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CEDU, Misure di Prevenzione: was the interference necessary and proportionate?

Il provvedimento interlocutorio emesso dalla Corte EDU il 10 luglio 2023 nell’ambito del ricorso proposto dai fratelli Cavallotti pone in evidenza la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale e convenzionale sottese all’attuale configurazione della confisca di prevenzione “antimafia”, nel frattempo peraltro estesa dal legislatore anche al di fuori del suo tradizionale ambito applicativo.
Come rappresentato in premessa, la vicenda processuale che dovrà essere oggetto di successiva valutazione ha visto infatti, al contempo, l’assoluzione dei ricorrenti principali dall’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa e la contestuale confisca di parte considerevole del loro patrimonio (e di quello dei loro familiari) sulla base dei una loro ritenuta pericolosità qualificata (derivante nel caso di specie proprio dal sospetto di appartenenza all’associazione stessa), oltre che della mancata prova dell’origine lecita dei beni in questione.
Dopo aver in tal modo descritto i tratti essenziali della vicenda (divenuta recentemente oggetto di una più articolata rappresentazione nel saggio critico di Alessandro Barbano), la Corte ha pertanto invitato le parti ad esprimersi compiutamente sulle possibili violazioni della Convenzione da essa emergenti.
Il primo profilo richiamato attiene pertanto all’eventuale violazione della presunzione di innocenza (articolo 6 § 2 della Convenzione), rispetto alla quale ci si chiede appunto se l’intervenuta confisca abbia avuto come suo effettivo presupposto la colpevolezza dei ricorrenti (ovverosia la loro ritenuta appartenenza all’associazione mafiosa).
Di seguito, nel richiamare le finalità sottese alla confisca prevista dall’art.24 d.lgs. n.159 del 2011 e della sua concreta declinazione nella giurisprudenza della Corte di Cassazione e della Corte Costituzionale, la Corte invita le parti a dedurre anche in merito all’effettiva qualificazione della stessa come sanzione penale (criminal “penalty” or “punishment”) in considerazione della giurisprudenza europea consolidatasi sul punto, adombrando in tal senso la possibile violazione dell’articolo 7 della Convenzione alla luce dell’avvenuta assoluzione dei Cavallotti dall’accusa di partecipazione ad associazione mafiosa e del conseguente ricorso ad un provvedimento di confisca pur in assenza di una loro effettiva responsabilità.
A latere dei tradizionali profili di criticità costituzionale e convenzionale della confisca di prevenzione, fra loro in qualche modo speculari, il provvedimento in esame si sofferma quindi con particolare attenzione sulla possibile violazione del diritto di proprietà, così come riconosciuto dall’articolo 1 del protocollo n.1 della Convenzione 1 Protocollo 1 della Convenzione in forza del quale “nessuno può essere privato della sua proprietà se non per causa di pubblica utilità e nelle condizioni previste dalla legge e dai principi generali del diritto internazionale”.
Tale profilo era stato del resto specificamente evocato anche nella nota sentenza n.24 del 2019, con la quale la Corte Costituzionale aveva avuto modo di escludere la riconducibilità di simili provvedimenti ablativi fra le sanzioni penali, prendendo al contempo atto anche dell’evidente scoloritura delle sue dichiarate finalità “preventive” ed aprendo piuttosto la strada ad una peculiare limitazione del diritto di proprietà da ancorare ad una concreta verifica della sua effettiva provenienza: “nell’ottica del sistema, l’ablazione di tali beni costituisce non già una sanzione, ma piuttosto la naturale conseguenza della loro illecita acquisizione, la quale determina (…) un vizio genetico nella costituzione dello stesso diritto di proprietà in capo a chi ne abbia acquisito la materiale disponibilità, risultando sin troppo ovvio che la funzione sociale della proprietà privata possa essere assolta solo all’indeclinabile condizione che il suo acquisto sia conforme alle regole dell’ordinamento giuridico. Non può, dunque, ritenersi compatibile con quella funzione l’acquisizione di beni contra legem, sicché nei confronti dell’ordinamento statuale non è mai opponibile un acquisto inficiato da illecite modalità.”
Ma anche in questa diversa prospettiva, la Corte EDU sottolinea con estrema chiarezza che una simile interferenza nel libero godimento dei beni sino a quel momento detenuti (“peaceful enjoyment of possessions”) deve comunque risultare necessaria e proporzionata (“necessary and proportionate”), ed invita conseguentemente le parti ad approfondire una serie di aspetti, quali in particolare:
a) la dubbia ragionevolezza di un giudizio di pericolosità qualificata a fronte della già avvenuta assoluzione dei ricorrenti da analoga imputazione;
b) la concorrente necessità di ricondurre la titolarità di tutti i beni confiscati proprio ai ricorrenti principali, piuttosto che ai loro effettivi intestatari, sulla base di una valutazione oggettiva delle risultanze probatorie e non in forza di un mero sospetto;
c) l’esigenza che la provenienza illecita di detti beni risulti a sua volta dimostrata sempre sulla base di una valutazione oggettiva delle risultanze probatorie e non in forza di un mero sospetto, tenendo in debito conto anche il momento in cui i ricorrenti li hanno acquisiti;
d) l’eccessivo onere probatorio posto eventualmente a carico dei ricorrenti in relazione alla richiesta di dimostrare la legittima provenienza di beni da loro acquisiti molti anni prima;
e) l’effettiva possibilità offerta ai medesimi in giudizio di esporre argomentazioni a loro difesa e la concreta disamina delle stesse.

Pur a fronte della sua natura meramente interlocutoria, il provvedimento in esame ha pertanto il merito di riproporre nuovamente all’attenzione della dottrina i dubbi inerenti all’effettiva sostenibilità logica dell’indirizzo interpretativo che ha ritenuto di espungere la confisca di prevenzione ex art.24 d.lgs. n.150/2011 dal novero delle sanzioni penali, pur in presenza di una serie di indici che sembrerebbero deporre chiaramente in senso contrario, quali l’enorme rilevanza del suo contenuto afflittivo, la frequente applicazione della stessa proprio in ragione del sospetto di commissione di un reato da parte del preposto, l’esclusiva competenza attribuita in materia al giudice penale e la fortissima stigmatizzazione sociale ad essa conseguente.

Ma anche nell’ipotesi in cui non si dovesse ancora giungere a ribaltare in una simile impostazione, la Corte appare comunque ben consapevole dell’insanabile paradosso insito in una duplicità di procedimenti afferenti ai medesimi fatti e destinata frequentemente a tradursi in una inafferrabile “assoluzione con confisca dei beni”, attraverso la quale lo stesso principio del ne bis in idem finisce a ben vedere per cedere il passo ad una sorta di mitigazione dell’intervento repressivo per mancato raggiungimento della prova.

Infine, pur mostrando di riconoscere l’astratta possibilità di ricorrere ad una peculiare contestazione extra-penale in merito alla legittima provenienza dei beni detenuti, il provvedimento in esame pone chiaramente in evidenza il rigore ed i limiti che dovrebbero necessariamente caratterizzare un simile accertamento, rimasti allo stato privi di qualsiasi adeguato riscontro nell’attuale disciplina normativa e come tali affidati ad un loro tardivo ed incerto riconoscimento “costituzionale” da parte della giurisprudenza di legittimità.

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