Corte Costituzionale, Sentenza del 7 aprile 2020 – dep. 24 aprile 2020, n. 73, Cartabia Presidente – Viganò Redattore.
Reati e pene – Concorso di circostanze aggravanti e attenuanti – Divieto di prevalenza del vizio parziale di mente di cui all’art. 89 cod. pen. rispetto alla recidiva reiterata di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. – Codice penale, art. 69, comma quarto, come sostituito dall’art. 3 della legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla L. 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione) –
Massima: È costituzionalmente illegittimo l’art. 69, quarto comma, del codice penale, nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante di cui all’art. 89 cod. pen. sulla circostanza aggravante della recidiva di cui all’art. 99, quarto comma, cod. pen. Nel concorso tra circostanze eterogenee disciplinato dall’art. 69 c.p., il giudice potrà ritenere anche prevalente la diminuente della seminfermità mentale (art. 89 c.p.), ove il caso concreto lo richieda, sulla dichiarata recidiva reiterata
Sommario: 1. Premessa sul contesto normativo e giurisprudenziale in cui si colloca il decisum. – 2. Il caso di specie e le censure sollevate. – 3. La decisione della Corte e qualche breve riflessione conclusiva.
- Premessa sul contesto normativo e giurisprudenziale in cui si colloca il decisum.
La pronuncia della Corte costituzionale in commento, accogliendo le questioni sollevate dal Tribunale ordinario di Reggio Calabria con ordinanza n. 121 del 29 gennaio 2019[1], dichiara parzialmente illegittimo l’art. 69, co. 4 c.p., nella parte in cui prevede il divieto di prevalenza della circostanza attenuante del vizio parziale di mente, di cui all’art. 89 c.p., sulla circostanza aggravante della recidiva reiterata, di cui all’art. 99, co. 4 c.p.
La sentenza si inserisce nel solco di un lento processo di erosione, ad opera della Consulta, della c.d. blindatura al giudizio di prevalenza tra circostanze eterogenee introdotta dalla l.n. 251/2005 (c.d. ex Cirielli)[2] nei confronti del recidivo reiterato (artt. 69 co. 4 e 99, co. 4 c.p.), mettendo ancora una volta in risalto la problematicità dell’istituto di cui all’art. 69 c.p., non solo per il sistema delle circostanze del reato, ma per l’intero sistema commisurativo e sanzionatorio vigente[3].
Si tratta di uno dei meccanismi di commisurazione, c.d. in senso lato, che ha subìto nel tempo le più incisive riforme, sia a livello normativo sia ad opera della giurisprudenza costituzionale. Si pensi alla discussa novella del 1974[4] che ha esteso il potere discrezionale del giudice includendo nel giudizio di comparazione le circostanze inerenti alla persona del colpevole – come quelle di cui si discute – e quelle ad effetto speciale c.d. autonome (o indipendenti), non a caso originariamente escluse da tale comparazione. Riforma parzialmente sovvertita poi dalla citata novella del 2005, di segno diametralmente opposto, che, invece, ha inteso limitare il potere discrezionale del giudice, precludendo il giudizio di prevalenza di qualsiasi attenuante solo nei confronti del recidivo reiterato. A queste riforme si sono aggiunte, nel corso degli anni, le diverse eccezioni alla regola, costituita dalla previsione di cui all’art. 69, commi 1-3 c.p., che ha subìto vari ripensamenti da parte del legislatore – soprattutto per specifiche fattispecie incriminatrici di particolare allarme sociale, ad esempio in materia di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico – che limitano il giudizio di prevalenza, e perfino quello di equivalenza, delle attenuanti nei confronti delle aggravanti speciali per tali delitti contemplate[5], fino ad arrivare alla recente introduzione ad opera del d.lgs. n. 21/2018 dell’art. 69 bis c.p.[6], che modifica il giudizio di comparazione per alcune classi di reati ed in relazione a specifiche fattispecie circostanziali.
Tali preclusioni ad una omnicomprensiva valutazione del disvalore del fatto e della rimproverabilità dell’autore, ai fini dell’individualizzazione della pena nel caso di reato circostanziato da elementi accidentali di segno opposto, sono state spesso oggetto di recisa censura da parte della giurisprudenza costituzionale, che in molti casi ha condotto a dichiarazioni di illegittimità come quella in commento.
La decisione de qua, infatti, risulta essere solo l’ultima di una ormai cospicua sequela di pronunce di accoglimento della Corte Costituzionale che, attraverso una metodologia definita casistica, ha dichiarato parzialmente illegittimo il divieto di subvalenza imposto dall’art. 69, co. 4 c.p. per il recidivo reiterato, in relazione finora a circostanze attenuanti speciali ad effetto speciale o c.d. indipendenti, esclusivamente di carattere oggettivo[7].
Come più volte motivato dalla Corte e ricordato dal giudice a quo nell’ordinanza di rinvio, non si tratta di censurare il meccanismo di bilanciamento delle circostanze eterogenee di per sè, o ancora meglio le deroghe tout court a tale giudizio, che restano una scelta discrezionale del legislatore, perciò insindacabile costituzionalmente. Bensì di verificare se il meccanismo presuntivo iuris et de iure, sotteso all’automatismo sanzionatorio generato da queste, sia manifestamente irragionevole e perciò se impedisca una determinazione della pena proporzionata sia all’oggettiva offensività del fatto, sia al grado di rimproverabilità del suo autore, così come impongono il principio di personalità della responsabilità penale, la finalità rieducativa della pena e, non ultimo, il principio di proporzionalità della pena, cui agli artt. 3, 27 co. 1 e 3 Cost., secondo i parametri ormai tipici delle questioni di costituzionalità che concernono la proporzionalità della misura della pena, sia che si tratti di limiti edittali, sia che si tratti, come nel caso di specie, di circostanze.
Come ricordato anche nell’ordinanza di rinvio, le sempre più numerose blindature al giudizio di prevalenza ed equivalenza tra circostanze eterogenee, introdotte ope legis, non solo in tema di recidiva reiterata, secondo un ormai costante orientamento della giurisprudenza costituzionale, sono da considerarsi censurabili soltanto ove «trasmodino nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio»[8], non potendo giungere in alcun caso «a determinare un’alterazione degli equilibri costituzionalmente imposti sulla strutturazione della responsabilità penale»[9].
A differenza di questi precedenti, però – come bene mette in luce il giudice rimettente –, nel caso in esame, il divieto di subvalenza per i recidivi reiterati riguarda il vizio di parziale infermità mentale (art. 89 c.p.): circostanza attenuante comune ad effetto comune, per di più «inerente la persona del colpevole», categoria alla quale appartiene la stessa recidiva, ai sensi del chiaro disposto dell’art. 70, co. 2 c.p.
Sembra, infatti, opportuno ricordare come, nell’originario disegno del codice penale del 1930, le circostanze «inerenti alla persona del colpevole» (c.d. soggettive), insieme a quelle c.d. indipendenti o ad effetto speciale, fossero escluse dal giudizio di prevalenza od equivalenza ex art. 69 c.p., stante la difficoltà per il giudice di porle in comparazione con altre circostanze di segno opposto e di natura tanto diversa perché inerenti all’oggettività del reato[10], nonché soprattutto per evitare che in caso di subvalenza vi fosse addirittura l’effetto di elisione[11].
Stante la loro peculiare natura di circostanze di carattere «soggettivo», e dunque di circostanze «tradizionalmente, logicamente e dogmaticamente meritevoli della medesima considerazione»[12] il giudice rimettente teme che l’esclusione dall’unitaria e omnicomprensiva valutazione in sede commisurativa di una delle due circostanze (in questo caso il vizio parziale di mente), seppur limitata al giudizio di prevalenza, possa condurre a esiti irragionevoli, impedendo di graduare il trattamento sanzionatorio in relazione all’effettiva personalità del soggetto agente, col rischio di irrogare pene identiche a quelle usualmente inflitte per fatti ben più gravi, omettendo al contempo un vaglio individualizzante in relazione alla concreta responsabilità colpevole del reo, con violazione dei principi espressi dagli artt. 3 e 27, co. 1 Cost., penalizzando di conseguenza una proficua futura risocializzazione del reo ex art. 27, co. 3 Cost.
Prima di sollevare tali dubbi di legittimità costituzionale, in punto di proporzionalità e individualizzazione della pena, il giudice rimettente si trova, però, a dover affrontare pregiudizialmente, in punto di rilevanza della questione, un altro, ancor più complesso, problema di carattere dommatico, relativo alla compatibilità del riconoscimento del vizio parziale di mente con la recidiva reiterata che, come vedremo meglio avanti, risolve in senso positivo.
Proprio sotto questo profilo l’ordinanza di remissione risulta vieppiù interessante, perché affronta il delicato rapporto tra due istituti molto controversi, solo apparentemente tra loro confliggenti, che si pongono a metà strada tra la colpevolezza e la pericolosità, dando luogo altresì in modo diretto (la seminfermità mentale, artt. 89 c.p. e 219 c.p.) o indiretto (la recidiva, art. 99 c.p., attraverso le figure dei delinquenti qualificati ex artt. 102, 103 e 105 c.p.) all’applicazione eventuale di misure di sicurezza, anche di tipo detentivo, in base al nostro discusso sistema sanzionatorio a doppio binario, con tutto ciò che questo comporta sotto il profilo dommatico e politico-criminale, che in questo breve commento possiamo solo limitarci ad accennare.
- Il caso di specie e le censure sollevate.
Come accennato, il giudice del Tribunale ordinario di Reggio Calabria ritiene che il divieto di prevalenza della diminuente del vizio parziale di mente rispetto alla recidiva reiterata di cui all’art. 99, co. 4 c.p. violi esigenze essenziali di uguaglianza, sub specie ragionevolezza e proporzionalità (art. 3 Cost.), di personalità della responsabilità penale (art. 27, co. 1 Cost.), di finalità rieducativa della pena (art. 27, co. 3 Cost.) nonchè di protezione dei diritti della persona, con particolare riguardo al diritto alla salute (art. 32 Cost.).
Il giudice a quo era chiamato a giudicare della responsabilità penale di due concorrenti in un reato di furto pluriaggravato, di cui agli artt. 624, 625, nn. 2) e 7), e 61, n. 5), c.p., in sede di giudizio abbreviato, condizionato all’espletamento di una perizia psichiatrica sullo stato di salute mentale degli imputati, ai quali era stata altresì contestata la recidiva reiterata, specifica e infraquinquennale (art. 99, co.4 c.p.), in relazione a plurimi precedenti per reati contro il patrimonio, alcuni dei quali commessi in epoca piuttosto recente.
Entrambi i correi presentavano pregressi ricoveri per disturbi psichici e dalla perizia emergeva che erano affetti da diverse «alterazioni psicopatologiche che soddisfano i criteri diagnostici per il disturbo della personalità», insieme al disturbo da assunzione di sostanze (oppiacei) per entrambi e, per uno dei due, anche ad un quadro di depressione persistente, tali per cui il perito aveva concluso che «la capacità di intendere e di volere al momento del fatto reato era grandemente scemata ma non totalmente abolita», inducendo dunque a ritenere integrata la diminuente del vizio parziale di mente ex art. 89 c.p.
Molto significativa in relazione alla questione rimessa alla Corte è la storia criminale dei due imputati, dalla quale emergeva un passato, anche recente, costellato di condanne definitive per reati della stessa indole di quello sub judice (rapina, furto tentato e consumato, ricettazione, danneggiamento), sia sotto il profilo del medesimo bene giuridico offeso, sia delle analoghe modalità di offesa, nel quinquennio precedente alla commissione del fatto per il quale si procedeva ed in relazione ai quali già in passato altri giudici avevano riconosciuto la recidiva reiterata e, all’esito del bilanciamento con altre circostanze, avevano deciso per l’equivalenza e una volta perfino per la prevalenza del vizio parziale di mente sulle aggravanti, nonostante la contestazione della recidiva reiterata di cui al co. 4 dell’art. 99 c.p. e sebbene l’art. 69, co. 4 c.p. già prevedesse la deroga citata.
All’esito di una scrupolosa analisi dei precedenti degli imputati, il giudice a quo ha pertanto ritenuto di non potere escludere nei loro confronti la recidiva reiterata, specifica ed infraquinquennale ex art. 99, co. 4, seconda ipotesi, così come contestata, in quanto sussistevano tutti gli indici rilevatori di una relazione qualificata tra i descritti precedenti ed il nuovo illecito (il furto in concorso di due pluviali in rame). La medesimezza dell’indole degli episodi delittuosi reiterati a distanza di poco tempo, nonché l’omogeneità del contesto nel quale le condotte sono state poste in essere e delle loro stesse modalità, hanno indotto il giudice, seguendo un orientamento giurisprudenziale ormai granitico[13], a ritenere che, «al di là del mero ed indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali» nel casellario giudiziale, la reiterazione nel reato fosse un effettivo sintomo di maggiore colpevolezza e di una più elevata capacità a delinquere dei due imputati. Accanto ad una più accentuata pericolosità sociale, ritenuta evidentemente immanente all’affermazione dell’esistenza di disturbi di tipo psichiatrico e dunque di un vizio parziale di mente – questo non è specificato nell’ordinanza -, il giudice di merito ha ritenuto che da tale relazione qualificata tra i precedenti e il nuovo fatto emergesse altresì «una peculiare insensibilità degli imputati nei confronti delle condanne precedentemente riportate e dell’implicito monito a non violare più la legge, in esse contenuto, comportando un maggiore addebito anche in termini di rimproverabilità soggettiva».
Non è sfuggito, tuttavia, al giudice a quo, come potesse sembrare contraddittorio affermare che un soggetto possa essere riconosciuto affetto da disturbi psichici di tale gravità da far scemare la capacità di intendere e volere e da risultare determinanti nell’eziologia del reato, e che al contempo possa essergli imputato di aver dimostrato, nel continuare a delinquere, una maggiore rimproverabilità, intesa come insensibilità nei confronti del monito derivante dalle precedenti condanne, restando dubbio se questo fosse realmente consapevole dell’ammonimento in quelle contenuto.
In altre parole, il giudice si avvede bene che, per affermare la rilevanza della questione di legittimità costituzionale, è necessario prima risolvere il delicato problema inerente la compatibilità tra recidiva e seminfermità.
Il giudice a quo risolve questo delicato problema sul piano dommatico, con estrema chiarezza, affermando che il vizio parziale di mente si colloca sul piano contiguo, ma diverso, del giudizio di imputabilità, che precede quello di colpevolezza, nel quale rientra anche la valutazione dell’incidenza dei precedenti penali sulla rimproverabilità del soggetto, senza che i due piani si confondano l’uno nell’altro.
Da ciò discende che nei confronti di un soggetto riconosciuto solo parzialmente (in)capace di intendere e volere non possa essere esclusa tout court la recidiva reiterata, pur in presenza di univoci indici rivelatori, solo sulla base di una asserita impossibilità di muovere nei suoi confronti un addebito di maggior rimproverabilità soggettiva, in quanto ciò significherebbe conferire al vizio di mente un valore tanto determinante nella genesi del reato da escludere che il reo plurirecidivo possa essere sufficientemente sensibilizzato e motivato dai moniti provenienti dalle condanne riportate in precedenza, come peraltro sembrerebbe affermare la giurisprudenza di legittimità prevalente[14].
Cionondimeno il giudice sottolinea come – ed è stato questo l’argomento determinante per la Consulta – anche volendo riconoscere un ruolo decisivo nell’eziologia del reato alla condizione di seminfermità mentale, escludere del tutto la recidiva nel procedimento commisurativo condurrebbe ad esiti sanzionatori discriminatori ed irragionevoli, equiparando quoad penam situazioni concrete ben diverse, come quelle di coloro che, a parità di condizioni di infermità, abbiano una storia criminale anteatta opposta, perchè ad esempio un soggetto abbia commesso plurimi reati della stessa specie di quello per cui si procede, mentre l’altro soggetto, parimenti seminfermo, non abbia precedenti penali o non ne abbia di altrettanto significativi.
Risolto dunque sul piano teorico il delicato rapporto tra recidiva e vizio parziale di mente, il rimettente precisa, in punto di rilevanza della questione, come nel caso di specie il bilanciamento, se non fosse precluso dalla disposizione censurata dell’art. 69, co. 4 c.p., lo avrebbe sicuramente condotto a ritenere prevalente il vizio parziale di mente.
Infine, sotto il profilo della non manifesta infondatezza, il giudice a quo, dopo aver richiamato tutti i precedenti della Consulta in merito al giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee, pur essendo consapevole che questi abbiano finora riguardato circostanze attenuanti di tipo oggettivo e ad effetto speciale (v. supra §1), sottolinea come il principio di proporzione della pena debba tenere conto, non solo della effettiva gravità del fatto, ma anche della personalità e della colpevolezza del suo autore, che non può dunque appiattirsi solo sulla considerazione del rilevante passato criminale di un reo plurirecidivo, bensì deve tener conto anche delle cause che ne determinano una ridotta capacità a delinquere, specie per infermità di mente. In caso contrario, verrebbe violato altresì il diritto di salute (art. 32 Cost.), poiché il soggetto semi-imputabile per vizio di mente dovrebbe ricevere dall’ordinamento una «risposta alla commissione di un fatto reato che sia non solo funzionale alla rieducazione ma, anche e soprattutto, improntata alla tutela della [sua] salute».
- La decisione della Corte e qualche breve riflessione conclusiva.
In punto di rilevanza delle questioni sollevate, nel respingere un’eccezione avanzata dall’Avvocatura dello Stato, la Consulta chiarisce come il giudice a quo, nel caso in esame, a differenza di quelli che avevano sollevato questioni analoghe, respinte dalla Corte[15], abbia motivato in modo piuttosto ampio e convincente la sussistenza dell’aggravante della recidiva, sotto il profilo della consapevolezza, da parte degli imputati, dell’ammonimento contenuto nelle precedenti condanne, nonostante le gravi patologie da cui erano affetti.
La vicinanza temporale tra i precedenti delitti ed il nuovo e le omogenee caratteristiche di questi hanno persuaso il giudice a riconoscere non solo la maggiore pericolosità sociale degli imputati, bensì il loro maggiore grado di colpevolezza, intesa come maggiore rimproverabilità nella persistente decisione di violare la legge penale, nonostante l’ammonimento individuale scaturente dalle pregresse condanne. Né l’applicazione della recidiva in questo caso, ad avviso del rimettente, sarebbe in contraddizione con il riconoscimento di un vizio parziale di mente, che pur essendo nel loro caso tale da ridurre la capacità di orientare la condotta secondo criteri di «appropriatezza e di opportunità», oltre che di «pesatura del rischio», non lo era a tal punto da annullare del tutto la consapevolezza dell’ammonimento, rappresentato dalle numerose condanne pronunciate nei loro confronti.
Chiarito dunque che la rilevanza della questione è stata enunciata dal giudice a quo in misura adeguata, con argomentazioni plausibili, come richiesto dal costante insegnamento della stessa Corte Costituzionale (sent. n. 250/2018), avendo egli motivato ampiamente le ragioni per le quali non sono da ritenere vicendevolmente incompatibili le due circostanze soggettive della seminfermità mentale e della recidiva, i giudici delle leggi non ritengono necessario prendere posizione sulla «(notoriamente controversa) ricostruzione dell’imputabilità come mero presupposto del giudizio di colpevolezza, ovvero come elemento costitutivo di tale categoria dogmatica»[16], assunto dal quale è invece partito il ragionamento del giudice del rinvio. D’altronde l’unica cosa che interessava la Corte era giudicare l’ammissibilità o meno delle questioni e il loro rilievo nella risoluzione del caso a quo.
Nel merito, le questioni sollevate dal tribunale con riferimento agli artt. 3 e 27, commi 1 e 3 Cost. sono state ritenute fondate, in quanto il principio di proporzionalità della pena, secondo il costante insegnamento della Consulta (da ultimo, sent. n. 222/2018), impone che questa sia graduata non solo rispetto alla gravità oggettiva del reato, bensì anche in rapporto al disvalore soggettivo espresso dal fatto. La Corte puntualizza, inoltre, che nel quantum di pena che rispecchia il disvalore soggettivo debbano rientrare, oltre alla volontà criminosa (dolosa e colposa) e all’intensità e al grado di essa, anche quei fattori che hanno eventualmente influito sul processo motivazionale dell’autore, rendendolo più o meno rimproverabile. Tra questi non possono non includersi anche le patologie o disturbi significativi della personalità, come quelli che secondo la scienza medico-forense sono idonei a diminuire, pur senza escluderla totalmente, la capacità di intendere e di volere dell’autore del fatto[17].
In tali ipotesi sarebbe irragionevole e soprattutto sproporzionato punire gli autori con un quantum di pena pari a quello applicabile nei confronti di «chi si sia determinato a compiere una condotta identica, in condizioni di normalità psichica».
È questo l’argomento del rimettente che la Corte ritiene insuperabile, ovvero quello relativo al principio di uguaglianza, sub specie ragionevolezza e parità di trattamento, in cui si compendia il principio di proporzionalità della pena, laddove il giudice a quo sottolinea come il divieto di prevalenza previsto dall’art. 69, co. 4 c.p. comporti una indebita parificazione di fatti dall’identico disvalore oggettivo, ma dal diverso grado di rimproverabilità soggettiva. Risultato che la Corte ha sempre considerato confliggente, non solo con l’art. 3 Cost., ma prima ancora con l’esigenza di personalizzazione della pena, insita nel principio di personalità della responsabilità penale (art. 27, co. 1 Cost.) e nella finalità rieducativa della pena (art. 27, co. 3 Cost.).
La Corte sembra dire, infatti, che il riconosciuto carattere discrezionale dell’aggravante della recidiva (anche reiterata) non può giustificare un procedimento commisurativo in cui il giudice sia costretto a non riconoscere l’aggravante soggettiva, nonostante la presenza di chiari indici rivelatori, pur di non irrogare una pena sproporzionata alle effettive condizioni soggettive, anche di salute psichica, del reo.
La conseguenza inevitabile di ciò è pertanto consentire al giudice di ritenere, laddove ricorrano i presupposti, l’attenuante della seminfermità prevalente rispetto a quella della recidiva reiterata, in modo da rendere la pena effettivamente proporzionata non solo al disvalore oggettivo del fatto, ma anche al diverso e, in tal caso, ridotto grado di rimproverabilità soggettiva dell’autore.
Ripristinati gli assetti costituzionali, anche con riferimento al meccanismo di bilanciamento delle circostanze per il recidivo seminfermo di mente, la Corte ritiene dunque che non vi sia un sacrificio né delle esigenze individuali di salute del reo, ritenendo assorbita la questione formulata in riferimento all’art. 32 Cost., né di tutela della sicurezza collettiva contro l’accentuata pericolosità sociale del recidivo reiterato, come paventato dalla difesa dello Stato. L’esigenza di garantire la sicurezza della collettività, secondo la Corte, sarebbe, infatti, già sufficientemente garantita nel sistema vigente dall’eventuale applicabilità di una misura di sicurezza, da individuarsi secondo i criteri oggi indicati nell’art. dall’art. 3-ter, co. 4, d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, convertito, con modificazioni, nella l. 17 febbraio 2012, n. 9, sempre con l’obiettivo di sostenere il «riadattamento alla vita sociale», ricordato dalla Corte nel richiamare la recente sentenza n. 24/2020.
Interessante, sotto un profilo politico-criminale, la chiosa finale della Corte, nella quale si auspica una «razionale sinergia tra pena e misure di sicurezza», tipica del nostro controverso sistema sanzionatorio a doppio binario, che ritiene essere l’unica strada effettivamente utile da perseguire per consentire una prevenzione del rischio di commissione di nuovi reati, specie da parte di soggetti affetti da vizio parziale di mente, rispetto ad indebite forzature del sistema commisurativo, tali da portare a pene eccessivamente sproporzionate rispetto alla reale rimproverabilità dell’autore, con inevitabili squilibri del sistema costituzionale[18].
[1] Cfr. Trib. Reggio Calabria, 12.01.2019, R.O. n.121/2019, in G.U. 36/2019.
[2] Legge 5 dicembre 2005, n. 251 (Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione).
[3] Il giudizio di comparazione tra circostanze eterogenee è stato definito, infatti, come «una delle chiavi di volta del sistema penale italiano, data l’esuberante e massiccia presenza in esso di previsioni circostanziali suscettibili di modificare profondamente il trattamento sanzionatorio», cfr. Padovani, Diritto penale, Giuffrè, 2006, p. 254.
[4] D.l. 11 aprile 1974, n. 99 (Provvedimenti urgenti sulla giustizia penale) convertito, con modificazioni, nella l. 7 giugno 1974, n. 220. Cfr. per tutti, Palazzo, La recente legislazione penale, Cedam, 1985, passim.
[5] Per quelle previste all’interno del codice, si vedano gli artt. 280 e 280-bis c.p., il delitto di attentato per finalità terroristiche o di eversione (che era stato abrogato dal d.lg.lt. n. 288/1944), nei quali, oltre a prevedere diverse aggravanti speciali, all’ultimo comma, analogamente all’art. 1 l. n. 15/1980, si è disposto testualmente che «le circostanze attenuanti concorrenti con le circostanze aggravanti non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste». Altre ipotesi di deroga al regime di comparazione sono quelle riguardanti il sequestro di persona a scopo di terrorismo o di eversione (art. 289-bis, co. 5, c.p., introdotto dall’art. unico della l. 18 maggio 1978, n. 191), così come l’ipotesi del sequestro di persona per finalità di estorsione (art. 630 c.p.), nelle quali l’incidenza di eventuali attenuanti riceve un trattamento autonomo, con l’indicazione specifica delle varie diminuzioni di pena da effettuarsi sulla pena precedentemente aggravata dalle circostanze speciali ivi previste. Anche con riferimento a tale deroga al consueto meccanismo di dosimetria sanzionatoria ex art. 69 c.p. è intervenuta la Corte Costituzionale con la sentenza n. 68 del 23.3.2012, con la quale ha dichiarato l’illegittimità costituzionale di tale articolo, nella parte in cui non prevede che la pena da esso comminata è diminuita quando per la natura, la specie, i mezzi, le modalità o circostanze dell’azione, ovvero per la particolare tenuità del danno o del pericolo, il fatto risulti di lieve entità. Per un esempio tratto, invece, dalla legislazione complementare, si veda la deroga presente nell’art. 1 d.l. n. 625/1979, secondo il quale, quando ricorre l’aggravante della finalità di terrorismo e di eversione dell’ordine democratico, le attenuanti non possono essere considerate equivalenti o prevalenti rispetto ad essa; e quella di cui all’art. 12, co. 3-quater d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286, che stabilisce: «Le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’articolo 98 del codice penale, concorrenti con le aggravanti di cui ai commi 3-bis e 3-ter, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti».
[6] “Casi di esclusione del giudizio di comparazione fra circostanze.
Per i delitti di cui all’articolo 407, comma 2, lettera a), numeri da 1) a 6), del codice di procedura penale le circostanze attenuanti, diverse da quella prevista dall’articolo 98, concorrenti con le aggravanti di cui agli articoli 111 e 112, primo comma, numeri 3) e 4), e secondo comma, non possono essere ritenute equivalenti o prevalenti rispetto a queste se chi ha determinato altri a commettere il reato, o si è avvalso di altri nella commissione del delitto, ne è il genitore esercente la responsabilità genitoriale ovvero il fratello o la sorella e le diminuzioni di pena si operano sulla quantità di pena risultante dall’aumento conseguente alle predette aggravanti”.
[7] Si riportano le sentenze della Consulta, precedenti a quella in commento, che hanno dichiarato parzialmente illegittimo l’art. 69, co. 4 c.p. laddove non consentiva un giudizio di prevalenza rispetto alla recidiva reiterata con riguardo a singole attenuanti speciali ad effetto speciale o autonomo: cfr. C. Cost. sent. n. 251/2012 con riguardo all’attenuante di cui al co. 5 dell’art. 73 d.P.R. n.309/1990, che per la verità è successivamente venuta meno in favore di un’autonoma fattispecie di reato segnata, appunto, dalla lieve entità del fatto di narcotraffico; sent. n. 105/2014, con riguardo all’attenuante di cui al secondo comma dell’art. 648 c.p., relativamente alla ricettazione di particolare tenuità; sent. n. 106/2014 con riguardo all’attenuante di cui al terzo comma dell’art. 609-bis c.p., concernente la violenza sessuale di minore gravità; sent. n. 74/2016 con riguardo all’attenuante di cui al co. 7 dell’art. 73 d.P.R. n. 309/1990, a proposito dei comportamenti volti a prevenire conseguenze ulteriori del reato, anche mediante collaborazione con l’autorità giudiziaria; sent. n. 205/2017 con riguardo all’attenuante di cui al terzo comma dell’art. 219 r.d. n. 267/1942, con riferimento al danno patrimoniale di speciale tenuità nei fatti di bancarotta e ricorso abusivo al credito.
[8] Così C. Cost., sent. n. 68/2012, cit. supra, nota precedente; in senso conforme, sent. n. 88/2019, con la quale è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 222, co. 2, quarto periodo, cod. strada, nella parte in cui prevedeva automaticamente la revoca della patente, in caso di condanna o di applicazione della pena su richiesta delle parti per i reati di omicidio stradale (art. 589-bis c.p.) e lesioni personali stradali gravi o gravissime (art. 590-bis c.p.), allorché non ricorrano le circostanze aggravanti della guida in stato di ebbrezza o sotto l’effetto di stupefacenti.
[9] Cfr. C. Cost., sent. n. 251/2012.
[10] Così motivava il Guardasigilli Rocco nella sua Relazione al Re, n. 47: «Le disposizioni sulla prevalenza e sulla equivalenza non possono trovare applicazione riguardo alle circostanze inerenti alla persona del colpevole, ossia a quelle che riguardano la imputabilità e la recidiva. Tali circostanze escono, per così dire, dal quadro dell’equivalenza e della prevalenza essendo del tutto eterogenee rispetto alle altre circostanze comuni o speciali. Sarebbe evidentemente un assurdo, per es. compensare il vizio parziale di mente con l’abuso dei poteri inerenti ad una pubblica funzione, o la recidiva con la provocazione».
[11] Per approfondire l’istituto nella sua versione originaria, prima dell’intervento novellistico del 1974, cfr. Stile, Il giudizio di prevalenza o di equivalenza tra le circostanze, Jovene, 1971, passim; per gli effetti della riforma sul complessivo sistema delle circostanze del reato, tra i molti, v. De Vero, Circostanze del reato e commisurazione della pena, Giuffrè, 1983, passim.
[12] Così nell’ordinanza di rimessione, nelle considerazioni in diritto.
[13] Per tutte, cfr. Corte Cost., sent. n. 192/2007 e n. 185/2015; e Corte di cassazione, Sezioni unite penali, sent. n. 35738 del 27 maggio-5 ottobre 2010; n. 20798 del 24 febbraio 2011; n. 35738 del 2010,, nonché, inter alia, Cass. Pen, Sez. VI, sent. 28 giugno-5 agosto 2016, n. 34670.
[14] Cfr. Cass. pen., Sez. II, sent. n. 35006/2010, citata nell’ordinanza di rinvio.
[15] C. Cost., sent. n.120/2017 e ord. n. 145/2018, nelle quali la Corte aveva ritenuti irrilevanti questioni analoghe a quella in esame, non avendo i giudici rimettenti chiarito le ragioni per le quali avevano ritenuto applicabile la recidiva, nonostante il contestuale riconoscimento della presenza nel reo di gravi patologie o disturbi della personalità, che necessariamente anch’essi incidevano sul grado di colpevolezza, seppur in direzione opposta.
[16] Per usare le stesse parole della Corte, v. § 3 delle considerazioni in diritto.
[17] Così come definiti da Corte di cassazione, Sez. un. pen., sent. 25 gennaio-8 marzo 2005, n. 9163, imp. Raso.
[18] Occorre ricordare, infatti, che durante la scorsa legislatura la Commissione, presieduta dal prof. Marco Pelissero, incaricata con d.m. 19 luglio 2017 dal Ministro della Giustizia Orlando di redigere lo schema di decreto legislativo a seguito della delega parlamentare del 23 giugno 2017, n. 103, ha prodotto un Progetto di riforma del sistema del doppio binario e dell’imputabilità in generale, così come era indicato nella legge delega (art. 1, co. 16, lett. c l. n.103/2017), che, in linea di continuità con quanto avevano già proposto i più recenti progetti di riforma del codice penale (in particolare si pensi a quelli delle Commissioni Grosso, Nordio, Pisapia), elimina per i soggetti condannati con vizio parziale di mente l’applicazione congiunta di pene e misure di sicurezza, uno dei punti più deprecabili della disciplina del codice Rocco. In particolare, per tali soggetti il progetto ministeriale prevedeva un trattamento sanzionatorio finalizzato al superamento delle condizioni che hanno diminuito la capacità dell’agente, anche mediante il ricorso a trattamenti terapeutici o riabilitativi e l’accesso a misure alternative. Tali proposte non hanno trovato però accoglimento nello schema di decreto legislativo sulla riforma dell’ordinamento penitenziario, in quanto non è stata data attuazione alla delega in materia di riforma delle misure di sicurezza personali.