Cass., sez. V, 14.10.2021 (dep. 10.01.2022) n. 32
Integrano il delitto di atti persecutori le condotte di reiterate molestie, anche se arrecate non direttamente alla persona offesa, attuate sostituendosi alla vittima tramite profili social e account di internet falsamente a lei riconducibili, mediante i quali l’agente faccia credere a terzi sconosciuti che la stessa sia disponibile ad approcci sessuali – tanto da far sì che costoro l’avvicinino ripetutamente nei luoghi da lei frequentati allo scopo di realizzare aspettative di tal genere – ove l’autore delle condotte agisca nella consapevolezza dell’idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma incriminatrice.
La vicenda. La Corte D’Appello partenopea condannava l’imputato per il delitto di atti persecutori in continuazione con quelli di diffamazione e sostituzione di persona per aver provocato alla vittima uno stato di ansia e di timore nonché per averla costretta a cambiare le proprie abitudini di vita e amicizia attraverso la creazione di falsi profili facebook e account internet sostituendosi alla sua persona mediante i quali si proponeva sessualmente in sua vece, diffamandone l’onorabilità e facendo sì che ella venisse contattata da sconosciuti che pretendevano che lei si comportasse come l’apparenza creata dai falsi profili realizzati con il suo nome.
L’imputato proponeva ricorso per Cassazione chiedendo l’annullamento della sentenza impugnata.
In merito all’affermata responsabilità per il delitto, di cui all’art. 612 bis c.p., la difesa deduceva la carenza di prova in ordine all’elemento oggettivo e soggettivo. Il ricorrente, sostiene la difesa, non ha mai direttamente perseguitato la vittima né con molestie né con minacce ma ha, invece, posto in essere condotte che artificiosamente hanno ingannato gli interlocutori della rete facendo loro credere di interloquire con la vittima dell’account di facebook. Dal punto di vista psicologico, invece, l’imputato non ha mai avuto intenti persecutori direttamente nei confronti della vittima ma ha voluto solamente soddisfare le proprie pulsioni di carattere sessuale per incontrare nuove persone online attraverso un nickname.
Con riferimento alla diffamazione, ci si doleva del fatto che non fossero stati accertati i contenuti dei colloqui intercorsi tra il ricorrente e i suoi interlocutori e, di conseguenza, non fosse possibile apprezzarne la portata e il tenore denigratorio.
In relazione alla sostituzione di persona, infine, non sussisterebbe il delitto de quo in quanto dall’istruttoria dibattimentale era emerso che l’imputato e la persona offesa, in ragione del loro rapporto amicale, avessero deciso, per combinare scherzi all’interno della loro cerchia di amici, di sostituirsi l’uno all’altra nei social per poter conoscere ragazzi con falsa identità. La vittima, quindi, aveva prestato il proprio consenso all’utilizzazione della propria identità virtuale da parte dell’amico, odierno ricorrente.
La pronuncia in commento ha il pregio di aver chiarito che, in tema di atti persecutori, l’evento che consiste nell’alterazione delle abitudini di vita o nel grave stato di ansia o paura causato alla persona offesa debba essere il risultato della condotta illecita valutata nel suo complesso nell’ambito del quale possono assumere rilievo tutte quelle condotte che – direttamente ma anche indirettamente – si rivolgono alla persona offesa.
Di tal guisa, pertanto, non rileva, ai fini della configurabilità del delitto de quo, né la presenza della persona offesa alle minacce o molestie né che i comportamenti dell’agente possano essere direttamente a lei riferiti ove, però, vi sia la consapevolezza da parte dell’autore che il proprio comportamento abituale sia in grado di realizzare uno dei due eventi previsti dalla fattispecie incriminatrice. A tal proposito, la Corte richiama un suo precedente giurisprudenziale secondo il quale, nonostante le condotte dell’autore fossero dirette a persone diverse dalla vittima, questi comportamenti sono state valorizzati, pur configurando autonome fattispecie delittuose concorrenti con il delitto di atti persecutori, anche per i profili di molestia, sconvolgimento emotivo e timore che alla persona derivavano.[1]
Per integrare l’elemento soggettivo dello stalking è sufficiente il dolo generico cioè la volontà di porre in essere gli atteggiamenti persecutori con la consapevolezza sia della loro idoneità alla produzione di uno degli eventi alternativamente necessari per l’integrazione della norma incriminatrice che risultano verificati dalle modalità ripetute e ossessive della condotta penalmente rilevante compiuta dall’agente e sia delle conseguenze che ne sono derivate sullo stile di vita della persona offesa.[2] Nel caso di specie, tale consapevolezza emerge dalla circostanza che ripetutamente la vittima gli aveva chiesto di far cessare il suo comportamento molesto. Richiesta che non era stata mai ottemperata.
Riguardo alla sostituzione di persona, la Corte rappresenta che la tesi difensiva che sottolineava l’iniziale consenso della persona offesa alla creazione di falsi profili su facebook utilizzati dall’odierno imputato è priva di rilievo. Dall’istruttoria dibattimentale, infatti, è emerso che la vittima non solo avesse, da tempo, revocato il suddetto consenso ma anche come fossero mutate le condizioni in riferimento alle quali aveva autorizzato l’imputato a chattare in sua vece. Infatti, se dapprima gli account posticci erano stati creati per scherzo all’interno di una cerchia di amici comuni, successivamente, le conversazioni hanno avuto un contenuto sessualmente esplicito indirizzandosi a destinatari sconosciuti della rete.
Secondo la Corte, sussiste il delitto de quo tutte le volte in cui l’agente crei e utilizzi account o profili di social network a nome di altro soggetto servendosi dei suoi dati personali con il fine di far ricadere su quest’ultimo il suo agire. Nel caso di specie, il ricorrente aveva creato vari profili ricollegati – seppur artificiosamente – alla persona offesa che, sebbene, all’inizio, avesse espresso la sua partecipazione a questo gioco, successivamente, invece, si era rifiutata di continuare nel suo intento scherzoso invitando l’amico a smettere nel porre in essere quegli stessi comportamenti prima da lei accettati.
Il delitto di sostituzione di persona, secondo un costante orientamento al quale la Corte aderisce, è integrato tutte le volte in cui la condotta criminosa consista nella creazione, su una piattaforma telematica di un profilo che riproduca l’effigie della persona offesa e nel conseguente utilizzo, con tale falsa identità, della messaggistica online con altri interlocutori indotti in errore dalla identità dell’interlocutore.[3]
Avuto riguardo alla diffamazione, il comportamento dell’imputato che abbia offeso la reputabilità della persona offesa facendo credere agli altri che quest’ultima fosse ciò che appariva -falsamente- dai social attribuendole gesti e parole a lei non riconducibili integra il delitto di cui all’art. 595 c.p. Le propalazioni offensive, infatti, sono state dirette verso una pluralità di destinatari contattati con falsi account con i quali il ricorrente si relazionava spacciandosi per la vittima.
In conclusione, condividendo le ragioni di diritto esposte nella sentenza annotata, pare, tuttavia, utile porre l’attenzione brevemente sulle argomentazioni elaborate con riferimento allo stalking.
Il collegio, molto efficacemente, si domanda se si possa ritenere configurata l’ipotesi delittuosa in esame anche mediante comportamenti che possano essere rivolti solo indirettamente alla vittima (e, pertanto, diretti formalmente a persone con le quali ella abbia un rapporto di vicinanza o parentela).
Il delitto di atti persecutori, previsto dall’art. 612 bis c. p., deve essere qualificato come fattispecie causale, caratterizzato da condotte alternative e da eventi disomogenei, ciascuno dei quali idoneo ad integrarla, i quali devono oggetto di rigoroso e puntuale accertamento da parte del giudice. L’evento alternativo consistente nel “grave stato di ansia o di paura” andrà identificato in una condizione emotiva spiacevole, accompagnata da un senso di oppressione e da una notevole diminuzione dei poteri di controllo volontario e razionale, che deve essere grave e non passeggera e potrà assumere rilevanza penale anche se non si traduce in precise sindromi canonizzate dalla scienza medico-psicologica.[4]
Ordunque, l’autorità giudiziaria dovrà valutare lo stato d’ansia, di preoccupazione e l’alterazione delle abitudini di vita della vittima come risultato di tutti quegli atteggiamenti che, direttamente o indirettamente, rappresentino “un intento complessivamente persecutorio” ai fini della consumazione del delitto di cui all’art. 612 bis c.p.
[1] Con la sentenza Cass., sez.VI, 12.01.2021 (dep. il 01.03.2021) n. 8050, la Suprema Corte ribadisce il principio secondo il quale in tema di atti persecutori è fondamentale che l’evento previsto dall’art. 612 bis c.p. consistente nell’alterazione delle abitudini di vita o nel grave stato di ansia e di paura si configuri come il risultato di una condotta materiale complessivamente valutata rispetto alla quale possono assumere rilevanza penale anche comportamenti indirettamente rivolti contro la persona offesa. Pertanto, il delitto di atti persecutori può ritenersi integrato dalla reiterata e assillante comunicazione di messaggi con contenuto persecutorio, ingiurioso o minatorio, diretti a plurimi destinatari legati alla persona offesa da un rapporto qualificato di vicinanza purchè, però, il soggetto attivo agisca nella convinzione che la vittima ne sia informata e nella consapevolezza dell’idoneità del proprio comportamento abituale a produrre uno degli eventi alternativamente previsti dalla norma. Nel caso di specie, l’imputato, dopo l’interruzione di una relazione affettiva con la persona offesa si era reso autore di numerosi comportamenti molesti e vessatori in suo danno anche attraverso messaggi e telefonate verso i familiari (minacce di morte e esposti anonimi dal contenuto diffamatorio e calunnioso).
[2] In dottrina si fa riferimento più che alla ripetizione dei comportamenti (componente temporale) alla particolare caparbietà e assoluta indifferenza dell’autore nei confronti del divieto legislativo, al carattere ostinato della condotta al punto da superare in maniera certa un’ alta soglia di tolleranza e a renderla oggettivamente idonea ad offendere le condizioni di vita di una persona (componente contenutistica) nonché tale da indicare il pericolo di ulteriori moleste, A.M.MAUGERI, Lo stalking tra necessità politico-criminale e promozione mediatica, Giappichelli, 2010, pp. 167 ss.
[3] Cass., sez. V, 23.04.2016 (dep. il 16.06.2014) n. 25774 in cui la Corte ha riconosciuto la penale responsabilità del ricorrente per il delitto di sostituzione di persona in quanto l’imputato aveva creato più profili social ricollegati ad altra persona, per chattare con alcuni utenti sconosciuti della rete al fine sia di intrattenere con loro rapporti personali e sia al fine di ledere l’immagine e la dignità della persona offesa. Nel caso concreto, uno sconosciuto aveva aggredito l’apparente titolare del profilo social accusandolo di aver insultato la propria fidanzata e altri, invece, lo tacciavano di essere poco serio. Per un approfondimento si rinvia a F. SANSOBRINO, Creazione di un falso account, abusivo utilizzo dell’immagine di una terza persona e delitto di sostituzione di persona in Diritto Penale Contemporaneo (DPC), www.dirittopenalecontemporaneo.it, 30 settembre 2014. Dello stesso avviso anche la sentenza Cass., sez. V, 13.07.2020 (dep. il 07.09.2020) n. 25215 (richiamata nella sentenza annotata) in cui l’imputato aveva creato e utilizzato una sim card servendosi dei dati anagrafici di un diverso soggetto con il fine di far ricadere su di lui l’attribuzione delle connessioni eseguite in rete dissimulandone il personale utilizzo.
[4] A. VALSECCHI, Il delitto di “atti persecutori” (il cd stalking), in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, p. 1389.