Corte cost., 9 giugno 2020 (dep. 26 giugno 2020), n. 132
Marco Mantovani*
SOMMARIO: 1. L’intervento della Corte— 2. Gli orientamenti della Corte EDU in materia. –3. Il superamento dei precedenti equilibri fra diritto di informare e reputazione del singolo divisato dalla Consulta. –4. I limiti dell’intervento penale. –5. Le prospettive di riforma.
- L’intervento della Corte
Investita dalle ordinanze di rimessione dei Tribunali di Salerno e di Bari [1] della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 l. 47/1948, laddove questo dispone che, nel caso di diffamazione a mezzo stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si faccia luogo, a carico del relativo responsabile, all’applicazione cumulativa della pena detentiva e di quella pecuniaria, la Corte Costituzionale si è pronunciata al riguardo mediante l’ordinanza n. 132, depositata il 26 giugno 2020 [2]. Ripercorrendo lo stesso iter seguìto per il caso Cappato [3], la Corte ha rinviato di un anno la propria decisione, sì da permettere al Parlamento, nel proprio ruolo di unico organo competente ad effettuare una valutazione compiuta degli interessi implicati dalla delicata materia oggetto del giudizio, di dettare una disciplina in grado di assicurarne un equilibrato contemperamento.
Pur nell’identità dell’oggetto della questione sollevata, incentrata sulla conformità a Costituzione della comminatoria di una pena detentiva –congiunta o alternativa a quella pecuniaria nelle ipotesi di cui, rispettivamente, agli art. 13 l. 47/1948 e 595, comma 3, c.p.— per il responsabile della diffamazione a mezzo stampa, i profili di illegittimità evidenziati nelle due ordinanze di rimessione divergono in modo non trascurabile fra di loro. I parametri evocati dal Tribunale di Salerno rinviano a una pluralità di disposizioni costituzionali, vale a dire quelli incorporati negli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, comma 1, Cost., suscettibili di invalidare la disciplina attualmente vigente in materia. Di contro, le censure al proposito emergenti dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Bari, con specifico riferimento alle statuizioni contenute nell’art. 13 l. 47/1948, si polarizzano esclusivamente sul loro contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost.. Il che val quanto dire che si rimarca la loro difformità rispetto all’obbligo, di matrice convenzionale, enunciato dall’art. 10 CEDU, e, soprattutto, all’interpretazione che ne è stata fornita dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Prima ancora di affrontare in medias res questo aspetto, non è inutile anticipare sin d’ora che proprio quest’ultimo snodo argomentativo ha costituito il fulcro sul quale l’ordinanza 132/2020 ha fondato il proprio giudizio circa la “sostanziale” illegittimità costituzionale dell’odierna regolamentazione penale della diffamazione a mezzo stampa, demandando quindi al Parlamento il còmpito di adeguarne l’assetto ai criteri da essa stessa indicati.
- Gli orientamenti della giurisprudenza della Corte EDU in materia.
Invero, dopo aver proclamato la libertà di espressione, la quale ricomprende expressis verbis il diritto di informare –cui si correla quello dei cittadini di essere informati— “senza ingerenza delle autorità pubbliche”, al primo comma dell’art. 10 CEDU, il secondo comma di questa disposizione contiene una dettagliata elencazione delle situazioni che possono legittimarne una restrizione.
Nel loro novero vengono richiamate quelle implicanti il ricorso a “misure necessarie … alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine o alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della moralità, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui” [4].
Malgrado il riferimento a tali possibili restrizioni della libertà di espressione, la giurisprudenza della Corte EDU si è ampiamente consolidata nel senso che queste non possono comunque tradursi nella comminatoria di una pena detentiva a carico di chi esercita la libertà di stampa, id est (de)i giornalisti, eccezion fatta per i casi nei quali la loro attività trasmodi in “discorsi d’odio o istigazione alla violenza” [5]. Chiara ed esposta reiteratamente è la motivazione sottostante a questa posizione della Corte EDU: posto che si rinviene nella stampa, icasticamente, il “cane da guardia” della democrazia, la sua funzione essendo quella di assicurare l’informazione dei cittadini riguardo a tutti i possibili abusi dei pubblici poteri, non si potrebbe ammettere che i giornalisti siano dissuasi dall’esercitarla per effetto della possibile inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, quand’anche il suo assolvimento integri fatti penalmente illeciti (al di fuori delle due ipotesi sopra riportate). In sostanza, sarebbe proprio l’interesse pubblico alla conoscenza di quei fatti a (dover) prevalere su quello orientato alla prevenzione e alla repressione dei medesimi.
In piena concordanza con quest’impostazione, le decisioni della Corte EDU Belpietro c. Italia del 24 settembre 2013 e Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019 avevano ravvisato la violazione dell’art. 10 CEDU nella previsione, da parte del nostro diritto interno, di una pena detentiva –non importa se alternativa o congiunta ad una pena pecuniaria— per le fattispecie di diffamazione a mezzo stampa.
- Il superamento dei precedenti equilibri fra diritto di informare e reputazione del singolo divisato dalla Consulta
Ora, che l’interesse pubblico alla conoscenza dei comportamenti posti in essere dagli organi pubblici rappresenti, da sempre, una delle ragioni dell’irrilevanza penale della denuncia di fatti in astratto riconducibili entro il perimetro della diffamazione a mezzo stampa è un dato tanto radicato, nella nostra giurisprudenza in materia, da non dover essere nemmeno menzionato. Parimenti condivise sono le motivazioni della valenza che gli viene riconosciuta nell’economia di un ordinamento democratico: solo la possibilità di conoscere, mediante l’attività informativa svolta dalla stampa, i dettagli dell’azione pubblica può permettere ai cittadini l’esercizio di quella funzione di controllo, che consentirà loro di vagliarne i risultati effettivi, nella prospettiva di assumere, nelle sedi opportune, le determinazioni più congrue, in quanto consapevoli, al riguardo.
Tanto premesso con riferimento all’interesse pubblico della notizia diffusa, resta pur sempre fermo che questo, alla stregua dello ius receptum, costituisce solo uno dei tre requisiti concorrenti richiesti perché questa, quando pure rientri nel tipo della diffamazione, possa risultare penalmente irrilevante, in quanto giustificata. A questo devono, infatti, aggiungersi quello della sua veridicità e quello della sua esposizione in forma corretta.
Di queste modalità di bilanciamento fra libertà del diritto di informazione e onore [6] del singolo, invalsa nella prassi, si dimostra ben edotta, del resto, la stessa ordinanza 132/2020 della Corte Costituzionale, quantunque, in modo riduttivo e inesatto, ne faccia risalire la genesi alla (sola) giurisprudenza civile [7].
La Corte, la quale espressamente sottolinea la rilevanza costituzionale del diritto alla reputazione [8], ritiene, nondimeno, che i criteri di contemperamento fra questi interessi contrapposti sinora adottati siano da considerarsi superati.
A questa conclusione la Consulta perviene, anche e soprattutto, in forza della giurisprudenza della Corte Edu sopra richiamata [9]. Nella prospettiva da quest’ultima delineata, la diffusione, da parte della stampa, di notizie in sé e per sé diffamatorie, in quanto non osservanti dei contrassegni che ne condizionano la liceità, non è sufficiente a legittimare l’applicazione, nei confronti del giornalista, della pena detentiva, il ricorso alla medesima potendo aver luogo solo a fronte di discorsi d’odio o di istigazione alla violenza.
Per quanto non manchino, nell’ordinanza citata, puntuali riferimenti ai maggiori vulnera che la reputazione corre il rischio di subire, nell’èra mediatica attuale, per via della più facile propagazione e diffusione di eventuali contenuti diffamatori consentite dalla moderna tecnologia, ciò non vale ad intaccarne i due principali poli argomentativi intorno ai quali si muove: l’esigenza di circoscrivere l’irrogazione della pena detentiva a carico dei giornalisti alle due specifiche evenienze appena evocate, da una parte; quella di demandare al Parlamento l’incombenza di legiferare in materia, dall’altra.
Questi due profili, dal canto loro, necessitano di un esame separato.
- I limiti dell’intervento penale
La precisa delimitazione dell’intervento della pena detentiva alle due sole ipotesi dei discorsi d’odio e di istigazione alla violenza pone problemi circa il loro effettivo ubi consistam, che non mancano di riverberarsi sulla identificazione degli interessi retrostanti.
Pacifico che il caso dell’istigazione alla violenza segni un limite alla libertà di espressione dettato, secondo il linguaggio domestico, da esigenze di ordine pubblico e, secondo quello conforme al disposto dell’art. 10, comma 2, CEDU, da quelle di “difesa dell’ordine” e di prevenzione dei reati, a un risultato ermeneutico non diverso è dato giungere anche per la ricostruzione del significato da riconoscersi ai “discorsi d’odio”.
All’interno del corpo codicistico, in effetti, l’unico riferimento all’”odio” si rinviene nell’art. 415 c.p., nella porzione che incrimina l’istigazione “all’odio fra le classi sociali” [10]. Data la collocazione della figura di cui trattasi, non sembrano poter sussistere dubbi circa il fatto che la diffusione dell’odio sia stata considerata dal legislatore del 1930 come un fattore di minaccia per l’ordine pubblico.
Se è esatto quanto precede, si comprende come l’ordinanza 132/2020 della Corte Costituzionale, uniformandosi ai princìpi enunciati in materia dalla giurisprudenza della Corte EDU, non abbia semplicemente innovato sulle modalità del bilanciamento di interessi tra libertà di manifestazione del pensiero e reputazione finora invalse nella nostra prassi; ma ne abbia, più radicalmente, mutato i termini. Ciò in quanto ad essere contrapposto alla libertà di espressione non è più il diritto all’onore del singolo, quanto, piuttosto, (il bene giuridico del)l’ordine pubblico.
Ad arginare la portata dirompente dell’operazione interpretativa compiuta dalla Consulta potrebbe valere l’ipotetico rilievo che del concetto di discorso d’odio potrebbe darsi una lettura diversa. Si potrebbe, cioè, sostenere che per tale dovrebbe intendersi un enunciato non avente le caratteristiche oggettive richieste, ad esempio, dall’art. 415 c.p., ma ispirato, comunque, da finalità d’odio. Un siffatto intendimento del discorso d’odio ne escluderebbe proiezioni offensive rispetto all’ordine pubblico e consentirebbe di salvaguardarne una dimensione lesiva nei confronti della reputazione del singolo.
A precludere, nondimeno, questa soluzione ermeneutica sono due fattori: da una parte, essa non trova riscontro alcuno nella giurisprudenza della Corte EDU che a tale specie di discorsi si è richiamata; dall’altra, a fronte della sua plausibilità teorica, le difficoltà probatorie connesse alla dimostrazione della ricorrenza di detta finalità ne precluderebbero l’effettiva recezione.
- Le prospettive di riforma
Quando si fa riferimento a riforme delle sanzioni penali collegate alla diffamazione, è doveroso segnalare immediatamente lo iato esistente fra quelle prefigurate dagli studi più recenti e accreditati in materia [11] e quelle effettivamente all’esame del Parlamento.
Pur nel dato comune del commiato dalla pena detentiva, le prime confinano in un àmbito piuttosto ristretto il ricorso alla pena pecuniaria, eccettuando dalla sua applicazione esclusiva i contesti giornalistici professionali [12], rispetto ai quali dovrebbero trovare spazio sanzioni interdittive, preferibilmente elevate al rango di pene principali, nonché la pubblicazione della sentenza di condanna [13].
Le riforme in discussione in Parlamento, stando –almeno— al d.d.l. Caliendo, si fanno portatrici, invece, di disegni ben più sommari e meno articolati. L’impianto della proposta appena menzionata, infatti, si limita a comminare pene esclusivamente pecuniarie per tutte le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa. Il loro ammontare oscilla fra i 5.000 e i 10.000 euro nel caso di diffamazione a mezzo stampa semplice (cfr. l’art. 595, comma 3, c.p.); mentre può variare da un minimo di 10.000 a un massimo di 50.000 euro ove si versi nell’eventualità di una diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato (art. 13 l. 47/1948).
Ora, al di là dei possibili profili di incostituzionalità che il ricorso alla pena pecuniaria evoca, dal momento che la sua applicazione può concretamente incidere, in ragione della sua fungibilità, su un soggetto diverso dal reo e, con ciò stesso, recare un vulnus al principio della personalità della responsabilità penale [14], e delle stesse specifiche ragioni che ne sconsigliano l’impiego in questa materia [15], è evidente che il quadro sanzionatorio emergente dal disegno di legge appena ricordato delinea una sostanziale bagatelizzazione di tutte le fattispecie penali di diffamazione a mezzo stampa.
A fronte dello scenario schiuso da questa prospettiva di riforma, risulta chiaro che, ove questa fosse l’unica disponibile nel momento in cui la Consulta sarà chiamata a esaminare di nuovo la materia, la Corte Costituzionale non potrà sottrarsi a un duplice còmpito. Da un lato dovrà sì curarsi dell’eliminazione della possibilità dell’irrogazione di una pena detentiva a carico di giornalisti responsabili di fatti di diffamazione, in piena conformità con l’interpretazione data all’art. 10 CEDU, disposizione operante nel nostro ordinamento in forza del filtro rappresentato dall’art. 117, comma 1, Cost., dalla giurisprudenza della Corte EDU. Dall’altro dovrà altresì evitare, sulla scia di proprie decisioni precedenti esplicite a questo riguardo [16], che la tutela convenzionale della reputazione, agganciata in termini forzati e imprecisi dall’art. 8 CEDU, scenda al di sotto dei livelli minimi della compatibilità con il suo rango di diritto costituzionalmente garantito (ex art. 2 Cost.), che la stessa ordinanza 132/2020 non manca di riconoscerle.
- Professore Associato di Diritto penale – Università di Bologna
[1] Il testo delle quali trovasi pubblicato in Sistemapenale.it,, 6 giugno 2020.
[2] La sua versione integrale può leggersi in Sistemapenale.it, 26 giugno 2020.
[3] Sul punto cfr. G.L. GATTA, Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo ‘schema-Cappato’, rinviando l’udienza di un anno, in Sistemapenale.it, ove vengono, peraltro, rimarcate differenze tra le due decisioni.
[4] I corsivi sono aggiunti.
[5]Oltre alle decisioni relative ai casi Belpietro e Sallusti, infra riportate nel testo, occorre fare riferimento al fondamentale –nella materia de qua—arresto della Corte EDU 17 dicembre 2004, Campãnã e Mazãre c. Romania.
[6] Il riferimento al concetto di onore, in relazione alle problematiche connesse con la diffamazione, id est con un delitto posto a tutela del bene –asseritamente— diverso della reputazione, pone il problema del rapporto corrente fra questi due oggetti di tutela. Il che si riflette sul tema dell’identità o della diversità fra la fattispecie (oggi abrogata) dell’ingiuria e quella della diffamazione.
Al proposito, ci sembra tuttora condivisibile l’assunto che il bene giuridico tutelato sia o fosse il medesimo (cioè l’onore), le due ipotesi diversificandosi esclusivamente in ragione delle differenti modalità di lesione cui questo era esposto: in questo senso E. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, p. 150, 154.
[7] Anteriore, in realtà, alla stessa pronuncia della Sezione prima della Cassazione civile, menzionata al par. 7.3 del Considerato in diritto dell’ordinanza 132/2020, risulta la giurisprudenza penale solidamente ancorata a questi stessi criteri di bilanciamento: in tal senso cfr., ad esempio, Cass. 16 giugno 1981, in Foro it., 1982, c. 313.
[8] Cfr. il par. 7.2 del Considerato in diritto dell’ordinanza in parola.
[9] Cfr. quanto riportato antea nel testo e la nt. 5.
[10] Arricchita, dalla sentenza “manipolativa” 108/1974 della necessità che l’istigazione, di cui trattasi, sia “attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità”.
[11] In argomento si veda, in particolare, A. VISCONTI, Reputazione, dignità, onore. Confini penalistici e prospettive politico-criminali, Torino, 2018, p. 629 ss..
[12] Cfr. A. VISCONTI, Reputazione, cit., p. 631 s..
[13] In questa direzione è orientata A. VISCONTI, Reputazione, cit., p. 632.
[14] Sul punto già F. BRICOLA, Pene pecuniarie, pene fisse e finalità rieducativa, in ID., Scritti di diritto penale, a cura di S. Canestrari e Al. Melchionda, Vol. I, Tomo I, Milano, 1997, p. 289.
[15] Cfr. A. VISCONTI, op. ult. cit., p. 631.
[16] Cfr. la sentenza 317/2009 della Corte Costituzionale.
Dalla Consulta un requiem per la tutela penale dell’onore?
Corte cost., 9 giugno 2020 (dep. 26 giugno 2020), n. 132
Marco Mantovani*
SOMMARIO: 1. L’intervento della Corte— 2. Gli orientamenti della Corte EDU in materia. –3. Il superamento dei precedenti equilibri fra diritto di informare e reputazione del singolo divisato dalla Consulta. –4. I limiti dell’intervento penale. –5. Le prospettive di riforma.
Investita dalle ordinanze di rimessione dei Tribunali di Salerno e di Bari [1] della questione di legittimità costituzionale dell’art. 13 l. 47/1948, laddove questo dispone che, nel caso di diffamazione a mezzo stampa, consistente nell’attribuzione di un fatto determinato, si faccia luogo, a carico del relativo responsabile, all’applicazione cumulativa della pena detentiva e di quella pecuniaria, la Corte Costituzionale si è pronunciata al riguardo mediante l’ordinanza n. 132, depositata il 26 giugno 2020 [2]. Ripercorrendo lo stesso iter seguìto per il caso Cappato [3], la Corte ha rinviato di un anno la propria decisione, sì da permettere al Parlamento, nel proprio ruolo di unico organo competente ad effettuare una valutazione compiuta degli interessi implicati dalla delicata materia oggetto del giudizio, di dettare una disciplina in grado di assicurarne un equilibrato contemperamento.
Pur nell’identità dell’oggetto della questione sollevata, incentrata sulla conformità a Costituzione della comminatoria di una pena detentiva –congiunta o alternativa a quella pecuniaria nelle ipotesi di cui, rispettivamente, agli art. 13 l. 47/1948 e 595, comma 3, c.p.— per il responsabile della diffamazione a mezzo stampa, i profili di illegittimità evidenziati nelle due ordinanze di rimessione divergono in modo non trascurabile fra di loro. I parametri evocati dal Tribunale di Salerno rinviano a una pluralità di disposizioni costituzionali, vale a dire quelli incorporati negli artt. 3, 21, 25, 27 e 117, comma 1, Cost., suscettibili di invalidare la disciplina attualmente vigente in materia. Di contro, le censure al proposito emergenti dall’ordinanza di rimessione del Tribunale di Bari, con specifico riferimento alle statuizioni contenute nell’art. 13 l. 47/1948, si polarizzano esclusivamente sul loro contrasto con l’art. 117, comma 1, Cost.. Il che val quanto dire che si rimarca la loro difformità rispetto all’obbligo, di matrice convenzionale, enunciato dall’art. 10 CEDU, e, soprattutto, all’interpretazione che ne è stata fornita dalla giurisprudenza della Corte EDU.
Prima ancora di affrontare in medias res questo aspetto, non è inutile anticipare sin d’ora che proprio quest’ultimo snodo argomentativo ha costituito il fulcro sul quale l’ordinanza 132/2020 ha fondato il proprio giudizio circa la “sostanziale” illegittimità costituzionale dell’odierna regolamentazione penale della diffamazione a mezzo stampa, demandando quindi al Parlamento il còmpito di adeguarne l’assetto ai criteri da essa stessa indicati.
Invero, dopo aver proclamato la libertà di espressione, la quale ricomprende expressis verbis il diritto di informare –cui si correla quello dei cittadini di essere informati— “senza ingerenza delle autorità pubbliche”, al primo comma dell’art. 10 CEDU, il secondo comma di questa disposizione contiene una dettagliata elencazione delle situazioni che possono legittimarne una restrizione.
Nel loro novero vengono richiamate quelle implicanti il ricorso a “misure necessarie … alla sicurezza nazionale, all’integrità territoriale o alla pubblica sicurezza, alla difesa dell’ordine o alla prevenzione dei reati, alla protezione della salute o della moralità, alla protezione della reputazione o dei diritti altrui” [4].
Malgrado il riferimento a tali possibili restrizioni della libertà di espressione, la giurisprudenza della Corte EDU si è ampiamente consolidata nel senso che queste non possono comunque tradursi nella comminatoria di una pena detentiva a carico di chi esercita la libertà di stampa, id est (de)i giornalisti, eccezion fatta per i casi nei quali la loro attività trasmodi in “discorsi d’odio o istigazione alla violenza” [5]. Chiara ed esposta reiteratamente è la motivazione sottostante a questa posizione della Corte EDU: posto che si rinviene nella stampa, icasticamente, il “cane da guardia” della democrazia, la sua funzione essendo quella di assicurare l’informazione dei cittadini riguardo a tutti i possibili abusi dei pubblici poteri, non si potrebbe ammettere che i giornalisti siano dissuasi dall’esercitarla per effetto della possibile inflizione nei loro confronti di una pena detentiva, quand’anche il suo assolvimento integri fatti penalmente illeciti (al di fuori delle due ipotesi sopra riportate). In sostanza, sarebbe proprio l’interesse pubblico alla conoscenza di quei fatti a (dover) prevalere su quello orientato alla prevenzione e alla repressione dei medesimi.
In piena concordanza con quest’impostazione, le decisioni della Corte EDU Belpietro c. Italia del 24 settembre 2013 e Sallusti c. Italia del 7 marzo 2019 avevano ravvisato la violazione dell’art. 10 CEDU nella previsione, da parte del nostro diritto interno, di una pena detentiva –non importa se alternativa o congiunta ad una pena pecuniaria— per le fattispecie di diffamazione a mezzo stampa.
Ora, che l’interesse pubblico alla conoscenza dei comportamenti posti in essere dagli organi pubblici rappresenti, da sempre, una delle ragioni dell’irrilevanza penale della denuncia di fatti in astratto riconducibili entro il perimetro della diffamazione a mezzo stampa è un dato tanto radicato, nella nostra giurisprudenza in materia, da non dover essere nemmeno menzionato. Parimenti condivise sono le motivazioni della valenza che gli viene riconosciuta nell’economia di un ordinamento democratico: solo la possibilità di conoscere, mediante l’attività informativa svolta dalla stampa, i dettagli dell’azione pubblica può permettere ai cittadini l’esercizio di quella funzione di controllo, che consentirà loro di vagliarne i risultati effettivi, nella prospettiva di assumere, nelle sedi opportune, le determinazioni più congrue, in quanto consapevoli, al riguardo.
Tanto premesso con riferimento all’interesse pubblico della notizia diffusa, resta pur sempre fermo che questo, alla stregua dello ius receptum, costituisce solo uno dei tre requisiti concorrenti richiesti perché questa, quando pure rientri nel tipo della diffamazione, possa risultare penalmente irrilevante, in quanto giustificata. A questo devono, infatti, aggiungersi quello della sua veridicità e quello della sua esposizione in forma corretta.
Di queste modalità di bilanciamento fra libertà del diritto di informazione e onore [6] del singolo, invalsa nella prassi, si dimostra ben edotta, del resto, la stessa ordinanza 132/2020 della Corte Costituzionale, quantunque, in modo riduttivo e inesatto, ne faccia risalire la genesi alla (sola) giurisprudenza civile [7].
La Corte, la quale espressamente sottolinea la rilevanza costituzionale del diritto alla reputazione [8], ritiene, nondimeno, che i criteri di contemperamento fra questi interessi contrapposti sinora adottati siano da considerarsi superati.
A questa conclusione la Consulta perviene, anche e soprattutto, in forza della giurisprudenza della Corte Edu sopra richiamata [9]. Nella prospettiva da quest’ultima delineata, la diffusione, da parte della stampa, di notizie in sé e per sé diffamatorie, in quanto non osservanti dei contrassegni che ne condizionano la liceità, non è sufficiente a legittimare l’applicazione, nei confronti del giornalista, della pena detentiva, il ricorso alla medesima potendo aver luogo solo a fronte di discorsi d’odio o di istigazione alla violenza.
Per quanto non manchino, nell’ordinanza citata, puntuali riferimenti ai maggiori vulnera che la reputazione corre il rischio di subire, nell’èra mediatica attuale, per via della più facile propagazione e diffusione di eventuali contenuti diffamatori consentite dalla moderna tecnologia, ciò non vale ad intaccarne i due principali poli argomentativi intorno ai quali si muove: l’esigenza di circoscrivere l’irrogazione della pena detentiva a carico dei giornalisti alle due specifiche evenienze appena evocate, da una parte; quella di demandare al Parlamento l’incombenza di legiferare in materia, dall’altra.
Questi due profili, dal canto loro, necessitano di un esame separato.
La precisa delimitazione dell’intervento della pena detentiva alle due sole ipotesi dei discorsi d’odio e di istigazione alla violenza pone problemi circa il loro effettivo ubi consistam, che non mancano di riverberarsi sulla identificazione degli interessi retrostanti.
Pacifico che il caso dell’istigazione alla violenza segni un limite alla libertà di espressione dettato, secondo il linguaggio domestico, da esigenze di ordine pubblico e, secondo quello conforme al disposto dell’art. 10, comma 2, CEDU, da quelle di “difesa dell’ordine” e di prevenzione dei reati, a un risultato ermeneutico non diverso è dato giungere anche per la ricostruzione del significato da riconoscersi ai “discorsi d’odio”.
All’interno del corpo codicistico, in effetti, l’unico riferimento all’”odio” si rinviene nell’art. 415 c.p., nella porzione che incrimina l’istigazione “all’odio fra le classi sociali” [10]. Data la collocazione della figura di cui trattasi, non sembrano poter sussistere dubbi circa il fatto che la diffusione dell’odio sia stata considerata dal legislatore del 1930 come un fattore di minaccia per l’ordine pubblico.
Se è esatto quanto precede, si comprende come l’ordinanza 132/2020 della Corte Costituzionale, uniformandosi ai princìpi enunciati in materia dalla giurisprudenza della Corte EDU, non abbia semplicemente innovato sulle modalità del bilanciamento di interessi tra libertà di manifestazione del pensiero e reputazione finora invalse nella nostra prassi; ma ne abbia, più radicalmente, mutato i termini. Ciò in quanto ad essere contrapposto alla libertà di espressione non è più il diritto all’onore del singolo, quanto, piuttosto, (il bene giuridico del)l’ordine pubblico.
Ad arginare la portata dirompente dell’operazione interpretativa compiuta dalla Consulta potrebbe valere l’ipotetico rilievo che del concetto di discorso d’odio potrebbe darsi una lettura diversa. Si potrebbe, cioè, sostenere che per tale dovrebbe intendersi un enunciato non avente le caratteristiche oggettive richieste, ad esempio, dall’art. 415 c.p., ma ispirato, comunque, da finalità d’odio. Un siffatto intendimento del discorso d’odio ne escluderebbe proiezioni offensive rispetto all’ordine pubblico e consentirebbe di salvaguardarne una dimensione lesiva nei confronti della reputazione del singolo.
A precludere, nondimeno, questa soluzione ermeneutica sono due fattori: da una parte, essa non trova riscontro alcuno nella giurisprudenza della Corte EDU che a tale specie di discorsi si è richiamata; dall’altra, a fronte della sua plausibilità teorica, le difficoltà probatorie connesse alla dimostrazione della ricorrenza di detta finalità ne precluderebbero l’effettiva recezione.
Quando si fa riferimento a riforme delle sanzioni penali collegate alla diffamazione, è doveroso segnalare immediatamente lo iato esistente fra quelle prefigurate dagli studi più recenti e accreditati in materia [11] e quelle effettivamente all’esame del Parlamento.
Pur nel dato comune del commiato dalla pena detentiva, le prime confinano in un àmbito piuttosto ristretto il ricorso alla pena pecuniaria, eccettuando dalla sua applicazione esclusiva i contesti giornalistici professionali [12], rispetto ai quali dovrebbero trovare spazio sanzioni interdittive, preferibilmente elevate al rango di pene principali, nonché la pubblicazione della sentenza di condanna [13].
Le riforme in discussione in Parlamento, stando –almeno— al d.d.l. Caliendo, si fanno portatrici, invece, di disegni ben più sommari e meno articolati. L’impianto della proposta appena menzionata, infatti, si limita a comminare pene esclusivamente pecuniarie per tutte le ipotesi di diffamazione a mezzo stampa. Il loro ammontare oscilla fra i 5.000 e i 10.000 euro nel caso di diffamazione a mezzo stampa semplice (cfr. l’art. 595, comma 3, c.p.); mentre può variare da un minimo di 10.000 a un massimo di 50.000 euro ove si versi nell’eventualità di una diffamazione a mezzo stampa aggravata dall’attribuzione di un fatto determinato (art. 13 l. 47/1948).
Ora, al di là dei possibili profili di incostituzionalità che il ricorso alla pena pecuniaria evoca, dal momento che la sua applicazione può concretamente incidere, in ragione della sua fungibilità, su un soggetto diverso dal reo e, con ciò stesso, recare un vulnus al principio della personalità della responsabilità penale [14], e delle stesse specifiche ragioni che ne sconsigliano l’impiego in questa materia [15], è evidente che il quadro sanzionatorio emergente dal disegno di legge appena ricordato delinea una sostanziale bagatelizzazione di tutte le fattispecie penali di diffamazione a mezzo stampa.
A fronte dello scenario schiuso da questa prospettiva di riforma, risulta chiaro che, ove questa fosse l’unica disponibile nel momento in cui la Consulta sarà chiamata a esaminare di nuovo la materia, la Corte Costituzionale non potrà sottrarsi a un duplice còmpito. Da un lato dovrà sì curarsi dell’eliminazione della possibilità dell’irrogazione di una pena detentiva a carico di giornalisti responsabili di fatti di diffamazione, in piena conformità con l’interpretazione data all’art. 10 CEDU, disposizione operante nel nostro ordinamento in forza del filtro rappresentato dall’art. 117, comma 1, Cost., dalla giurisprudenza della Corte EDU. Dall’altro dovrà altresì evitare, sulla scia di proprie decisioni precedenti esplicite a questo riguardo [16], che la tutela convenzionale della reputazione, agganciata in termini forzati e imprecisi dall’art. 8 CEDU, scenda al di sotto dei livelli minimi della compatibilità con il suo rango di diritto costituzionalmente garantito (ex art. 2 Cost.), che la stessa ordinanza 132/2020 non manca di riconoscerle.
[1] Il testo delle quali trovasi pubblicato in Sistemapenale.it,, 6 giugno 2020.
[2] La sua versione integrale può leggersi in Sistemapenale.it, 26 giugno 2020.
[3] Sul punto cfr. G.L. GATTA, Carcere per i giornalisti: la Corte costituzionale adotta lo ‘schema-Cappato’, rinviando l’udienza di un anno, in Sistemapenale.it, ove vengono, peraltro, rimarcate differenze tra le due decisioni.
[4] I corsivi sono aggiunti.
[5]Oltre alle decisioni relative ai casi Belpietro e Sallusti, infra riportate nel testo, occorre fare riferimento al fondamentale –nella materia de qua—arresto della Corte EDU 17 dicembre 2004, Campãnã e Mazãre c. Romania.
[6] Il riferimento al concetto di onore, in relazione alle problematiche connesse con la diffamazione, id est con un delitto posto a tutela del bene –asseritamente— diverso della reputazione, pone il problema del rapporto corrente fra questi due oggetti di tutela. Il che si riflette sul tema dell’identità o della diversità fra la fattispecie (oggi abrogata) dell’ingiuria e quella della diffamazione.
Al proposito, ci sembra tuttora condivisibile l’assunto che il bene giuridico tutelato sia o fosse il medesimo (cioè l’onore), le due ipotesi diversificandosi esclusivamente in ragione delle differenti modalità di lesione cui questo era esposto: in questo senso E. MUSCO, Bene giuridico e tutela dell’onore, Milano, 1974, p. 150, 154.
[7] Anteriore, in realtà, alla stessa pronuncia della Sezione prima della Cassazione civile, menzionata al par. 7.3 del Considerato in diritto dell’ordinanza 132/2020, risulta la giurisprudenza penale solidamente ancorata a questi stessi criteri di bilanciamento: in tal senso cfr., ad esempio, Cass. 16 giugno 1981, in Foro it., 1982, c. 313.
[8] Cfr. il par. 7.2 del Considerato in diritto dell’ordinanza in parola.
[9] Cfr. quanto riportato antea nel testo e la nt. 5.
[10] Arricchita, dalla sentenza “manipolativa” 108/1974 della necessità che l’istigazione, di cui trattasi, sia “attuata in modo pericoloso per la pubblica tranquillità”.
[11] In argomento si veda, in particolare, A. VISCONTI, Reputazione, dignità, onore. Confini penalistici e prospettive politico-criminali, Torino, 2018, p. 629 ss..
[12] Cfr. A. VISCONTI, Reputazione, cit., p. 631 s..
[13] In questa direzione è orientata A. VISCONTI, Reputazione, cit., p. 632.
[14] Sul punto già F. BRICOLA, Pene pecuniarie, pene fisse e finalità rieducativa, in ID., Scritti di diritto penale, a cura di S. Canestrari e Al. Melchionda, Vol. I, Tomo I, Milano, 1997, p. 289.
[15] Cfr. A. VISCONTI, op. ult. cit., p. 631.
[16] Cfr. la sentenza 317/2009 della Corte Costituzionale.
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La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.
Foglio di via del Questore: per la Consulta non è necessaria la convalida del giudice.
La Consulta sull’obbligo di testimoniare del prossimo congiunto dell’imputato che sia persona offesa dal reato.
La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.
Foglio di via del Questore: per la Consulta non è necessaria la convalida del giudice.