Sommario: 1. Da eroi a capri espiatori? Professionisti sanitari e Covid-19. – 2. La “colpa medica” dopo le Sezioni unite “Mariotti”: l’inadeguatezza dell’art. 590-sexies c.p. a fronteggiare l’emergenza. – 3. (segue): una possibile soluzione de iure condito. Benefici e criticità dell’estensione dell’art. 2236 c.c. ai casi dell’emergenza. – 4. Considerazioni sulle proposte avanzate. – 5. Brevi spunti di riflessione in tema di “scelte tragiche” e cure palliative.
La pandemia da Covid-19 ha sollevato anche numerose questioni giuridiche, tra le quali la necessità di contenere il persistente rischio penale degli operatori sanitari alle prese con la nuova infezione. Il saggio prende brevemente in considerazione alcune possibili soluzioni con riguardo ai temi della responsabilità professionale, delle cure palliative e della tragica scelta rispetto a quale paziente garantire l’accesso alle limitate risorse.
The Coronavirus pandemic raised many legal issues: amongst them, the appropriateness of the decriminalization of medical negligence by health professionals who deal with the treatment of the new disease. The essay briefly considers several solutions to reduce the relevance of criminal responsibility in the fields of medical malpractice, palliative cares and tragic choices about which patient treat in a context of limited resources.
- Da eroi a capri espiatori? Professionisti sanitari e Covid-19.
L’emergenza sanitaria e le misure adottate per contrastare l’epidemia di Covid-19 hanno sollevato non trascurabili problematiche anche sul piano giuridico. Tra le più urgenti è (ri)emersa prepotentemente la necessità di proteggere dal “rischio penale” gli operatori sanitari impegnati in prima linea nella gestione della pandemia.
La questione ha investito l’opinione pubblica a partire dalla fine di marzo, in seguito ad una lettera indirizzata dal Presidente FNOMCeO[1], Filippo Anelli, al Consiglio Nazionale Forense, nella quale esprimeva preoccupazione per le iniziative pubblicitarie promosse da alcuni avvocati, candidatisi pubblicamente a rappresentare le famiglie delle vittime di Covid-19 denunciando in sede penale eventuali negligenze avvenute nel corso delle attività di prevenzione del contagio e/o di cura della malattia. In effetti, in concomitanza del divampare dell’epidemia e dei primi casi di decesso sono apparsi annunci pubblicitari in rete, interviste su quotidiani e persino brochure nelle bacheche di alcune strutture ospedaliere.
I principali organi istituzionali dell’avvocatura – dal Consiglio Nazionale Forense all’Unione Camere Penali Italiane – hanno assunto posizioni di grande durezza nei confronti degli iscritti autori di tali “bassezze” deontologiche, promettendo ripercussioni a livello disciplinare[2].
Tuttavia, è parso sin da subito ineludibile anche un ripensamento legislativo della responsabilità penale degli esercenti le professioni sanitarie in chiave fortemente limitativa.
Come noto, l’emergenza ha messo a dura prova la tenuta del Servizio Sanitario Nazionale. La diffusione a ritmo esponenziale della malattia e l’elevato numero di contagiati hanno drammaticamente evidenziato la limitatezza delle risorse a disposizione. L’improvvisa impennata nella richiesta di posti letto nei reparti di malattie infettive, pneumologia e terapia intensiva ha reso necessaria una riorganizzazione complessiva di numerose strutture sanitarie, per fare spazio e isolare i pazienti contagiati. Farmaci e apparecchi sono stati contingentati. Professionisti di ogni specializzazione sono stati chiamati a farsi carico dell’emergenza, effettuando turni di lavoro massacranti e combattendo la pandemia «a mani nude»[3]; mentre giovani laureati, specializzandi e pensionati hanno dovuto sopperire alle carenze di personale[4].
L’eccezionale scenario causato dalla pandemia moltiplica le occasioni e le possibilità di commettere errori, col rischio, aggravato dall’elevatissimo numero di decessi, che degli avventi avversi possano essere incolpati gli stessi operatori sanitari.
Nondimeno, sembra del tutto singolare che ad essere sotto i riflettori per via dell’epidemia sia una questione penalistica “classica” come la sovraesposizione giudiziaria dei professionisti sanitari, già oggetto di due riforme ancora recenti (2012 e 2017) e talmente dibattuta negli ultimi anni che non pare fuori luogo la nota metafora del “fiume di inchiostro”[5].
In fondo, il riproporsi del problema sembra proprio confermare, una volta di più, il radicale fallimento della disciplina penalistica approntata dalla legge n. 24/2017, nota come “Gelli-Bianco”, che mirava a circoscrivere definitivamente il perimetro dell’illecito colposo in ambito sanitario, in vista di un cambio di paradigma dalla repressione alla prevenzione[6].
Proprio da una breve ricognizione dell’“esistente” conviene, allora, prendere le mosse prima di sviluppare alcune riflessioni sulle possibili soluzioni sul piano normativo.
- La “colpa medica” dopo le Sezioni unite “Mariotti”: l’inadeguatezza dell’art. 590-sexies c.p. a fronteggiare l’emergenza.
Nella disciplina attuale l’unico argine (diretto) alla responsabilità colposa degli esercenti le professioni sanitarie è costituito dal secondo comma dell’art. 590-sexies c.p.[7].
Tuttavia, come noto, l’ermetica formulazione della norma introdotta dalla riforma “Gelli-Bianco” è stata sin da subito foriera di «alti dubbi interpretativi» e la «drammatica incompatibilità logica» di alcuni passaggi testuali della nuova norma ha condotto, a soli nove mesi dalla sua entrata in vigore, ad un intervento delle Sezioni unite penali[8]. È così che nel febbraio 2018 la sentenza “Mariotti” ha ridefinito i confini di applicabilità della nuova norma, stabilendo che l’esercente la professione sanitaria può essere chiamato a rispondere della morte o delle lesioni del paziente a titolo di colpa:
1) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza;
2) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida ufficialmente riconosciute e convalidate dal nuovo sistema pubblico di raccolta o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
3) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;
4) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico[9].
Lo spettro applicativo della causa di non punibilità incentrata sul grado della colpa individuata dalla sentenza “Mariotti” (n. 4) è – come evidente – assai circoscritto[10]. Peraltro, il giudice di merito che voglia applicare il secondo comma dell’art. 590-sexies c.p. corre il pericolo di rimanere sopraffatto dalla molteplicità degli ostacoli interpretativi da superare[11]. Infatti, deve anzitutto stabilire se il sanitario ha rispettato una linea guida e, contestualmente, individuare la commissione di un errore nell’adattamento di quella linea guida allo specifico caso clinico. In questa fase, l’interprete deve fare attenzione a non confondere una linea guida in partenza inadeguata rispetto alla situazione affrontata – nel qual caso deve abbandonare la propria “impresa” e valutare la sussistenza di una colpa lieve –, con una imprecisione del sanitario nell’adeguarla correttamente alle esigenze del paziente: la causa di non punibilità si estende, infatti, solo ad errori esecutivi, ma la distinzione appare quantomai labile[12].
Successivamente, è necessario riscontrare l’accreditamento formale della linea guida applicata all’interno del catalogo del Sistema Nazionale per le Linee guida, che, però, risulta non ancora degnamente aggiornato. Infine, il giudice deve domandarsi se l’errore esecutivo può essere riconducibile al genus dell’imperizia; per quest’operazione, tuttavia, non è dato fare affidamento su condivisi riferimenti interpretativi (v. anche infra, § 3).
Solo all’esito di queste “peripezie” ermeneutiche, il giudicante è chiamato a distinguere la gravità della colpa del sanitario che ha isolato nei tre precedenti farraginosi passaggi.
Come è già stato osservato da attenta dottrina, dunque, la disciplina introdotta dalla legge “Gelli-Bianco” pare tutt’altro che adatta a fronte delle specificità dell’emergenza sanitaria da Covid-19[13]. Non foss’altro perché l’operatività della causa di non punibilità è sempre condizionata al rispetto di linee guida accreditate, quando, invece, la diffusione di una infezione sconosciuta non può che riverberarsi in una fisiologica assenza di indicazioni cliniche consolidate[14]. Da quanto è dato sapere, la cura del Covid-19 avviene interamente “off label”, ovvero attraverso l’impiego “fuori etichetta” di farmaci pensati per altre patologie, nella speranza che abbiano un effetto antivirale utile a debellare la nuova infezione polmonare.
Si tratta, in sostanza, di uno scenario che non può mai essere attinto dalla disciplina introdotta nel 2017.
A dire il vero, l’SNLG ha attivato sul proprio sito, nella sezione “buone pratiche”, una pagina relativa al Corona Virus Desease[15], nella quale, premesso che «la rassegna è in costante aggiornamento», sono raccolti i «documenti più attendibili sull’emergenza sanitaria». In linea teorica, l’art. 590-sexies c.p. ammette che, in assenza di linee guida accreditate, l’osservanza di “buone pratiche” possa costituire presupposto per l’applicazione della causa di non punibilità. Ciò nonostante, la strada dell’applicazione dell’art. 590-sexies c.p. continua a sembrare decisamente in salita: il linguaggio della pagina web dell’SNLG denota tutta l’incertezza dell’attuale quadro scientifico, che imporrebbe al processo penale di inseguire il susseguirsi – e magari il contraddirsi – delle diverse indicazioni scientifiche avvicendatesi nel tempo.
Ad ogni modo, più in generale, il complesso iter interpretativo al quale viene “condannato” il giudice per giungere all’applicazione dell’art. 590-sexies c.p. appare evidentemente incompatibile con la portata dell’emergenza pandemica in corso.
Inoltre, sembra il caso di precisare che la norma introdotta nel 2017 fa esclusivo riferimento alle fattispecie di lesioni ed omicidio colposo, mentre dalla cronaca si apprende dell’avvio di procedimenti penali per il reato di epidemia colposa di cui al combinato disposto degli artt. 438 e 452 c.p.[16].
- (segue): una possibile soluzione de iure condito. Benefici e criticità dell’estensione dell’art. 2236 c.c. ai casi dell’emergenza.
Ad uno sguardo più approfondito, tuttavia, il diritto vivente offrirebbe uno strumento più efficace dell’art. 590-sexies c.p. per contenere le responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie alle prese con la cura del “virus”. Si tratta dell’art. 2236 del codice civile, a norma del quale il prestatore d’opera, qualora si trovi ad affrontare problemi di speciale difficoltà, risponde dei danni cagionati solo per dolo o colpa grave.
Come noto, la disposizione civilistica è stata utilizzata per lungo tempo – all’incirca fino agli inizi degli anni ’80 – dalla giurisprudenza penale per giustificare sentenze di proscioglimento nei confronti dei sanitari che non si fossero resi responsabili di violazioni cautelari grossolane e macroscopiche. Gradualmente poi, in coincidenza con l’affermarsi di un nuovo e diverso paradigma come quello dell’“alleanza terapeutica”, l’art. 2236 c.c. è stato abbandonato dai giudici penali, con il conseguente scivolamento verso la punibilità “a tappeto” della colpa lieve, tra le cause all’origine della ancora attuale sovraesposizione giudiziaria dei professionisti sanitari[17].
Va tuttavia segnalato che, recentemente, un coraggioso orientamento della quarta Sezione della Cassazione ha provato a rilanciare l’art. 2236 c.c. nei giudizi di medical malpractice, giustificando il rinnovato richiamo alla disposizione civilistica sulla base di una “regola di esperienza” e non per via di una applicazione diretta[18]. La rinascita dell’art. 2236 c.c. ha tratto nuova linfa anche dalle poco convincenti riforme approvate dal legislatore, ed è stato individuato dalle principali pronunce degli ultimi anni – “Tarabori” e “Mariotti” – e dalla dottrina come l’alternativa per proseguire nella tanto attesa depenalizzazione degli errori medici, estendendo il salvifico criterio della colpa grave oltre gli angusti pertugi dell’art. 590-sexies c.p[19].
Per certi versi, i presupposti applicativi dell’art. 2236 c.c. sembrano adattarsi bene alla situazione emergenziale creatasi, specie con riguardo alla particolare difficoltà della prestazione. Come si era auspicato altrove[20], infatti, le Sezioni unite nel 2017 hanno riconosciuto come il coefficiente di difficoltà di una prestazione medica, per quanto apparentemente semplice “sulla carta”, possa aumentare in forza di fattori organizzativi o della presenza di situazioni emergenziali, legittimando dunque il ricorso alla “regola di esperienza” di cui all’art. 2236 c.c. Nella sentenza “Mariotti” ci si riferisce a tale norma come ad «un precetto che mostra di reputare rilevante, con mai perduta attualità, la considerazione per cui l’attività del medico possa presentare connotati di elevata difficoltà per una serie imprevedibile di fattori legati alla mutevolezza del quadro da affrontare e delle risorse disponibili»[21]; parole, specie queste ultime evidenziate in corsivo, che sembrano pensate per descrivere la situazione attuale.
In questa prospettiva, il contesto nel quale il sanitario è chiamato ad operare avrebbe una doppia valenza: da una parte, rendendo i problemi da affrontare di “speciale difficoltà”, giustificherebbe l’utilizzo di un criterio di imputazione più favorevole come quello della colpa grave ex art. 2236 c.c.; dall’altra parte, potrebbe essere valorizzato, proprio nel giudizio sul grado della colpa, per escludere la rimproverabilità a livello soggettivo di una condotta oggettivamente colposa maturata in ambito emergenziale[22].
De iure condito, pertanto, l’art. 2236 c.c. potrebbe costituire una soluzione indispensabile per limitare eventuali responsabilità penali collegate alla pandemia, soprattutto nel caso in cui il legislatore finisse per non approvare una normativa ad hoc, o se il perimetro della stessa risultasse, ancora una volta, troppo circoscritto.
Nondimeno, sembra opportuno sottolineare talune incognite.
In primo luogo, va specificato che, a discapito delle sempre più esplicite prese di posizione da parte della giurisprudenza di legittimità, sono ancora rare le occasioni nelle quali l’art. 2236 c.c. fa breccia nelle motivazioni delle sentenze di merito per escludere la punibilità. La riaffermazione della norma civilistica è stata sin qui rallentata anche dalla sua scarsa penetrazione tra le argomentazioni difensive. Leggendo le sentenze della Corte, infatti, ci si accorge di come i difensori, piuttosto che appellarsi all’art. 2236 c.c., preferiscano invocare l’applicazione delle nuove riforme, spesso anche in casi nei quali non solo difettano con evidenza i requisiti, ma in cui ad essere contestata è una violazione cautelare basata proprio sull’inosservanza delle linee guida (primo presupposto di entrambe le riforme).
Rimane quindi, ad esempio, incerto se anche per la rinnovata applicazione dell’art. 2236 c.c. la violazione cautelare debba assumere i sulfurei connotati dell’imperizia. Naturalmente, a differenza dell’art. 590-sexies c.p., l’art. 2236 c.c. nulla prevede sul punto. Tuttavia, l’associazione “colpa grave-imperizia” riemersa, dapprima per via giurisprudenziale con il decreto “Balduzzi”, poi per espressa previsione normativa con la legge “Gelli-Bianco”, costituisce il retaggio di una pronuncia della Corte Costituzionale, che, nel 1973, aveva ritenuto ammissibile l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. alla colpa medica, ma solo nei casi di imperizia[23].
Non è questa l’occasione per ripercorrere il dibattito sorto attorno alla nozione di imperizia, categoria da tempo in disuso nella scienza penalistica[24]. Occorre però far luce su quello che potrebbe essere il prevedibile effetto di una riproposizione della lettura differenziata delle forme di colpa dell’art. 43 c.p. anche in relazione all’art. 2236 c.c. nel contesto dell’epidemia da Covid-19. Mai come in questo momento, sembra plausibile ipotizzare casi di colpa determinati non tanto da errori nel trattamento della malattia, quanto da stanchezza, fatica, stress e urgenza dovuti alle contingenze (ad es. una dimenticanza, una prescrizione affrettata, un controllo superficiale e così via). Ebbene, ove venisse confermato il metro sin qui fatto proprio dalla giurisprudenza, tutte queste ipotesi verrebbero classificate in termini di negligenza o imprudenza, con conseguente inapplicabilità del regime di responsabilità di favore.
Sotto tutt’altro profilo, poi, non va tralasciato il valore simbolico che avrebbe l’introduzione dello “scudo” ad hoc invocato espressamente dai professionisti sanitari, rispetto ad una “silenziosa” – e, allo stato, ancora incerta – valorizzazione di un orientamento giurisprudenziale. Da questo punto di vista, è evidente come una risposta sul piano legislativo avrebbe ben altro impatto sulla potenziale «medicina difensiva dell’emergenza», tranquillizzando i sanitari circa la loro futura “incolumità” giudiziaria[25]. Senza considerare, poi, la diversa efficacia “deterrente” dispiegata dalle due diverse impostazioni in relazione all’apertura di indagini: è chiaro che una nuova normativa avrebbe la capacità di prevenire non solo condanne e processi, comunque improbabili, ma anche la stessa presentazione di denunce, perlomeno nella maggior parte dei casi.
- Considerazioni sulle proposte avanzate.
Occorre, allora, prendere in considerazione le proposte sin qui avanzate, con la premessa che, non essendo semplice ricostruire la “pioggia” di emendamenti riversatasi sul decreto “Cura Italia”[26], nonché quali di essi verranno effettivamente discussi e quali, invece, ritirati, conviene ragionare più per direttrici e tematiche generali.
Per prima cosa, pare di poter rilevare come lo stile compilativo degli emendamenti sia particolarmente macchinoso. In quasi tutti i casi, all’interno degli stessi commi vengono intrecciate problematiche differenti – responsabilità penali e civili, eccezioni all’obbligo di rivalsa, responsabilità dei professionisti e delle strutture, ecc. – dando vita, ancora una volta, a testi di legge di non semplice lettura. Da questo punto di vista, gli insuccessi delle riforme “Balduzzi” e “Gelli-Bianco”, anche a confronto con la rinascita dell’art. 2236 c.c., norma caratterizzata da un testo conciso ma efficace, dovrebbero invece aver lasciato maggiore consapevolezza della necessità di testi di legge non troppo articolati.
Un primo punto da mettere a fuoco sembra relativo all’estensione temporale del regime di favore cui si intende dar vita. Non sembra da scartare a priori, infatti, l’ipotesi di una norma che resti in vigore anche una volta cessata l’emergenza: si tratterebbe, in definitiva, di dare finalmente attuazione al disegno complessivo della legge “Gelli-Bianco”, per ora naufragato per via di un’imperizia compilativa. Come prevedibile, invece, gli emendamenti si concentrano su una norma che abbia efficacia soltanto per il periodo dell’emergenza. In questa prospettiva, tuttavia, potrebbe essere opportuno redigere un testo di legge che non sia troppo aderente alle peculiarità della situazione contingente, ma che possa anche costituire un punto di partenza per il futuro ripensamento della responsabilità colposa in ambito sanitario[27].
Circoscrivere la disciplina al periodo dell’emergenza, del resto, non appare nemmeno così semplice. Ne è la prova il fatto che gli emendamenti indicano come momento iniziale della fase d’emergenza provvedimenti diversi del Consiglio dei Ministri[28]. Allo stesso tempo, non sarà probabilmente nemmeno agevole individuare la fine dell’emergenza se è vero, come sembra, che con l’epidemia bisognerà fare i conti ancora a lungo e la condizione emergenziale cesserà in modo graduale.
L’estensione oggettiva e soggettiva dello statuto di responsabilità differenziato presenta diversi aspetti controversi. Tra le proposte è balenata anche quella di un’esenzione tout court da responsabilità penali, una sorta di “amnistia” generalizzata per tutte le condotte realizzate in relazione al Covid-19[29]. Questa soluzione, che appare inopportuna per diverse ragioni, è stata osteggiata anche dagli stessi professionisti sanitari[30], poiché avrebbe offerto uno scudo inscalfibile anche alle figure dirigenziali, esteso persino ai casi in cui una loro colpa organizzativa ha determinato il contagio degli stessi operatori. Insomma, dietro alla retorica “degli eroi” si cela una moratoria di responsabilità “politico-organizzative”.
Peraltro, oltre ad equiparare medici e area manageriale, la proposta di una protezione totale da responsabilità colpose mette sullo stesso piano diverse realtà del Paese, garantendo l’immunità anche a possibili condotte gravemente colpose eventualmente maturate in contesti appena sfiorati dal “virus”: uno scenario che pare eccessivo.
Nessuno degli emendamenti chiarisce se la limitazione della responsabilità penale si riferisca esclusivamente ai sanitari che hanno direttamente avuto a che fare con il Covid-19 o possa estendersi anche a prestazioni mediche di altro genere. Non va trascurato, infatti, che molte strutture hanno completamente riorganizzato anche altri reparti, per fare spazio ai malati della pandemia o trasferendo parte del personale per impiegarlo per fronteggiare l’emergenza. È evidente come questi riassetti potrebbero aver influito anche sulla qualità dell’assistenza prestata ad altri malati per altre patologie e potrebbero talvolta giustificare un trattamento simile a quello riservato ai sanitari direttamente impegnati con l’epidemia.
Alla luce di tutti questi interrogativi, la soluzione che pare più ragionevole è quella, già espressa in dottrina[31], di prevedere una generalizzata limitazione della responsabilità penale alla colpa grave, non circoscritta alla sola imperizia ma estesa a negligenza ed imprudenza, e arricchita di una definizione che imponga di tenere conto, nella valutazione del grado della colpa, dei fattori organizzativo-contestuali[32] (il numero di pazienti contemporaneamente coinvolti, gli standard organizzativi della singola struttura in rapporto alla gestione dello specifico rischio emergenziale, l’eventuale eterogeneità della prestazione rispetto alla specializzazione del singolo operatore, il livello di pressione e/o urgenza, anche in relazione alla diffusione della pandemia nella specifica area geografica)[33].
La selezione del grado della colpa penalmente rilevante è un collaudato strumento, anche a livello internazionale, di riduzione del rischio penale dei sanitari[34]. Allo stesso tempo, però, non lascia completamente sprovvista di tutela penale la vita e la salute dei pazienti, come invece accade nel sistema “no fault”, peraltro in via di dismissione nei principali ordinamenti anglo-americani che lo avevano adottato[35].
Più complesso appare invece annettere nella definizione un riferimento a linee guida o prassi consolidate relative alla gestione dell’epidemia (v. anche supra, § 2), come è stato invece proposto[36]. Oltre ai noti problemi “epistemologici” dell’utilizzo delle linee guida nei giudizi penali, che sono alla base del fallimento acclarato delle riforme del 2012 e del 2017[37], il loro impiego ne solleverebbe di nuovi: a quali raccomandazioni affidarsi (solo quelle del sito SNLG o anche quelle, per ipotesi, elaborate dalle singole strutture)? che fare qualora si verifichi un rapido avvicendamento tra più testi in continuo aggiornamento?
Lo stato di incertezza scientifica, come si è visto, è tale per cui pare fuori luogo fare riferimento a linee guida nel testo di legge. Peraltro, in un momento di ricerca di soluzioni nuove e originali, l’invito a rifugiarsi nel poco esistente sembra ancor meno opportuno.
Diversamente, linee guida o altri testi codificati potrebbero essere valorizzati in chiave accusatoria – quindi, senza trovare alcun accesso nella normativa – per ravvisare una grave colpa nella condotta di chi, in sfregio ai protocolli per prevenire la diffusione del virus – sui quali, in effetti, parrebbe esservi maggiore consenso dopo diversi mesi di epidemia –abbia cagionato il contagio di una o più persone[38].
- Brevi spunti di riflessione in tema di “scelte tragiche” e cure palliative.
Accanto al tema della colpa professionale, la diffusione dell’epidemia impone al penalista di riflettere anche su altri interrogativi relativi alla responsabilità penale degli operatori sanitari impegnati a fronteggiare l’emergenza, taluni battuti anche di recente, come quello delle cure palliative, altri, che invece si ritenevano confinati nei manuali tra gli “esempi di scuola”, relativi alla “scelta tragica” rispetto a quali pazienti garantire l’accesso alle cure in condizioni di risorse sanitarie limitate[39].
Sotto il primo profilo, sembra potersi affermare senza riserve la liceità di terapie del dolore praticate da sanitari su pazienti terminali, anche laddove esse vengano effettuate a domicilio[40]. Sul punto è possibile affidarsi, data la loro grande chiarezza, alle parole della legge n. 219/2017, che prevede all’art. 2, comma 1, che «il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative (…)»; e al comma 2, che «in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente»[41].
Il discorso si fa più articolato con riferimento al secondo problema.
Come noto, una parte consistente di soggetti con diagnosi di infezione da Covid-19 richiede un supporto ventilatorio a causa di una polmonite interstiziale caratterizzata da ipossemia severa[42]. Pertanto, i principali sforzi riorganizzativi ed economici sono stati funzionali all’aumento dei posti disponibili in “terapia intensiva”. Ciò nonostante, da quanto si apprende dai media, la diffusione dell’epidemia ha dischiuso, specie nelle aree geografiche più colpite, il drammatico scenario nel quale viene a gravare sugli stessi operatori sanitari la tragica decisione su quali pazienti includere o escludere dal ricovero, dall’accesso alla terapia intensiva o alla ventilazione: in sostanza, la scelta di chi curare e chi no.
Si tratta di questioni dolorosissime, rispetto alle quali anche il giurista rimane completamente «nudo di certezze»[43]. Come evidente, esse meriterebbero ben altro studio e si intende qui offrire solo alcune coordinate essenziali, peraltro sempre nella prospettiva di non dilatare il rischio penale dei sanitari coinvolti nell’emergenza.
Gli scenari da prendere in considerazione paiono essenzialmente due.
Il primo è quello del c.d. «triage in emergenza pandemica»[44]. I casi di due o più malati di Covid-19 arrivano contestualmente o quasi al triage del pronto soccorso dedicato all’emergenza[45]. È rimasto, tuttavia, un solo supporto ventilatorio disponibile, del quale tutti i nuovi pazienti avrebbero immediata necessità. Gli operatori sanitari sono dunque chiamati a stabilire come impiegare l’unica risorsa a disposizione, negando inevitabilmente la terapia necessaria ai pazienti non scelti.
Il secondo scenario è simile – uno o più malati hanno bisogno di essere collegati con urgenza al respiratore –, ma non ve n’è nemmeno uno disponibile. In questo caso, assistere uno o più dei nuovi malati significa “staccare” dal dispositivo pazienti già collegati, magari anziani o con poche chances di sopravvivenza.
Dall’esterno, l’impressione è che tali situazioni, laddove siano effettivamente emerse, siano state sin qui gestite secondo una logica di “Recthsfreier Raum”, una sorta di silenzioso “spazio libero dal diritto” nel quale l’attività e le scelte sono state regolate dal “buon senso” dei singoli operatori sanitari.
Tradizionalmente, simili frangenti sono stati affrontati all’interno del capitolo sui “conflitti di dovere” e lo stato di necessità ex art. 54 c.p.[46]; non a caso, l’esimente che più di ogni altra si avvicina all’idea di contesti liberi dall’intervento giuridico.
In entrambi i casi, infatti, sul sanitario vengono drammaticamente a gravare più doveri, tassativi ma incompatibili: nel primo scenario, curare tutti i malati che hanno bisogno dello stesso ventilatore per sopravvivere; nel secondo caso, salvare i nuovi pazienti e non uccidere i pazienti già ricoverati e tenuti in vita dal supporto ventilatorio.
Con riguardo al caso del «triage in emergenza pandemica», va segnalato un recente e autorevole parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, che ha elaborato alcune indicazioni di massima circa il criterio da utilizzare in questa tragica scelta[47].
Inizialmente, viene premesso che: «il Comitato ritiene che nell’allocazione delle risorse si debbano rispettare i principi di giustizia, equità e solidarietà, per offrire a tutte le persone eguali opportunità di raggiungere il massimo potenziale di salute consentito. E ritiene che sia doveroso mettere in atto tutte le strategie possibili, anche di carattere economico organizzativo, per far sì che sia garantita l’universalità delle cure».
Viene poi proposto che a orientare la scelta del sanitario «in una situazione, come quella attuale, di grave carenza di risorse» sia il criterio clinico, in quanto «il più adeguato punto di riferimento per l’allocazione delle risorse medesime: ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età anagrafica, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, è ritenuto dal Comitato eticamente inaccettabile».
Il CNB chiarisce che «con appropriatezza clinica si intende la valutazione medica dell’efficacia del trattamento rispetto al bisogno clinico di ogni singolo paziente, con riferimento alla gravità del manifestarsi della patologia e alla possibilità prognostica di guarigione».
Un’altra nozione ampiamente valorizzata dal Comitato nel parere è quella di «attualità», anch’essa una bussola fondamentale per calibrare la condotta da adottare e che, per certi versi, può anche riecheggiare uno dei principali elementi dello stato di necessità: l’attualità, appunto, del pericolo.
Si tratta di argomentazioni assolutamente condivisibili. Proiettandole su un piano penalistico, sembrerebbe potersi ritenere irrilevante la condotta del sanitario che si attenga ai criteri dell’appropriatezza clinica e della stretta attualità nella tragica scelta del paziente al quale garantire l’accesso in terapia intensiva[48]. Del resto, non è difficile cogliere l’inesigibilità, tanto oggettiva quanto soggettiva, di condotte alternative. Al contempo, il criterio della priorità di arrivo al pronto soccorso pare del tutto inadatto rispetto alle descritte modalità di funzionamento del «triage in emergenza pandemica», fondate anche su un costante monitoraggio “casalingo” dei pazienti.
Il secondo scenario possibile pare ancora più drammatico, proprio perché, come segnalato, uno dei doveri confliggenti potrebbe consistere nel dovere di “non uccidere” i malati già tenuti in vita dal ventilatore.
Con riguardo a questi frangenti, nella teorica del conflitto di doveri si è solitamente accordata prevalenza al divieto di uccidere, nella sua dimensione di “Abwehrrecht”, rispetto al dovere “sociale” di soccorso. La vita, in altre parole, sarebbe un bene che non può mai essere sottoposto ad un bilanciamento, nemmeno nell’ambito della “scriminante” più “amorale” o “immorale” dell’ordinamento, lo stato di necessità[49].
Ciò è certamente condivisibile. Tuttavia, non deve tramutarsi nella aprioristica rinuncia a prestare le cure a determinate categorie più fragili[50], come anziani o malati affetti da comorbilità, preservando le risorse per il successivo prevedibile arrivo di pazienti “migliori” dal punto di vista dell’appropriatezza clinica.
Pragmaticamente, dunque, conviene ammettere – se non la liceità, almeno – la non punibilità di talune condotte, da valutare però secondo gli stringenti requisiti dello stato di necessità e, in particolare, dell’attualità del pericolo. In particolare, sembra doversi richiedere da un lato, l’immediato pericolo di vita del paziente che subentra nella fruizione del sostegno respiratorio, e dall’altro, la pressoché certa impossibilità di sopravvivenza del soggetto che viene “staccato” dal respiratore, di modo che la scelta non sia tra due vite umane, ma tra il salvarne una o nessuna[51].
[1] Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri. Il testo integrale della lettera è pubblicato su portale.fnomceo.it. Alla segnalazione della FNOMCeO ha fatto eco, a stretto giro di posta, anche l’accorato appello della FNOPI, Federazione nazionale degli ordini professioni infermieristiche, peraltro le categorie più colpite dal contagio (secondo alcune stime circa l’80% dei sanitari contagiati).
[2] Si vedano in proposito le esortazioni pubbliche del 2 aprile da parte del Consiglio Nazionale Forense agli organismi distrettuali a vigilare sulle predette condotte degli iscritti.
[3] Espressione utilizzata dal Presidente Anelli nella lettera aperta al CNF, che fa probabilmente riferimento alla carenza di dispositivi di protezione (guanti, mascherine, ecc.).
[4] Per un quadro aggiornato della situazione si rimanda ai numerosi approfondimenti presenti sul sito quotidianosanità.it.
[5] In un recente saggio sull’argomento (v. G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione dell’errore medico. Tra riforme “incompiute”, aperture giurisprudenziali e nuovi orizzonti per la colpa grave, in DPC-Riv. Trim., 2019, 1 ss.) si è provato a raccogliere buona parte della bibliografia in argomento dagli anni ’70 ad aggi, ottenendo un risultato pressoché “monografico”. La bibliografia, in fondo al saggio, occupa ben 13 pagine.
[6] Sull’incompatibilità tra i due modelli, O. Di Giovine, Colpa penale, “Legge Balduzzi” e “Disegno di Legge Gelli-Bianco”: il matrimonio impossibile tra diritto penale e gestione del rischio clinico, in CP, 2017, 386 ss.
[7] A norma del quale, nei casi di omicidio e lesioni personali colpose: «qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
[8] Le espressioni richiamate nel testo sono della prima sentenza che si è occupata dell’esegesi della norma. Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187, (rel. Blaiotta e Montagni, ric. Tarabori).
[9] Cfr. Cass. pen., Sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474 (rel. Vessichelli, ric. Mariotti), in RIML, 2018, con nota di M. Caputo, 345 ss.; nonché in www.penalecontemporaneo.it, 9 aprile 2018, con commento di G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, 25 ss.
[10] Peraltro, l’apprezzabile sforzo ermeneutico delle Sezioni unite non ha fatto “evaporare” alcune criticità interpretative che, fin dai primi commenti, la dottrina aveva segnalato affliggere l’art. 590-sexies c.p.; ed anzi, sotto alcuni profili, ha contribuito ad incrementare le probabilità di possibili disorientamenti. Per tutti, C. Cupelli, L’anamorfosi dell’art. 590-sexies c.p. L’interpretazione ‘costituzionalmente conforme’ e i problemi irrisolti dell’imperizia medica dopo le Sezioni unite, in RIDPP, 2019, 1969 ss.; G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione, cit., 19 ss.
[11] Tanto che sino ad oggi si registra un solo caso di applicazione da parte del Tribunale di Parma. V. M.L. Mattheudakis, Colpa medica e legge Gelli-Bianco: una prima applicazione giurisprudenziale dell’art. 590-sexies, co.2, c.p., in www.penalecontempraneo.it, 9 aprile 2019.
[12] Per un approfondimento di questa labile distinzione tra errore esecutivo nel rispetto della linea guida ed errore nella scelta della stessa, G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione, cit., 22 ss.
[13] In questo senso, con la consueta chiarezza, già C. Cupelli, Emergenza COVID-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, in www.sistemapenale.it, 30 marzo 2020.
[14] Non a caso, la prima individuazione del virus nel focolaio lombardo è avvenuta trasgredendo le linee guida. V. Coronavirus, l’anestesista di Codogno che ha intuito la diagnosi di Mattia: “Ho pensato all’impossibile”, in www.larepubblica.it, 6 marzo 2020.
[15] V. www.snlg.iss.it
[16] Ad es. Sassari, si indaga per epidemia colposa, su www.ansa.it, 24 marzo 2020.
[17] Per un approfondimento, sia consentito il rinvio a G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione, cit., 3 ss.
[18] L’ideatore e principale sostenitore di questo filone giurisprudenziale è il magistrato di Cassazione Dott. Rocco Blaiotta, già Presidente della quarta Sezione. Si veda, ad esempio, Cass. Pen., Sez. IV, 1/2/2012, n. 4391 (Imp. D.L.M., Rel. Blaiotta), in DPP, 2012, 1104 ss.
[19] In dottrina, M. Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Torino, 2017. Si veda anche la posizione emersa in seno all’Associazione italiana professori di diritto penale e riassunta in M. Caputo, D. Pulitanò, S. Seminara, La responsabilità per colpa degli esercenti la professione sanitaria, in www.aipdp.it
[20] Cfr. G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale del sanitario dopo la riforma “Gelli-Bianco”, DPP, 2017, 1377: «Si ritiene, inoltre, che a rendere il caso di “speciale difficoltà” potrebbero concorrere anche le condizioni ambientali” nelle quali il sanitario ha operato: può ben darsi, ad esempio, che un intervento del tutto routinario risulti complesso in forza della particolare urgenza con cui viene svolto o, caso più frequente di quanto non si creda, in ragione di carenze organizzative o strutturali».
[21] Cfr. Cfr. Cass. pen., Sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474, cit., § 10.1. Corsivo di chi scrive.
[22] Sulla c.d. misura soggettiva della colpa, per tutti, D. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009; S. Canestrari, La doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo, IP, 2012, 21 ss.
[23] Per un maggiore approfondimento di tali passaggi, nonché per gli opportuni riferimenti bibliografici, M. Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, cit., 213 ss.
[24] In argomento, ex multis, A. Massaro, L’art. 590-sexies c.p., la colpa per imperizia del medico e la camicia di Nesso dell’art. 2236 c.c., in AP, 2017, 1 ss. Per una lettura sterilizzante dell’imperizia come “negligenza ed imprudenza qualificate”, G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni unite tra “nuovi” spazi di graduazione dell’imperizia e “antiche” incertezze, in www.penalecontemporaneo.it, 2018, fasc. 4, 25 ss.
[25] Cfr. C. Cupelli, Emergenza COVID-19, cit.
[26] Disegno di legge AS 1766: conversione in legge del decreto 17 marzo 2020, n. 18.
[27] In questo senso già C. Cupelli, Emergenza COVID-19, cit.
[28] L’emendamento del Sen. Marcucci (1.0.4.), ad esempio, indica la delibera del 31 gennaio, mentre l’emendamento a firma del Sen. Mallegni (13.2) fa riferimento alla delibera del 23 febbraio.
[29] In questa direzione ad esempio l’emendamento a firma del Sen. Salvini (1.1.).
[30] V. ad esempio, La beffa dello scudo ai medici che protegge i loro “capi” dalle cause per i ritardi sul virus, www.ilsole24ore.com, 4 aprile 2020.
[31] C. Cupelli, Emergenza COVID-19, cit.
[32] L’idea di una valorizzazione del fattore organizzativo all’interno della definizione di colpa grave era stata già prospettata nel progetto del “Centro Studi Federico Stella”. Cfr. G. Forti, M. Catino, F. D’Alessandro, C. Mazzucato, G. Varraso, Il problema della medicina difensiva, Pisa, 2010.
[33] L’emendamento che sembra maggiormente avvicinarsi a questa impostazione è quello a firma della Sen. Bernini (13.2). Per certi versi, seppure con le specificazioni che seguono nel testo, anche quello del Sen. Marcucci (1.0.4.).
[34] Cfr. G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione, cit., 26 ss.
[35] C. Scorretti, Le linee guida nella medicina moderna e nella recente normativa italiana, in G.M. Caletti, I. Cavicchi, C. Scorretti, L. Ventre, P. Ziviz, Responsabilità e linee guida. Riflessioni sull’uso delle linee guida nella valutazione della colpa dei sanitari. Commenti alle novità legislative, Udine, 2017, 23 ss.
[36] V. emendamento del Sen. Marcucci (1.0.4.).
[37] Per osservazioni in merito, I. Cavicchi, Linee guida e buone pratiche. Limiti, aporie, presagi, in G.M. Caletti, I. Cavicchi, C. Scorretti, L. Ventre, P. Ziviz, Responsabilità e linee guida, cit., 103 ss.
[38] In questa prospettiva, peraltro, si concorda con chi estenderebbe il criterio di imputazione della colpa grave anche alla fattispecie di epidemia colposa. C. Cupelli, Emergenza COVID-19, cit.
[39] Sul tema, già S. Canestrari, Le scelte tragiche nell’ambito dell’attività medico-chirurgica, in Bioetica e diritto penale, Torino, 2012, 200 ss; G.M. Caletti, Stato di necessità terapeutica. Paradossi, finzioni e nuove ipotesi applicative, in Biodiritto, 2013, 23 ss.
[40] I quotidiani hanno ripreso la notizia per cui in Francia è stata autorizzata la somministrazione del farmaco Ritrovil, anche a domicilio, su pazienti terminali da Covid-19. La polemica seguitane ha permesso di chiarire che si tratta di una cura palliativa e non di una vera e propria eutanasia. V. La Francia estende l’uso del Rivotril per i malati terminali di coronavirus: «per una morte senza sofferenza», Corriere.it, 9 aprile.
[41] Per un commento “a tutto tondo” della «buona legge buona» del 2017, S. Canestrari, I fondamenti del biodiritto penale e la legge 22 dicembre 2017, n. 219, in RIDPP, 2018, 55 ss. L’importanza delle cure palliative si è potuta apprezzare anche in relazione alla travagliata vicenda giudiziaria di Marco Cappato, relativa al suicidio assistito di Fabiano Antoniani (Dj Fabo). In argomento, ancora S. Canestrari, Una sentenza “inevitabilmente infelice”: la “riforma” dell’art. 580 c.p. da parte della Corte costituzionale, in RIDPP, 2019, 2159 ss.
[42] In proposito le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”, pubblicate dalla SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Anelgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) il 6 marzo 2020.
[43] Espressione utilizzata dal noto magistrato Elvio Fassone in relazione ad un caso di sciopero della fame da parte di alcuni detenuti affiliati alle “Brigate Rosse”, rispetto ai quali era stata invocata l’applicazione dello stato di necessità. Cfr. E. Fassone, Sciopero della fame, autodeterminazione e libertà personale, in Quest. Giust., 1982, p. 335.
[44] Per utilizzare la terminologia adottata dal Comitato Nazionale per la Bioetica in un recentissimo documento sull’argomento. Cfr. CNB, Covid-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, in www.bioetica.governo.it, 9 aprile 2020. La redazione del parere è stata coordinata dai Proff.: Stefano Canestrari, Carlo Casonato, Antonio Da Re, Lorenzo d’Avack, Assunta Morresi, Laura Palazzani, Luca Savarino.
[45] Lo scenario non è condizionato dall’arrivo fisico presso il triage, posto che, per evitare contagi, si è diffusa la prassi di monitorare prima telefonicamente la situazione di nuovi pazienti con i sintomi dell’infezione. Nel documento del CNB appena citato, la peculiarità del triage in condizioni di pandemia è stata riassunta come segue: «Rispetto al triage usuale, nel triage in emergenza pandemica si considerano diversamente i pazienti: in questo insieme sono inclusi, oltre a quelli che sono “fisicamente presenti”, coloro che sono stati valutati e osservati da un punto di vista clinico, delle cui condizioni critiche si è già consapevoli. Infatti, in una situazione di emergenza come quella pandemica che ha investito il nostro territorio, ad aver bisogno di trattamenti sanitari salvavita non sono solo i pazienti fisicamente presenti nei locali del pronto soccorso ma anche quelli ricoverati e non ancora sottoposti al sostegno vitale della ventilazione assistita – dai supporti meno invasivi al trasferimento in terapia intensiva – così come i pazienti, già valutati clinicamente a domicilio, che si sono aggravati improvvisamente. Rispetto al triage in tempi normali, il triage in emergenza pandemica inserisce la valutazione individuale del paziente nella prospettiva più ampia della “comunità dei pazienti”».
[46] Riferimento obbligato in argomento è il lavoro monografico di F. Viganò, Stato di necessità e conflitto di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano, 2000.
[47] Cfr. CNB, Covid-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, cit. I corsivi contenuti nelle successive citazioni testuali sono di chi scrive.
[48] Potrebbe rimanere aperta la problematica di un possibile “eccesso colposo” qualora vengano valutati in modo non corretto i menzionati criteri. In argomento, rimane discutibile se possano trovare applicazione le eventuali restrizioni del grado della colpa affrontate nei paragrafi che precedono.
[49] Per una ricognizione su questa ed altre posizioni, nonché per i riferimenti bibliografici sul dibattito, sia consentito rinviare a G.M. Caletti, Stato di necessità terapeutica, cit. 56 e 57.
[50] In generale, sui rischi di abbandono terapeutico si vedano anche le importanti osservazioni del citato documento del CNB.
[51] Cfr.; G.M. Caletti, Stato di necessità terapeutica, cit. 53 ss.
Covid-19 e responsabilità penali degli operatori sanitari. Brevi riflessioni su come limitare la punibilità tra colpa professionale, stato di necessità e cure palliative
Sommario: 1. Da eroi a capri espiatori? Professionisti sanitari e Covid-19. – 2. La “colpa medica” dopo le Sezioni unite “Mariotti”: l’inadeguatezza dell’art. 590-sexies c.p. a fronteggiare l’emergenza. – 3. (segue): una possibile soluzione de iure condito. Benefici e criticità dell’estensione dell’art. 2236 c.c. ai casi dell’emergenza. – 4. Considerazioni sulle proposte avanzate. – 5. Brevi spunti di riflessione in tema di “scelte tragiche” e cure palliative.
La pandemia da Covid-19 ha sollevato anche numerose questioni giuridiche, tra le quali la necessità di contenere il persistente rischio penale degli operatori sanitari alle prese con la nuova infezione. Il saggio prende brevemente in considerazione alcune possibili soluzioni con riguardo ai temi della responsabilità professionale, delle cure palliative e della tragica scelta rispetto a quale paziente garantire l’accesso alle limitate risorse.
The Coronavirus pandemic raised many legal issues: amongst them, the appropriateness of the decriminalization of medical negligence by health professionals who deal with the treatment of the new disease. The essay briefly considers several solutions to reduce the relevance of criminal responsibility in the fields of medical malpractice, palliative cares and tragic choices about which patient treat in a context of limited resources.
L’emergenza sanitaria e le misure adottate per contrastare l’epidemia di Covid-19 hanno sollevato non trascurabili problematiche anche sul piano giuridico. Tra le più urgenti è (ri)emersa prepotentemente la necessità di proteggere dal “rischio penale” gli operatori sanitari impegnati in prima linea nella gestione della pandemia.
La questione ha investito l’opinione pubblica a partire dalla fine di marzo, in seguito ad una lettera indirizzata dal Presidente FNOMCeO[1], Filippo Anelli, al Consiglio Nazionale Forense, nella quale esprimeva preoccupazione per le iniziative pubblicitarie promosse da alcuni avvocati, candidatisi pubblicamente a rappresentare le famiglie delle vittime di Covid-19 denunciando in sede penale eventuali negligenze avvenute nel corso delle attività di prevenzione del contagio e/o di cura della malattia. In effetti, in concomitanza del divampare dell’epidemia e dei primi casi di decesso sono apparsi annunci pubblicitari in rete, interviste su quotidiani e persino brochure nelle bacheche di alcune strutture ospedaliere.
I principali organi istituzionali dell’avvocatura – dal Consiglio Nazionale Forense all’Unione Camere Penali Italiane – hanno assunto posizioni di grande durezza nei confronti degli iscritti autori di tali “bassezze” deontologiche, promettendo ripercussioni a livello disciplinare[2].
Tuttavia, è parso sin da subito ineludibile anche un ripensamento legislativo della responsabilità penale degli esercenti le professioni sanitarie in chiave fortemente limitativa.
Come noto, l’emergenza ha messo a dura prova la tenuta del Servizio Sanitario Nazionale. La diffusione a ritmo esponenziale della malattia e l’elevato numero di contagiati hanno drammaticamente evidenziato la limitatezza delle risorse a disposizione. L’improvvisa impennata nella richiesta di posti letto nei reparti di malattie infettive, pneumologia e terapia intensiva ha reso necessaria una riorganizzazione complessiva di numerose strutture sanitarie, per fare spazio e isolare i pazienti contagiati. Farmaci e apparecchi sono stati contingentati. Professionisti di ogni specializzazione sono stati chiamati a farsi carico dell’emergenza, effettuando turni di lavoro massacranti e combattendo la pandemia «a mani nude»[3]; mentre giovani laureati, specializzandi e pensionati hanno dovuto sopperire alle carenze di personale[4].
L’eccezionale scenario causato dalla pandemia moltiplica le occasioni e le possibilità di commettere errori, col rischio, aggravato dall’elevatissimo numero di decessi, che degli avventi avversi possano essere incolpati gli stessi operatori sanitari.
Nondimeno, sembra del tutto singolare che ad essere sotto i riflettori per via dell’epidemia sia una questione penalistica “classica” come la sovraesposizione giudiziaria dei professionisti sanitari, già oggetto di due riforme ancora recenti (2012 e 2017) e talmente dibattuta negli ultimi anni che non pare fuori luogo la nota metafora del “fiume di inchiostro”[5].
In fondo, il riproporsi del problema sembra proprio confermare, una volta di più, il radicale fallimento della disciplina penalistica approntata dalla legge n. 24/2017, nota come “Gelli-Bianco”, che mirava a circoscrivere definitivamente il perimetro dell’illecito colposo in ambito sanitario, in vista di un cambio di paradigma dalla repressione alla prevenzione[6].
Proprio da una breve ricognizione dell’“esistente” conviene, allora, prendere le mosse prima di sviluppare alcune riflessioni sulle possibili soluzioni sul piano normativo.
Nella disciplina attuale l’unico argine (diretto) alla responsabilità colposa degli esercenti le professioni sanitarie è costituito dal secondo comma dell’art. 590-sexies c.p.[7].
Tuttavia, come noto, l’ermetica formulazione della norma introdotta dalla riforma “Gelli-Bianco” è stata sin da subito foriera di «alti dubbi interpretativi» e la «drammatica incompatibilità logica» di alcuni passaggi testuali della nuova norma ha condotto, a soli nove mesi dalla sua entrata in vigore, ad un intervento delle Sezioni unite penali[8]. È così che nel febbraio 2018 la sentenza “Mariotti” ha ridefinito i confini di applicabilità della nuova norma, stabilendo che l’esercente la professione sanitaria può essere chiamato a rispondere della morte o delle lesioni del paziente a titolo di colpa:
1) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da negligenza o imprudenza;
2) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia quando il caso concreto non è regolato dalle raccomandazioni delle linee-guida ufficialmente riconosciute e convalidate dal nuovo sistema pubblico di raccolta o dalle buone pratiche clinico-assistenziali;
3) se l’evento si è verificato per colpa (anche lieve) da imperizia nella individuazione e nella scelta di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali non adeguate alla specificità del caso concreto;
4) se l’evento si è verificato per colpa grave da imperizia nell’esecuzione di raccomandazioni di linee-guida o buone pratiche clinico-assistenziali adeguate, tenendo conto del grado di rischio da gestire e delle speciali difficoltà dell’atto medico[9].
Lo spettro applicativo della causa di non punibilità incentrata sul grado della colpa individuata dalla sentenza “Mariotti” (n. 4) è – come evidente – assai circoscritto[10]. Peraltro, il giudice di merito che voglia applicare il secondo comma dell’art. 590-sexies c.p. corre il pericolo di rimanere sopraffatto dalla molteplicità degli ostacoli interpretativi da superare[11]. Infatti, deve anzitutto stabilire se il sanitario ha rispettato una linea guida e, contestualmente, individuare la commissione di un errore nell’adattamento di quella linea guida allo specifico caso clinico. In questa fase, l’interprete deve fare attenzione a non confondere una linea guida in partenza inadeguata rispetto alla situazione affrontata – nel qual caso deve abbandonare la propria “impresa” e valutare la sussistenza di una colpa lieve –, con una imprecisione del sanitario nell’adeguarla correttamente alle esigenze del paziente: la causa di non punibilità si estende, infatti, solo ad errori esecutivi, ma la distinzione appare quantomai labile[12].
Successivamente, è necessario riscontrare l’accreditamento formale della linea guida applicata all’interno del catalogo del Sistema Nazionale per le Linee guida, che, però, risulta non ancora degnamente aggiornato. Infine, il giudice deve domandarsi se l’errore esecutivo può essere riconducibile al genus dell’imperizia; per quest’operazione, tuttavia, non è dato fare affidamento su condivisi riferimenti interpretativi (v. anche infra, § 3).
Solo all’esito di queste “peripezie” ermeneutiche, il giudicante è chiamato a distinguere la gravità della colpa del sanitario che ha isolato nei tre precedenti farraginosi passaggi.
Come è già stato osservato da attenta dottrina, dunque, la disciplina introdotta dalla legge “Gelli-Bianco” pare tutt’altro che adatta a fronte delle specificità dell’emergenza sanitaria da Covid-19[13]. Non foss’altro perché l’operatività della causa di non punibilità è sempre condizionata al rispetto di linee guida accreditate, quando, invece, la diffusione di una infezione sconosciuta non può che riverberarsi in una fisiologica assenza di indicazioni cliniche consolidate[14]. Da quanto è dato sapere, la cura del Covid-19 avviene interamente “off label”, ovvero attraverso l’impiego “fuori etichetta” di farmaci pensati per altre patologie, nella speranza che abbiano un effetto antivirale utile a debellare la nuova infezione polmonare.
Si tratta, in sostanza, di uno scenario che non può mai essere attinto dalla disciplina introdotta nel 2017.
A dire il vero, l’SNLG ha attivato sul proprio sito, nella sezione “buone pratiche”, una pagina relativa al Corona Virus Desease[15], nella quale, premesso che «la rassegna è in costante aggiornamento», sono raccolti i «documenti più attendibili sull’emergenza sanitaria». In linea teorica, l’art. 590-sexies c.p. ammette che, in assenza di linee guida accreditate, l’osservanza di “buone pratiche” possa costituire presupposto per l’applicazione della causa di non punibilità. Ciò nonostante, la strada dell’applicazione dell’art. 590-sexies c.p. continua a sembrare decisamente in salita: il linguaggio della pagina web dell’SNLG denota tutta l’incertezza dell’attuale quadro scientifico, che imporrebbe al processo penale di inseguire il susseguirsi – e magari il contraddirsi – delle diverse indicazioni scientifiche avvicendatesi nel tempo.
Ad ogni modo, più in generale, il complesso iter interpretativo al quale viene “condannato” il giudice per giungere all’applicazione dell’art. 590-sexies c.p. appare evidentemente incompatibile con la portata dell’emergenza pandemica in corso.
Inoltre, sembra il caso di precisare che la norma introdotta nel 2017 fa esclusivo riferimento alle fattispecie di lesioni ed omicidio colposo, mentre dalla cronaca si apprende dell’avvio di procedimenti penali per il reato di epidemia colposa di cui al combinato disposto degli artt. 438 e 452 c.p.[16].
Ad uno sguardo più approfondito, tuttavia, il diritto vivente offrirebbe uno strumento più efficace dell’art. 590-sexies c.p. per contenere le responsabilità degli esercenti le professioni sanitarie alle prese con la cura del “virus”. Si tratta dell’art. 2236 del codice civile, a norma del quale il prestatore d’opera, qualora si trovi ad affrontare problemi di speciale difficoltà, risponde dei danni cagionati solo per dolo o colpa grave.
Come noto, la disposizione civilistica è stata utilizzata per lungo tempo – all’incirca fino agli inizi degli anni ’80 – dalla giurisprudenza penale per giustificare sentenze di proscioglimento nei confronti dei sanitari che non si fossero resi responsabili di violazioni cautelari grossolane e macroscopiche. Gradualmente poi, in coincidenza con l’affermarsi di un nuovo e diverso paradigma come quello dell’“alleanza terapeutica”, l’art. 2236 c.c. è stato abbandonato dai giudici penali, con il conseguente scivolamento verso la punibilità “a tappeto” della colpa lieve, tra le cause all’origine della ancora attuale sovraesposizione giudiziaria dei professionisti sanitari[17].
Va tuttavia segnalato che, recentemente, un coraggioso orientamento della quarta Sezione della Cassazione ha provato a rilanciare l’art. 2236 c.c. nei giudizi di medical malpractice, giustificando il rinnovato richiamo alla disposizione civilistica sulla base di una “regola di esperienza” e non per via di una applicazione diretta[18]. La rinascita dell’art. 2236 c.c. ha tratto nuova linfa anche dalle poco convincenti riforme approvate dal legislatore, ed è stato individuato dalle principali pronunce degli ultimi anni – “Tarabori” e “Mariotti” – e dalla dottrina come l’alternativa per proseguire nella tanto attesa depenalizzazione degli errori medici, estendendo il salvifico criterio della colpa grave oltre gli angusti pertugi dell’art. 590-sexies c.p[19].
Per certi versi, i presupposti applicativi dell’art. 2236 c.c. sembrano adattarsi bene alla situazione emergenziale creatasi, specie con riguardo alla particolare difficoltà della prestazione. Come si era auspicato altrove[20], infatti, le Sezioni unite nel 2017 hanno riconosciuto come il coefficiente di difficoltà di una prestazione medica, per quanto apparentemente semplice “sulla carta”, possa aumentare in forza di fattori organizzativi o della presenza di situazioni emergenziali, legittimando dunque il ricorso alla “regola di esperienza” di cui all’art. 2236 c.c. Nella sentenza “Mariotti” ci si riferisce a tale norma come ad «un precetto che mostra di reputare rilevante, con mai perduta attualità, la considerazione per cui l’attività del medico possa presentare connotati di elevata difficoltà per una serie imprevedibile di fattori legati alla mutevolezza del quadro da affrontare e delle risorse disponibili»[21]; parole, specie queste ultime evidenziate in corsivo, che sembrano pensate per descrivere la situazione attuale.
In questa prospettiva, il contesto nel quale il sanitario è chiamato ad operare avrebbe una doppia valenza: da una parte, rendendo i problemi da affrontare di “speciale difficoltà”, giustificherebbe l’utilizzo di un criterio di imputazione più favorevole come quello della colpa grave ex art. 2236 c.c.; dall’altra parte, potrebbe essere valorizzato, proprio nel giudizio sul grado della colpa, per escludere la rimproverabilità a livello soggettivo di una condotta oggettivamente colposa maturata in ambito emergenziale[22].
De iure condito, pertanto, l’art. 2236 c.c. potrebbe costituire una soluzione indispensabile per limitare eventuali responsabilità penali collegate alla pandemia, soprattutto nel caso in cui il legislatore finisse per non approvare una normativa ad hoc, o se il perimetro della stessa risultasse, ancora una volta, troppo circoscritto.
Nondimeno, sembra opportuno sottolineare talune incognite.
In primo luogo, va specificato che, a discapito delle sempre più esplicite prese di posizione da parte della giurisprudenza di legittimità, sono ancora rare le occasioni nelle quali l’art. 2236 c.c. fa breccia nelle motivazioni delle sentenze di merito per escludere la punibilità. La riaffermazione della norma civilistica è stata sin qui rallentata anche dalla sua scarsa penetrazione tra le argomentazioni difensive. Leggendo le sentenze della Corte, infatti, ci si accorge di come i difensori, piuttosto che appellarsi all’art. 2236 c.c., preferiscano invocare l’applicazione delle nuove riforme, spesso anche in casi nei quali non solo difettano con evidenza i requisiti, ma in cui ad essere contestata è una violazione cautelare basata proprio sull’inosservanza delle linee guida (primo presupposto di entrambe le riforme).
Rimane quindi, ad esempio, incerto se anche per la rinnovata applicazione dell’art. 2236 c.c. la violazione cautelare debba assumere i sulfurei connotati dell’imperizia. Naturalmente, a differenza dell’art. 590-sexies c.p., l’art. 2236 c.c. nulla prevede sul punto. Tuttavia, l’associazione “colpa grave-imperizia” riemersa, dapprima per via giurisprudenziale con il decreto “Balduzzi”, poi per espressa previsione normativa con la legge “Gelli-Bianco”, costituisce il retaggio di una pronuncia della Corte Costituzionale, che, nel 1973, aveva ritenuto ammissibile l’applicabilità dell’art. 2236 c.c. alla colpa medica, ma solo nei casi di imperizia[23].
Non è questa l’occasione per ripercorrere il dibattito sorto attorno alla nozione di imperizia, categoria da tempo in disuso nella scienza penalistica[24]. Occorre però far luce su quello che potrebbe essere il prevedibile effetto di una riproposizione della lettura differenziata delle forme di colpa dell’art. 43 c.p. anche in relazione all’art. 2236 c.c. nel contesto dell’epidemia da Covid-19. Mai come in questo momento, sembra plausibile ipotizzare casi di colpa determinati non tanto da errori nel trattamento della malattia, quanto da stanchezza, fatica, stress e urgenza dovuti alle contingenze (ad es. una dimenticanza, una prescrizione affrettata, un controllo superficiale e così via). Ebbene, ove venisse confermato il metro sin qui fatto proprio dalla giurisprudenza, tutte queste ipotesi verrebbero classificate in termini di negligenza o imprudenza, con conseguente inapplicabilità del regime di responsabilità di favore.
Sotto tutt’altro profilo, poi, non va tralasciato il valore simbolico che avrebbe l’introduzione dello “scudo” ad hoc invocato espressamente dai professionisti sanitari, rispetto ad una “silenziosa” – e, allo stato, ancora incerta – valorizzazione di un orientamento giurisprudenziale. Da questo punto di vista, è evidente come una risposta sul piano legislativo avrebbe ben altro impatto sulla potenziale «medicina difensiva dell’emergenza», tranquillizzando i sanitari circa la loro futura “incolumità” giudiziaria[25]. Senza considerare, poi, la diversa efficacia “deterrente” dispiegata dalle due diverse impostazioni in relazione all’apertura di indagini: è chiaro che una nuova normativa avrebbe la capacità di prevenire non solo condanne e processi, comunque improbabili, ma anche la stessa presentazione di denunce, perlomeno nella maggior parte dei casi.
Occorre, allora, prendere in considerazione le proposte sin qui avanzate, con la premessa che, non essendo semplice ricostruire la “pioggia” di emendamenti riversatasi sul decreto “Cura Italia”[26], nonché quali di essi verranno effettivamente discussi e quali, invece, ritirati, conviene ragionare più per direttrici e tematiche generali.
Per prima cosa, pare di poter rilevare come lo stile compilativo degli emendamenti sia particolarmente macchinoso. In quasi tutti i casi, all’interno degli stessi commi vengono intrecciate problematiche differenti – responsabilità penali e civili, eccezioni all’obbligo di rivalsa, responsabilità dei professionisti e delle strutture, ecc. – dando vita, ancora una volta, a testi di legge di non semplice lettura. Da questo punto di vista, gli insuccessi delle riforme “Balduzzi” e “Gelli-Bianco”, anche a confronto con la rinascita dell’art. 2236 c.c., norma caratterizzata da un testo conciso ma efficace, dovrebbero invece aver lasciato maggiore consapevolezza della necessità di testi di legge non troppo articolati.
Un primo punto da mettere a fuoco sembra relativo all’estensione temporale del regime di favore cui si intende dar vita. Non sembra da scartare a priori, infatti, l’ipotesi di una norma che resti in vigore anche una volta cessata l’emergenza: si tratterebbe, in definitiva, di dare finalmente attuazione al disegno complessivo della legge “Gelli-Bianco”, per ora naufragato per via di un’imperizia compilativa. Come prevedibile, invece, gli emendamenti si concentrano su una norma che abbia efficacia soltanto per il periodo dell’emergenza. In questa prospettiva, tuttavia, potrebbe essere opportuno redigere un testo di legge che non sia troppo aderente alle peculiarità della situazione contingente, ma che possa anche costituire un punto di partenza per il futuro ripensamento della responsabilità colposa in ambito sanitario[27].
Circoscrivere la disciplina al periodo dell’emergenza, del resto, non appare nemmeno così semplice. Ne è la prova il fatto che gli emendamenti indicano come momento iniziale della fase d’emergenza provvedimenti diversi del Consiglio dei Ministri[28]. Allo stesso tempo, non sarà probabilmente nemmeno agevole individuare la fine dell’emergenza se è vero, come sembra, che con l’epidemia bisognerà fare i conti ancora a lungo e la condizione emergenziale cesserà in modo graduale.
L’estensione oggettiva e soggettiva dello statuto di responsabilità differenziato presenta diversi aspetti controversi. Tra le proposte è balenata anche quella di un’esenzione tout court da responsabilità penali, una sorta di “amnistia” generalizzata per tutte le condotte realizzate in relazione al Covid-19[29]. Questa soluzione, che appare inopportuna per diverse ragioni, è stata osteggiata anche dagli stessi professionisti sanitari[30], poiché avrebbe offerto uno scudo inscalfibile anche alle figure dirigenziali, esteso persino ai casi in cui una loro colpa organizzativa ha determinato il contagio degli stessi operatori. Insomma, dietro alla retorica “degli eroi” si cela una moratoria di responsabilità “politico-organizzative”.
Peraltro, oltre ad equiparare medici e area manageriale, la proposta di una protezione totale da responsabilità colpose mette sullo stesso piano diverse realtà del Paese, garantendo l’immunità anche a possibili condotte gravemente colpose eventualmente maturate in contesti appena sfiorati dal “virus”: uno scenario che pare eccessivo.
Nessuno degli emendamenti chiarisce se la limitazione della responsabilità penale si riferisca esclusivamente ai sanitari che hanno direttamente avuto a che fare con il Covid-19 o possa estendersi anche a prestazioni mediche di altro genere. Non va trascurato, infatti, che molte strutture hanno completamente riorganizzato anche altri reparti, per fare spazio ai malati della pandemia o trasferendo parte del personale per impiegarlo per fronteggiare l’emergenza. È evidente come questi riassetti potrebbero aver influito anche sulla qualità dell’assistenza prestata ad altri malati per altre patologie e potrebbero talvolta giustificare un trattamento simile a quello riservato ai sanitari direttamente impegnati con l’epidemia.
Alla luce di tutti questi interrogativi, la soluzione che pare più ragionevole è quella, già espressa in dottrina[31], di prevedere una generalizzata limitazione della responsabilità penale alla colpa grave, non circoscritta alla sola imperizia ma estesa a negligenza ed imprudenza, e arricchita di una definizione che imponga di tenere conto, nella valutazione del grado della colpa, dei fattori organizzativo-contestuali[32] (il numero di pazienti contemporaneamente coinvolti, gli standard organizzativi della singola struttura in rapporto alla gestione dello specifico rischio emergenziale, l’eventuale eterogeneità della prestazione rispetto alla specializzazione del singolo operatore, il livello di pressione e/o urgenza, anche in relazione alla diffusione della pandemia nella specifica area geografica)[33].
La selezione del grado della colpa penalmente rilevante è un collaudato strumento, anche a livello internazionale, di riduzione del rischio penale dei sanitari[34]. Allo stesso tempo, però, non lascia completamente sprovvista di tutela penale la vita e la salute dei pazienti, come invece accade nel sistema “no fault”, peraltro in via di dismissione nei principali ordinamenti anglo-americani che lo avevano adottato[35].
Più complesso appare invece annettere nella definizione un riferimento a linee guida o prassi consolidate relative alla gestione dell’epidemia (v. anche supra, § 2), come è stato invece proposto[36]. Oltre ai noti problemi “epistemologici” dell’utilizzo delle linee guida nei giudizi penali, che sono alla base del fallimento acclarato delle riforme del 2012 e del 2017[37], il loro impiego ne solleverebbe di nuovi: a quali raccomandazioni affidarsi (solo quelle del sito SNLG o anche quelle, per ipotesi, elaborate dalle singole strutture)? che fare qualora si verifichi un rapido avvicendamento tra più testi in continuo aggiornamento?
Lo stato di incertezza scientifica, come si è visto, è tale per cui pare fuori luogo fare riferimento a linee guida nel testo di legge. Peraltro, in un momento di ricerca di soluzioni nuove e originali, l’invito a rifugiarsi nel poco esistente sembra ancor meno opportuno.
Diversamente, linee guida o altri testi codificati potrebbero essere valorizzati in chiave accusatoria – quindi, senza trovare alcun accesso nella normativa – per ravvisare una grave colpa nella condotta di chi, in sfregio ai protocolli per prevenire la diffusione del virus – sui quali, in effetti, parrebbe esservi maggiore consenso dopo diversi mesi di epidemia –abbia cagionato il contagio di una o più persone[38].
Accanto al tema della colpa professionale, la diffusione dell’epidemia impone al penalista di riflettere anche su altri interrogativi relativi alla responsabilità penale degli operatori sanitari impegnati a fronteggiare l’emergenza, taluni battuti anche di recente, come quello delle cure palliative, altri, che invece si ritenevano confinati nei manuali tra gli “esempi di scuola”, relativi alla “scelta tragica” rispetto a quali pazienti garantire l’accesso alle cure in condizioni di risorse sanitarie limitate[39].
Sotto il primo profilo, sembra potersi affermare senza riserve la liceità di terapie del dolore praticate da sanitari su pazienti terminali, anche laddove esse vengano effettuate a domicilio[40]. Sul punto è possibile affidarsi, data la loro grande chiarezza, alle parole della legge n. 219/2017, che prevede all’art. 2, comma 1, che «il medico, avvalendosi di mezzi appropriati allo stato del paziente, deve adoperarsi per alleviarne le sofferenze, anche in caso di rifiuto o di revoca del consenso al trattamento sanitario indicato dal medico. A tal fine, è sempre garantita un’appropriata terapia del dolore, con il coinvolgimento del medico di medicina generale e l’erogazione delle cure palliative (…)»; e al comma 2, che «in presenza di sofferenze refrattarie ai trattamenti sanitari, il medico può ricorrere alla sedazione palliativa profonda continua in associazione con la terapia del dolore, con il consenso del paziente»[41].
Il discorso si fa più articolato con riferimento al secondo problema.
Come noto, una parte consistente di soggetti con diagnosi di infezione da Covid-19 richiede un supporto ventilatorio a causa di una polmonite interstiziale caratterizzata da ipossemia severa[42]. Pertanto, i principali sforzi riorganizzativi ed economici sono stati funzionali all’aumento dei posti disponibili in “terapia intensiva”. Ciò nonostante, da quanto si apprende dai media, la diffusione dell’epidemia ha dischiuso, specie nelle aree geografiche più colpite, il drammatico scenario nel quale viene a gravare sugli stessi operatori sanitari la tragica decisione su quali pazienti includere o escludere dal ricovero, dall’accesso alla terapia intensiva o alla ventilazione: in sostanza, la scelta di chi curare e chi no.
Si tratta di questioni dolorosissime, rispetto alle quali anche il giurista rimane completamente «nudo di certezze»[43]. Come evidente, esse meriterebbero ben altro studio e si intende qui offrire solo alcune coordinate essenziali, peraltro sempre nella prospettiva di non dilatare il rischio penale dei sanitari coinvolti nell’emergenza.
Gli scenari da prendere in considerazione paiono essenzialmente due.
Il primo è quello del c.d. «triage in emergenza pandemica»[44]. I casi di due o più malati di Covid-19 arrivano contestualmente o quasi al triage del pronto soccorso dedicato all’emergenza[45]. È rimasto, tuttavia, un solo supporto ventilatorio disponibile, del quale tutti i nuovi pazienti avrebbero immediata necessità. Gli operatori sanitari sono dunque chiamati a stabilire come impiegare l’unica risorsa a disposizione, negando inevitabilmente la terapia necessaria ai pazienti non scelti.
Il secondo scenario è simile – uno o più malati hanno bisogno di essere collegati con urgenza al respiratore –, ma non ve n’è nemmeno uno disponibile. In questo caso, assistere uno o più dei nuovi malati significa “staccare” dal dispositivo pazienti già collegati, magari anziani o con poche chances di sopravvivenza.
Dall’esterno, l’impressione è che tali situazioni, laddove siano effettivamente emerse, siano state sin qui gestite secondo una logica di “Recthsfreier Raum”, una sorta di silenzioso “spazio libero dal diritto” nel quale l’attività e le scelte sono state regolate dal “buon senso” dei singoli operatori sanitari.
Tradizionalmente, simili frangenti sono stati affrontati all’interno del capitolo sui “conflitti di dovere” e lo stato di necessità ex art. 54 c.p.[46]; non a caso, l’esimente che più di ogni altra si avvicina all’idea di contesti liberi dall’intervento giuridico.
In entrambi i casi, infatti, sul sanitario vengono drammaticamente a gravare più doveri, tassativi ma incompatibili: nel primo scenario, curare tutti i malati che hanno bisogno dello stesso ventilatore per sopravvivere; nel secondo caso, salvare i nuovi pazienti e non uccidere i pazienti già ricoverati e tenuti in vita dal supporto ventilatorio.
Con riguardo al caso del «triage in emergenza pandemica», va segnalato un recente e autorevole parere del Comitato Nazionale per la Bioetica, che ha elaborato alcune indicazioni di massima circa il criterio da utilizzare in questa tragica scelta[47].
Inizialmente, viene premesso che: «il Comitato ritiene che nell’allocazione delle risorse si debbano rispettare i principi di giustizia, equità e solidarietà, per offrire a tutte le persone eguali opportunità di raggiungere il massimo potenziale di salute consentito. E ritiene che sia doveroso mettere in atto tutte le strategie possibili, anche di carattere economico organizzativo, per far sì che sia garantita l’universalità delle cure».
Viene poi proposto che a orientare la scelta del sanitario «in una situazione, come quella attuale, di grave carenza di risorse» sia il criterio clinico, in quanto «il più adeguato punto di riferimento per l’allocazione delle risorse medesime: ogni altro criterio di selezione, quale ad esempio l’età anagrafica, il sesso, la condizione e il ruolo sociale, l’appartenenza etnica, la disabilità, la responsabilità rispetto a comportamenti che hanno indotto la patologia, i costi, è ritenuto dal Comitato eticamente inaccettabile».
Il CNB chiarisce che «con appropriatezza clinica si intende la valutazione medica dell’efficacia del trattamento rispetto al bisogno clinico di ogni singolo paziente, con riferimento alla gravità del manifestarsi della patologia e alla possibilità prognostica di guarigione».
Un’altra nozione ampiamente valorizzata dal Comitato nel parere è quella di «attualità», anch’essa una bussola fondamentale per calibrare la condotta da adottare e che, per certi versi, può anche riecheggiare uno dei principali elementi dello stato di necessità: l’attualità, appunto, del pericolo.
Si tratta di argomentazioni assolutamente condivisibili. Proiettandole su un piano penalistico, sembrerebbe potersi ritenere irrilevante la condotta del sanitario che si attenga ai criteri dell’appropriatezza clinica e della stretta attualità nella tragica scelta del paziente al quale garantire l’accesso in terapia intensiva[48]. Del resto, non è difficile cogliere l’inesigibilità, tanto oggettiva quanto soggettiva, di condotte alternative. Al contempo, il criterio della priorità di arrivo al pronto soccorso pare del tutto inadatto rispetto alle descritte modalità di funzionamento del «triage in emergenza pandemica», fondate anche su un costante monitoraggio “casalingo” dei pazienti.
Il secondo scenario possibile pare ancora più drammatico, proprio perché, come segnalato, uno dei doveri confliggenti potrebbe consistere nel dovere di “non uccidere” i malati già tenuti in vita dal ventilatore.
Con riguardo a questi frangenti, nella teorica del conflitto di doveri si è solitamente accordata prevalenza al divieto di uccidere, nella sua dimensione di “Abwehrrecht”, rispetto al dovere “sociale” di soccorso. La vita, in altre parole, sarebbe un bene che non può mai essere sottoposto ad un bilanciamento, nemmeno nell’ambito della “scriminante” più “amorale” o “immorale” dell’ordinamento, lo stato di necessità[49].
Ciò è certamente condivisibile. Tuttavia, non deve tramutarsi nella aprioristica rinuncia a prestare le cure a determinate categorie più fragili[50], come anziani o malati affetti da comorbilità, preservando le risorse per il successivo prevedibile arrivo di pazienti “migliori” dal punto di vista dell’appropriatezza clinica.
Pragmaticamente, dunque, conviene ammettere – se non la liceità, almeno – la non punibilità di talune condotte, da valutare però secondo gli stringenti requisiti dello stato di necessità e, in particolare, dell’attualità del pericolo. In particolare, sembra doversi richiedere da un lato, l’immediato pericolo di vita del paziente che subentra nella fruizione del sostegno respiratorio, e dall’altro, la pressoché certa impossibilità di sopravvivenza del soggetto che viene “staccato” dal respiratore, di modo che la scelta non sia tra due vite umane, ma tra il salvarne una o nessuna[51].
[1] Federazione nazionale degli Ordini dei Medici Chirurghi e Odontoiatri. Il testo integrale della lettera è pubblicato su portale.fnomceo.it. Alla segnalazione della FNOMCeO ha fatto eco, a stretto giro di posta, anche l’accorato appello della FNOPI, Federazione nazionale degli ordini professioni infermieristiche, peraltro le categorie più colpite dal contagio (secondo alcune stime circa l’80% dei sanitari contagiati).
[2] Si vedano in proposito le esortazioni pubbliche del 2 aprile da parte del Consiglio Nazionale Forense agli organismi distrettuali a vigilare sulle predette condotte degli iscritti.
[3] Espressione utilizzata dal Presidente Anelli nella lettera aperta al CNF, che fa probabilmente riferimento alla carenza di dispositivi di protezione (guanti, mascherine, ecc.).
[4] Per un quadro aggiornato della situazione si rimanda ai numerosi approfondimenti presenti sul sito quotidianosanità.it.
[5] In un recente saggio sull’argomento (v. G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione dell’errore medico. Tra riforme “incompiute”, aperture giurisprudenziali e nuovi orizzonti per la colpa grave, in DPC-Riv. Trim., 2019, 1 ss.) si è provato a raccogliere buona parte della bibliografia in argomento dagli anni ’70 ad aggi, ottenendo un risultato pressoché “monografico”. La bibliografia, in fondo al saggio, occupa ben 13 pagine.
[6] Sull’incompatibilità tra i due modelli, O. Di Giovine, Colpa penale, “Legge Balduzzi” e “Disegno di Legge Gelli-Bianco”: il matrimonio impossibile tra diritto penale e gestione del rischio clinico, in CP, 2017, 386 ss.
[7] A norma del quale, nei casi di omicidio e lesioni personali colpose: «qualora l’evento si sia verificato a causa di imperizia, la punibilità è esclusa quando sono rispettate le raccomandazioni previste dalle linee guida come definite e pubblicate ai sensi di legge ovvero, in mancanza di queste, le buone pratiche clinico-assistenziali, sempre che le raccomandazioni previste dalle predette linee guida risultino adeguate alle specificità del caso concreto».
[8] Le espressioni richiamate nel testo sono della prima sentenza che si è occupata dell’esegesi della norma. Cfr. Cass. pen., Sez. IV, 20 aprile 2017, n. 28187, (rel. Blaiotta e Montagni, ric. Tarabori).
[9] Cfr. Cass. pen., Sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474 (rel. Vessichelli, ric. Mariotti), in RIML, 2018, con nota di M. Caputo, 345 ss.; nonché in www.penalecontemporaneo.it, 9 aprile 2018, con commento di G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, 25 ss.
[10] Peraltro, l’apprezzabile sforzo ermeneutico delle Sezioni unite non ha fatto “evaporare” alcune criticità interpretative che, fin dai primi commenti, la dottrina aveva segnalato affliggere l’art. 590-sexies c.p.; ed anzi, sotto alcuni profili, ha contribuito ad incrementare le probabilità di possibili disorientamenti. Per tutti, C. Cupelli, L’anamorfosi dell’art. 590-sexies c.p. L’interpretazione ‘costituzionalmente conforme’ e i problemi irrisolti dell’imperizia medica dopo le Sezioni unite, in RIDPP, 2019, 1969 ss.; G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione, cit., 19 ss.
[11] Tanto che sino ad oggi si registra un solo caso di applicazione da parte del Tribunale di Parma. V. M.L. Mattheudakis, Colpa medica e legge Gelli-Bianco: una prima applicazione giurisprudenziale dell’art. 590-sexies, co.2, c.p., in www.penalecontempraneo.it, 9 aprile 2019.
[12] Per un approfondimento di questa labile distinzione tra errore esecutivo nel rispetto della linea guida ed errore nella scelta della stessa, G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione, cit., 22 ss.
[13] In questo senso, con la consueta chiarezza, già C. Cupelli, Emergenza COVID-19: dalla punizione degli “irresponsabili” alla tutela degli operatori sanitari, in www.sistemapenale.it, 30 marzo 2020.
[14] Non a caso, la prima individuazione del virus nel focolaio lombardo è avvenuta trasgredendo le linee guida. V. Coronavirus, l’anestesista di Codogno che ha intuito la diagnosi di Mattia: “Ho pensato all’impossibile”, in www.larepubblica.it, 6 marzo 2020.
[15] V. www.snlg.iss.it
[16] Ad es. Sassari, si indaga per epidemia colposa, su www.ansa.it, 24 marzo 2020.
[17] Per un approfondimento, sia consentito il rinvio a G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione, cit., 3 ss.
[18] L’ideatore e principale sostenitore di questo filone giurisprudenziale è il magistrato di Cassazione Dott. Rocco Blaiotta, già Presidente della quarta Sezione. Si veda, ad esempio, Cass. Pen., Sez. IV, 1/2/2012, n. 4391 (Imp. D.L.M., Rel. Blaiotta), in DPP, 2012, 1104 ss.
[19] In dottrina, M. Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, Torino, 2017. Si veda anche la posizione emersa in seno all’Associazione italiana professori di diritto penale e riassunta in M. Caputo, D. Pulitanò, S. Seminara, La responsabilità per colpa degli esercenti la professione sanitaria, in www.aipdp.it
[20] Cfr. G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, La Cassazione e il grado della colpa penale del sanitario dopo la riforma “Gelli-Bianco”, DPP, 2017, 1377: «Si ritiene, inoltre, che a rendere il caso di “speciale difficoltà” potrebbero concorrere anche le condizioni ambientali” nelle quali il sanitario ha operato: può ben darsi, ad esempio, che un intervento del tutto routinario risulti complesso in forza della particolare urgenza con cui viene svolto o, caso più frequente di quanto non si creda, in ragione di carenze organizzative o strutturali».
[21] Cfr. Cfr. Cass. pen., Sez. un., 31 marzo 2016, n. 22474, cit., § 10.1. Corsivo di chi scrive.
[22] Sulla c.d. misura soggettiva della colpa, per tutti, D. Castronuovo, La colpa penale, Milano, 2009; S. Canestrari, La doppia misura della colpa nella struttura del reato colposo, IP, 2012, 21 ss.
[23] Per un maggiore approfondimento di tali passaggi, nonché per gli opportuni riferimenti bibliografici, M. Caputo, Colpa penale del medico e sicurezza delle cure, cit., 213 ss.
[24] In argomento, ex multis, A. Massaro, L’art. 590-sexies c.p., la colpa per imperizia del medico e la camicia di Nesso dell’art. 2236 c.c., in AP, 2017, 1 ss. Per una lettura sterilizzante dell’imperizia come “negligenza ed imprudenza qualificate”, G.M. Caletti, M.L. Mattheudakis, La fisionomia dell’art. 590-sexies c.p. dopo le Sezioni unite tra “nuovi” spazi di graduazione dell’imperizia e “antiche” incertezze, in www.penalecontemporaneo.it, 2018, fasc. 4, 25 ss.
[25] Cfr. C. Cupelli, Emergenza COVID-19, cit.
[26] Disegno di legge AS 1766: conversione in legge del decreto 17 marzo 2020, n. 18.
[27] In questo senso già C. Cupelli, Emergenza COVID-19, cit.
[28] L’emendamento del Sen. Marcucci (1.0.4.), ad esempio, indica la delibera del 31 gennaio, mentre l’emendamento a firma del Sen. Mallegni (13.2) fa riferimento alla delibera del 23 febbraio.
[29] In questa direzione ad esempio l’emendamento a firma del Sen. Salvini (1.1.).
[30] V. ad esempio, La beffa dello scudo ai medici che protegge i loro “capi” dalle cause per i ritardi sul virus, www.ilsole24ore.com, 4 aprile 2020.
[31] C. Cupelli, Emergenza COVID-19, cit.
[32] L’idea di una valorizzazione del fattore organizzativo all’interno della definizione di colpa grave era stata già prospettata nel progetto del “Centro Studi Federico Stella”. Cfr. G. Forti, M. Catino, F. D’Alessandro, C. Mazzucato, G. Varraso, Il problema della medicina difensiva, Pisa, 2010.
[33] L’emendamento che sembra maggiormente avvicinarsi a questa impostazione è quello a firma della Sen. Bernini (13.2). Per certi versi, seppure con le specificazioni che seguono nel testo, anche quello del Sen. Marcucci (1.0.4.).
[34] Cfr. G.M. Caletti, Il percorso di depenalizzazione, cit., 26 ss.
[35] C. Scorretti, Le linee guida nella medicina moderna e nella recente normativa italiana, in G.M. Caletti, I. Cavicchi, C. Scorretti, L. Ventre, P. Ziviz, Responsabilità e linee guida. Riflessioni sull’uso delle linee guida nella valutazione della colpa dei sanitari. Commenti alle novità legislative, Udine, 2017, 23 ss.
[36] V. emendamento del Sen. Marcucci (1.0.4.).
[37] Per osservazioni in merito, I. Cavicchi, Linee guida e buone pratiche. Limiti, aporie, presagi, in G.M. Caletti, I. Cavicchi, C. Scorretti, L. Ventre, P. Ziviz, Responsabilità e linee guida, cit., 103 ss.
[38] In questa prospettiva, peraltro, si concorda con chi estenderebbe il criterio di imputazione della colpa grave anche alla fattispecie di epidemia colposa. C. Cupelli, Emergenza COVID-19, cit.
[39] Sul tema, già S. Canestrari, Le scelte tragiche nell’ambito dell’attività medico-chirurgica, in Bioetica e diritto penale, Torino, 2012, 200 ss; G.M. Caletti, Stato di necessità terapeutica. Paradossi, finzioni e nuove ipotesi applicative, in Biodiritto, 2013, 23 ss.
[40] I quotidiani hanno ripreso la notizia per cui in Francia è stata autorizzata la somministrazione del farmaco Ritrovil, anche a domicilio, su pazienti terminali da Covid-19. La polemica seguitane ha permesso di chiarire che si tratta di una cura palliativa e non di una vera e propria eutanasia. V. La Francia estende l’uso del Rivotril per i malati terminali di coronavirus: «per una morte senza sofferenza», Corriere.it, 9 aprile.
[41] Per un commento “a tutto tondo” della «buona legge buona» del 2017, S. Canestrari, I fondamenti del biodiritto penale e la legge 22 dicembre 2017, n. 219, in RIDPP, 2018, 55 ss. L’importanza delle cure palliative si è potuta apprezzare anche in relazione alla travagliata vicenda giudiziaria di Marco Cappato, relativa al suicidio assistito di Fabiano Antoniani (Dj Fabo). In argomento, ancora S. Canestrari, Una sentenza “inevitabilmente infelice”: la “riforma” dell’art. 580 c.p. da parte della Corte costituzionale, in RIDPP, 2019, 2159 ss.
[42] In proposito le “Raccomandazioni di etica clinica per l’ammissione a trattamenti intensivi e per la loro sospensione in condizioni eccezionali di squilibrio tra necessità e risorse disponibili”, pubblicate dalla SIAARTI (Società Italiana di Anestesia, Anelgesia, Rianimazione e Terapia Intensiva) il 6 marzo 2020.
[43] Espressione utilizzata dal noto magistrato Elvio Fassone in relazione ad un caso di sciopero della fame da parte di alcuni detenuti affiliati alle “Brigate Rosse”, rispetto ai quali era stata invocata l’applicazione dello stato di necessità. Cfr. E. Fassone, Sciopero della fame, autodeterminazione e libertà personale, in Quest. Giust., 1982, p. 335.
[44] Per utilizzare la terminologia adottata dal Comitato Nazionale per la Bioetica in un recentissimo documento sull’argomento. Cfr. CNB, Covid-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, in www.bioetica.governo.it, 9 aprile 2020. La redazione del parere è stata coordinata dai Proff.: Stefano Canestrari, Carlo Casonato, Antonio Da Re, Lorenzo d’Avack, Assunta Morresi, Laura Palazzani, Luca Savarino.
[45] Lo scenario non è condizionato dall’arrivo fisico presso il triage, posto che, per evitare contagi, si è diffusa la prassi di monitorare prima telefonicamente la situazione di nuovi pazienti con i sintomi dell’infezione. Nel documento del CNB appena citato, la peculiarità del triage in condizioni di pandemia è stata riassunta come segue: «Rispetto al triage usuale, nel triage in emergenza pandemica si considerano diversamente i pazienti: in questo insieme sono inclusi, oltre a quelli che sono “fisicamente presenti”, coloro che sono stati valutati e osservati da un punto di vista clinico, delle cui condizioni critiche si è già consapevoli. Infatti, in una situazione di emergenza come quella pandemica che ha investito il nostro territorio, ad aver bisogno di trattamenti sanitari salvavita non sono solo i pazienti fisicamente presenti nei locali del pronto soccorso ma anche quelli ricoverati e non ancora sottoposti al sostegno vitale della ventilazione assistita – dai supporti meno invasivi al trasferimento in terapia intensiva – così come i pazienti, già valutati clinicamente a domicilio, che si sono aggravati improvvisamente. Rispetto al triage in tempi normali, il triage in emergenza pandemica inserisce la valutazione individuale del paziente nella prospettiva più ampia della “comunità dei pazienti”».
[46] Riferimento obbligato in argomento è il lavoro monografico di F. Viganò, Stato di necessità e conflitto di doveri. Contributo alla teoria delle cause di giustificazione e delle scusanti, Milano, 2000.
[47] Cfr. CNB, Covid-19: La decisione clinica in condizioni di carenza di risorse e il criterio del “triage in emergenza pandemica”, cit. I corsivi contenuti nelle successive citazioni testuali sono di chi scrive.
[48] Potrebbe rimanere aperta la problematica di un possibile “eccesso colposo” qualora vengano valutati in modo non corretto i menzionati criteri. In argomento, rimane discutibile se possano trovare applicazione le eventuali restrizioni del grado della colpa affrontate nei paragrafi che precedono.
[49] Per una ricognizione su questa ed altre posizioni, nonché per i riferimenti bibliografici sul dibattito, sia consentito rinviare a G.M. Caletti, Stato di necessità terapeutica, cit. 56 e 57.
[50] In generale, sui rischi di abbandono terapeutico si vedano anche le importanti osservazioni del citato documento del CNB.
[51] Cfr.; G.M. Caletti, Stato di necessità terapeutica, cit. 53 ss.
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