Il presente articolo ha lo scopo di illustrare gli illeciti penali disciplinati dalle norme per il contenimento del contagio da coronavirus, per soffermarsi sulla rilevanza penale delle condotte di coloro che non si attengano ai precetti imposti e sui reati che potrebbero configurarsi. Qualche cenno anche sulle norme emanate per i detenuti.
This article aims to illustrate the criminal offences introduced by the rules for containment of coronavirus, and then focusing on the criminal relevance of the conduct of those who do not abide by the precepts imposed and what crimes could arise and on the rules adopte for detainees.
Sommario: 1. Le norme adottate dal Governo ed il loro contenuto – 2. La rilevanza penale delle condotte di coloro che non osservano le prescrizioni imposte con il Decreti emanati dal Governo per fronteggiare l’emergenza COVID-19: le fattispecie di reato e le sanzioni irrogabili – 3. Il COVID–19: i detenuti e le nuove misure adottate con il d.l. 18/2020– 4. Riflessioni conclusive.
- Le norme adottate dal Governo ed il loro contenuto
Senza alcun preavviso ci siamo ritrovati catapultati in una situazione emergenziale che ha imposto una legiferazione di emergenza che non ha precedenti nella storia della Repubblica Italiana.
Gli strumenti attraverso i quali il Governo ha legiferato sono: a) i Decreti legge n. 6/2020 e n. 14/2020, che individuano le misure di contenimento e di gestione della situazione emergenziale attraverso l’indicazione delle limitazioni a cui devono sottostare tutti i cittadini sull’intero territorio italiano; b) i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, attraverso i quali è stata data attuazione alle misure di contenimento indicate nell’art. 1 del d.l. 6/2020 e, ai sensi dell’art. 2 del decreto stesso, sono state introdotte nuove misure contenitive a seconda dell’evolversi e dell’aggravarsi della situazione epidemiologica.
Le misure di contenimento, indicate all’art. 1 del d.l. 6/2020, imposte dal Governo, incidono in maniera rilevante sui diritti costituzionalmente garantiti di ogni singolo cittadino quali la libertà di circolazione, di soggiorno e di espatrio (art. 16), di riunione (art. 17), di esercizio dei culti religiosi (art. 19), di insegnamento (art. 33), di garanzia e obbligo di istruzione (art. 34), di impresa (art. 41).
Le misure di contenimento, esplicitamente indicate nel decreto legge, introdotte e imposte con i vari DPCM, nello specifico sono:
- a) divieto di allontanamento dal comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti nel comune o nell’area;
- b) divieto di accesso al comune o all’area interessata;
- c) sospensione di manifestazioni o iniziative di qualsiasi natura, di eventi e di ogni forma di riunione in luogo pubblico o privato, anche di carattere culturale, ludico, sportivo e religioso, anche se svolti in luoghi chiusi aperti al pubblico;
- d) sospensione dei servizi educativi dell’infanzia e delle scuole di ogni ordine e grado, nonché della frequenza delle attività scolastiche e di formazione superiore, compresa quella universitaria, salvo le attività formative svolte a distanza;
- e) sospensione dei servizi di apertura al pubblico dei musei e degli altri istituti e luoghi della cultura di cui all’articolo 101 del codice dei beni culturali e del paesaggio, di cui al decreto legislativo 22 gennaio 2004, n. 42, nonché dell’efficacia delle disposizioni regolamentari sull’accesso libero o gratuito a tali istituti e luoghi;
- f) sospensione dei viaggi d’istruzione organizzati dalle istituzioni scolastiche del sistema nazionale d’istruzione, sia sul territorio nazionale sia all’estero, trovando applicazione la disposizione di cui all’articolo 41, comma 4, del decreto legislativo 23 maggio 2011, n. 79;
- g) sospensione delle procedure concorsuali per l’assunzione di personale;
- h) applicazione della misura della quarantena con sorveglianza attiva agli individui che hanno avuto contatti stretti con casi confermati di malattia infettiva diffusiva;
- i) previsione dell’obbligo da parte degli individui che hanno fatto ingresso in Italia da zone a rischio epidemiologico, come identificate dall’Organizzazione mondiale della sanità, di comunicare tale circostanza al Dipartimento di prevenzione dell’azienda sanitaria competente per territorio, che provvede a comunicarlo all’autorità sanitaria competente per l’adozione della misura di permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva;
- j) chiusura di tutte le attività commerciali, esclusi gli esercizi commerciali per l’acquisto dei beni di prima necessità;
- k) chiusura o limitazione dell’attività degli uffici pubblici, degli esercenti attività di pubblica utilità e servizi pubblici essenziali di cui agli articoli 1 e 2 della legge 12 giugno 1990, n. 146, specificamente individuati;
- l) previsione che l’accesso ai servizi pubblici essenziali e agli esercizi commerciali per l’acquisto di beni di prima necessità sia condizionato all’utilizzo di dispositivi di protezione individuale o all’adozione di particolari misure di cautela individuate dall’autorità competente;
- m) limitazione all’accesso o sospensione dei servizi del trasporto di merci e di persone terrestre, aereo, ferroviario, marittimo e nelle acque interne, su rete nazionale, nonché’ di trasporto pubblico locale, anche non di linea, salvo specifiche deroghe previste dai provvedimenti di cui all’articolo 3;
- n) sospensione delle attività lavorative per le imprese, a esclusione di quelle che erogano servizi essenziali e di pubblica utilità e di quelle che possono essere svolte in modalità domiciliare;
- o) sospensione o limitazione dello svolgimento delle attività lavorative nel comune o nell’area interessata nonché’ delle attività lavorative degli abitanti di detti comuni o aree svolte al di fuori del comune o dall’area indicata, salvo specifiche deroghe, anche in ordine ai presupposti, ai limiti e alle modalità di svolgimento del lavoro agile, previste dai provvedimenti di cui all’articolo 3.
Al DPCM però è rimessa non solo l’attuazione dei precetti contenuti ed elencati nel decreto legge ma, come anticipato, ai sensi dell’art. 2 dello stesso decreto n. 6/2020, è demandata anche la possibilità di attuare misure diverse e, non indicate nei decreti leggi, necessarie per contenere la diffusione del virus, in ragione dell’evolversi della situazione epidemiologica.
In merito a queste ultime fattispecie di restrizioni indeterminate si deve brevemente sottolineare che sono sorti non pochi dubbi circa la tenuta costituzionale.
Infatti, anche se lo stato di eccezione, nel nostro sistema costituzionale, giustifica delle deroghe non consente che ciò avvenga indiscriminatamente, perché la tenuta dello Stato di diritto, anche di fronte all’emergenza, richiede limiti e controlli al potere del Governo di incidere restrittivamente su diritti e libertà fondamentali[1]
Infatti, sarebbe quanto meno lecito dubitare della compatibilità dell’art. 2 d.l. 6/2020 con la riserva di legge che la Costituzione prevede quale condizione e garanzia per limitare l’esercizio di libertà fondamentali, come quelle di cui all’art. 16.
Se le limitazioni ai diritti dei singoli cittadini sono individuate dai DPCM che non si limitano a dare semplice attuazione al Decreto Legge, la riserva di legge è sostanzialmente elusa.
Dall’altro lato si può comunque ritenere che, poiché nella fonte primaria, anche se in modo generico e con un alto tasso di indeterminatezza, queste misure di contenimento sono previste e, poiché siamo in una situazione di emergenza sanitaria, tali limitazioni sono state adottate a tempo determinato, fino “a cessate esigenze”, non si può parlare di elusione alla riserva di legge.
A queste misure di contenimento se ne sono aggiunte e se ne aggiungeranno altre ed è proprio su queste che sorgono i maggior dubbi di costituzionalità.
Infatti, ai sensi dell’art. 3 comma 2 del D.L. 6/2020, possono essere adottate, anche se nelle more di attuazione dei decreti legge in questione, ordinanze da parte del Ministero della Salute, dei Presidenti di Regione e dei Sindaci, potere confermato anche dall’art. 5 comma 4 del DPCM dell’8 marzo 2020 che fa “salvo il potere di ordinanza delle Regioni”, così come all’art. 3 comma 3 del decreto legge 6/2020 si legge “fatti salvi gli effetti delle ordinanze contingibili e urgenti emessa dal ministero della salute”.
Con le ordinanze emesse dai Presidenti delle Regioni e, per quanto di competenza, dai Sindaci dei Comuni interessati, con le quali si impongono prescrizioni limitative della libertà di circolazione, quali ad esempio l’obbligo della permanenza domiciliare con isolamento fiduciario per 14 giorni per tutti quei soggetti che dalle zone rosse hanno fatto rientro al Sud, oppure quelle che hanno imposto il divieto di viaggi e spostamenti, una limitazione al trasporto, e potrebbero trovare la loro legittimazione nella fonte primaria che le sorregge.
I problemi sulla tenuta costituzionale di queste specifiche ordinanze però sorgono e non possono trovare legittimazione nel decreto che le sorregge allorquando prevedono limitazioni o restrizioni maggiori e più stringenti rispetto a quelle indicate dal Governo.
- La rilevanza penale delle condotte di coloro che non osservano le prescrizioni imposte con i Decreti emanati dal Governo per fronteggiare l’emergenza COVID-19 e con le ordinanze dei Presidenti di Regione, Sindaci e Ministero della Sanità: le fattispecie di reato e le sanzioni irrogabili.
All’art. 3, comma 4, del DL 6/2020, convertito senza modifiche con la L.13/2020, e con le aggiunte inserite con il D.L. 14/2020 è sancito che “salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale.”
“Il mancato rispetto delle misure di contenimento” configura, pertanto, una autonoma condotta penalmente rilevante, i cosiddetti “illeciti penali ad hoc”[2] e, qualora un cittadino non si attenga alle limitazioni imposte con questi specifici strumenti legislativi incorrerà nella sanzione prevista dall’art. 650 c.p..
Il richiamo effettuato nel decreto legge all’art. 650 c.p. è solo ai fini sanzionatori, stabilendo per relationem la forbice edittale della pena da irrogare – arresto fino a tre mesi e ammenda fino a 206 Euro – e non ai fini contenutistici, trattandosi di una condotta definita e stabilita, sia nelle forme tipiche che atipiche, dai Decreti legge e dai DPCM attuativi.
Il richiamo all’art. 650 c.p. inoltre assegna natura contravvenzionale all’illecito penale che sarà quindi punibile anche a titolo di colpa, nonostante la volontarietà insita nel mancato rispetto delle misure di contenimento e, poiché tali illeciti si sostanziano nella inosservanza delle misure restrittive e limitative, essi potranno essere sia a condotta commissiva che omissiva, a seconda della misura di contenimento violata.
Si deve inoltre evidenziare che, vista la molteplicità e varietà delle misure di contenimento, il mancato rispetto di ciascuna di esse non potrà configurare un illecito penale che si potrà rilevare solo per il mancato rispetto di quelle che hanno carattere personale e cioè:
- l’elusione del divieto di allontanamento dal Comune o dall’area interessata da parte di tutti gli individui comunque presenti nel Comune o nell’area, in assenza di comprovati motivi di lavoro, salute o situazioni di necessità;
- l’elusione della misura di quarantena con sorveglianza attiva applicata dall’autorità sanitaria a carico di quanti hanno avuto contatti stretti con persone affette dal COVID-19;
- la violazione dell’obbligo di autodenuncia alla ASL competente previsto per legge a carico di chi abbia fatto ingresso da zone a rischio epidemiologico per la adozione della misura della permanenza domiciliare fiduciaria con sorveglianza attiva;
- la violazione dell’obbligo di chiusura delle attività commerciali.
Altro aspetto da analizzare è il mancato rispetto delle misure di contenimento imposte con le ordinanze dei Presidenti delle Regioni, Sindaci o Ministero della Sanità.
In questi casi specifici non potrà trovare applicazione l’art. 3, comma 4, del D. l. 6/2020, poiché questa prevede la sanzione solo per il mancato rispetto delle misure di contenimento stabilite con i decreti e con i DPCM.
Nel caso di violazione dei divieti o di inosservanza delle prescrizioni introdotte con le singole ordinanze si configurerà, anche in questo caso, un illecito penale rientrante nella più generale fattispecie di inosservanza di un provvedimento dell’autorità (650 c.p.).
Ed è in relazione a tale aspetto che la legittimità costituzionale delle ordinanze di cui si discute assurge a questione di rilevante importanza.
Infatti, l’art. 650 c.p. è una norma penale in bianco a carattere sussidiario, applicabile solo quando il fatto non sia previsto come reato da una specifica disposizione ovvero allorché il provvedimento dell’autorità rimasto inosservato sia munito di un proprio, specifico meccanismo di tutela, trovando quindi applicazione solo quando l’inosservanza del provvedimento dell’autorità non sia sanzionata da alcuna norma, penale o processuale o amministrativa[3].
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 650 c.p. è necessario che:
- a) l’inosservanza riguardi un ordine specifico impartito ad un soggetto determinato, in occasione di eventi o circostanze tali da far ritenere necessario che proprio quel soggetto ponga in essere una certa condotta; e ciò per ragioni di sicurezza o di ordine pubblico, o di igiene o di giustizia, come avvenuto nel caso delle ordinanze aventi natura contingente ed emesse per ragioni di sanità pubblica;
- b) l’inosservanza attenga ad un provvedimento adottato in relazione a situazioni non prefigurate da alcuna previsione normativa che comporti una specifica ed autonoma sanzione;
- c) il provvedimento emesso per ragioni di giustizia, di sicurezza, di ordine pubblico, di igiene, sia adottato nell’interesse della collettività e non di privati individui[4].
Ciò posto, atteso il principio di sussidiarietà sancito dall’art. 650 c.p., il reato non è configurabile quando l’inosservanza riguardi ordinanze applicative di leggi e regolamenti comunali assoggettati ad uno specifico meccanismo di tutela amministrativa, che si pone in rapporto di specialità rispetto a quella assicurata dall’art. 650 c.p.
Il perimetro di applicazione dell’art. 650 c.p., dunque, si riduce sostanzialmente a quello delle ordinanze contingibili ed urgenti emanate dal Sindaco, dai Presidenti di Regione e dal Ministero della Salute, quali ufficiali di Governo, in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini.
La giurisprudenza, a tal proposito, ha avuto modo di affermare che: “l’inosservanza di ordinanze sindacali integra la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p. soltanto ove l’inottemperanza si riferisca a provvedimenti contingibili ed urgenti, adottati con riguardo a situazioni non prefigurate da alcuna specifica ipotesi normativa, nel mentre resta estranea alla sfera di applicazione della norma in parola l’inottemperanza a ordinanze sindacali volte a dare applicazione a leggi o regolamenti vigenti, posto che l’omissione, in tal caso, viene punita con la sanzione amministrativa da specifiche norme del settore”[5].
Quindi, in definitiva, la fattispecie di reato configurabile per tutti coloro che violano le disposizioni dei Sindaci, dei Presidenti di Regione o del Ministero della Sanità, poiché si tratta di ordinanze dotate del carattere della contingenza e dell’urgenza, sono state emesse per ragioni di sanità e sono rivolte alla collettività e non al singolo utente, è l’art. 650 c.p. avendo i soggetti violato provvedimenti legalmente dati dall’Autorità.
In entrambi i casi – mancato rispetto delle misure di contenimento ex art. 3, comma 4, D. L. 6/2020 e inosservanza di un provvedimento emesso dall’Autorità ex art. 650 c.p.- la violazione ha ad oggetto un illecito penale e di conseguenza la sanzione da irrogare non può essere decisa, né determinata, né applicata direttamente dalle forze dell’ordine.
I pubblici ufficiali che hanno notizia di un qualunque reato, infatti, la trasmettono alla Procura della Repubblica che iscrive un procedimento a carico del presunto responsabile; la sanzione sarà poi determinata da un giudice al termine di un processo, insieme alla eventuale condanna.
Per tutte le condotte punite ai sensi dell’art. 650 c.p., è probabile che i tribunali ricorrano al decreto penale di condanna: una sanzione pecuniaria irrogata dal giudice per le indagini preliminari su proposta del pubblico ministero che, se non opposta, diventa esecutiva.
Trattandosi poi di reati contravvenzionali puniti con pena alternativa (detentiva o pecuniaria) e per cui prevista la possibilità di accedere all’oblazione (di natura facoltativa), l’imputato potrà opporsi al decreto penale chiedendo l’oblazione che, qualora concessa, consentirà di estinguere il reato con il pagamento di una somma uguale alla metà del massimo della pena, ovvero 103 euro.
Diverso discorso invece per le violazioni delle disposizioni relative alle attività, commerciali e no.
In questo specifico caso, ai sensi dell’art. 15 del D.L 14/2020, che ha integrato il comma 4 dell’art. 3 d.l. 6/2020[6], si è in presenza di una sanzione amministrativa.
Il mancato rispetto degli orari e delle distanze, così come il mancato rispetto del divieto di assembramento, da parte degli esercenti attività commerciali, può implicare la sanzione amministrativa della chiusura dell’attività stessa per un periodo da 5 a 30 giorni.
Questa sanzione potrà essere applicata dal Prefetto in base ad una procedura amministrativa accelerata prevista nei casi di urgenza, che può essere emessa anche senza contraddittorio.
Il provvedimento potrà poi essere impugnato avanti al Tribunale ordinario.
In questo caso non si è di fronte ad una sanzione penale ma ad una sanzione amministrativa che potrà però concorrere con il nuovo illecito penale previsto dall’art 3, comma 4, d.l. 6/2020 e, in quest’ultimo caso, la cognizione spetterà al Giudice penale anche per la sanzione amministrativa.
Vi sono poi altri possibili reati nei quali i cittadini potrebbero incorrere nell’eludere i divieti e le prescrizioni imposte con i provvedimenti emanati dal Governo e dalle autorità preposte alla regolamentazione della situazione di emergenza sanitaria.
Come ben noto, non si incorrerà nell’elusione del divieto di allontanamento dal Comune o dall’area interessata, da parte di tutti gli individui comunque presenti nel Comune o nell’area, in tutti quei casi in cui vi siano comprovati motivi di lavoro, salute o situazioni di necessità che giustifichino lo spostamento.
A seguito di una direttiva del Ministero dell’Interno adottata l’8 marzo 2020 – Direttiva Ministro dell’Interno n. 15350/117 Uff III-Prot.Civ – per l’attuazione dei controlli nelle aree a contenimento rafforzato, estesa successivamente a tutto il territorio nazionale, è stato previsto che gli spostamenti sono leciti se giustificati attraverso l’autodichiarazione in caso di controllo.
Ora l’autocertificazione, benché atto privato, se rilasciata a un pubblico ufficiale, funziona come un atto pubblico.
Sulla natura di atto pubblico dell’autocertificazione la giurisprudenza ha più volte affermato che al soggetto autore di una falsa dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente applicabili le sanzioni previste dall’art. 483 c.p.[7].
Il presupposto per l’applicazione della norma de qua è che la dichiarazione sostitutiva sia destinata a provare la verità dei fatti oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale, vale a dire che esista l’obbligo del privato di attestare il vero in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici effetti all’atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente»[8].
Quindi secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di dichiarazioni mendaci[9], nel caso in cui la falsa attestazione del dichiarante abbia ad oggetto “fatti” dei quali l’atto è destinato a provare la verità, il reato che si configura è quello di «falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico” previsto appunto dall’art. 483 c.p. che punisce con la reclusione fino a due anni “chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
Nel caso in cui, invece, la falsa attestazione riguardi le “qualità personali” del dichiarante, si ritiene solitamente che ricorra il più grave reato di «falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri» previsto dall’art. 495 c.p.
La norma citata punisce con la reclusione da uno a sei anni “chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona”.
Alla luce del citato orientamento giurisprudenziale, è possibile ritenere che gli autori delle accertate dichiarazioni mendaci sui motivi addotti per superare il divieto di spostamento sul territorio, potranno essere puniti con la pena prevista dall’art. 483 c.p.
Si deve però evidenziare che, nella nozione di qualità personali, cui fa riferimento il primo comma dell’art. 495 c.p., secondo un recentissimo orientamento giurisprudenziale[10], la Suprema Corte ha affermato che vi rientrano sia le qualità primarie, concernenti l’identità e lo stato civile delle persone, sia le altre qualità che pure contribuiscono ad identificare le persone, quali, ad esempio, la professione, l’ufficio pubblico ricoperto e simili.
Se si dovesse aderire a questo ultimo orientamento giurisprudenziale, la conseguenza sarebbe che in tutti quei casi in cui il soggetto che violi il divieto di spostamento assumendo falsamente di essere costretto a muoversi sul territorio per esigenze lavorative connesse ad una professione che di fatto non esercitata, questi potrebbe essere punito con la pena prevista per il più grave reato di cui all’art. 495 c.p., peraltro, richiamato dallo stesso modulo per l’autocertificazione predisposto dal Ministero dell’Interno.
In questo caso il soggetto oltre a rispondere del reato di falsa dichiarazione dovrà, a titolo di concorso, rispondere anche del reato contravvenzionale di mancata osservanza della misura contenitiva.
Un altro profilo da affrontare, sicuramente quello più spinoso, è quello della astratta configurabilità di fattispecie a tutela della salute pubblica e, nello specifico, della fattispecie di epidemia, come noto configurabile sia nella forma dolosa (art. 438 c.p.) che colposa (art. 452 c.p.).
L’analisi della fattispecie dell’art. 438 c.p., alla luce del principio di stretta legalità, non mira ad una astratta tutela della salute ma, poiché la norma fa espressa menzione della “epidemia”, richiede innanzi tutto la diffusione di una malattia.
L’evento tipico della fattispecie prevista dall’art. 438 c.p. consiste nella espansione di una malattia su larga scala[11], attraverso una condotta tipica consistente nella diffusione di germi patogeni.
Tale diffusione deve raggiungere un livello tale “da aggredire in uno stesso contesto di tempo un numero rilevante di persone con carattere di straordinarietàʺ[12].
La fattispecie di epidemia risulta dunque integrata mediante richiamo della nozione di malattia, la cui definizione è demandata, come dottrina e giurisprudenza ritengono pacificamente, alla letteratura medico-legale.
L’epidemia si caratterizza poi per l’elemento della estesa diffusività.
Sul fronte giurisprudenziale, la concezione della malattia in senso funzionalistico è stata confermata dalle Sezioni Unite, che nella nota sentenza del 18 dicembre 2008, n. 2437, hanno definito la malattia appunto come «processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo».
Di conseguenza «le mere alterazioni anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della persona non possono integrare la nozione di “malattia”»[13].
Nel concludere per la configurabilità o meno della fattispecie di epidemia e del danno al bene giuridico protetto dall’art. 438 c.p., la salute pubblica[14], sarà necessario verificare se il soggetto abbia intenzionalmente voluto diffondere il virus e se la diffusone sia stata idonea a causare una epidemia.
Infatti, anche se il delitto di epidemia fa parte dei delitti di comune pericolo, esso viene considerato dalla dottrina quale reato di danno concreto per la salute pubblica[15], che si sostanzia nell’avvenuto contagio di un numero indeterminato di persone; venendo in rilievo la dimensione di reato di pericolo solo rispetto all’ulteriore capacità espansiva e diffusiva dell’epidemia medesima[16].
Quindi il pericolo, che deve essere considerato come concreto, va valutato nella sola prospettiva di un evento ulteriore, rispetto al danno che, a sua volta, rappresenta la fonte di possibili danni ulteriori, solo a carico di chi non sia ancora colpito dalla malattia.
Ma deve essere chiaro che il fatto epidemico, dunque il danno diffuso, rappresenta la base necessaria per l’accertamento della fattispecie[17].
Anche la giurisprudenza stabilisce che l’epidemia si caratterizza per un evento di danno, che deriva dalla condotta tipica e produce il detto, ulteriore evento di pericolo. Il reato si perfeziona nel caso in cui “la diffusione di germi patogeni abbia provocato lo sviluppo, in un certo numero di persone, di una malattia infettiva (danno), la quale presenti la capacità di propagarsi (pericolo) verso una cerchia indeterminata di persone, senza un’ulteriore attività dell’agente”[18].
A tal proposito va chiarita la possibilità di poter configurare la fattispecie di epidemia, prevista dall’art. 438 c.p., anche dal punto di vista del tentativo.
Nel caso di mancato accertamento delle reali condizioni di salute del soggetto e di conseguenza dello status di contagiato o di portatore del virus, si deve escludere il configurarsi dell’evento di danno consistente nell’avvenuto contagio con efficacia di ulteriore propagazione.
Ma si deve escludere, in questo caso specifico, altresì la stessa idoneità e univocità della condotta, e dunque la conseguente potenzialità lesiva della stessa in termini il pericolo concreto.
Dal punto di vista soggettivo andrebbe poi accertato il dolo della fattispecie.
È evidente quindi che questo illecito penale potrebbe essere contestato, qualora ricorrano tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie, solo nei confronti di quei soggetti per i quali è stata diagnosticata la malattia e che siano capaci di infettare un gran numero di persone.
In conclusione potrebbero incorrere nel reato di epidemia dolosa solo quei soggetti che sapendo di essere affetti dal virus e sottoposti alla misura sanitaria della “quarantena” eludano tale obbligo lasciando il proprio domicilio e tutti coloro che, avendo avuto contatti con soggetti affetti da virus siano anch’essi sottoposti alla misura della “quarantena” con sorveglianza attiva e all’insorgere della sintomatologia della malattia, anziché contattare il proprio medico curante, si rechino senza alcun presidio medico di protezione al pronto soccorso.
Solo in questi due specifici casi e solo nel caso in cui si verifichi l’evento di danno del contagio e non sia accertato l’elemento soggettivo del dolo e ricorrano gli elementi costitutivi della colpa potrebbe configurarsi la fattispecie colposa ex art. 452 c.p..
Infine, nel caso specifico del soggetto che avendo avuto contatti con soggetti affetti da virus sia sottoposto alla misura della “quarantena” con sorveglianza attiva e all’insorgere della sintomatologia della malattia, violando la prescrizione, si rechi al pronto soccorso, per la contestazione delle ipotesi delittuose in commento dovrà sempre prima accertarsi la presenza della malattia, la volontarietà della condotta e il verificarsi dell’evento di danno del contagio perché nel caso non si verifichino tali condizioni questi risponderà solo del reato contravvenzionale di cui all’art. 3, comma 4, D.L 6/2020 ed all’art. 650 c.p.
- Il COVID–19: i detenuti e le nuove misure adottate con il d.l. 18/2020
Nonostante il fervido proliferare di provvedimenti normativi da parte del Governo[19], si è dovuto attendere sino al 17 marzo 2020 perché si adottassero norme “volte ad alleggerire quella concentrazione e, al contempo, ad attenuare il cronico problema di sovraffollamento degli istituti”[20].
Aveva destato infatti particolare preoccupazione il fatto che la condizione dei detenuti facesse capolino[21], nella moltitudine dei provvedimenti normativi, soltanto col D.P.C.M. del 25 febbraio e solo per raccomandare che i nuovi ingressi in istituto non fossero occasione di contagio[22].
Dall’analisi delle norme che hanno riguardato la popolazione degli istituti di pena si può arrivare alla conclusione che, fino all’emanazione degli artt. 123 e 124 del D.L. 18/2020, le misure adottate per il contenimento del contagio da COVID-19 negli istituti penitenziari siano state dettate da una ratio basata sul massimo rigore, comportando una maggiore limitazione dei diritti dei detenuti.
Infatti, con il d. l. 9/2020 del 2 marzo il Governo era intervenuto sulla situazione dei detenuti, disponendo, nell’art. 10, comma 14, la sospensione dei colloqui tra i detenuti e i propri familiari imponendone lo svolgimento “a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria”, ovvero “sostituendo” tale diritto con la possibilità di ottenere l’aumento del numero delle telefonate consentite.
Sospensione del diritto ai colloqui estesa, con il d.l. n. 11/2020, art. 2, comma 8, a tutti gli istituti di pena – prima ancora che l’intero paese divenisse “zona rossa” – ignorando, tra l’altro, la facoltà di deroga che era stata inserita con il D.P.C.M. 8 marzo 2020 che conteneva la previsione secondo cui “in casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri”
Ma ulteriori restrizioni per i detenuti sono state disposte dal Governo con il d.l. n. 11/2020.
Con l’art. 2, comma 8 sono state emanate le raccomandazioni di “limitare i permessi e la libertà vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri”.
Al comma 9 dello stesso art. 2 è stata inserita la disposizione che prevede che la magistratura di sorveglianza possa sospendere la concessione dei permessi premio e della semilibertà “tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria”.
In questo quadro generale, nonostante le precarie condizioni nelle carceri ove un numero elevatissimo di persone, di molto superiore ai limiti della capienza degli istituti – in 189 istituti penitenziari che hanno una capienza di 50.931 detenuti, ve ne sono stipati ben 61.230[23] – vive in condizioni di promiscuità e in condizioni sanitarie precarie, nessun provvedimento mirato a diminuire la popolazione detenuta, al fine di scongiurare un possibile contagio tra i detenuti, era stato assunto sino ad ora, nonostante gli strumenti in possesso degli operatori del diritto per far fronte, in maniera adeguata e celere, a questa emergenza, applicando le norme ordinarie in via d’urgenza.
Era ed è fuor di dubbio che un contagio all’interno degli istituti di pena si trasformerebbe in una incontrollabile pandemia dalla quale i detenuti, insieme ai loro bambini, non avrebbero mezzo alcuno per difendersi, perché l’ambiente carcere non può essere considerato al riparo dal rischio di epidemia solo perché si sono sospese le uscite di chi gode dei benefici della semilibertà o i colloqui con i familiari e i permessi premio
Per questa ragione con il d.l. 18/2020 il Governo ha cercato di mettere in atto degli interventi legislativi mirati a diminuire la popolazione dei detenuti, attraverso la concessione della detenzione domiciliare, avendo compreso che l’unico modo per evitare il diffondersi di una vera e propria pandemia è ridurre sensibilmente la popolazione all’interno delle carceri.
Ed è proprio questa la ratio sottesa agli art. 123 e 124 del d.l. 18/2020 che hanno introdotto, il primo, la possibilità di richiedere la detenzione domiciliare, fino al 30 giugno 2020, per tutti i detenuti che devono scontare una pena, o un residuo di pena, fino a 18 mesi; e il secondo, la concessione a tutti i detenuti che sono in regime di semilibertà, ai sensi dell’art. 48 l.354/75, di licenze premio di 45 giorni per consentire loro di non far rientro all’interno degli istituti penitenziari.
Per la concessione della detenzione domiciliare il Governo ha riadattato, all’attuale situazione emergenziale, lo strumento di deflazione per il sovraffollamento degli istituti penitenziari utilizzato nel 2010.
Il legislatore ha ritenuto possibile recuperare il modello operativo già sperimentato con la legge 26 novembre 2010, n. 199, che prevedeva la possibilità di eseguire le pene detentive di durata non superiore ai dodici mesi in luoghi esterni al carcere.
Molteplici sono le differenze tra quanto previsto nell’art. 123 d.l. 18/2020 e quanto prevedeva la l. 199/2010.
Secondo quanto disposto dall’art. 123 del d.l. 18/2020 infatti, la detenzione potrà essere concessa a tutti detenuti in espiazione, con pena residua pari a mesi 18 (nel 2010 la pena doveva essere non superiore a 12 mesi, poi portata a 18 mesi dal d.l. 211/2011), su loro richiesta o su richiesta della direzione degli istituti penitenziari e sarà concessa, inaudita altera parte, direttamente dal Magistrato di Sorveglianza mentre, per tutti i soggetti non detenuti, sarà richiesta direttamente dalla Procura competente.
Di questo beneficio non potranno usufruire i detenuti condannati per uno dei reati rientranti nelle ipotesi di cui all’art. 4 bis l. 354/75 e coloro che sono stati condannati per i reati di cui agli art. 572 e/o 612 bis c.p. e coloro che hanno partecipato ai disordini e alle sommosse avvenuti nei giorni scorsi all’interno degli istituti di pena e coloro.
Sono stati eliminati invece, quali elementi preclusivi alla concessione del beneficio la sussistenza o meno di elementi idonei ad escludere il pericolo di fuga o di reiterazione del reato.
La maggiore novità contenuta nell’art. 123 è che la concessione della detenzione domiciliare sarà però subordinata alla disponibilità del braccialetto elettronico.
All’art. 123 si affianca l’art. 124 che prevede la concessione, a tutti i detenuti che già godono del beneficio della semilibertà, di permessi premio, nella loro massima estensione pari a 45 giorni, così da consentire agli stessi di rientrare presso i loro domicili evitando in tal modo di fare rientro all’interno delle strutture penitenziare.
Tutte le misure saranno concesse fino alla data del 30 giugno 2020.
- Riflessioni conclusive.
La gravità e l’emergenza della situazione che stiamo vivendo e che ci troviamo ad affrontare è palpabile e si respira ogni giorno nell’aria e quello che manca è il senso del dovere e il rispetto per gli altri.
I presidi del diritto penale messi a salvaguardia delle misure di contenimento imposte, prescritte o raccomandate con i provvedimenti normativi emanati, sono deboli e non hanno alcuna forza dissuasiva per il neo contravventore, come, purtroppo, dimostrato dai dati forniti dal Viminale.
Secondo tali dati alla data del 16 marzo sono state controllate dalle forze dell’ordine 172.720 persone e ne sono state denunciate 7.890 ai sensi dell’articolo 650 del codice penale e 229 ai sensi degli articoli 495 e 496 del codice penale mentre gli esercizi commerciali controllati sono stati 97.551 e sono stati denunciati 217 titolari di esercizi commerciali per la violazione di cui all’art. 650 c.p. e 22 per la violazione dell’art. 15 d. l. 14/2020.
È evidente quindi che, tranne nelle ipotesi in cui si possa contestare un reato più grave quale l’epidemia dolosa o colposa (non di facile accertamento come abbiamo visto nella disamina delle varie ipotesi delittuose) non sarà certo lo “spauracchio” di una contravvenzione oblabile a dissuadere chi non vuole rispettare le misure di contenimento.
In una situazione emergenziale quale quella che stiamo affrontando, avendo il legislatore previsto delle autonome e nuove forme di illecito penale, forse, per ottenerne un maggiore rispetto, avrebbe dovuto prevedere una sanzione più rigida e non utilizzare invece come riferimento sanzionatorio quello ordinario previsto per reati contravvenzionali.
Forse avrebbe avuto una maggiore forza deterrente una sanzione amministrava che prevedesse una elevata e sostanziosa sanzione pecuniaria.
Per quanto attiene alle misure adottate per i detenuti queste sono state “l’ennesima” dimostrazione della poca importanza che viene data alla funzione rieducativa della pena e, purtroppo, quei pochi provvedimenti adottati si inseriscono nel solco dei provvedimenti emanati sino a ieri da questo Governo in materia di giustizia.
È noto a chiunque che all’interno delle carceri non ci sono spazi a sufficienza neanche per rispettare il metro di distanza tra le persone, così come previsto dalle misure di contenimento imposte con i decreti legge e i decreti del Presidente del Consiglio, che non è possibile avere contatti con il mondo esterno perché tutte le attività sono sospese, compreso l’accesso degli educatori e dei volontari.
È oltremodo evidente che se non si adottano misure ancora più incisive al fine di ridurre la popolazione detenuta all’interno delle carceri, si continueranno a calpestare i diritti degli ultimi anche durante una grave e ingravescente situazione di emergenza sanitaria.
È fuor di dubbio, infatti, che l’unico modo per contenere il contagio all’interno degli istituti di pena ed evitare una vera e propria pandemia tra i detenuti è ridurre, il più possibile, il sovraffollamento, in modo che migliorino le condizioni igienico sanitarie, aumentino i metri quadri di spazio vitale disponibile per ciascun detenuto, che attualmente è inferiore ai tre metri quadri, quando invece per una civile abitazione (escluso i servizi e il mobilio) deve essere almeno pari a sei metri quadri.
Solo diminuendo sensibilmente il numero dei detenuti all’interno delle carceri si potrà sperare di consentire ai detenuti che devono restare negli istituti di mantenere quella distanza di un metro dal proprio compagno di cella e di poter metter in atto tutte le misure idonee a contenere un contagio.
Il nuovo decreto, con gli art. 123 e 124, cautamente e timidamente, ha aperto un piccolo varco per ridurre la popolazione carceraria al fine di risolvere il problema del sovraffollamento, ma le misure adottate sono deboli e insufficienti per consentire una vera riduzione delle persone all’interno degli istituti di pena, perché di difficile attuazione e limitate ad un numero esiguo di detenuti.
Infatti, l’avere condizionato la concessione della detenzione domiciliare all’effettiva disponibilità del braccialetto elettronico avrà, come conseguenza, non essendo disponibili gli strumenti elettronici e non avendo previsto un loro incremento, che il numero dei detenuti che lasceranno gli istituti di pena sarà esiguo e il problema non avrà, neanche questa volta, trovato soluzione.
Così come aver inserito la preclusione della concessione della detenzione domiciliare a tutti i condannati, indistintamente, per tutti i reati ricompresi nell’art. 4 bis l. 354/75 o il non aver previsto la possibilità di concedere la misura alternativa d’ufficio, anziché su istanza di parte, ed averla ancorata al potere discrezionale del singolo magistrato di sorveglianza, ha reso lo misura deflattiva prevista “tamquam non esset”.
Quello che è certo, è che, nonostante il d.l. 18/2020, si dovrà intervenire in modo più incisivo nel “mondo carcere” proprio per contemperare le esigenze di salvaguardia della sicurezza pubblica con la sicurezza della salute dei detenuti e, pertanto, concedere loro le misure alternative al carcere e utilizzare la misura della custodia cautelare intramuraria solo come estrema ratio privilegiando la misura degli arresti domiciliari, al fine di bilanciare tutti gli interessi in gioco che sono di pari importanza.
Ecco perché sarebbe stato necessario non condizionare la concessione della detenzione domiciliare alla disponibilità dei braccialetti elettronici e adottare altre e ulteriori misure oltre a quelle previste dagli artt. 123 e 124 d.l. 18/2020 per riportare la presenza di detenuti all’interno delle carceri ad un numero accettabile; ad esempio attraverso la concessione delle misure alternative quale l’affidamento in prova, concedibili anche in via d’urgenza ex art. 47, comma 4 ord. pen., il differimento pena per tutti i soggetti affetti da gravi patologie, la concessione a tutti i condannati, e non solo a quelli ammessi al beneficio della semilibertà ex art. 48 ord. pen. ma anche a coloro che sono ammessi al lavoro all’esterno ex art. 21 ord. pen., della facoltà di non rientrare negli istituti di pena ma di far rientro nelle proprie abitazioni con le forme della detenzione domiciliare, prevedere una liberazione anticipata speciale, e in ultima istanza anche poter considerare la possibilità di un indulto.
È ora di abbandonare il populismo giudiziario e di agire, perché è arrivato il momento di ridare dignità a chi sta espiando una pena, perché la pena ha un unico senso possibile, che è quello della rieducazione
La pena è anche “riabilitazione e speranza nel riscatto attraverso la costante ricerca, anche faticosa, di percorsi di reinserimento”[24].
[1] V. Baldini, Lo stato costituzionale di diritto all’epoca del coronavirus, in dirittifondamentali.it, 10 marzo 2020; Poteri normativi del governo e libertà di circolazione al tempo del COVID-19 F. Clementi, Quando l’emergenza restringe le libertà meglio un decreto legge che un Dpcm, Il Sole24Ore, 13 marzo 2020.
[2] Aldo Natalini, In fuga dal Virus: cosa rischia chi viola la “zona rossa”, Guida al Diritto, il Sole 24 Ore, 2020, 14/21.
[3] Cass., Sez. I, n. 44126 del 19/04/2016, Azzarone, Rv. 268288; Cass., Sez. I, n. 2653 del 29/11/1999, Parlà, Rv. 215373; Cass., Sez. I, n. 1711 del 07/12/1999, Di Maggio, Rv. 215341.
[4] Cass., Sez. I, n. 26527 del 12/01/2016, Santarelli, non massimata.
[5] Cass., Sez. I, n. 26527 del 12/01/2016.
[6] Art. 3, comma 4 D. L. 6/2020, conv. con l. 13/2020: “Salva l’applicazione delle sanzioni penali ove il fatto costituisca reato, la violazione degli obblighi imposte dalle misure di cui al comma 1 a carico di gestori di pubblici esercizi o di attività commerciali è sanzionata altresì con la chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni. La violazione è accertata ai sensi della Legge 24 novembre 1981, n. 689, e la sanzione è irrogata dal Prefetto”.
[7] Cass. Sez. V, n. 20570 del 10/05/2006, Esposito; Cass., Sez. V, n. 21209 del 25/05/2006, Bartolazzi; Cass., Sez. V, n. 48681 del 06/06/2014, Sola.
[8] Cass., Sez. V, n. 18279 del 02/04/2014, Scalici; Cass., Sez. V, n. 39215 del 04/06/2015; Cass., Sez. II, 12 gennaio 2012, n. 4970; sul punto si sono espresse più volte le Sezioni Unite della Suprema Corte, da ultimo Cass., Sez. un., 28 giugno 2007, n. 35488: “Presupposto del delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) è l’esistenza di una specifica norma giuridica che attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di dichiarare il vero: v. Cass., Sez. Un., 31.3.1999, n. 6, Lucarotti e Cass., Sez. Un., 9.3.2000, n. 28, Gabrielli.
[9] cfr. tra le altre Cass., Sez. V, 11/01/2019, n. 4054.
[10] cfr. Cass., Sez. V, 05/03/2019, n. 19695.
[11] Si veda Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Vol. II, Torino, 30; Manzini, Trattato di diritto penale italiano, V ed., Utet, 399.
[12] Cfr., Fiandaca Musco, Diritto penale, parte speciale, 516.
[13] Cass., Sez. V, 19.3.2008; Cass., Sez. IV, 28.20.2004, n. 3448; Cass., Sez. V, 15.10.1998, n. 714.
[14] Trib. Trento, 16 luglio 2004.
[15] Manzini, Trattato di diritto penale, Vol. VI, 396.
[16] Riondato, in Commentario Breve, cit., 972.
[17] Cfr., Stolfi N., Brevi note sule reato di epidemia, in Cass. pen., 2003, 12.
[18] Trib. Trento, 12 luglio 2002.
[19] Nella sezione delle aree tematiche della Gazzetta Ufficiale denominata “Coronavirus” figurano, dal 31 gennaio 2020, ben 12 tra decreti legge, leggi e d.p.c.m. riguardanti le misure urgenti fin qui adottate.
[20] Relazione illustrativa all’art. 123, d.l. 18/2020.
[21] G. M. Pavarin, Giudice, Coranavirus e Carcere, in Giustizia Insieme, 12 marzo 2020
[22] lett. m) dell’art. 1).
[23] Dati assunti dal sito del Ministero della Giustizia, Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio del Capo del Dipartimento – Sezione Statistica “Detenuti presenti e capienza regolamentare degli istituti penitenziari. Situazione al 29 febbraio 2020
[24] G. M. Pavarin, Giudice, cit., Coranavirus e Carcere.
COVID-19: le condotte vietate dalla legge e le sanzioni irrogabili
Il presente articolo ha lo scopo di illustrare gli illeciti penali disciplinati dalle norme per il contenimento del contagio da coronavirus, per soffermarsi sulla rilevanza penale delle condotte di coloro che non si attengano ai precetti imposti e sui reati che potrebbero configurarsi. Qualche cenno anche sulle norme emanate per i detenuti.
This article aims to illustrate the criminal offences introduced by the rules for containment of coronavirus, and then focusing on the criminal relevance of the conduct of those who do not abide by the precepts imposed and what crimes could arise and on the rules adopte for detainees.
Sommario: 1. Le norme adottate dal Governo ed il loro contenuto – 2. La rilevanza penale delle condotte di coloro che non osservano le prescrizioni imposte con il Decreti emanati dal Governo per fronteggiare l’emergenza COVID-19: le fattispecie di reato e le sanzioni irrogabili – 3. Il COVID–19: i detenuti e le nuove misure adottate con il d.l. 18/2020– 4. Riflessioni conclusive.
Senza alcun preavviso ci siamo ritrovati catapultati in una situazione emergenziale che ha imposto una legiferazione di emergenza che non ha precedenti nella storia della Repubblica Italiana.
Gli strumenti attraverso i quali il Governo ha legiferato sono: a) i Decreti legge n. 6/2020 e n. 14/2020, che individuano le misure di contenimento e di gestione della situazione emergenziale attraverso l’indicazione delle limitazioni a cui devono sottostare tutti i cittadini sull’intero territorio italiano; b) i Decreti del Presidente del Consiglio dei Ministri, attraverso i quali è stata data attuazione alle misure di contenimento indicate nell’art. 1 del d.l. 6/2020 e, ai sensi dell’art. 2 del decreto stesso, sono state introdotte nuove misure contenitive a seconda dell’evolversi e dell’aggravarsi della situazione epidemiologica.
Le misure di contenimento, indicate all’art. 1 del d.l. 6/2020, imposte dal Governo, incidono in maniera rilevante sui diritti costituzionalmente garantiti di ogni singolo cittadino quali la libertà di circolazione, di soggiorno e di espatrio (art. 16), di riunione (art. 17), di esercizio dei culti religiosi (art. 19), di insegnamento (art. 33), di garanzia e obbligo di istruzione (art. 34), di impresa (art. 41).
Le misure di contenimento, esplicitamente indicate nel decreto legge, introdotte e imposte con i vari DPCM, nello specifico sono:
Al DPCM però è rimessa non solo l’attuazione dei precetti contenuti ed elencati nel decreto legge ma, come anticipato, ai sensi dell’art. 2 dello stesso decreto n. 6/2020, è demandata anche la possibilità di attuare misure diverse e, non indicate nei decreti leggi, necessarie per contenere la diffusione del virus, in ragione dell’evolversi della situazione epidemiologica.
In merito a queste ultime fattispecie di restrizioni indeterminate si deve brevemente sottolineare che sono sorti non pochi dubbi circa la tenuta costituzionale.
Infatti, anche se lo stato di eccezione, nel nostro sistema costituzionale, giustifica delle deroghe non consente che ciò avvenga indiscriminatamente, perché la tenuta dello Stato di diritto, anche di fronte all’emergenza, richiede limiti e controlli al potere del Governo di incidere restrittivamente su diritti e libertà fondamentali[1]
Infatti, sarebbe quanto meno lecito dubitare della compatibilità dell’art. 2 d.l. 6/2020 con la riserva di legge che la Costituzione prevede quale condizione e garanzia per limitare l’esercizio di libertà fondamentali, come quelle di cui all’art. 16.
Se le limitazioni ai diritti dei singoli cittadini sono individuate dai DPCM che non si limitano a dare semplice attuazione al Decreto Legge, la riserva di legge è sostanzialmente elusa.
Dall’altro lato si può comunque ritenere che, poiché nella fonte primaria, anche se in modo generico e con un alto tasso di indeterminatezza, queste misure di contenimento sono previste e, poiché siamo in una situazione di emergenza sanitaria, tali limitazioni sono state adottate a tempo determinato, fino “a cessate esigenze”, non si può parlare di elusione alla riserva di legge.
A queste misure di contenimento se ne sono aggiunte e se ne aggiungeranno altre ed è proprio su queste che sorgono i maggior dubbi di costituzionalità.
Infatti, ai sensi dell’art. 3 comma 2 del D.L. 6/2020, possono essere adottate, anche se nelle more di attuazione dei decreti legge in questione, ordinanze da parte del Ministero della Salute, dei Presidenti di Regione e dei Sindaci, potere confermato anche dall’art. 5 comma 4 del DPCM dell’8 marzo 2020 che fa “salvo il potere di ordinanza delle Regioni”, così come all’art. 3 comma 3 del decreto legge 6/2020 si legge “fatti salvi gli effetti delle ordinanze contingibili e urgenti emessa dal ministero della salute”.
Con le ordinanze emesse dai Presidenti delle Regioni e, per quanto di competenza, dai Sindaci dei Comuni interessati, con le quali si impongono prescrizioni limitative della libertà di circolazione, quali ad esempio l’obbligo della permanenza domiciliare con isolamento fiduciario per 14 giorni per tutti quei soggetti che dalle zone rosse hanno fatto rientro al Sud, oppure quelle che hanno imposto il divieto di viaggi e spostamenti, una limitazione al trasporto, e potrebbero trovare la loro legittimazione nella fonte primaria che le sorregge.
I problemi sulla tenuta costituzionale di queste specifiche ordinanze però sorgono e non possono trovare legittimazione nel decreto che le sorregge allorquando prevedono limitazioni o restrizioni maggiori e più stringenti rispetto a quelle indicate dal Governo.
All’art. 3, comma 4, del DL 6/2020, convertito senza modifiche con la L.13/2020, e con le aggiunte inserite con il D.L. 14/2020 è sancito che “salvo che il fatto non costituisca più grave reato, il mancato rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è punito ai sensi dell’art. 650 del codice penale.”
“Il mancato rispetto delle misure di contenimento” configura, pertanto, una autonoma condotta penalmente rilevante, i cosiddetti “illeciti penali ad hoc”[2] e, qualora un cittadino non si attenga alle limitazioni imposte con questi specifici strumenti legislativi incorrerà nella sanzione prevista dall’art. 650 c.p..
Il richiamo effettuato nel decreto legge all’art. 650 c.p. è solo ai fini sanzionatori, stabilendo per relationem la forbice edittale della pena da irrogare – arresto fino a tre mesi e ammenda fino a 206 Euro – e non ai fini contenutistici, trattandosi di una condotta definita e stabilita, sia nelle forme tipiche che atipiche, dai Decreti legge e dai DPCM attuativi.
Il richiamo all’art. 650 c.p. inoltre assegna natura contravvenzionale all’illecito penale che sarà quindi punibile anche a titolo di colpa, nonostante la volontarietà insita nel mancato rispetto delle misure di contenimento e, poiché tali illeciti si sostanziano nella inosservanza delle misure restrittive e limitative, essi potranno essere sia a condotta commissiva che omissiva, a seconda della misura di contenimento violata.
Si deve inoltre evidenziare che, vista la molteplicità e varietà delle misure di contenimento, il mancato rispetto di ciascuna di esse non potrà configurare un illecito penale che si potrà rilevare solo per il mancato rispetto di quelle che hanno carattere personale e cioè:
Altro aspetto da analizzare è il mancato rispetto delle misure di contenimento imposte con le ordinanze dei Presidenti delle Regioni, Sindaci o Ministero della Sanità.
In questi casi specifici non potrà trovare applicazione l’art. 3, comma 4, del D. l. 6/2020, poiché questa prevede la sanzione solo per il mancato rispetto delle misure di contenimento stabilite con i decreti e con i DPCM.
Nel caso di violazione dei divieti o di inosservanza delle prescrizioni introdotte con le singole ordinanze si configurerà, anche in questo caso, un illecito penale rientrante nella più generale fattispecie di inosservanza di un provvedimento dell’autorità (650 c.p.).
Ed è in relazione a tale aspetto che la legittimità costituzionale delle ordinanze di cui si discute assurge a questione di rilevante importanza.
Infatti, l’art. 650 c.p. è una norma penale in bianco a carattere sussidiario, applicabile solo quando il fatto non sia previsto come reato da una specifica disposizione ovvero allorché il provvedimento dell’autorità rimasto inosservato sia munito di un proprio, specifico meccanismo di tutela, trovando quindi applicazione solo quando l’inosservanza del provvedimento dell’autorità non sia sanzionata da alcuna norma, penale o processuale o amministrativa[3].
Ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 650 c.p. è necessario che:
Ciò posto, atteso il principio di sussidiarietà sancito dall’art. 650 c.p., il reato non è configurabile quando l’inosservanza riguardi ordinanze applicative di leggi e regolamenti comunali assoggettati ad uno specifico meccanismo di tutela amministrativa, che si pone in rapporto di specialità rispetto a quella assicurata dall’art. 650 c.p.
Il perimetro di applicazione dell’art. 650 c.p., dunque, si riduce sostanzialmente a quello delle ordinanze contingibili ed urgenti emanate dal Sindaco, dai Presidenti di Regione e dal Ministero della Salute, quali ufficiali di Governo, in materia di sanità ed igiene, edilizia e polizia locale al fine di prevenire ed eliminare gravi pericoli che minacciano l’incolumità dei cittadini.
La giurisprudenza, a tal proposito, ha avuto modo di affermare che: “l’inosservanza di ordinanze sindacali integra la contravvenzione di cui all’art. 650 c.p. soltanto ove l’inottemperanza si riferisca a provvedimenti contingibili ed urgenti, adottati con riguardo a situazioni non prefigurate da alcuna specifica ipotesi normativa, nel mentre resta estranea alla sfera di applicazione della norma in parola l’inottemperanza a ordinanze sindacali volte a dare applicazione a leggi o regolamenti vigenti, posto che l’omissione, in tal caso, viene punita con la sanzione amministrativa da specifiche norme del settore”[5].
Quindi, in definitiva, la fattispecie di reato configurabile per tutti coloro che violano le disposizioni dei Sindaci, dei Presidenti di Regione o del Ministero della Sanità, poiché si tratta di ordinanze dotate del carattere della contingenza e dell’urgenza, sono state emesse per ragioni di sanità e sono rivolte alla collettività e non al singolo utente, è l’art. 650 c.p. avendo i soggetti violato provvedimenti legalmente dati dall’Autorità.
In entrambi i casi – mancato rispetto delle misure di contenimento ex art. 3, comma 4, D. L. 6/2020 e inosservanza di un provvedimento emesso dall’Autorità ex art. 650 c.p.- la violazione ha ad oggetto un illecito penale e di conseguenza la sanzione da irrogare non può essere decisa, né determinata, né applicata direttamente dalle forze dell’ordine.
I pubblici ufficiali che hanno notizia di un qualunque reato, infatti, la trasmettono alla Procura della Repubblica che iscrive un procedimento a carico del presunto responsabile; la sanzione sarà poi determinata da un giudice al termine di un processo, insieme alla eventuale condanna.
Per tutte le condotte punite ai sensi dell’art. 650 c.p., è probabile che i tribunali ricorrano al decreto penale di condanna: una sanzione pecuniaria irrogata dal giudice per le indagini preliminari su proposta del pubblico ministero che, se non opposta, diventa esecutiva.
Trattandosi poi di reati contravvenzionali puniti con pena alternativa (detentiva o pecuniaria) e per cui prevista la possibilità di accedere all’oblazione (di natura facoltativa), l’imputato potrà opporsi al decreto penale chiedendo l’oblazione che, qualora concessa, consentirà di estinguere il reato con il pagamento di una somma uguale alla metà del massimo della pena, ovvero 103 euro.
Diverso discorso invece per le violazioni delle disposizioni relative alle attività, commerciali e no.
In questo specifico caso, ai sensi dell’art. 15 del D.L 14/2020, che ha integrato il comma 4 dell’art. 3 d.l. 6/2020[6], si è in presenza di una sanzione amministrativa.
Il mancato rispetto degli orari e delle distanze, così come il mancato rispetto del divieto di assembramento, da parte degli esercenti attività commerciali, può implicare la sanzione amministrativa della chiusura dell’attività stessa per un periodo da 5 a 30 giorni.
Questa sanzione potrà essere applicata dal Prefetto in base ad una procedura amministrativa accelerata prevista nei casi di urgenza, che può essere emessa anche senza contraddittorio.
Il provvedimento potrà poi essere impugnato avanti al Tribunale ordinario.
In questo caso non si è di fronte ad una sanzione penale ma ad una sanzione amministrativa che potrà però concorrere con il nuovo illecito penale previsto dall’art 3, comma 4, d.l. 6/2020 e, in quest’ultimo caso, la cognizione spetterà al Giudice penale anche per la sanzione amministrativa.
Vi sono poi altri possibili reati nei quali i cittadini potrebbero incorrere nell’eludere i divieti e le prescrizioni imposte con i provvedimenti emanati dal Governo e dalle autorità preposte alla regolamentazione della situazione di emergenza sanitaria.
Come ben noto, non si incorrerà nell’elusione del divieto di allontanamento dal Comune o dall’area interessata, da parte di tutti gli individui comunque presenti nel Comune o nell’area, in tutti quei casi in cui vi siano comprovati motivi di lavoro, salute o situazioni di necessità che giustifichino lo spostamento.
A seguito di una direttiva del Ministero dell’Interno adottata l’8 marzo 2020 – Direttiva Ministro dell’Interno n. 15350/117 Uff III-Prot.Civ – per l’attuazione dei controlli nelle aree a contenimento rafforzato, estesa successivamente a tutto il territorio nazionale, è stato previsto che gli spostamenti sono leciti se giustificati attraverso l’autodichiarazione in caso di controllo.
Ora l’autocertificazione, benché atto privato, se rilasciata a un pubblico ufficiale, funziona come un atto pubblico.
Sulla natura di atto pubblico dell’autocertificazione la giurisprudenza ha più volte affermato che al soggetto autore di una falsa dichiarazione sostitutiva di atto di notorietà siano effettivamente applicabili le sanzioni previste dall’art. 483 c.p.[7].
Il presupposto per l’applicazione della norma de qua è che la dichiarazione sostitutiva sia destinata a provare la verità dei fatti oggetto di rappresentazione al pubblico ufficiale, vale a dire che esista l’obbligo del privato di attestare il vero in base a disposizioni di legge che ricolleghino «specifici effetti all’atto-documento nel quale la dichiarazione è inserita dal pubblico ufficiale ricevente»[8].
Quindi secondo il consolidato orientamento giurisprudenziale in materia di dichiarazioni mendaci[9], nel caso in cui la falsa attestazione del dichiarante abbia ad oggetto “fatti” dei quali l’atto è destinato a provare la verità, il reato che si configura è quello di «falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico” previsto appunto dall’art. 483 c.p. che punisce con la reclusione fino a due anni “chiunque attesta falsamente al pubblico ufficiale, in un atto pubblico, fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità”.
Nel caso in cui, invece, la falsa attestazione riguardi le “qualità personali” del dichiarante, si ritiene solitamente che ricorra il più grave reato di «falsa attestazione o dichiarazione a un pubblico ufficiale sulla identità o su qualità personali proprie o di altri» previsto dall’art. 495 c.p.
La norma citata punisce con la reclusione da uno a sei anni “chiunque dichiara o attesta falsamente al pubblico ufficiale l’identità, lo stato o altre qualità della propria o dell’altrui persona”.
Alla luce del citato orientamento giurisprudenziale, è possibile ritenere che gli autori delle accertate dichiarazioni mendaci sui motivi addotti per superare il divieto di spostamento sul territorio, potranno essere puniti con la pena prevista dall’art. 483 c.p.
Si deve però evidenziare che, nella nozione di qualità personali, cui fa riferimento il primo comma dell’art. 495 c.p., secondo un recentissimo orientamento giurisprudenziale[10], la Suprema Corte ha affermato che vi rientrano sia le qualità primarie, concernenti l’identità e lo stato civile delle persone, sia le altre qualità che pure contribuiscono ad identificare le persone, quali, ad esempio, la professione, l’ufficio pubblico ricoperto e simili.
Se si dovesse aderire a questo ultimo orientamento giurisprudenziale, la conseguenza sarebbe che in tutti quei casi in cui il soggetto che violi il divieto di spostamento assumendo falsamente di essere costretto a muoversi sul territorio per esigenze lavorative connesse ad una professione che di fatto non esercitata, questi potrebbe essere punito con la pena prevista per il più grave reato di cui all’art. 495 c.p., peraltro, richiamato dallo stesso modulo per l’autocertificazione predisposto dal Ministero dell’Interno.
In questo caso il soggetto oltre a rispondere del reato di falsa dichiarazione dovrà, a titolo di concorso, rispondere anche del reato contravvenzionale di mancata osservanza della misura contenitiva.
Un altro profilo da affrontare, sicuramente quello più spinoso, è quello della astratta configurabilità di fattispecie a tutela della salute pubblica e, nello specifico, della fattispecie di epidemia, come noto configurabile sia nella forma dolosa (art. 438 c.p.) che colposa (art. 452 c.p.).
L’analisi della fattispecie dell’art. 438 c.p., alla luce del principio di stretta legalità, non mira ad una astratta tutela della salute ma, poiché la norma fa espressa menzione della “epidemia”, richiede innanzi tutto la diffusione di una malattia.
L’evento tipico della fattispecie prevista dall’art. 438 c.p. consiste nella espansione di una malattia su larga scala[11], attraverso una condotta tipica consistente nella diffusione di germi patogeni.
Tale diffusione deve raggiungere un livello tale “da aggredire in uno stesso contesto di tempo un numero rilevante di persone con carattere di straordinarietàʺ[12].
La fattispecie di epidemia risulta dunque integrata mediante richiamo della nozione di malattia, la cui definizione è demandata, come dottrina e giurisprudenza ritengono pacificamente, alla letteratura medico-legale.
L’epidemia si caratterizza poi per l’elemento della estesa diffusività.
Sul fronte giurisprudenziale, la concezione della malattia in senso funzionalistico è stata confermata dalle Sezioni Unite, che nella nota sentenza del 18 dicembre 2008, n. 2437, hanno definito la malattia appunto come «processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno rilevante compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo».
Di conseguenza «le mere alterazioni anatomiche che non interferiscano in alcun modo con il profilo funzionale della persona non possono integrare la nozione di “malattia”»[13].
Nel concludere per la configurabilità o meno della fattispecie di epidemia e del danno al bene giuridico protetto dall’art. 438 c.p., la salute pubblica[14], sarà necessario verificare se il soggetto abbia intenzionalmente voluto diffondere il virus e se la diffusone sia stata idonea a causare una epidemia.
Infatti, anche se il delitto di epidemia fa parte dei delitti di comune pericolo, esso viene considerato dalla dottrina quale reato di danno concreto per la salute pubblica[15], che si sostanzia nell’avvenuto contagio di un numero indeterminato di persone; venendo in rilievo la dimensione di reato di pericolo solo rispetto all’ulteriore capacità espansiva e diffusiva dell’epidemia medesima[16].
Quindi il pericolo, che deve essere considerato come concreto, va valutato nella sola prospettiva di un evento ulteriore, rispetto al danno che, a sua volta, rappresenta la fonte di possibili danni ulteriori, solo a carico di chi non sia ancora colpito dalla malattia.
Ma deve essere chiaro che il fatto epidemico, dunque il danno diffuso, rappresenta la base necessaria per l’accertamento della fattispecie[17].
Anche la giurisprudenza stabilisce che l’epidemia si caratterizza per un evento di danno, che deriva dalla condotta tipica e produce il detto, ulteriore evento di pericolo. Il reato si perfeziona nel caso in cui “la diffusione di germi patogeni abbia provocato lo sviluppo, in un certo numero di persone, di una malattia infettiva (danno), la quale presenti la capacità di propagarsi (pericolo) verso una cerchia indeterminata di persone, senza un’ulteriore attività dell’agente”[18].
A tal proposito va chiarita la possibilità di poter configurare la fattispecie di epidemia, prevista dall’art. 438 c.p., anche dal punto di vista del tentativo.
Nel caso di mancato accertamento delle reali condizioni di salute del soggetto e di conseguenza dello status di contagiato o di portatore del virus, si deve escludere il configurarsi dell’evento di danno consistente nell’avvenuto contagio con efficacia di ulteriore propagazione.
Ma si deve escludere, in questo caso specifico, altresì la stessa idoneità e univocità della condotta, e dunque la conseguente potenzialità lesiva della stessa in termini il pericolo concreto.
Dal punto di vista soggettivo andrebbe poi accertato il dolo della fattispecie.
È evidente quindi che questo illecito penale potrebbe essere contestato, qualora ricorrano tutti gli elementi richiesti dalla fattispecie, solo nei confronti di quei soggetti per i quali è stata diagnosticata la malattia e che siano capaci di infettare un gran numero di persone.
In conclusione potrebbero incorrere nel reato di epidemia dolosa solo quei soggetti che sapendo di essere affetti dal virus e sottoposti alla misura sanitaria della “quarantena” eludano tale obbligo lasciando il proprio domicilio e tutti coloro che, avendo avuto contatti con soggetti affetti da virus siano anch’essi sottoposti alla misura della “quarantena” con sorveglianza attiva e all’insorgere della sintomatologia della malattia, anziché contattare il proprio medico curante, si rechino senza alcun presidio medico di protezione al pronto soccorso.
Solo in questi due specifici casi e solo nel caso in cui si verifichi l’evento di danno del contagio e non sia accertato l’elemento soggettivo del dolo e ricorrano gli elementi costitutivi della colpa potrebbe configurarsi la fattispecie colposa ex art. 452 c.p..
Infine, nel caso specifico del soggetto che avendo avuto contatti con soggetti affetti da virus sia sottoposto alla misura della “quarantena” con sorveglianza attiva e all’insorgere della sintomatologia della malattia, violando la prescrizione, si rechi al pronto soccorso, per la contestazione delle ipotesi delittuose in commento dovrà sempre prima accertarsi la presenza della malattia, la volontarietà della condotta e il verificarsi dell’evento di danno del contagio perché nel caso non si verifichino tali condizioni questi risponderà solo del reato contravvenzionale di cui all’art. 3, comma 4, D.L 6/2020 ed all’art. 650 c.p.
Nonostante il fervido proliferare di provvedimenti normativi da parte del Governo[19], si è dovuto attendere sino al 17 marzo 2020 perché si adottassero norme “volte ad alleggerire quella concentrazione e, al contempo, ad attenuare il cronico problema di sovraffollamento degli istituti”[20].
Aveva destato infatti particolare preoccupazione il fatto che la condizione dei detenuti facesse capolino[21], nella moltitudine dei provvedimenti normativi, soltanto col D.P.C.M. del 25 febbraio e solo per raccomandare che i nuovi ingressi in istituto non fossero occasione di contagio[22].
Dall’analisi delle norme che hanno riguardato la popolazione degli istituti di pena si può arrivare alla conclusione che, fino all’emanazione degli artt. 123 e 124 del D.L. 18/2020, le misure adottate per il contenimento del contagio da COVID-19 negli istituti penitenziari siano state dettate da una ratio basata sul massimo rigore, comportando una maggiore limitazione dei diritti dei detenuti.
Infatti, con il d. l. 9/2020 del 2 marzo il Governo era intervenuto sulla situazione dei detenuti, disponendo, nell’art. 10, comma 14, la sospensione dei colloqui tra i detenuti e i propri familiari imponendone lo svolgimento “a distanza, mediante, ove possibile, apparecchiature e collegamenti di cui dispone l’amministrazione penitenziaria”, ovvero “sostituendo” tale diritto con la possibilità di ottenere l’aumento del numero delle telefonate consentite.
Sospensione del diritto ai colloqui estesa, con il d.l. n. 11/2020, art. 2, comma 8, a tutti gli istituti di pena – prima ancora che l’intero paese divenisse “zona rossa” – ignorando, tra l’altro, la facoltà di deroga che era stata inserita con il D.P.C.M. 8 marzo 2020 che conteneva la previsione secondo cui “in casi eccezionali può essere autorizzato il colloquio personale, a condizione che si garantisca in modo assoluto una distanza pari a due metri”
Ma ulteriori restrizioni per i detenuti sono state disposte dal Governo con il d.l. n. 11/2020.
Con l’art. 2, comma 8 sono state emanate le raccomandazioni di “limitare i permessi e la libertà vigilata o di modificare i relativi regimi in modo da evitare l’uscita e il rientro dalle carceri”.
Al comma 9 dello stesso art. 2 è stata inserita la disposizione che prevede che la magistratura di sorveglianza possa sospendere la concessione dei permessi premio e della semilibertà “tenuto conto delle evidenze rappresentate dall’autorità sanitaria”.
In questo quadro generale, nonostante le precarie condizioni nelle carceri ove un numero elevatissimo di persone, di molto superiore ai limiti della capienza degli istituti – in 189 istituti penitenziari che hanno una capienza di 50.931 detenuti, ve ne sono stipati ben 61.230[23] – vive in condizioni di promiscuità e in condizioni sanitarie precarie, nessun provvedimento mirato a diminuire la popolazione detenuta, al fine di scongiurare un possibile contagio tra i detenuti, era stato assunto sino ad ora, nonostante gli strumenti in possesso degli operatori del diritto per far fronte, in maniera adeguata e celere, a questa emergenza, applicando le norme ordinarie in via d’urgenza.
Era ed è fuor di dubbio che un contagio all’interno degli istituti di pena si trasformerebbe in una incontrollabile pandemia dalla quale i detenuti, insieme ai loro bambini, non avrebbero mezzo alcuno per difendersi, perché l’ambiente carcere non può essere considerato al riparo dal rischio di epidemia solo perché si sono sospese le uscite di chi gode dei benefici della semilibertà o i colloqui con i familiari e i permessi premio
Per questa ragione con il d.l. 18/2020 il Governo ha cercato di mettere in atto degli interventi legislativi mirati a diminuire la popolazione dei detenuti, attraverso la concessione della detenzione domiciliare, avendo compreso che l’unico modo per evitare il diffondersi di una vera e propria pandemia è ridurre sensibilmente la popolazione all’interno delle carceri.
Ed è proprio questa la ratio sottesa agli art. 123 e 124 del d.l. 18/2020 che hanno introdotto, il primo, la possibilità di richiedere la detenzione domiciliare, fino al 30 giugno 2020, per tutti i detenuti che devono scontare una pena, o un residuo di pena, fino a 18 mesi; e il secondo, la concessione a tutti i detenuti che sono in regime di semilibertà, ai sensi dell’art. 48 l.354/75, di licenze premio di 45 giorni per consentire loro di non far rientro all’interno degli istituti penitenziari.
Per la concessione della detenzione domiciliare il Governo ha riadattato, all’attuale situazione emergenziale, lo strumento di deflazione per il sovraffollamento degli istituti penitenziari utilizzato nel 2010.
Il legislatore ha ritenuto possibile recuperare il modello operativo già sperimentato con la legge 26 novembre 2010, n. 199, che prevedeva la possibilità di eseguire le pene detentive di durata non superiore ai dodici mesi in luoghi esterni al carcere.
Molteplici sono le differenze tra quanto previsto nell’art. 123 d.l. 18/2020 e quanto prevedeva la l. 199/2010.
Secondo quanto disposto dall’art. 123 del d.l. 18/2020 infatti, la detenzione potrà essere concessa a tutti detenuti in espiazione, con pena residua pari a mesi 18 (nel 2010 la pena doveva essere non superiore a 12 mesi, poi portata a 18 mesi dal d.l. 211/2011), su loro richiesta o su richiesta della direzione degli istituti penitenziari e sarà concessa, inaudita altera parte, direttamente dal Magistrato di Sorveglianza mentre, per tutti i soggetti non detenuti, sarà richiesta direttamente dalla Procura competente.
Di questo beneficio non potranno usufruire i detenuti condannati per uno dei reati rientranti nelle ipotesi di cui all’art. 4 bis l. 354/75 e coloro che sono stati condannati per i reati di cui agli art. 572 e/o 612 bis c.p. e coloro che hanno partecipato ai disordini e alle sommosse avvenuti nei giorni scorsi all’interno degli istituti di pena e coloro.
Sono stati eliminati invece, quali elementi preclusivi alla concessione del beneficio la sussistenza o meno di elementi idonei ad escludere il pericolo di fuga o di reiterazione del reato.
La maggiore novità contenuta nell’art. 123 è che la concessione della detenzione domiciliare sarà però subordinata alla disponibilità del braccialetto elettronico.
All’art. 123 si affianca l’art. 124 che prevede la concessione, a tutti i detenuti che già godono del beneficio della semilibertà, di permessi premio, nella loro massima estensione pari a 45 giorni, così da consentire agli stessi di rientrare presso i loro domicili evitando in tal modo di fare rientro all’interno delle strutture penitenziare.
Tutte le misure saranno concesse fino alla data del 30 giugno 2020.
La gravità e l’emergenza della situazione che stiamo vivendo e che ci troviamo ad affrontare è palpabile e si respira ogni giorno nell’aria e quello che manca è il senso del dovere e il rispetto per gli altri.
I presidi del diritto penale messi a salvaguardia delle misure di contenimento imposte, prescritte o raccomandate con i provvedimenti normativi emanati, sono deboli e non hanno alcuna forza dissuasiva per il neo contravventore, come, purtroppo, dimostrato dai dati forniti dal Viminale.
Secondo tali dati alla data del 16 marzo sono state controllate dalle forze dell’ordine 172.720 persone e ne sono state denunciate 7.890 ai sensi dell’articolo 650 del codice penale e 229 ai sensi degli articoli 495 e 496 del codice penale mentre gli esercizi commerciali controllati sono stati 97.551 e sono stati denunciati 217 titolari di esercizi commerciali per la violazione di cui all’art. 650 c.p. e 22 per la violazione dell’art. 15 d. l. 14/2020.
È evidente quindi che, tranne nelle ipotesi in cui si possa contestare un reato più grave quale l’epidemia dolosa o colposa (non di facile accertamento come abbiamo visto nella disamina delle varie ipotesi delittuose) non sarà certo lo “spauracchio” di una contravvenzione oblabile a dissuadere chi non vuole rispettare le misure di contenimento.
In una situazione emergenziale quale quella che stiamo affrontando, avendo il legislatore previsto delle autonome e nuove forme di illecito penale, forse, per ottenerne un maggiore rispetto, avrebbe dovuto prevedere una sanzione più rigida e non utilizzare invece come riferimento sanzionatorio quello ordinario previsto per reati contravvenzionali.
Forse avrebbe avuto una maggiore forza deterrente una sanzione amministrava che prevedesse una elevata e sostanziosa sanzione pecuniaria.
Per quanto attiene alle misure adottate per i detenuti queste sono state “l’ennesima” dimostrazione della poca importanza che viene data alla funzione rieducativa della pena e, purtroppo, quei pochi provvedimenti adottati si inseriscono nel solco dei provvedimenti emanati sino a ieri da questo Governo in materia di giustizia.
È noto a chiunque che all’interno delle carceri non ci sono spazi a sufficienza neanche per rispettare il metro di distanza tra le persone, così come previsto dalle misure di contenimento imposte con i decreti legge e i decreti del Presidente del Consiglio, che non è possibile avere contatti con il mondo esterno perché tutte le attività sono sospese, compreso l’accesso degli educatori e dei volontari.
È oltremodo evidente che se non si adottano misure ancora più incisive al fine di ridurre la popolazione detenuta all’interno delle carceri, si continueranno a calpestare i diritti degli ultimi anche durante una grave e ingravescente situazione di emergenza sanitaria.
È fuor di dubbio, infatti, che l’unico modo per contenere il contagio all’interno degli istituti di pena ed evitare una vera e propria pandemia tra i detenuti è ridurre, il più possibile, il sovraffollamento, in modo che migliorino le condizioni igienico sanitarie, aumentino i metri quadri di spazio vitale disponibile per ciascun detenuto, che attualmente è inferiore ai tre metri quadri, quando invece per una civile abitazione (escluso i servizi e il mobilio) deve essere almeno pari a sei metri quadri.
Solo diminuendo sensibilmente il numero dei detenuti all’interno delle carceri si potrà sperare di consentire ai detenuti che devono restare negli istituti di mantenere quella distanza di un metro dal proprio compagno di cella e di poter metter in atto tutte le misure idonee a contenere un contagio.
Il nuovo decreto, con gli art. 123 e 124, cautamente e timidamente, ha aperto un piccolo varco per ridurre la popolazione carceraria al fine di risolvere il problema del sovraffollamento, ma le misure adottate sono deboli e insufficienti per consentire una vera riduzione delle persone all’interno degli istituti di pena, perché di difficile attuazione e limitate ad un numero esiguo di detenuti.
Infatti, l’avere condizionato la concessione della detenzione domiciliare all’effettiva disponibilità del braccialetto elettronico avrà, come conseguenza, non essendo disponibili gli strumenti elettronici e non avendo previsto un loro incremento, che il numero dei detenuti che lasceranno gli istituti di pena sarà esiguo e il problema non avrà, neanche questa volta, trovato soluzione.
Così come aver inserito la preclusione della concessione della detenzione domiciliare a tutti i condannati, indistintamente, per tutti i reati ricompresi nell’art. 4 bis l. 354/75 o il non aver previsto la possibilità di concedere la misura alternativa d’ufficio, anziché su istanza di parte, ed averla ancorata al potere discrezionale del singolo magistrato di sorveglianza, ha reso lo misura deflattiva prevista “tamquam non esset”.
Quello che è certo, è che, nonostante il d.l. 18/2020, si dovrà intervenire in modo più incisivo nel “mondo carcere” proprio per contemperare le esigenze di salvaguardia della sicurezza pubblica con la sicurezza della salute dei detenuti e, pertanto, concedere loro le misure alternative al carcere e utilizzare la misura della custodia cautelare intramuraria solo come estrema ratio privilegiando la misura degli arresti domiciliari, al fine di bilanciare tutti gli interessi in gioco che sono di pari importanza.
Ecco perché sarebbe stato necessario non condizionare la concessione della detenzione domiciliare alla disponibilità dei braccialetti elettronici e adottare altre e ulteriori misure oltre a quelle previste dagli artt. 123 e 124 d.l. 18/2020 per riportare la presenza di detenuti all’interno delle carceri ad un numero accettabile; ad esempio attraverso la concessione delle misure alternative quale l’affidamento in prova, concedibili anche in via d’urgenza ex art. 47, comma 4 ord. pen., il differimento pena per tutti i soggetti affetti da gravi patologie, la concessione a tutti i condannati, e non solo a quelli ammessi al beneficio della semilibertà ex art. 48 ord. pen. ma anche a coloro che sono ammessi al lavoro all’esterno ex art. 21 ord. pen., della facoltà di non rientrare negli istituti di pena ma di far rientro nelle proprie abitazioni con le forme della detenzione domiciliare, prevedere una liberazione anticipata speciale, e in ultima istanza anche poter considerare la possibilità di un indulto.
È ora di abbandonare il populismo giudiziario e di agire, perché è arrivato il momento di ridare dignità a chi sta espiando una pena, perché la pena ha un unico senso possibile, che è quello della rieducazione
La pena è anche “riabilitazione e speranza nel riscatto attraverso la costante ricerca, anche faticosa, di percorsi di reinserimento”[24].
[1] V. Baldini, Lo stato costituzionale di diritto all’epoca del coronavirus, in dirittifondamentali.it, 10 marzo 2020; Poteri normativi del governo e libertà di circolazione al tempo del COVID-19 F. Clementi, Quando l’emergenza restringe le libertà meglio un decreto legge che un Dpcm, Il Sole24Ore, 13 marzo 2020.
[2] Aldo Natalini, In fuga dal Virus: cosa rischia chi viola la “zona rossa”, Guida al Diritto, il Sole 24 Ore, 2020, 14/21.
[3] Cass., Sez. I, n. 44126 del 19/04/2016, Azzarone, Rv. 268288; Cass., Sez. I, n. 2653 del 29/11/1999, Parlà, Rv. 215373; Cass., Sez. I, n. 1711 del 07/12/1999, Di Maggio, Rv. 215341.
[4] Cass., Sez. I, n. 26527 del 12/01/2016, Santarelli, non massimata.
[5] Cass., Sez. I, n. 26527 del 12/01/2016.
[6] Art. 3, comma 4 D. L. 6/2020, conv. con l. 13/2020: “Salva l’applicazione delle sanzioni penali ove il fatto costituisca reato, la violazione degli obblighi imposte dalle misure di cui al comma 1 a carico di gestori di pubblici esercizi o di attività commerciali è sanzionata altresì con la chiusura dell’esercizio o dell’attività da 5 a 30 giorni. La violazione è accertata ai sensi della Legge 24 novembre 1981, n. 689, e la sanzione è irrogata dal Prefetto”.
[7] Cass. Sez. V, n. 20570 del 10/05/2006, Esposito; Cass., Sez. V, n. 21209 del 25/05/2006, Bartolazzi; Cass., Sez. V, n. 48681 del 06/06/2014, Sola.
[8] Cass., Sez. V, n. 18279 del 02/04/2014, Scalici; Cass., Sez. V, n. 39215 del 04/06/2015; Cass., Sez. II, 12 gennaio 2012, n. 4970; sul punto si sono espresse più volte le Sezioni Unite della Suprema Corte, da ultimo Cass., Sez. un., 28 giugno 2007, n. 35488: “Presupposto del delitto di falsità ideologica commessa dal privato in atto pubblico (art. 483 c.p.) è l’esistenza di una specifica norma giuridica che attribuisca all’atto la funzione di provare i fatti attestati al pubblico ufficiale, così collegando l’efficacia probatoria dell’atto medesimo al dovere del dichiarante di dichiarare il vero: v. Cass., Sez. Un., 31.3.1999, n. 6, Lucarotti e Cass., Sez. Un., 9.3.2000, n. 28, Gabrielli.
[9] cfr. tra le altre Cass., Sez. V, 11/01/2019, n. 4054.
[10] cfr. Cass., Sez. V, 05/03/2019, n. 19695.
[11] Si veda Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, Vol. II, Torino, 30; Manzini, Trattato di diritto penale italiano, V ed., Utet, 399.
[12] Cfr., Fiandaca Musco, Diritto penale, parte speciale, 516.
[13] Cass., Sez. V, 19.3.2008; Cass., Sez. IV, 28.20.2004, n. 3448; Cass., Sez. V, 15.10.1998, n. 714.
[14] Trib. Trento, 16 luglio 2004.
[15] Manzini, Trattato di diritto penale, Vol. VI, 396.
[16] Riondato, in Commentario Breve, cit., 972.
[17] Cfr., Stolfi N., Brevi note sule reato di epidemia, in Cass. pen., 2003, 12.
[18] Trib. Trento, 12 luglio 2002.
[19] Nella sezione delle aree tematiche della Gazzetta Ufficiale denominata “Coronavirus” figurano, dal 31 gennaio 2020, ben 12 tra decreti legge, leggi e d.p.c.m. riguardanti le misure urgenti fin qui adottate.
[20] Relazione illustrativa all’art. 123, d.l. 18/2020.
[21] G. M. Pavarin, Giudice, Coranavirus e Carcere, in Giustizia Insieme, 12 marzo 2020
[22] lett. m) dell’art. 1).
[23] Dati assunti dal sito del Ministero della Giustizia, Fonte: Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria – Ufficio del Capo del Dipartimento – Sezione Statistica “Detenuti presenti e capienza regolamentare degli istituti penitenziari. Situazione al 29 febbraio 2020
[24] G. M. Pavarin, Giudice, cit., Coranavirus e Carcere.
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La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.
Foglio di via del Questore: per la Consulta non è necessaria la convalida del giudice.
La Consulta sull’obbligo di testimoniare del prossimo congiunto dell’imputato che sia persona offesa dal reato.
La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
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