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Considerazioni sulla riforma incompiuta in materia di misure di sicurezza per autori “infermi di mente”

Abstract. Il principio della misura di sicurezza detentiva come extrema ratio non ha ancora fatto adeguata breccia nella prassi giudiziaria, tutt’ora permeata da una cultura eccessivamente “custodialistica”, che, come tale, nutre una scarsa fiducia sulla reale efficacia di concrete alternative. Ancora oggi la disciplina per le misure di sicurezza per il c.d. infermo id mente presenta numerosi profili di frizione con i principi costituzionali: permane l’idea che egli non debba essere chiamato a responsabilità, processato e, se responsabile, punito con una sanzione proporzionata al fatto commesso; ma, soprattutto, permane la misura di sicurezza fondata su un concetto non empiricamente verificabile di ‘pericolosità sociale’.

Abstract. The principle of the security measure for preventive purposes as extrema ratio hasn’t already made inroads into judicial practice, which is still characterised by an excessively “custody- like” culture that has little trust in the efficacy of actual alternatives.

Still nowadays, the discipline for custody measures vis- à- vis the s.c. “mentally ill” finds several points of friction with constitutional principles: the idea persists that he should not be called for responsibility, prosecuted and, if responsible, punished with a sanction proportionate to the act committed; but, most of all, custody measure based on an empirically unverifiable concept of “social dangerousness” persists.

Sommario: 1. Lo stato dell’arte dopo la l. n. 81/2014. – 2. Alcune osservazioni intorno alle possibili alternative.

1. Da tempo si discute se, ed entro che limiti, la legge n. 81/2014 abbia sortito l’effetto di privilegiare la cura della persona autrice di reato con disturbi psichici, destinandola alle residenze per l’esecuzione della misura di sicurezza (r.e.m.s), a seguito della definitiva chiusura degli ospedali psichiatrici giudiziari.

Com’è noto, prima della l. n. 81/2014, le persone “socialmente pericolose” potevano essere internate in un ospedale psichiatrico giudiziario (o.p.g.) per una durata indeterminata nel massimo[1].

Dopo la riforma, qualora il giudice disponga l’internamento, esso deve svolgersi nelle r.e.m.s., site nella Regione di residenza dell’internato e gestite da personale sanitario, con il controllo, ora solo esterno, delle forze dell’ordine. Il giudice, che, a norma dell’art. 3 ter d.l. n. 211/2011, convertito con modificazioni in l. n. 9/2012, non può più applicare la misura valutando la pericolosità dell’agente sulla base di condizioni sociali e familiari di abbandono, deve rispettare il principio di extrema ratio e ricercare prima di tutto misure alternative all’internamento, favorendo la realizzazione di un progetto terapeutico riabilitativo individuale, di concerto con i centri di salute mentale, secondo quanto disposto dall’art. 3 ter, co. 4[2].

Permane dunque il “doppio binario” di pene e misure di sicurezza, oggi con il solo limite del massimo di pena edittale stabilito per quel reato; ma, soprattutto, persiste la misura di sicurezza fondata su un concetto, di tipo predittivo, privo di qualsiasi verificabilità empirica, come quello di “pericolosità sociale”, a dispetto, quindi, anche del principio di precisione e determinatezza[3].

La l. n. 81/2014 ha senz’altro rivoluzionato la normativa precedente, stabilendo la chiusura degli o.p.g., e in luogo del sistema tradizionale, che collegava la durata della misura di sicurezza alla sola cessazione della pericolosità sociale, ha fissato il citato limite massimo[4].

Nondimeno, il legislatore, omettendo di prevedere che la durata della misura di sicurezza sia commisurata alla concreta gravità del fatto, concepisce la materia in modo disorganico, eludendo i principi di proporzione e offensività, in contrasto con gli artt. 3, 25 co. 2 e 27 co. 1 e 3 Cost.

Infatti, per il codice penale del 1930 il principio della durata indeterminata della misura di sicurezza era un corollario della concezione della misura stessa quale provvedimento amministrativo di difesa sociale: in altri termini, «stabilire preventivamente, per legge, che oltre un certo limite di tempo non debba protrarsi l’esecuzione della misura di sicurezza, in quanto la persona a essa sottoposta sia da considerare non più pericolosa, varrebbe quanto rinnegare il valore e gli scopi di un provvedimento stabilito a garanzia degli interessi sociali»[5].

Quindi è certo che il sistema odierno delle misure di sicurezza personali pone un argine significativo alla rilevanza della pericolosità sociale.

Individuare il limite massimo della durata di una misura di sicurezza detentiva, infatti, corrisponde senza dubbio ad un ritrovato senso di civiltà giuridica; tuttavia, resta il dato per cui, diversamente da quanto avviene per l’irrogazione della pena, all’interno della cornice edittale la sanzione non è fissata dal giudice della cognizione se non nella misura minima, rimanendo per il resto tuttora indeterminata[6].

Preme rilevare che bisogna stare attenti a non confondere il limite del tempo massimo di durata con la proporzione della sanzione rispetto alla gravità del fatto commesso.

Infatti, la discrezionalità di cui agli artt. 132 e 133 c.p., prima di riguardare la colpevolezza o le qualità del soggetto, attiene all’oggettivo disvalore del fatto concreto; di conseguenza, la proporzione della sanzione è corretta e legittima se risulta che i parametri di cui all’art. 133 c.p. siano stati sostanzialmente ed in concreto presi in considerazione e valutati dal giudice della cognizione, quale che sia la misura della sanzione inflitta, in ordine al tipo e al quantum di pena, tra il minimo e il massimo edittale[7]

Inoltre, l’intervento legislativo in esame, se da un lato individua il limite temporale della misura di assegnazione ad una r.e.m.s. e di tutte le misure di sicurezza “detentive”, dall’altro lascia intatta la disciplina della misura di sicurezza della libertà vigilata, che, a norma degli artt. 228 ss. c.p., mantiene la sua potenziale applicazione a tempo indeterminato. La questione non è trascurabile, poiché nella prassi l’applicazione della libertà vigilata viene disposta in modo opportunistico, quale misura idonea a fronteggiare il fenomeno delle liste di attesa per l’ingresso in r.e.m.s., con il disarmante risultato di un ‘ritorno al passato’, che vede il reo affetto da patologie psichiche destinatario di una misura sanzionatoria applicata per un tempo potenzialmente indeterminato[8]. Il tutto è reso poi ancor più grave dalla previsione dell’art. 231 co. 2 c.p., che, di fatto, rende la misura della libertà vigilata fortemente coercitiva, trasformandola in misura sostanzialmente detentiva[9].

In ogni caso, anche se il legislatore ha previsto la possibilità di graduare l’applicazione della misura sino al raggiungimento del tempo limite, lasciando intatto il concetto di ‘pericolosità sociale’ è possibile che la durata della sanzione si protragga in alcuni casi sino al raggiungimento di detto limite, e, quindi, che sia comunque svincolata dalla proporzione rispetto al concreto fatto commesso.

2. La riforma non ha tardato a mostrare anche le difficoltà riguardanti la gestione delle nuove strutture; del tema è stata recentemente investita la Corte costituzionale[10]. Nel dichiarare inammissibili le questioni sollevate dal rimettente, il Giudice delle leggi, come in altre analoghe occasioni[11], ha ammonito il legislatore circa l’urgente necessità di una riforma complessiva, che assicuri, contemporaneamente, un’adeguata base legislativa alla nuova misura di sicurezza; la realizzazione e il buon funzionamento di un sufficiente numero di r.e.m.s., sì da garantire al contempo la cura degli internati e la tutela della collettività; e, infine, forme di adeguato coinvolgimento del Ministro della giustizia nell’attività di coordinamento e monitoraggio delle r.e.m.s. e degli strumenti di tutela della salute mentale attivabili nel quadro della misura di sicurezza della libertà vigilata[12].

Sorvolando il merito delle questioni affrontate dalla Corte costituzionale e la discutibile tendenza secondo cui essa recentemente “decide di non decidere”, si potranno nondimeno svolgere alcune brevi considerazioni sulla riforma in materia di misure di sicurezza per autori “infermi di mente” e di ricovero nelle r.e.m.s. che da qualche tempo, definitivamente dal 2017, hanno sostituito gli o.p.g..

Le difficoltà riscontrate nell’attuazione della riforma, infatti, potrebbero forse essere collegate agli irrisolti nodi di fondo in tema di misure di sicurezza personali, che, ancora oggi, secondo taluni, non sarebbero del tutto in linea con i principi di garanzia sottesi al sistema penale.

La mancanza di proporzione tra fatto commesso e durata della sanzione, infatti, permette ancora adesso l’applicazione della misura per fatti bagatellari o, almeno in astratto, finanche senza che sia stato commesso un reato. L’art. 202 c.p. consente ancora oggi l’applicazione della misura di sicurezza a soggetti che non hanno posto in essere fatti tipici, oppure che hanno posto in essere fatti astrattamente tipici, ma carenti di qualsiasi offesa al bene giuridico tutelato.

Dunque, sembra che il legislatore, a dispetto dei principi che fondano il diritto penale del fatto, tenda in queste ipotesi ad una sostanziale prevalenza delle istanze di difesa sociale rispetto alle esigenze di tutela del singolo.

Per completezza, bisogna dare atto che a tale inconveniente ha cercato di rimediare, senza successo, la Commissione Pelissero, con la proposta di riforma del codice penale avanzata nel 2017[13].

Quanto alla ragione della possibile mancanza di proporzione tra gravità del fatto concreto commesso e misura di sicurezza, è lecito ritenere che il nodo gordiano della problematica risieda ancora oggi in un concetto, di tipo predittivo, come quello di ‘pericolosità sociale’, che, com’è stato autorevolmente osservato, in un’accezione rigorosa tende a prevaricare la stessa idea di responsabilità e dunque a rendere di fatto del tutto naturale e addirittura centrale il ruolo della misura di sicurezza[14].

La priorità del legislatore, infatti, non sembra quella di “reagire a fatti commessi”, quanto quella di rispondere ad una demagogica passione o furia punitiva[15]; tendenza, questa, che pone al centro del sistema sanzionatorio il ‘delinquente pericoloso’ e, di conseguenza, la ‘criminalizzazione della malattia mentale’[16].

Il giudizio di pericolosità sociale è descritto dal legislatore all’art. 203 c.p. e, com’è noto, è incentrato sulla probabilità che un determinato soggetto, autore di reato (o ‘quasi reato’, art. 202 c.p.), commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati.

La stessa Corte costituzionale ha rilevato che l’intervento riformatore della l. n. 81/2014 non ha in alcun modo modificato, neppure indirettamente, per le persone inferme o semi-inferme di mente, la nozione di pericolosità sociale, ma si è soltanto limitato ad incidere sui criteri di scelta delle misure e sulle condizioni per l’applicazione di quelle detentive[17].

Inoltre, anche la norma che disciplina il riesame della pericolosità ex art. 208 c.p. resta immutata dopo la riforma.

Il giudizio sulla proroga della misura di sicurezza, infatti, è solo in parte diverso da quello richiesto per la sua applicazione e per la sua esecuzione, poiché il giudice deve tener conto della gravità del reato, dei fatti successivi come il comportamento tenuto durante l’internamento, delle concrete possibilità di un adeguato reinserimento sociale[18], e, di conseguenza, dell’astratta probabilità che il soggetto commetta nuovi fatti di reato[19].

Si può dunque ritenere che i lamentati inconvenienti della riforma, legati all’assenza dei posti nelle r.e.m.s. e alle lunghissime liste d’attesa, non dipendano dalla gestione esclusivamente sanitaria delle strutture, come parrebbe ritenere il giudice a quo nell’ordinanza di remissione alla Corte costituzionale[20].

Lo scopo della riforma era quello di lasciarsi alle spalle l’esperienza degli o.p.g. e non di trasformarli in nuove strutture cambiando solo il nomen, come era già successo in passato[21].

Infatti, queste «esplicano funzioni terapeutico-riabilitative e socio riabilitative in favore di persone affette da disturbi mentali»[22]. Ai sensi delle ll. n. 9/2012 e n. 81/2014 si può ritenere che le case di cura e custodia e gli o.p.g. debbano essere sostituiti dall’insieme dei servizi sociali e sanitari del territorio, e, in primo luogo, dai dipartimenti di salute mentale, dei quali fa parte la r.e.m.s.; essa dovrebbe avere un mandato di cura e non una funzione custodiale, o almeno non prevalentemente tale[23].

Non appare trascurabile, inoltre, che se immutato resta, come oggi risulta, il concetto di pericolosità sociale, il limite di durata della sanzione appare inconciliabile con la finalità, almeno originaria, delle ‘misure amministrative’: che era quella di neutralizzare la pericolosità dell’agente sino a che non sia cessata. In altri termini, siccome la pericolosità sociale è un giudizio sulla probabilità di recidiva, e, di contro, l’applicazione della misura in r.e.m.s. è limitata nel tempo, potrebbe accadere che il reo, ritenuto ancora pericoloso, debba per legge essere dimesso dalla struttura ospitante (allo scadere del termine di durata massima della misura).

Sarebbe stato dunque più coerente e rispettoso dei principi costituzionali eliminare definitivamente il concetto di pericolosità sociale, e prevedere l’applicazione della sanzione per un tempo proporzionato agli aspetti oggettivi e soggettivi del fatto commesso, nei termini in precedenza evidenziati[24].

La già citata Commissione Pelissero ha tentato di intervenire anche sul concetto di pericolosità sociale; purtroppo, però, senza avanzare una reale critica del sistema sanzionatorio delle misure di sicurezza e del suddetto concetto. Nel 2017, infatti, si propose la riformulazione dell’art. 203 c.p. alla ricerca di una definizione maggiormente specifica e tassativa, che, con particolare riguardo ai soggetti con ‘disturbi di mente’, consentisse di applicare una misura a contenuto terapeutico solo in presenza di una prognosi di «rilevante probabilità di reiterazione di reati del tipo di quelli già commessi o delitti in danno della persona, contro l’incolumità pubblica o comunque con uso di armi»[25]. A ben guardare, si è fatto ancora una volta riferimento ad un giudizio prognostico reiterabile nel tempo[26]; per di più, sia per fatti di particolare allarme sociale che per «reati del tipo di quelli già commessi»: quindi, in buona sostanza, per qualsiasi reato.

A questo punto, seppure parte della dottrina continui a sostenere che non sia opportuno intervenire sul sistema a doppio binario[27], si ritiene che soltanto il superamento di quest’ultimo medierebbe le esigenze dello stato di diritto con le istanze dello stato sociale[28].

Eliminando il binario della misura di sicurezza il trattamento sanzionatorio sarebbe sempre e soltanto proporzionato, nel massimo, alla gravità del reato commesso, sia dall’imputabile che dal non imputabile.

La soluzione prospettata appare la sola coerente con il dettato costituzionale, anche e soprattutto considerata la principale funzione sia della pena (art. 27, co. 3 Cost.) che della misura di sicurezza, entrambe necessariamente orientate al recupero dell’autore di reato[29].

Siccome entrambe le sanzioni sono rivolte al raggiungimento dello stesso scopo, il sistema attraverso un binario unico potrebbe perseguire la finalità preventiva nella sua duplice accezione, generale e speciale[30]. Il criterio di delimitazione dell’intervento dello Stato, sarebbe dato, quindi, dal principio di proporzionalità con il fatto illecito, doloso o colposo, anche in riferimento alla condotta dell’agente non imputabile.

In questo modo, inoltre, ci si lascerebbe alle spalle l’indeterminato concetto di ‘pericolosità sociale’; e, al contempo, la difesa dei beni giuridici e la prevenzione dei reati sarebbero intese in termini sinergici e non contrapposti, evitando duplicazioni sanzionatorie o applicazioni sproporzionate della misura di sicurezza[31].

Tenendo conto del fatto che negli ultimi anni una parte autorevole della dottrina[32] ha già teorizzato idonee alternative al sistema del doppio binario; se solo vi fosse la volontà legislativa di farlo si potrebbe ragionare intorno alla possibilità di scelte di politica criminale praticabili e maggiormente rispettose dei principi costituzionali[33].

Date le premesse, sarebbe senza dubbio più coerente prevedere un’unica sanzione penale, differenziata nella fase esecutiva a seconda delle esigenze del singolo individuo, ad esempio di cura laddove necessaria, parametrando la sanzione stessa ad un adeguato e concreto concetto di proporzionalità,i cui criteri di valutazione dovrebbero essere dati dal grado di offesa al bene giuridico e dalle modalità oggettive e soggettive di aggressione.

Come già da tempo osserva autorevole dottrina, si tratterebbe di liberare da ogni presupposto eticizzante e/o securitario la responsabilità penale, superando i  concetti di colpevolezza, (in)capacità di intendere e volere e pericolosità sociale, adottando in luogo di essi una categoria della responsabilità personale che comprenda il fatto, doloso o colposo, antigiuridico, di chiunque, a prescindere dalla sua imputabilità[34]. Riconoscere a tutti, quindi, il diritto al processo, verificando poi in fase di esecuzione della sanzione, previa valutazione e gestione dei rischi, quali siano gli aspetti trattamentali e terapeutici più appropriati per la singola persona, rispettando così i diritti e la dignità di ogni essere umano.

Laddove imprescindibile, dunque, e comunque per un tempo proporzionato agli aspetti oggettivi e soggettivi del reato commesso, il trattamento medico dovrebbe svolgersi in un ‘contesto restrittivo’, sia per la garanzia dell’individuo che per quella della collettività.

Inoltre, non si deve trascurare che in taluni casi la ‘detenzione’ è servente sia alla ‘responsabilizzazione’ che alla cura del soggetto,  entrambe indispensabili e propedeutiche alla sua riabilitazione.

In ipotesi meno gravi, sia dal punto di vista oggettivo che soggettivo, invece, dovrebbe sempre prediligersi l’affidamento ai servizi sanitari sul territorio, curando in modo particolarmente intenso il rapporto con il mondo circostante e con il mondo d’origine, dando alla misura stessa una dimensione ‘il più aperta’ possibile[35].

La cura attraverso la ‘custodia’, infatti, laddove strettamente necessaria, sarebbe auspicabile riservarla ai soli soggetti che si siano resi responsabili di gravi delitti contro la vita, l’incolumità e la libertà di una o più persone, escludendo categoricamente – per legge – dalle strutture ospitanti gli autori ‘malati’ che offendono beni giuridici differenti.

Al netto delle brevi considerazioni svolte, in ogni caso, per superare realmente l’incultura, ancora dominante, secondo cui il soggetto affetto da disturbi della personalità debba essere ‘neutralizzato’, occorrerebbe in prima istanza opporvi la cultura del primato della persona e della cura, sino a tradurre tutto ciò in concrete scelte di politica criminale e socio-sanitaria.

La collettività dovrebbe essere disposta a sopportare i rischidi una ricaduta nel reato, a fronte di un intervento terapeutico che dovrebbe fornire anche maggiori possibilità di integrazione e di contenimento delle manifestazioni del disturbo psichico[36].

Solo in questo modo la misura di sicurezza – divenuta a tutti gli effetti una pena da eseguirsi con modalità terapeutiche e riabilitative, anche in luoghi di detenzione laddove strettamente necessario – diventerebbe uno strumento di tutela del singolo individuo, assolvendo, quindi, anche una funzione di protezione della società[37].


[1] Cfr. per tutti G. Fiandaca – E. Musco, Diritto penale. Parte Generale, Bologna 2019, p. 883; E. Musco, La misura di sicurezza detentiva, Milano 1978, pp. 115-119.

[2] Per un’approfondita analisi critica della riforma, cfr. F. Schiaffo, Pene e misure di sicurezza dopo il «definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari», in Studi in onore di Antonio Fiorella, vol. I, a cura di M. Catenacci – V. N. D’Ascola – R. Rampioni, Roma 2021, pp. 1055-1074.

[3]Sul punto, v. S. Moccia, La ‘promessa non mantenuta’. Ruolo e prospettive del principio di determinatezza/tassatività nel sistema penale italiano, Napoli 2001, p. 21, secondo cui è possibile «sostenere che l’accentuata disattesa di questo principio rappresenta, per le sue implicazioni, l’esempio più evidente della perdita di valore di quelle idee-guida alla base del diritto penale di derivazione illuministica, quali tutela di libertà e dignità dell’uomo». Sul concetto di determinatezza sub specie verificabilità empirica, inoltre, si ricordi la sentenza n. 96/1981 con cui la Corte costituzionale dichiarò l’illegittimità dell’art. 603 c.p. in quanto rappresentava un’ipotesi di reato «non verificabile nella sua effettuazione e nel suo risultato», laddove il legislatore «deve impegnarsi a formulare norme concettualmente precise (…) che esprimano fattispecie corrispondenti alla realtà», cfr. Corte cost., sent. 8 giugno 1981 n. 96, in www.cortecostituzionale.it. Sul punto v. ancora S. Moccia, La ‘promessa non mantenuta’, op. cit., p. 65: «Ciò significa che la norma dev’essere riferita a fenomeni, non solo rispondenti alla realtà, ma che siano razionalmente accertabili», come insegna l’antica e profonda lezione di A. Feuerbach, cfr. A. Feuerbach, Revision der Grundsätze und Grundbegriffe des positiven peinlichen Rechts, II, Chemnitz 1800, r.a. Aalen 1973, pp.12-13, secondo cui «il legislatore non può sottoporre a pena ciò che…in concreto non può essere completamente provato».

[4] Cfr. art. 1, co. 1 quater, d.l. 31 marzo 2014, conv., con modif., in l. 30 maggio 2014, n. 81.

[5] Cfr. E. Musco, op. cit., p. 115.

[6] Cfr. A. Cavaliere, Misure di sicurezza e doppio binario. Considerazioni introduttive, in Riv. it. dir. proc. pen., n.1 2022, 349.

[7] Per un approfondimento, cfr. L. Goisis, Artt. 132-133, in E. Dolcini – G. L. Gatta (a cura di), Codice penale commentato, Milano 2015, pp. 1960-2003; D. Provolo, Artt. 132-133, in G. Forti – S. Seminara (a cura di), Commentario breve al codice penale, Padova 2019, pp. 857-887.

[8] Cfr. Corte cost., 27 gennaio 2022, sent. n. 22, p. 3, in www.cortecostituzionale.it., in cui si legge che «alla data del 31 luglio 2021 risultavano collocate in una struttura penitenziaria in attesa di internamento in una REMS 61 persone, per nessuna delle quali il DAP ha avuto notizia di collocamento presso i servizi psichiatrici ospedalieri ex art. 286 del codice di procedura penale. Dall’analisi condotta dal 20 giugno al 25 settembre 2021, risulta poi al DAP l’emissione di 15 provvedimenti con cui è stata concessa la libertà vigilata in favore di soggetti presenti in lista di attesa per il ricovero in REMS».

[9] Si consideri, inoltre, che la giurisprudenza ritiene «legittima la misura di sicurezza della libertà vigilata provvisoriamente applicata nei confronti di un soggetto affetto da malattia psichiatrica, che ne prescriva il ricovero in una struttura sanitaria con divieto di allontanamento in determinate fasce orarie e, comunque, per finalità incompatibili con il programma terapeutico, trattandosi di prescrizioni funzionali all’esecuzione di tale programma che non snaturano il carattere non detentivo della misura di sicurezza non comportando alcun sacrificio aggiuntivo alla libertà di movimento rispetto a quello che inerisce a qualsiasi percorso di cura»: così, Cass., I sez. pen., sent. 12 dicembre 2019, n. 50383. Dunque, volendo sintetizzare, le prescrizioni della libertà vigilata non avrebbero natura coercitiva perché la loro osservanza non può essere imposta coattivamente all’agente, potendo però, in caso di inosservanza delle prescrizioni medesime, essere aggravata la misura. In altri termini, al ricovero “imposto ma non coatto” in una struttura sanitaria, caratterizzato, quindi, da un t.s.v., nulla esclude che possa essere poi sostituito un t.s.o. nell’ipotesi in cui il soggetto rifiuti le cure necessarie per le condizioni in cui si trova, a seguito delle prescrizioni stabilite con il provvedimento che dispone la libertà vigilata. È quindi agevole intuire che, con la libertà, la libertà vigilata ha ben poco in comune.

[10] Cfr. Corte cost., 24 giugno 2021, ord. n. 131, in www.cortecostituzionale.it., secondo cui «con ordinanza dell’11 maggio 2020, il g.i.p. del Tribunale di Tivoli espone di aver disposto, nel giugno del 2019, l’applicazione provvisoria della misura di sicurezza del ricovero presso una r.e.m.s. a carico dell’imputato, e, sin tanto che non fosse stato possibile, che gli fosse provvisoriamente applicata la misura della libertà vigilata presso una struttura residenziale psichiatrica per trattamenti terapeutico-riabilitativi a carattere estensivo, da individuarsi a cura del centro di salute mentale territorialmente competente».

A distanza di quasi un anno dal provvedimento, la misura in r.e.m.s. rimaneva ineseguita a causa della carenza di posti nelle strutture della Regione Lazio. Per questo motivo il giudice sollevava questione di legittimità costituzionale in merito agli artt. 206 e 222 c.p. e dell’art. 3-ter del d.l. 22 dicembre 2011, n. 211, perché in contrasto, secondo il g.i.p. rimettente, in primo luogo con gli artt. 27 e 110 della Costituzione, «nella parte in cui, attribuendo l’esecuzione del ricovero provvisorio presso una Residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza (r.e.m.s.) alle Regioni ed agli organi amministrativi da esse coordinati e vigilati, escludono la competenza del Ministro della Giustizia in relazione all’esecuzione della detta misura di sicurezza detentiva provvisoria»; e, in secondo luogo, gli artt. 2, 3, 25, 32 e 110 Cost., «nella parte in cui consentono l’adozione con atti amministrativi di disposizioni generali in materia di misure di sicurezza in violazione della riserva di legge in materia».

[11] Segnatamente, Corte cost., sent. 22 novembre 2013, n. 279; nonché recentemente, in diverso contesto, Corte cost., sent. 9 marzo 2021, n. 32, in www.cortecostituzionale.it.

[12] Cfr. Corte cost., 27 gennaio 2022, cit., p. 9; per un diverso ordine di idee, cfr. F. Schiaffo, Una nuova strategia per una tutela effettiva dei diritti fondamentali: il ruolo essenziale di un numero limitato di posti letto nelle REMS, in Riv. Diritto e Giustizia Minorile, 3 aprile 2021, p. 31-39.

[13] Cfr. Commissione per la riforma del sistema normativo delle misure di sicurezza personali e dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario, specie per le patologie di tipo psichiatrico, e per la revisione del sistema delle pene accessorie, istituita con D.M. 19.7.2017, p. 7, in www.giustizia.it.

[14] Cfr. F. Palazzo, Punire e curare: tra incertezze scientifiche ed esigenze di riforma, in Aa.Vv., Infermità mentale, imputabilità e disagio psichico in carcere. Definizioni, accertamento e risposte del sistema penale, a cura di A. Menghini – E. Mattevi, Trento 2020, p. 9.

[15] Cfr. F. Palazzo, op. cit., pp. 5-6.

[16] Cfr. M. Pelissero, Pericolosità sociale e doppio binario. Vecchi e nuovi modelli di incapacitazione, Torino 2008, pp. 176-177, secondo cui «in un contesto culturale e politico sempre più attento alle sollecitazioni sul tema “sicurezza” è forte il rischio di imboccare derive sul piano delle garanzie dell’autore del fattoin un settore delicato come quello che investe le stesse linee di intervento sanitario a tutela della salute mentale».

[17] Cfr. Corte cost., 23 luglio 2015, sent. n. 186, in www.cortecostituzionale.it.

[18] Cfr. Cass. pen., sez. I, sent. 23 ottobre 2020, n. 4026, in www.italgiure.it.; Cass. pen., sez. I, sent. 27 novembre 2018, n. 8242, in www.italgiure.it.

[19] Cfr. E. Cadamuro, Art. 208, in G. Forti – S. Seminara (a cura di), Commentario breve al codice penale, cit., p. 1279.

[20] Cfr. ordinanza dell’11 maggio 2020, iscritta al n. 110 del registro ordinanze 2020 e pubblicata in Gazzetta Ufficiale n. 38, prima serie speciale, dell’anno 2020.

[21] Cfr. E. Musco, op. cit., p. 283.

[22] Decreto 1 ottobre 2012, “Requisiti strutturali, tecnologici e organizzativi delle strutture residenziali destinate ad accogliere le persone cui sono applicate le misure di sicurezza del ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario e dell’assegnazione a casa di cura e custodia”, in G.U. Serie Generale n. 270 del 19.11.2012, in www.gazzettaufficiale.it.

[23] La lettura offerta dalla recente pronuncia della Corte cost., sent. 27 gennaio 2022, cit., p. 6 sembrerebbe invertire i termini della questione, mettendo in risalto «anzitutto» la funzione custodiale della r.e.m.s. ed affermando che «come oggi concretamente configurata nell’ordinamento, non può essere considerata come una misura di natura esclusivamente sanitaria. (…) L’assegnazione in parola consiste, anzitutto, in una misura limitativa della libertà personale, il che è evidenziato già dalla circostanza che al soggetto interessato può essere legittimamente impedito di allontanarsi dalla REMS. (…) In quanto misura di sicurezza, l’assegnazione alla REMS non può che trovare la peculiare ragione d’essere – a fronte della generalità dei trattamenti sanitari per le malattie mentali – in una specifica funzione di contenimento della pericolosità sociale di chi abbia già commesso un reato, o sia gravemente indiziato di averlo commesso, in una condizione di vizio totale o parziale di mente».

[24] Sul punto, v. anche F. Schiaffo, Pene e misure di sicurezza dopo il «definitivo superamento degli ospedali psichiatrici giudiziari», cit., pp. 1073-1074.

[25] Cfr. Commissione per la riforma del sistema normativo delle misure di sicurezza personali e dell’assistenza sanitaria in ambito penitenziario, specie per le patologie di tipo psichiatrico, e per la revisione del sistema delle pene accessorie, cit.

[26] È previsto un meccanismo di riesame annuale della pericolosità, salva sempre la possibilità di rivedere il giudizio in ogni momento. È imposto al giudice di motivare «le ragioni eccezionali che sostengono il prosieguo del ricovero, al fine di garantirne la transitorietà e la possibilità di sostituire la misura con la vigilanza terapeutica», cit.

[27] Cfr., ad es. M. Pelissero, op. cit., p. 178, secondo cui sarebbe «difficile e, alla luce delle possibili conseguenze, nemmeno auspicabile il completo abbandono del sistema sanzionatorio penale a doppio binario; è necessario continuare a riservare le misure di sicurezza ai soggetti non imputabili, che in un sistema ancorato al principio di colpevolezza non potrebbero essere mai destinatari di pene, trattandosi di soggetti riconosciuti privi di quella capacità di intendere e volere».

[28] Cfr. S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli 1992, pp. 141-147; Id, Da Kant al “binario unico”, in Critica del Diritto, vol. 2, luglio-dicembre 2020, pp. 5-10; cfr. A. Cavaliere, Appunti per un dialogo in tema di imputabilità e misure di sicurezza, in Liber amicorum Adelmo Manna, a cura diV. Plantamura – G. Salcuni, Pisa 2020, p. 115: «Con il perpetuarsi del dualismo pena/misura rischia di perpetuarsi l’idea di retribuzione della colpevolezza: mentre l’incolpevole va curato, il colpevole va castigato. Un sistema monistico di sanzioni penali, fondato su un sistema unitario di responsabilità penale, vincolato alla proporzione all’illecito penale realizzato dall’autore e finalizzato sempre a prospettive di reintegrazione sociale, potrebbe condurre al superamento della pena carceraria così com’è, con un processo in qualche modo simmetrico a quello che ha portato dai manicomi criminali e dagli oo.pp.gg. – intesi quale risposta primaria al fatto dell’“infermo di mente” – alle r.e.m.s., concepite come extrema ratio rispetto a misure extramurarie».

[29] Cfr. S. Moccia, Politica criminale e riforma del sistema penale. L’Alternativ-Entwurf e l’esempio della Repubblica federale tedesca, Napoli 1984, pp. 96-97: «Le finalità generalpreventiva e specialpreventiva non vanno staticamente individuate rispettivamente nella difesa dei beni giuridici e nella risocializzazione; ma entrambe sono contenute nei due concetti. Infatti la difesa dei beni giuridici va intesa come dialetticamente comprensiva non solo dei momenti sicuramente di prevenzione generale, nel senso di difesa dell’ordinamento attraverso orientamento e intimidazione dei consociati, ma anche di momenti di prevenzione speciale, come quelli relativi all’orientamento ed all’intimidazione individuale, per evitare l’offesa di un concreto bene giuridico, ed alla conseguente sicurezza nei confronti del singolo offensore. D’altronde, la stessa risocializzazione non va vista unicamente in un’ottica di recupero sociale dell’individuo, ma anche nella prospettiva dell’obiettivo vantaggio che la società consegue in virtù di tale recupero: di qui, la sua efficacia in termini anche di prevenzione generale».

[30] C. Roxin, Franz von Liszt und die kriminalpolitische Konzeption des Alternativentwurfs; cfr. sul punto S. Moccia, Politica criminale e riforma del sistema penale, op. cit., p. 129.

[31] Cfr. S. Moccia, Politica criminale e riforma del sistema penale, op. cit., p. 128 ss.

[32] Cfr. S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, op. cit., pp. 146-147; S. Moccia, Politica criminale e riforma del sistema penale, op. cit., p. 128 ss; cfr. E. Musco, op. cit., pp. 271-285; cfr. F. Palazzo, op. cit., pp. 8-11; cfr. M. Pelissero, Misure di sicurezza e Rems: una disciplina a metà del guado, in Aa.Vv, Infermità mentale, imputabilità e disagio psichico in carcere, op. cit.; Ponti – Merzagora – Betsos, Compendio di criminologia, Milano 2008, pp. 350-352.

[33] Sul punto, ad es., v. ancora A. Cavaliere, Appunti per un dialogo in tema di imputabilità e misure di sicurezza, cit., pp. 115-116.

[34] Cfr. S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore, cit., pp. 146-147. Sul punto, ancora S. Moccia, Politica criminale e riforma del sistema penale, op. cit., p. 105, secondo cui «Lo stretto collegamento tra diritto penale e morale, nonché la sua ipervalutazione ideologica, collegata all’idea base dell’esistenza di una unitaria comunità socio-statuale d’estrazione cristiana, era comprensibile solo come antitesi all’utilitaristico abuso del diritto penale per le cupe finalità del nazionalsocialismo»; v. anche A. Cavaliere, Misure di sicurezza e doppio binario, cit., p. 349 ss.

[35] Cfr. E. Musco, op. cit., p. 284.

[36] Così, M. Pelissero, Pericolosità sociale, op. cit. p. 183.

[37] Cfr. E. Musco, op. cit., p. 285.

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