che ciascuna misura alternativa alla detenzione e ogni beneficio penitenziario possiede un suo statuto, delineato dalla sinergia tra previsioni generali e speciali.
Accade così, come rileva il magistrato di sorveglianza, che all’interprete si presenta un quadro assolutamente incorente: i meccanismi ostativi non sono coordinati, né la causa dalla quale scaturiscono è individuata secondo criteri di gravità, né, infine, è dosata la capacità preclusiva secondo l’istituto – beneficio o misura alternativa – al quale afferiscono.
In linea di principio, non si dovrebbe dubitare circa la possibilità che il legislatore utilizzi simili strumenti. La minaccia di preclusioni derivanti dal compimento di determinate condotte da parte del condannato ha sicuramente un effetto deterrente e consente di dissuadere l’interessato dalla violazione delle prescrizioni che governano la vita nell’istituto penitenziario o il godimento di misure alternative. È una impostazione che, soprattutto per le misure alternative alla detenzione, presidia il rispetto del patto di fiducia tra lo Stato e il condannato, come pure ha affermato la Corte costituzionale[19]. Inoltre, i meccanismi ostativi, se è vero che impediscono la ponderazione giudiziale, presentano – ove ben congegnati – alcuni vantaggi. Per un verso, possono ridurre il rischio di disparità di trattamento: in questa ottica, la limitazione della discrezionalità del giudice impedisce che situazioni simili siano trattate diversamente e, viceversa, che situazioni differenti siano trattate allo stesso modo e, nel contempo, assicura anche la prevedibilità della decisione[20]. Per altro verso, privando il giudice il potere di decidere, tutelano il magistrato, sottratto a pressioni e intimidazioni alle quali potrebbe rimanere esposto in relazioni a contesti criminali di particolare spessore[21].
È imprescindibile, tuttavia, una visione di sistema nella quale ciascuna previsione sia coordinata con le altre e contribuisca a descrivere un quadro normativo armonico e, soprattutto, rigorosamente orientato da criteri di proporzionalità e ragionevolezza.
Diversamente, il rischio è che sia compromessa la linearità del percorso trattamentale e che la progressione verso il reinserimento in società subisca limitazioni e rallentamenti ingiustificati.
L’attuale conformazione dell’ordinamento penitenziario e le sperequazioni che lo contraddistinguono, così come descritte nell’ordinanza di rimessione, potrebbero essere emendate da un intervento normativo, ispirato da una logica di extrema ratio, che riconduca in una radice comune le singole disposizioni ostative, condensandole in un compendio coerente con i principi costituzionali e con gli insegnamenti del Giudice delle leggi.
Tuttavia, se un simile progetto oggi non è neppure in cantiere il solo rimedio adeguato appare la declaratoria di illegittimità costituzionale delle previsioni più problematiche, come si presenta, almeno da questo punto di vista, quella censurata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto.
4. Divieto di accesso ai permessi premio, presunzione di non colpevolezza e funzione rieducativa della pena.
L’ordinanza in rassegna, d’altro canto, stigmatizza l’opzione legislativa nella parte in cui valorizza la condizione di imputato o di condannato per un fatto commesso durante l’esecuzione della pena quale ostacolo alla concessione di permessi premio.
In questa dimensione, alla violazione del principio di uguaglianza si sommano la violazione della presunzione di non colpevolezza e la compromissione della funzione rieducativa della pena.
La tenuta costituzionale della previsione, pertanto, appare compromessa già da questa impostazione di fondo, che da condizioni soggettive diverse fa derivare identici effetti.
Conviene, tuttavia, analizzare separatamente la situazione dell’imputato da quella del condannato per il reato commesso durante l’esecuzione penale, per verificare se, nella dimensione costituzionale, possano essere diverse le conclusioni ovvero se al medesimo esito – l’accoglimento o il rigetto della questione di legittimità costituzionale – si giunga battendo percorsi diversi.
C’è da rilevare, innanzitutto, che la questione di legittimità costituzionale sulla preclusione in danno del condannato presenta un difetto di rilevanza poiché nel caso sub iudice l’istante riveste la diversa condizione dell’imputato. Ma al di là di questo dubbio, che ha rilevanza puramente processuale nella dinamica dell’incidente di costituzionalità, nelle due situazioni enunciate si apprezza comunque una diversa incidenza dei principi evocati nell’ordinanza.
Il condannato, innanzitutto, non è protetto dalla presunzione di non colpevolezza poiché l’accertamento irrevocabile della sua responsabilità disattiva le tutele assicurate dall’art. 27, comma 2, Cost.
La stabilità della decisione di condanna, inoltre, aggancia a un dato meno precario l’operatività della preclusione, fatta salva l’ipotesi – invero eccezionale – del positivo esperimento di mezzi di impugnazione straordinari.
Dunque, se da questo punto di vista la previsione ha una sua giustificazione, resta da chiedersi, se la sua attuale conformazione risponda a criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Qui, le maggiori perplessità riguardano la straordinaria ampiezza delle situazioni rilevanti e la preclusione all’accesso ai soli permessi premio.
La applicabilità a qualsiasi reato, e, quindi, anche a fattispecie bagatellari, accomuna il trattamento di una varietà di condotte da tenere distinte. Una situazione che, peraltro, appare aggravata dalla circostanza che è precluso qualsiasi vaglio sulla concreta incidenza di tale evento sul trattamento e i suoi risultati.
Sono difetti che comprimono eccessivamente la funzione rieducativa e che in parte erano stati segnalati nella precedente decisione della Corte costituzionale.
Volgendo lo sguardo sull’imputato le conclusioni sono ancor più drastiche. Su questo versante, come su quello del condannato, è ancora l’assenza di una tassativa, e più ristretta, indicazione dei delitti rilevanti a porre la norma al di fuori di quanto è consentito dalla Costituzione.
A ben vedere, tuttavia, neppure una catalogazione dei delitti rilevanti si rivelerebbe soddisfacente.
Invero, la precarietà della condizione di imputato, che ben può essere prosciolto, costituisce l’elemento di maggiore debolezza della costruzione normativa.
Il rischio, come rimarca l’ordinanza, è che il periodo di interdizione trascorra in attesa della celebrazione di un processo che potrebbe concludersi con un esito favorevole per il condannato, al quale, tuttavia, non potrebbero mai essere restituite le occasioni perdute nel biennio.
Dunque, da questo punto di vista, il riparo offerto dalla presunzione di non colpevolezza costituisce l’argine più efficace per impedire compromissioni della funzione rieducativa della pena.
Ciò non significa, tuttavia, che l’eventuale infrazione delle norme penali durante l’esecuzione della pena non possa essere apprezzata, quale elemento di segno negativo, ai fini della valutazione sulla meritevolezza di benefici e misure alternative alla detenzione. Significa, piuttosto, eliminare un automatismo dal fondamento alquanto labile per restituire alla magistratura di sorveglianza il potere di individuare il significato dell’evento nella dinamica trattamentale.
[1] Sul punto, ex plurimis, Giunta, sub art. 9, in AA.VV., L. 10/10/1986, n. 663. Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Leg. pen., 1987, p. 135 e ss.
[2] Sul punto, ancora Giunta, sub art. 9, cit., p. 141 e ss., e, con differenti sfumature, La Greca, La disciplina dei permessi premio nel quadro del trattamento penitenziario, in Grevi (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme tra riforme 1994, p. 259.
[3] Fiorentin, sub art. 30-ter, in Della Casa – Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, VI ed., Cedam, 2019, p. 428.
[4] C. cost., 30 luglio 1997, n. 296, in Giur. cost., 1997, p. 2685,
[5] C. cost., 17 dicembre 1997, n. 403, in Giur. cost., 1997, p. 3745.
[6] C. cost., 30 luglio 1997, n. 296, cit., ha infatti affermato che si tratta di un “effetto preclusivo rispetto al quale al magistrato di sorveglianza non resta alcuna possibilità di sindacato”.
[7] Critica la scelta del legislatore di non dar seguito alla proposta di eliminare gli automatismi dal testo dell’ordinamento penitenziario Forti, Il trattamento, in Giarda – Forti – Giunta – Varraso, Manuale di diritto penitenziario, Cedam, 2021, p. 104.
[8] Il richiamo è, in particolare, a C. cost., 26 gennaio 2024, n. 10, in Giur. cost., 2024, p. 74, sul tema della tutela affettività in carcere.
[9] A tal proposito, ex plurimis, la declaratoria di illegittimità costituzionale della revoca automatica della liberazione anticipata in caso di commissione di reati da parte del beneficiario (C. cost., 23 maggio 1995, n. 186, in Giur. cost., 1995, p. 1468).
[10] Peraltro, l’ordinanza segnale che il tema della nuova rimessione coincide soltanto in parte con quello affrontato all’epoca dal Giudice delle leggi.
[11] Il magistrato di sorveglianza richiama, qui, gli artt. 47-ter, comma 9, 54, comma 3, e 58-quater, comma 1.
[12] Il magistrato di sorveglianza ricorda che l’art. 47-quater, comma 6, pur dando rilievo a una imputazione elevata per un determinato catalogo di delitti ai fini della revoca della misura, non elimina il potere discrezionale del giudice, che può sempre valutare la concreta incidenza di tale fatto. Sulla medesima linea interpretativa, sono evocate le previsioni dell’art. 51, comma 4, e 58-quater, comma 5
[13] È il caso, ad esempio, dell’art. 58-quater, comma 5, che collega l’effetto ostativo alla condanna per i delitti indicati dall’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater.
[14] Secondo la Corte costituzionale, il permesso premio è uno “strumento cruciale del trattamento” e questa concezione è un filo rosso che lega tutte le sentenze in materia da C. cost., 12 aprile 1990, n. 188, in Cass. pen., 1991, p. I, p. 371, fino a C. cost., 4 dicembre 2019, n. 253, in Giur. cost., 2019, p. 3103.
[15] C. cost., 1 dicembre 1999, n. 436, in Cass. pen., 2000, p. 2557, alla quale si aggiungono C. cost., 4 luglio 2006, n. 257, in Giur. cost., 2006, p. 2713, e C. cost., 28 maggio 2010, n. 189, ivi, 2010, p. 2242.
[16] Ad esempio, C. cost., 23 luglio 2021, n. 173, in Giur. cost., 2021, p. 1725, che, pur evidenziando l’eccessiva severità della previsione, ha ritenuto legittimo l’art. 58-quater in ragione del fatto che la preclusione triennale ivi contemplata scaturisce da un precedente vaglio del tribunale di sorveglianza sulla revoca della misura alternativa alla detenzione.
[17] A ben vedere, la previsione sottoposta al giudizio della Corte è stata introdotta da una novella unanimemente apprezzata per i suoi contenuti orientati verso il potenziamento degli istituti di matrice rieducativa.
[18] La predisposizione di previsioni simili è una costante della legge sull’ordinamento penitenziario, come testimonia la presenza già nella formulazione originaria di preclusioni alla concessione dell’affidamento in prova, della semilibertà e della liberazione anticipata per talune ipotesi di rapina ed estorsione ovvero per coloro che avessero commesso reati della stessa indole (in tema, Grevi, Art. 47, comma 2° dell’ordinamento penitenziario: una disposizione da rivedere, in Grevi, Scritti sul processo penale e sull’ordinamento penitenziario, vol. III, L’ordinamento penitenziario, Cedam, 2012, p. 189).
[19] A tal proposito, C. cost., 23 luglio 2021, n. 173, cit.
[20] In questo senso, sebbene in relazione a una diversa fattispecie, Zanon, Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale. Dieci casi, Zanichelli, 2024, p. 100.
[21] Analogamente a quanto sostenuto in relazione ai meccanismi presuntivi in materia cautelare ex art. 275 c.p.p. da Grevi, Nuovo codice di procedura penale e processi di criminalità organizzata: un primo bilancio, in Grevi, Scritti sul processo penale e sull’ordinamento penitenziario, vol. II, Il codice di procedura penale del 1988, t. I, Cedam, 2011, p. 293.
Alla Corte costituzionale una questione sull’art. 30-ter dell’ordinamento penitenziario
1. La cornice normativa.
La “Legge Gozzini” (l. 10 ottobre 1986, n. 663), come noto, ha introdotto nella l. 26 luglio 1975, n. 354 l’art. 30-ter, che disciplina l’istituto dei “permessi premio”[1]. Tale previsione, al comma 5, contiene una clausola ostativa che preclude la concessione di permessi a coloro che, durante l’esecuzione della pena, riportino condanne o siano anche soltanto sottoposti a processo penale per un delitto doloso commesso durante l’espiazione della pena. Costoro, infatti, possono essere ammessi al beneficio soltanto dopo due anni dalla commissione del fatto[2].
La norma manifesta la volontà del legislatore di incentivare la buona condotta del condannato, inducendolo ad astenersi dal commettere azioni delittuose durante l’esecuzione della pena, prospettando, in caso contrario, l’impossibilità di accedere al beneficio.
D’altro canto, gli elementi fattuali che fungono da presupposto – esercizio della azione penale ovvero condanna per un delitto doloso commesso nel corso dell’esecuzione – agganciano la preclusione a una sorta di presunzione di irregolarità della condotta tenuta dal condannato[3]. Si può dire, allora, che il legislatore, in presenza di tali elementi, ha inteso comprimere la discrezionalità della quale invece gode il magistrato di sorveglianza nel compiere la valutazione richiesta dai commi 1 e 8 dell’art. 30-ter ai fini della concessione del permesso.
La previsione è già stata esaminata dalla Corte costituzionale con differenti esiti: mentre è stata ritenuta rispettosa dei principi costituzionali per i condannati adulti[4], è stata dichiarata illegittima limitatamente ai condannati minorenni[5].
Tuttavia, il magistrato di sorveglianza di Spoleto, con l’ordinanza in rassegna, ha sollevato ancora la questione di legittimità costituzionale, chiedendo di rinnovare lo scrutinio compiuto all’epoca.
2. Le censure.
L’ordinanza muove una serrata critica al congegno contenuto nell’art. 30-ter, comma 5, e denuncia una pluralità di incongruenze sul piano costituzionale, evocando quali parametri gli artt. 3, 27, comma 2, e 3 Cost. nonché, per il tramite dell’art. 117 Cost., gli artt. 6 C.E.D.U. e 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
Dopo aver ricostruito la vicenda sottoposta al suo giudizio, anche per delineare la rilevanza della questione, il magistrato di sorveglianza premette che la norma impedisce qualsiasi valutazione nel merito dell’istanza proposta dal condannato – in caso di condanna o di esercizio della azione penale, il giudice non può andare oltre una pronuncia in rito e deve perciò dichiararla inammissibile – e aggiunge che non sono possibili letture differenti, anche alla luce di quanto stabilito in precedenza dalla Corte costituzionale[6].
È, dunque, uno sbarramento invalicabile: la preclusione, pur spiegando effetti in un periodo di tempo limitato, è invincibile e insensibile a qualsiasi progresso in concreto compiuto dal condannato nel periodo di detenzione successivo al fatto stigmatizzato. Tale connotato è poi inasprito della natura assoluta della clausola ostativa, che colpisce indistintamente il condannato, senza preoccuparsi di dosare l’effetto preclusivo secondo la gravità del reato per il quale è stata pronunciata la condanna o è stata elevata l’imputazione.
Ciò posto, il rimettente prende in considerazione la precedente pronuncia del Giudice delle leggi, che, come detto, aveva dichiarato infondata una questione di identico tenore.
Due argomenti sostengono la richiesta di rimeditare il precedente.
Per un verso, il magistrato di sorveglianza ricorda come in quell’occasione la Corte costituzionale invitò comunque il legislatore a rivedere l’impianto normativo, suggerendo di definire meglio il catalogo di reati dolosi ai quali attribuire attitudine preclusiva. E il fatto che tale invito non sia stato raccolto, nonostante siano trascorsi oltre ventisette anni, è sintomatico, secondo il magistrato di sorveglianza, della maturata necessità di un intervento più energico del Giudice delle leggi affinché supplisca a tale inerzia.
Per altro verso, l’ordinanza evidenzia la metamorfosi del contesto normativo e la formazione di una sensibilità differente rispetto alle questioni penitenziarie, ancorché siano state già affrontate in passato. Da questo punto di vista, è menzionato il progetto di riforma redatto dalla Commissione Giostra, che proponeva di eliminare la previsione[7], e le pronunce, anche più recenti, con le quali la Corte costituzionale ha rimeditato alcune sue precedenti statuizioni[8]. Del resto, verso una rivisitazione delle clausole ostative fondate sulla commissione di condotte delittuose sospingono pure altre declaratorie di illegittimità costituzionale[9].
Tratteggiato un quid novi che consente di superare il giudicato costituzionale[10], il magistrato di sorveglianza denuncia un primo profilo di irragionevolezza, che affiora dalla comparazione con altre disposizioni dell’ordinamento penitenziario. In effetti, se è vero che esistono numerose previsioni che dalla commissione di un reato durante l’esecuzione della pena fanno discendere effetti negativi per il condannato, è anche vero che una ricognizione su tali previsioni consente di notare che il legislatore le ha calibrate in maniera differente. A ben vedere, infatti, tali ripercussioni sono collegate quasi sempre a una pronuncia di condanna definitiva[11] e la loro portata, nella diversa ipotesi in cui il presupposto applicativo è rappresentato dalla mera condizione di imputato, è fortemente limitata[12]. Nella maggior parte dei casi, poi, il catalogo di reati rilevanti è delineato in maniera puntuale, dando rilievo a categorie di illeciti che presentano il tratto comune della gravità[13].
Un ulteriore profilo critico, che aggrava la disparità di trattamento, discende dalla considerazione che i meccanismi preclusivi appaiono meno rigidi nella materia delle misure alternative alla detenzione. Paradossalmente, la previsione de qua determina un assetto nel quale il condannato può accedere alle misure alternative alla detenzione, ma non ai permessi premio che, rispetto alle prime, hanno una minore portata liberatoria. Una incongruenza esasperata dal fatto che tali istituti, nella dinamica trattamentale, hanno spesso quale presupposto proprio l’esperienza proficua dei permessi premio: se, come ha chiarito anche la Corte costituzionale[14], il permesso premio ha una funzione propulsiva, di stimolo alla adesione al progetto trattamentale, una preclusione tanto estesa nel tempo rischia di vanificare, nel biennio di interdizione, qualsiasi possibilità di emenda.
D’altro canto, soprattutto a seguito dell’entrata in vigore della Direttiva 2016/343/UE sulla presunzione di innocenza, il giudice rimettente intravede la necessità di una profonda revisione critica della scelta di valorizzare promiscuamente la condizione di imputato e quella di condannato, equiparandole sic et simpliciter. Invero, l’acquisizione della qualità di imputato discende da una scelta del pubblico ministero, esaminata soltanto successivamente da un giudice, e non possiede la stabilità necessaria per il consolidamento di effetti tanto significativi sulla posizione del condannato. E tale ultima problematica è acuita spesso dalla durata del processo che “può consumare (e normalmente consuma) anche interamente il biennio di ostatività” prima che si sia giunti alla sentenza definitiva. In questa ottica, l’entrata in vigore della Direttiva suggerisce di superare il precedente approdo della Corte costituzionale, che aveva confinato la rilevanza della presunzione di innocenza nell’ambito del solo procedimento a carico dell’imputato, escludendo che potesse irradiarsi anche in altre procedure ovvero tutelare interessi differenti.
Le distorsioni e le aporie fin qui tratteggiate determinano la violazione del principio di uguaglianza e della presunzione di non colpevolezza, ma inducono il magistrato di sorveglianza a ravvisare pure una compromissione della funzione rieducativa della pena e, quindi, un contrasto tra l’art. 30-ter e l’art. 27, comma 3, Cost. L’ordinanza evidenzia, con le parole della Corte costituzionale, che nell’ordinamento non sono ammesse disposizioni che accordino prevalenza assoluta alle esigenze di prevenzione sociale in danno di quelle di recupero dei condannati[15] e sottolinea come nel bilanciamento tra queste contrapposte esigenze sia sempre necessario un vaglio della magistratura di sorveglianza[16].
Dunque, denunciando l’irragionevolezza della previsione, tanto alla luce dell’ambito applicativo e dell’estensione della sua portata, quanto per l’equiparazione di situazioni soggettive diverse, il magistrato di sorveglianza investe la Corte costituzionale della questione.
3. Meccanismi ostativi e disparità di trattamento nella legge sull’ordinamento penitenziario.
L’ordinanza in rassegna mette a nudo una caratteristica, nient’affatto pregevole, dell’ordinamento penitenziario: il testo della legge 26 luglio 1975, n. 354 è stato appesantito da un accumulo di clausole ostative, risultato degli interventi settoriali, spesso – ma non sempre – di matrice emergenziale e securitaria[17], che si sono succeduti nel mezzo secolo trascorso dalla sua entrata in vigore[18]. Sono clausole diverse tra loro per presupposti ed effetti, ma pure per l’istituto rispetto al quale operano. Da questo punto di vista, si può dire che ciascuna misura alternativa alla detenzione e ogni beneficio penitenziario possiede un suo statuto, delineato dalla sinergia tra previsioni generali e speciali.
Accade così, come rileva il magistrato di sorveglianza, che all’interprete si presenta un quadro assolutamente incorente: i meccanismi ostativi non sono coordinati, né la causa dalla quale scaturiscono è individuata secondo criteri di gravità, né, infine, è dosata la capacità preclusiva secondo l’istituto – beneficio o misura alternativa – al quale afferiscono.
In linea di principio, non si dovrebbe dubitare circa la possibilità che il legislatore utilizzi simili strumenti. La minaccia di preclusioni derivanti dal compimento di determinate condotte da parte del condannato ha sicuramente un effetto deterrente e consente di dissuadere l’interessato dalla violazione delle prescrizioni che governano la vita nell’istituto penitenziario o il godimento di misure alternative. È una impostazione che, soprattutto per le misure alternative alla detenzione, presidia il rispetto del patto di fiducia tra lo Stato e il condannato, come pure ha affermato la Corte costituzionale[19]. Inoltre, i meccanismi ostativi, se è vero che impediscono la ponderazione giudiziale, presentano – ove ben congegnati – alcuni vantaggi. Per un verso, possono ridurre il rischio di disparità di trattamento: in questa ottica, la limitazione della discrezionalità del giudice impedisce che situazioni simili siano trattate diversamente e, viceversa, che situazioni differenti siano trattate allo stesso modo e, nel contempo, assicura anche la prevedibilità della decisione[20]. Per altro verso, privando il giudice il potere di decidere, tutelano il magistrato, sottratto a pressioni e intimidazioni alle quali potrebbe rimanere esposto in relazioni a contesti criminali di particolare spessore[21].
È imprescindibile, tuttavia, una visione di sistema nella quale ciascuna previsione sia coordinata con le altre e contribuisca a descrivere un quadro normativo armonico e, soprattutto, rigorosamente orientato da criteri di proporzionalità e ragionevolezza.
Diversamente, il rischio è che sia compromessa la linearità del percorso trattamentale e che la progressione verso il reinserimento in società subisca limitazioni e rallentamenti ingiustificati.
L’attuale conformazione dell’ordinamento penitenziario e le sperequazioni che lo contraddistinguono, così come descritte nell’ordinanza di rimessione, potrebbero essere emendate da un intervento normativo, ispirato da una logica di extrema ratio, che riconduca in una radice comune le singole disposizioni ostative, condensandole in un compendio coerente con i principi costituzionali e con gli insegnamenti del Giudice delle leggi.
Tuttavia, se un simile progetto oggi non è neppure in cantiere il solo rimedio adeguato appare la declaratoria di illegittimità costituzionale delle previsioni più problematiche, come si presenta, almeno da questo punto di vista, quella censurata dal magistrato di sorveglianza di Spoleto.
4. Divieto di accesso ai permessi premio, presunzione di non colpevolezza e funzione rieducativa della pena.
L’ordinanza in rassegna, d’altro canto, stigmatizza l’opzione legislativa nella parte in cui valorizza la condizione di imputato o di condannato per un fatto commesso durante l’esecuzione della pena quale ostacolo alla concessione di permessi premio.
In questa dimensione, alla violazione del principio di uguaglianza si sommano la violazione della presunzione di non colpevolezza e la compromissione della funzione rieducativa della pena.
La tenuta costituzionale della previsione, pertanto, appare compromessa già da questa impostazione di fondo, che da condizioni soggettive diverse fa derivare identici effetti.
Conviene, tuttavia, analizzare separatamente la situazione dell’imputato da quella del condannato per il reato commesso durante l’esecuzione penale, per verificare se, nella dimensione costituzionale, possano essere diverse le conclusioni ovvero se al medesimo esito – l’accoglimento o il rigetto della questione di legittimità costituzionale – si giunga battendo percorsi diversi.
C’è da rilevare, innanzitutto, che la questione di legittimità costituzionale sulla preclusione in danno del condannato presenta un difetto di rilevanza poiché nel caso sub iudice l’istante riveste la diversa condizione dell’imputato. Ma al di là di questo dubbio, che ha rilevanza puramente processuale nella dinamica dell’incidente di costituzionalità, nelle due situazioni enunciate si apprezza comunque una diversa incidenza dei principi evocati nell’ordinanza.
Il condannato, innanzitutto, non è protetto dalla presunzione di non colpevolezza poiché l’accertamento irrevocabile della sua responsabilità disattiva le tutele assicurate dall’art. 27, comma 2, Cost.
La stabilità della decisione di condanna, inoltre, aggancia a un dato meno precario l’operatività della preclusione, fatta salva l’ipotesi – invero eccezionale – del positivo esperimento di mezzi di impugnazione straordinari.
Dunque, se da questo punto di vista la previsione ha una sua giustificazione, resta da chiedersi, se la sua attuale conformazione risponda a criteri di ragionevolezza e proporzionalità. Qui, le maggiori perplessità riguardano la straordinaria ampiezza delle situazioni rilevanti e la preclusione all’accesso ai soli permessi premio.
La applicabilità a qualsiasi reato, e, quindi, anche a fattispecie bagatellari, accomuna il trattamento di una varietà di condotte da tenere distinte. Una situazione che, peraltro, appare aggravata dalla circostanza che è precluso qualsiasi vaglio sulla concreta incidenza di tale evento sul trattamento e i suoi risultati.
Sono difetti che comprimono eccessivamente la funzione rieducativa e che in parte erano stati segnalati nella precedente decisione della Corte costituzionale.
Volgendo lo sguardo sull’imputato le conclusioni sono ancor più drastiche. Su questo versante, come su quello del condannato, è ancora l’assenza di una tassativa, e più ristretta, indicazione dei delitti rilevanti a porre la norma al di fuori di quanto è consentito dalla Costituzione.
A ben vedere, tuttavia, neppure una catalogazione dei delitti rilevanti si rivelerebbe soddisfacente.
Invero, la precarietà della condizione di imputato, che ben può essere prosciolto, costituisce l’elemento di maggiore debolezza della costruzione normativa.
Il rischio, come rimarca l’ordinanza, è che il periodo di interdizione trascorra in attesa della celebrazione di un processo che potrebbe concludersi con un esito favorevole per il condannato, al quale, tuttavia, non potrebbero mai essere restituite le occasioni perdute nel biennio.
Dunque, da questo punto di vista, il riparo offerto dalla presunzione di non colpevolezza costituisce l’argine più efficace per impedire compromissioni della funzione rieducativa della pena.
Ciò non significa, tuttavia, che l’eventuale infrazione delle norme penali durante l’esecuzione della pena non possa essere apprezzata, quale elemento di segno negativo, ai fini della valutazione sulla meritevolezza di benefici e misure alternative alla detenzione. Significa, piuttosto, eliminare un automatismo dal fondamento alquanto labile per restituire alla magistratura di sorveglianza il potere di individuare il significato dell’evento nella dinamica trattamentale.
[1] Sul punto, ex plurimis, Giunta, sub art. 9, in AA.VV., L. 10/10/1986, n. 663. Modifiche alla legge sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà, in Leg. pen., 1987, p. 135 e ss.
[2] Sul punto, ancora Giunta, sub art. 9, cit., p. 141 e ss., e, con differenti sfumature, La Greca, La disciplina dei permessi premio nel quadro del trattamento penitenziario, in Grevi (a cura di), L’ordinamento penitenziario tra riforme tra riforme 1994, p. 259.
[3] Fiorentin, sub art. 30-ter, in Della Casa – Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, VI ed., Cedam, 2019, p. 428.
[4] C. cost., 30 luglio 1997, n. 296, in Giur. cost., 1997, p. 2685,
[5] C. cost., 17 dicembre 1997, n. 403, in Giur. cost., 1997, p. 3745.
[6] C. cost., 30 luglio 1997, n. 296, cit., ha infatti affermato che si tratta di un “effetto preclusivo rispetto al quale al magistrato di sorveglianza non resta alcuna possibilità di sindacato”.
[7] Critica la scelta del legislatore di non dar seguito alla proposta di eliminare gli automatismi dal testo dell’ordinamento penitenziario Forti, Il trattamento, in Giarda – Forti – Giunta – Varraso, Manuale di diritto penitenziario, Cedam, 2021, p. 104.
[8] Il richiamo è, in particolare, a C. cost., 26 gennaio 2024, n. 10, in Giur. cost., 2024, p. 74, sul tema della tutela affettività in carcere.
[9] A tal proposito, ex plurimis, la declaratoria di illegittimità costituzionale della revoca automatica della liberazione anticipata in caso di commissione di reati da parte del beneficiario (C. cost., 23 maggio 1995, n. 186, in Giur. cost., 1995, p. 1468).
[10] Peraltro, l’ordinanza segnale che il tema della nuova rimessione coincide soltanto in parte con quello affrontato all’epoca dal Giudice delle leggi.
[11] Il magistrato di sorveglianza richiama, qui, gli artt. 47-ter, comma 9, 54, comma 3, e 58-quater, comma 1.
[12] Il magistrato di sorveglianza ricorda che l’art. 47-quater, comma 6, pur dando rilievo a una imputazione elevata per un determinato catalogo di delitti ai fini della revoca della misura, non elimina il potere discrezionale del giudice, che può sempre valutare la concreta incidenza di tale fatto. Sulla medesima linea interpretativa, sono evocate le previsioni dell’art. 51, comma 4, e 58-quater, comma 5
[13] È il caso, ad esempio, dell’art. 58-quater, comma 5, che collega l’effetto ostativo alla condanna per i delitti indicati dall’art. 4-bis, commi 1, 1-ter e 1-quater.
[14] Secondo la Corte costituzionale, il permesso premio è uno “strumento cruciale del trattamento” e questa concezione è un filo rosso che lega tutte le sentenze in materia da C. cost., 12 aprile 1990, n. 188, in Cass. pen., 1991, p. I, p. 371, fino a C. cost., 4 dicembre 2019, n. 253, in Giur. cost., 2019, p. 3103.
[15] C. cost., 1 dicembre 1999, n. 436, in Cass. pen., 2000, p. 2557, alla quale si aggiungono C. cost., 4 luglio 2006, n. 257, in Giur. cost., 2006, p. 2713, e C. cost., 28 maggio 2010, n. 189, ivi, 2010, p. 2242.
[16] Ad esempio, C. cost., 23 luglio 2021, n. 173, in Giur. cost., 2021, p. 1725, che, pur evidenziando l’eccessiva severità della previsione, ha ritenuto legittimo l’art. 58-quater in ragione del fatto che la preclusione triennale ivi contemplata scaturisce da un precedente vaglio del tribunale di sorveglianza sulla revoca della misura alternativa alla detenzione.
[17] A ben vedere, la previsione sottoposta al giudizio della Corte è stata introdotta da una novella unanimemente apprezzata per i suoi contenuti orientati verso il potenziamento degli istituti di matrice rieducativa.
[18] La predisposizione di previsioni simili è una costante della legge sull’ordinamento penitenziario, come testimonia la presenza già nella formulazione originaria di preclusioni alla concessione dell’affidamento in prova, della semilibertà e della liberazione anticipata per talune ipotesi di rapina ed estorsione ovvero per coloro che avessero commesso reati della stessa indole (in tema, Grevi, Art. 47, comma 2° dell’ordinamento penitenziario: una disposizione da rivedere, in Grevi, Scritti sul processo penale e sull’ordinamento penitenziario, vol. III, L’ordinamento penitenziario, Cedam, 2012, p. 189).
[19] A tal proposito, C. cost., 23 luglio 2021, n. 173, cit.
[20] In questo senso, sebbene in relazione a una diversa fattispecie, Zanon, Le opinioni dissenzienti in Corte costituzionale. Dieci casi, Zanichelli, 2024, p. 100.
[21] Analogamente a quanto sostenuto in relazione ai meccanismi presuntivi in materia cautelare ex art. 275 c.p.p. da Grevi, Nuovo codice di procedura penale e processi di criminalità organizzata: un primo bilancio, in Grevi, Scritti sul processo penale e sull’ordinamento penitenziario, vol. II, Il codice di procedura penale del 1988, t. I, Cedam, 2011, p. 293.
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