Cambia la regola di giudizio: dalla sostenibilità dell’accusa in giudizio si passa alla ragionevole previsione di condanna, in ossequio alla volontà deflattiva della riforma del processo penale. A seguito di una disamina della disciplina dell’udienza preliminare dall’entrata in vigore del codice fino ad oggi, si tratta di verificare, da un lato, in che modo cambierà la regola di giudizio, dall’altro di capire se tale mutamento riuscirà finalmente a realizzare la ragionevole durata del processo
From the sustainability of the prosecution to the reasonable expectation of conviction: how does the judgement rule change for archiving and no place to proceed
Change the rule of judgment: from the sustainability of the prosecution in court you go to the reasonable prediction of conviction, in accordance with the deflactive will of the reform of the criminal trial. Following an examination of the discipline of the preliminary hearing from the entry into force of the code to date, it is a question of examining, on the one hand, how the rule of judgment will change and, on the other, whether this change will finally be able to achieve the reasonable duration of the process
SOMMARIO: 1. Premessa: le ragioni della riforma. 2. La regola di giudizio in udienza preliminare nel testo del codice del 1988. 3. La “sostenibilità dell’accusa in giudizio”. 4. Esigenze di cambiamento: la “ragionevole previsione di condanna”. 5. Conclusioni.
1. Premessa: le ragioni della riforma.
Il 19 ottobre 2021 è entrata in vigore la l. 27 ottobre 2021, n. 134 -recante la c.d. “Riforma Cartabia”, ossia la «Delega al Governo per l’efficienza del processo penale nonché’ in materia di giustizia riparativa e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari»- la quale è funzionale alla trasformazione del processo penale attualmente vigente, anche e soprattutto sotto il profilo della ragionevole durata dei procedimenti giudiziari: infatti, l’art. 1 della legge in parola sancisce che le finalità della riforma sono, per l’appunto, la «semplificazione, speditezza e razionalizzazione del processo penale, nel rispetto delle garanzie difensive».
In tale contesto normativo, il legislatore ha inteso perseguire, altresì, la sostanziale modifica della regola di giudizio da applicare tanto in sede di scelta tra l’esercizio dell’azione penale e la richiesta di archiviazione del procedimento ex art. 408 c.p.p., quanto nell’ambito dell’udienza preliminare, quando il giudice deve valutare l’emissione di una sentenza di non luogo a procedere o del decreto che dispone il giudizio.
Segnatamente, l’art, 9, co. 1, lett. a) l. 27 ottobre 2021, n. 134, impone di «modificare la regola di giudizio per la presentazione della richiesta di archiviazione, prevedendo che il pubblico ministero chieda l’archiviazione quando gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non consentono una ragionevole previsione di condanna», nonché di «modificare la regola di giudizio di cui all’articolo 425, comma 3, del codice di procedura penale nel senso di prevedere che il giudice pronunci sentenza di non luogo a procedere quando gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna».
La nuova regola di giudizio suesposta sostituirà quella attualmente vigente, alla cui stregua «il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio» (art. 125 disp. att. c.p.p.) ed il giudice dell’udienza preliminare «pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio» (art. 425, 3° co., c.p.p.).
Da ultimo, l’art. 1, co. 12, lett. d) l. 27 ottobre 2021, n. 134 prevede che per i procedimenti a citazione diretta ex art. 550 c.p.p., per i quali non è contemplata l’udienza preliminare, sia introdotta una specifica udienza predibattimentale in camera di consiglio dinanzi ad un giudice diverso da quello competente per il dibattimento, nella quale l’organo giudicante dovrà pronunciare sentenza di non luogo a procedere se, per l’appunto, «gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna».
Breve: la ragionevole previsione di condanna prende il posto del criterio della necessaria sostenibilità dell’accusa in giudizio, così da tentare di incidere, in maniera efficace, sull’ormai constatata incapacità dell’udienza preliminare a fungere da filtro rispetto a quei procedimenti non meritevoli di approfondimento dibattimentale.
2. La regola di giudizio in udienza preliminare nel testo del codice del 1988.
L’udienza preliminare -come è ampiamente noto- rappresenta un’autentica novità rispetto al previgente codice di rito: essa, nelle intenzioni del legislatore deve rappresentare il passaggio del procedimento penale alla fase propriamente processuale, attraverso l’esercizio dell’azione penale ai sensi e per gli effetti dell’art. 416 c.p.p. e, quindi, con la formulazione dell’imputazione ad opera dell’ufficio del pubblico ministero[1].
La fase procedimentale in parola -la quale è prevista, allo stato, esclusivamente per i reati non indicati dall’art. 550 c.p.p., per i quali l’esercizio dell’azione penale avviene tramite l’emissione del decreto di citazione diretta a giudizio- persegue la funzione di evitare che imputazioni basate su compendi investigativi lacunosi o manifestamente infondati approdino nella fase dibattimentale, in ragione della loro incapacità di sostenere la specifica accusa in giudizio.
Inoltre, l’udienza preliminare è, altresì, “luogo” di accesso ai riti alternativi[2] -con particolare riferimento all’applicazione della pena su richiesta delle parti ed al giudizio abbreviato[3]– i quali rappresentano preziosi strumenti idonei a consentire, per un verso, al “sistema giustizia” di risparmiare risorse e, per altro verso, all’imputato di beneficiare di riduzioni di pena in cambio della “rinuncia” a talune garanzie difensive.
In altri termini, l’udienza preliminare -alla stregua di quanto affermato dalla relazione ministeriale di accompagnamento all’emanazione dell’attuale codice di rito- persegue «una duplice ratio, di garanzia del diritto di difesa dell’imputato e, al tempo stesso di economia processuale. Sul punto sono illuminanti gli orientamenti espressi dal Parlamento là dove ha assegnato all’udienza preliminare il ruolo di «filtro della richiesta di dibattimento avanzata dal pubblico ministero» (v. Relazione Coco, Senato, p. 12) mettendone in luce la «funzione di decongestione del sistema» (v. Relazione Casini, Camera, p. 16)»[4].
Vale a dire: essa ha la funzione, in buona sostanza, di evitare giudizi superflui[5], ossia di frenare le imputazioni azzardate proposte dal pubblico ministero[6], in ossequio al ruolo deflattivo che tale fase è chiamata a ricoprire, con la possibilità per l’imputato di scegliere la definizione del procedimento iscritto a proprio carico con le forme di un rito alternativo. L’udienza preliminare consente in sostanza che venga effettuato un primo controllo sul rispetto dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale ex art. 112 Cost. da parte del giudice, oltre a realizzare «una prima occasione di contatto tra giudice e parti»[7].
In tale contesto normativo, i possibili epiloghi decisori dell’udienza preliminare sono descritti dal combinato disposto degli artt. 425 e 429 c.p.p., relativi -rispettivamente- ai presupposti di emissione di una sentenza di non luogo a procedere e del decreto che dispone il giudizio.
E si spiega.
Nel testo originario del codice del 1988 la sentenza di non luogo a procedere poteva essere emessa, in esclusiva, in presenza di «una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero quando risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non imputabile o non punibile per qualsiasi altra causa il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere, indicandone la causa nel dispositivo»[8].
Pertanto, il sunnominato requisito dell’evidente infondatezza del fatto -che consentiva di prosciogliere l’imputato solo in presenza della prova della totale innocenza, cui veniva equiparata l’ipotesi in cui mancasse del tutto la prova della colpevolezza[9]– non era necessario nell’ipotesi di estinzione del reato, di azione penale che non doveva essere iniziata o proseguita, o se il fatto non era previsto dalla legge come reato, ma solo nei casi in cui il fatto non sussiste, l’imputato non lo ha commesso, il fatto non costituisce reato o si tratti di persona non imputabile o non punibile per qualsiasi altra causa: la specifica distinzione è stata ritenuta ragionevole, stante la differente tipologia di valutazione giurisdizionale richiesta dall’applicazione delle specifiche causali, le quali presupponevano –rispettivamente- una valutazione in diritto e non un giudizio di merito[10].
Stando così le cose, la vecchia formulazione della specifica disposizione normativa rendeva il ruolo dell’udienza preliminare praticamente nullo, essendo rari i casi di evidenza circa la non colpevolezza dell’imputato.
D’altronde, il compito demandato al giudice dell’udienza preliminare era finalizzato alla pronuncia di una sentenza che si esprimesse non sulla colpevolezza dell’imputato, ma sull’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero[11]. Infatti, il giudice veniva chiamato ad una valutazione circa la fondatezza del compendio probatorio cui l’imputazione si sorregge[12], mentre l’evidenza della prova circa la causa di non luogo a procedere manifestava una «relazione con le potenzialità probatorie del dibattimento», e sussisteva in tutti quei casi in cui fosse palese che l’istruzione dibattimentale non avrebbe potuto incidere sulla infondatezza dell’accusa risultante dalla richiesta di rinvio a giudizio[13].
In dottrina, ferma restando la differenza in termini qualitativi delle prove a disposizione del giudice del dibattimento e di quelle a disposizione del giudice dell’udienza preliminare, si è affermato che i due giudizi si atteggiavano in maniera praticamente identica in ordine al procedimento di valutazione del materiale probatorio, laddove il termine “evidenza” «starebbe piuttosto ad indicare la necessità che il risultato di tale valutazione sia apprezzabile in termini di “certezza”: il giudice dell’udienza preliminare pronuncerà quindi una decisione di non luogo a procedere solo quando, per l’assenza di elementi probatori a carico, o perché questi sono neutralizzati dall’esistenza di elementi a discarico, sia possibile pervenire ad un “convincimento di certezza” in ordine alla estraneità dell’imputato ai fatti contestati»[14]; il concetto di certezza serviva ad evitare che la definizione del procedimento avvenisse con una sentenza di non luogo a procedere nei casi di prova incerta circa la causa del proscioglimento, anche nei casi in cui fosse prevedibile «anche nell’udienza preliminare, che il dibattimento non riuscirà ad apportare alcun tipo di chiarimento[15]».
A tal proposito, la Corte costituzionale ha avuto modo di chiarire che in udienza preliminare non si procede ad un accertamento dei fatti[16], sottolineando che l’imputazione costituisce «“l’oggetto” sul quale si misurano il contraddittorio e il tema devoluto all’organo della giurisdizione», evidenziando inoltre la «diversità “quantitativa” che caratterizza l’apprezzamento del merito che si compie nella udienza preliminare rispetto a quello riservato all’organo del dibattimento»[17]; la specifica udienza «non è mai stata concepita come strumento di “accertamento della verità materiale” […] Essa è invece strutturata come una fase processuale, e non di cognizione piena, dato che si è voluto evitare che una valutazione approfondita del merito dell’imputazione da parte del giudice potesse avere, come per il passato, un’influenza condizionante sulla successiva fase del giudizio. La regola di giudizio assegnata al giudice dell’udienza preliminare attiene perciò al rito e non al merito, consiste cioè non in una valutazione di tipo prognostico sulle prospettive di condanna o assoluzione dell’imputato, ma in un controllo sulla legittimità della domanda di giudizio avanzata dal pubblico ministero»[18].
L’aggettivo “evidente” è stato, dunque, espunto dall’art. 425 c.p.p. per mano dell’art. 1, l. 8 aprile 1993, n. 105, essendo stato, per l’appunto, ritenuto il principale responsabile del mancato espletamento della funzione deflattiva dell’udienza preliminare. Si è quindi cercato di restringere la larghezza del filtro in udienza preliminare senza tuttavia chiarire quale fosse la regola di giudizio a seguito della riforma. Sul punto, la giurisprudenza ha evidenziato la necessità di pronunciare il non luogo a procedere non solo in caso fosse provata l’innocenza dell’imputato, ma anche nelle ipotesi in cui il giudice avesse ritenuto, di fronte a compendi probatori scarni o contraddittori, che le citate deficienze non potessero essere “sanate” -o le eventuali incompletezze integrate- nel contraddittorio dibattimentale[19].
La riforma, secondo la Suprema Corte, fu «posta in essere allo scopo di ampliare la valutazione del merito da parte del Giudice dell’udienza preliminare»[20]. Invero, la precedente disciplina manifestava un’evidente irrazionalità, laddove, come accennato, ai fini dell’archiviazione l’art. 125 disp. att. c.p.p. prevedeva una regola di giudizio decisamente più elastica rispetto a quella contemplata dall’art. 425 c.p.p. per il non luogo a procedere[21]: paradossalmente, il medesimo procedimento poteva essere archiviato dal giudice per le indagini preliminari anche per insufficienza probatoria circa la colpevolezza dell’indagato, ma, in caso di esercizio dell’azione penale da parte del pubblico ministero, doveva proseguire in dibattimento a causa della rigidità dello standard di giudizio dell’udienza preliminare, esclusi i casi di evidente infondatezza dell’accusa[22].
Per l’effetto, in dottrina si commentò la modifica normativa rilevando che la riforma aveva ottenuto un’omologazione tra i due criteri di giudizio, laddove si affermava che bisognasse verificare, alla luce delle circostanze del caso concreto, se vi fosse necessità di un vaglio dibattimentale[23].
A seguito della riforma, la Corte costituzionale ha ribadito la natura intimamente processuale della sentenza che mette fine all’udienza preliminare[24], e quindi l’estraneità della stessa a qualsiasi accertamento di merito, evidenziando che il non luogo a procedere, in caso di insufficienza o contraddittorietà della prova, dovesse essere pronunciato solo nei casi in cui il giudice avesse ritenuto il dibattimento inidoneo a dare diverso sviluppo ad eventuali elementi incerti[25].
Nonostante l’eliminazione dell’evidenza probatoria, la funzione deflattiva dell’udienza preliminare non riceveva un sufficiente rafforzamento.
3. (Segue:) La “sostenibilità dell’accusa in giudizio”.
La disciplina dell’udienza preliminare, come già anticipato, è stata oggetto di plurime riforme -già prima dell’avvento della “Riforma Cartabia”- nel tentativo di renderla più aderente all’istanze di efficienza provenienti da coloro che operano nell’ambito del sistema giustizia.
In particolare, in tale contesto non si può prescindere dal considerare la modifica più rilevante alla disciplina de qua avvenuta con la l. 16 dicembre 1999, n. 479 (c.d. “Legge Carotti”)[26], la quale, tra le altre cose, ha inciso, in maniera sostanziale, sui poteri istruttori in capo al giudice dell’udienza preliminare, con particolare riferimento ai nuovi artt. 421-bis[27] e 422[28] c.p.p.
Stando così le cose, in primo luogo, i poteri istruttori del giudice dell’udienza preliminare sono stati introdotti per consentire al giudice di intervenire con maggior vigore nella specifica fase procedimentale, tramite l’eventuale indicazione al pubblico ministero delle ulteriori indagini da compiere -con relativo termine finale entro il quale esse debbano essere espletate- le quali si ritengono necessarie ai fini della decisione.
In secondo luogo, è consentito al giudice dell’udienza preliminare procedere all’assunzione di mezzi di prova -d’ufficio o su istanza di parte- purché essi appaiano decisivi ai fini dell’emissione di una sentenza di non luogo a procedere nei confronti dell’imputato. In altri termini, il giudice, se dovesse ritenere il compendio “probatorio” presentato dal pubblico ministero di dubbio spessore, e se, parimenti, dovesse ritenere che eventuali ulteriori indagini non possano colmare tale lacuna, può disporre l’assunzione probatoria, ma solo se ritenga che dalla specifica attività istruttoria possano emergere elementi favorevoli all’imputato. Quanto detto implica necessariamente che il giudicante evidentemente già propende verso il proscioglimento dell’imputato ma è impossibilitato a pronunciarlo a causa di un compendio probatorio equivoco, in relazione al quale l’assunzione probatoria potrebbe servire a fare chiarezza.
Tornando al tema che qui maggiormente rileva, l’art. 23 della suindicata l. 16 dicembre 1999, n. 479 ha modificato, altresì, l’art. 425 c.p.p., alla stregua del quale «1.Se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato ovvero quando risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere, indicandone la causa nel dispositivo. 2. Ai fini della pronuncia della sentenza di cui al comma 1, il giudice tiene conto delle circostanze attenuanti. Si applicano le disposizioni dell’art. 69 del codice penale. 3. Il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio. 4. Il giudice non può pronunciare sentenza di non luogo a procedere se ritiene che dal proscioglimento dovrebbe conseguire l’applicazione di una misura di sicurezza diversa dalla confisca. 5. Si applicano le disposizioni dell’art. 537.».
Per l’effetto, la modifica più rilevante ha riguardato, com’è noto, la regola di giudizio alla stregua della quale il giudice dell’udienza preliminare deve valutare la posizione processuale dell’imputato. In particolare, ai sensi e per gli effetti del succitato art. 425, 3° comma, c.p.p., il concetto di “insufficienza” si riferisce ad una lacuna quantitativa del quadro probatorio addotto dal pubblico ministero a sostegno dell’accusa; il concetto di “contraddittorietà” si riferisce al contrasto interno al compendio probatorio tra elementi di prova raccolti; infine, il concetto di “inidoneità”, poiché preceduta dall’avverbio “comunque”, ricomprende la due ipotesi che la precedono, oltre a tutti gli altri casi in cui il quadro probatorio risultante in udienza preliminare, ancorché sufficiente e non contraddittorio, non risulti adeguato a sostenere l’accusa in giudizio per motivi diversi.
Stando così le cose, non deve sorprendere, allora, se la Consulta anche in questo caso ha ribadito la natura prettamente processuale dell’udienza preliminare[29].
Infatti, il giudice delle leggi ha dichiarato che «deve sottolinearsi come le pur significative e rilevanti modifiche che la legge n. 479 del 1999 ha apportato alla disciplina della udienza preliminare, pur avendo contribuito a ridefinire, in termini di maggior pregnanza, la struttura, la dinamica ed i contenuti decisori di quella fase, non ne hanno tuttavia mutato le connotazioni eminentemente processuali che ne contraddistinguono l’essenza; che al di là delle segnalate innovazioni, infatti, la funzione della udienza preliminare era e resta quella di verificare – sia pure alla luce di una valutazione “contenutistica” più penetrante rispetto al passato – l’esistenza dei presupposti per l’accoglimento della domanda di giudizio formulata dal Pubblico Ministero, cosicché, ad una richiesta in rito, non può non corrispondere, in capo al Giudice, una decisione di eguale natura, proprio perché anch’essa calibrata sulla prognosi di non superfluità del sollecitato passaggio alla fase dibattimentale; che in tale prospettiva, il mutamento del quadro di accusa ben può ricevere, dunque, quanto a modalità di contestazione, una disciplina difforme e più snella rispetto a quella dettata per il dibattimento, posto che in tale ultima fase lo sviluppo delle serie probatorie e l’oggetto del contraddittorio si proiettano, non verso una statuizione destinata unicamente a regolare il futuro iter del processo – quale è la decisione che conclude l’udienza preliminare – ma verso una sentenza chiamata a definire direttamente il merito della regiudicanda e suscettibile di assumere i caratteri e la “forza” del giudicato»[30].
Sennonché, ad un mese dalla pronuncia appena citata, la Consulta forniva una ricostruzione diversa, definendo il compito cui è chiamato il giudice una valutazione che ormai doveva considerarsi di merito[31]; le specifiche considerazioni sembrano venire confermate in una pronuncia del 2002[32], in cui la Corte dichiara che l’art. 425 c.p.p., come modificato dalla l. 16 dicembre 1999, n. 479, impone al giudice di valutare nel merito la fondatezza dell’accusa, non intendendo tuttavia, con tale affermazione, concepire la valutazione del giudice dell’udienza preliminare al pari di quella del giudice del dibattimento, chiamato a decidere sulla colpevolezza dell’imputato. Si legge infatti nella sentenza: «i contenuti delle decisioni che concludono l’udienza preliminare hanno assunto […] una diversa e maggiore pregnanza. Il giudice infatti non è solo chiamato a valutare, ai fini della pronuncia di non luogo a procedere, se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato, ovvero se risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso o non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, tenendo conto, se del caso, delle circostanze attenuanti e applicando l’art. 69 del codice penale (art. 425, commi 1 e 2, cod. proc. pen.). Il giudice deve considerare inoltre se gli elementi acquisiti risultino sufficienti, non contraddittori o comunque idonei a sostenere l’accusa nel giudizio (art. 425, comma 3, cod. proc. pen.), dovendosi determinare, se no, a disporre il non luogo a procedere; se sì, a disporre il giudizio. Il nuovo art. 425 del codice, in questo modo, chiama il giudice a una valutazione di merito sulla consistenza dell’accusa, consistente in una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase dibattimentale». Affermare che il giudice è chiamato a pronunciarsi “sul merito della consistenza dell’accusa” non significa però accertare l’esistenza di un fatto-reato e la possibilità di attribuirlo all’imputato. Difatti, come si legge in sentenza, la Consulta specifica che la predetta valutazione consiste in una “prognosi sulla possibilità di successo nella fase dibattimentale”, che allontana fortemente la sentenza emessa all’esito dell’udienza preliminare da una decisione di merito, evidenziandone piuttosto, in linea con la precedente giurisprudenza, la natura processuale.
Anche la giurisprudenza di legittimità successiva alla riforma ha confermato la natura meramente processuale della sentenza di non luogo a procedere[33], che ormai sembra un argomento pacifico.
In particolare, con riguardo alla nuova regola di giudizio di cui all’art. 425, 3° co., c.p.p., si sono divise il campo tre interpretazioni.
La prima si fonda sulla cd. “teoria dell’innocenza evidente”, secondo cui il non luogo a procedere va preferito quando gli elementi acquisiti fanno emergere l’innocenza dell’imputato, rendendo inutile il dibattimento. Il termine “evidenza” riporta alla mente l’originaria formulazione dell’art. 425 c.p.p., ispirata alla ratio della teoria testé citata, secondo cui per il proscioglimento serviva l’assoluta mancanza di qualsiasi incertezza in ordine alla innocenza dell’imputato, sia in termini di prova positiva dell’innocenza stessa, sia in termini di assenza di prove circa la colpevolezza, portando al rinvio a giudizio nei casi dubbi[34].
Appare chiaro come tale teoria non potrebbe spiegare l’attuale regola di giudizio, in quanto il legislatore, dapprima sopprimendo il termine evidente con la l. n. 105 del 1993, poi contemplando espressamente il non luogo a procedere nei casi di insufficienza o contraddittorietà della prova con la l. 479 del 1999, ha deciso di esaltare il ruolo di filtro dell’udienza preliminare che l’evidenza probatoria invece sviliva.
La seconda interpretazione si fonda sulla cd. “teoria della condanna probabile” -che è stata recepita dalla Corte costituzionale- secondo la quale bisogna riferirsi alle probabilità di successo della tesi dell’accusa in dibattimento per sciogliere il dubbio tra rinvio a giudizio e non luogo a procedere[35]. La specifica teoria impone al giudice di rinviare a giudizio l’imputato quando, alla luce delle risultanze investigative, è probabile che il dibattimento si concluderà con una sentenza di condanna. Per l’effetto, in tale ipotesi, l’udienza preliminare si manifesta come un filtro a maglie strette, laddove il giudice è tenuto a prosciogliere in caso di compendi “probatori” incerti circa la colpevolezza dell’imputato[36]. È facilmente intuibile che in ossequio a detta teoria il giudice è tenuto a prosciogliere l’imputato non solo in caso di insufficienza o contraddittorietà degli elementi a carico, ma anche quando, nonostante un compendio “probatorio” ictu oculi esauriente, ritenga che in dibattimento non verrà raggiunta la prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio.
La terza impostazione fa riferimento alla cd. “teoria dell’utilità del dibattimento”[37], in virtù della quale il giudice deve formulare non luogo a procedere nei in cui si manifesti la superfluità del giudizio, attraverso una valutazione di natura prognostica avente ad oggetto l’utilità del dibattimento, optando per il rinvio a giudizio in presenza di casi “aperti”, ossia incerti, suscettibili di percorrere molteplici strade all’esito del vaglio dibattimentale.
La giurisprudenza di legittimità successiva alla riforma si è espressa in maniera conforme all’ultima teoria[38], ritenendo non pronunciabile il non luogo a procedere in presenza di elementi insufficienti o contraddittori che «appaiano ragionevolmente superabili nel dibattimento, non dovendo egli accertare l’innocenza o la colpevolezza dell’imputato, bensì la sostenibilità dell’accusa in giudizio»[39]
L’impostazione è stata ribadita anche dalle Sezioni unite della Corte di Cassazione, secondo cui «nel contesto delle sopravvenute, significative, novità normative (in particolare, la L. n. 479 del 1999) e dei plurimi interventi della Corte costituzionale (v., fra le tante, sentt. n. 224 del 2001 e n. 335 del 2002), si è imposta un’opportuna rimeditazione riguardo alla struttura e alle funzioni dell’udienza preliminare, nel senso di una sua progressiva marginalizzazione quale “momento processuale” orientato al mero controllo dell’azione penale promossa dal P.M. in vista dell’apertura della fase del giudizio, e, per contro, del suo avvicinamento ai segmenti di uno sviluppo procedimentale in cui, per la completezza del quadro probatorio di cui il giudice dispone, per il potenziamento dei poteri riconosciuti alle parti in materia di prova e per l’obiettivo arricchimento, qualitativo e quantitativo, dell’orizzonte prospettico del giudice rispetto all’epilogo decisionale, è stimolata la valutazione del “merito” circa la consistenza dell’accusa, in base ad una prognosi sulla possibilità di successo nella fase dibattimentale»[40]. Dopo la pronuncia delle Sezioni Unite la Suprema Corte ha mantenuto saldamente la stessa impostazione[41].
Il ruolo del giudice dell’udienza preliminare è stato ricondotto da alcuni ad un controllo circa l’eventuale integrabilità della prova che appare insufficiente o contraddittoria nella fase dell’udienza preliminare, e non tramite un giudizio prognostico che vede al centro il dibattimento[42]. Se così non fosse, si legittimerebbe una presunzione di “necessaria utilità” del dibattimento[43] che avrebbe come logica conseguenza una declaratoria di inutilità dell’udienza preliminare, stante la sua abdicazione al ruolo di setaccio della giustizia penale[44].
Lo sforzo ermeneutico, per quanto degno di nota, non convince. Non si può andare al di là del dato normativo. L’art. 425, co. 3, c.p.p. è netto nell’affermare che «il giudice pronuncia sentenza di non luogo a procedere anche quando gli elementi acquisiti risultano insufficienti, contraddittori o comunque non idonei a sostenere l’accusa in giudizio». Una volta accertata l’impossibilità di prosciogliere l’imputato con una delle formule indicate dal comma 1 dell’art. 425, il giudice deve verificare la sostenibilità dell’accusa sulla base degli elementi di prova addotti dal pubblico ministero. È chiaro che l’insostenibilità contiene anche l’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi: un compendio probatorio insufficiente o contraddittorio non potrebbe mai rivelarsi idoneo a sostenere l’accusa in dibattimento, per cui il giudice è necessariamente chiamato ad un giudizio di tipo prognostico sulle chance che ha il pubblico ministero di dimostrare la colpevolezza dell’imputato con gli elementi presentati. Se contraddittori, quindi tendenti ad esiti equivoci, o se insufficienti, ossia carenti quantitativamente, l’accusa non può essere sostenuta in giudizio. Oltre queste due espresse ipotesi, il giudice proscioglie in ogni altro caso in cui gli elementi risultano inidonei a sostenere l’accusa in giudizio. È chiaro che la ricostruzione della sostenibilità dell’accusa in giudizio posa sulla teoria dell’utilità del dibattimento.
È evidente che in udienza preliminare non siamo di fronte ad un accertamento dello stesso tipo di quello effettuato dal giudice del dibattimento, ma di un giudizio sul “peso” del fascicolo delle indagini preliminari. “Inidoneità degli atti a sostenere l’accusa”, o “insostenibilità dell’accusa”, è una formula che indica cedevolezza. Essa dà l’idea di una costruzione dotata di fondamenta fragili, quindi sorretta da materiale inidoneo. Così è l’accusa del pubblico ministero quando richiede il rinvio a giudizio dell’imputato senza addurre un fascicolo che contenga sufficienti elementi atti a reggere il prossimo confronto dibattimentale, quindi inidonei a dimostrare la tesi accusatoria esplicata nel capo d’imputazione. Ne consegue l’inutilità del giudizio e il dovere di evitare alla collettività un superfluo dispendio di risorse e all’imputato il patema del dibattimento.
Parte della dottrina riteneva che il comma 3 dell’art. 425 c.p.p. legittimasse l’interpretazione della regola di giudizio alla stregua della teoria della condanna probabile. La norma porrebbe le ipotesi di insufficienza o contraddittorietà su un piano e quella dell’inidoneità su un altro piano, laddove le prime due esprimerebbero una regola analoga a quella contenuta nell’art. 530, co. 2, c.p.p., mentre l’inidoneità farebbe riferimento alla impossibilità per il pubblico ministero di adempiere il proprio onere probatorio in giudizio. Tuttavia, un’esegesi del genere non terrebbe conto del dato letterale, laddove la contraddittorietà, l’insufficienza e la inidoneità degli elementi sono formule che fanno riferimento al compendio probatorio proiettato in dibattimento, e quindi all’idoneità a consentire al pubblico ministero di sostenere l’accusa formulata in imputazione, e non una valutazione di attendibilità delle prove funzionale all’accertamento della colpevolezza dell’imputato.
4. Esigenze di cambiamento: la “ragionevole previsione di condanna”.
La “Riforma Cartabia”, come accennato in precedenza, ha modificato la regola di giudizio dell’udienza preliminare e del procedimento di archiviazione, nella prospettiva di imporre il pronunciamento della sentenza di non luogo a procedere e del provvedimento di archiviazione solo qualora dagli atti non risulti una ragionevole previsione di condanna.
In proposito, nella Relazione della Commissione Lattanzi, a proposito dell’archiviazione, si legge: «la Commissione ritiene che, alla luce dell’evoluzione della fase preliminare, vada superato il criterio dell’astratta utilità dell’accertamento dibattimentale; a seguito di indagini che – in linea con quanto richiesto dalla Corte costituzionale – devono risultare tendenzialmente complete (e possono avere una durata significativa), il pubblico ministero sarà chiamato a esercitare l’azione penale solo quando gli elementi raccolti risultino – sulla base di una sorta di “diagnosi prognostica” – tali da poter condurre alla condanna dell’imputato secondo la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tanto in un eventuale giudizio abbreviato, quanto nel dibattimento. Al contrario, laddove il quadro cognitivo si connoti per la mancanza di elementi capaci di sorreggere una pronuncia di condanna, il pubblico ministero dovrà optare per l’inazione». Di seguito, in ordine all’udienza preliminare, la Relazione sottolinea «l’inefficacia dell’udienza preliminare a svolgere il ruolo filtro attribuitole dalla sistematica del codice del 1988. Nonostante i plurimi interventi di modifica, dopo trent’anni i dati statistici sono impietosi e dimostrano che, nei casi in cui l’udienza preliminare si conclude con un rinvio a giudizio (ossia nel 63% dei casi), essa genera un aumento di durata del processo di primo grado di circa 400 gg. Complessivamente, l‘udienza preliminare filtra poco più del 10% delle imputazioni per i processi nei quali è prevista e non incide peraltro in modo significativo sul tasso dei proscioglimenti in dibattimento. Va segnalato che, anche in Inghilterra, dove è nata come sbarramento delle imputazioni azzardate del privato, essa è stata trasformata in contraddittorio cartolare e alfine abbandonata, in favore di un filtro, a richiesta, davanti allo stesso giudice del trial. Sulla base di tali considerazioni, l’intervento proposto si articola in una duplice direzione: per un verso, una ragionevole limitazione dell’ambito applicativo dell’udienza preliminare; per altro verso, una ristrutturazione dell’istituto stesso, con la rielaborazione della regola di giudizio per la pronuncia della sentenza di non luogo a procedere – che viene allineata all’analoga previsione in sede di archiviazione e quindi risulta basata, pur nella diversità del momento, sulla medesima valutazione di sufficienza degli elementi raccolti ai fini della condanna in dibattimento – e con la regolamentazione di uno spazio di controllo giurisdizionale e in contraddittorio sull’imputazione formulata dal pubblico ministero.».
Nel progetto preliminare del codice, il vecchio art. 115 disp. att. c.p.p. -poi diventato l’attuale 125 disp. att. c.p.p.- imponeva al pubblico ministero di richiedere l’archiviazione qualora avesse ritenuto che gli elementi acquisiti “non erano sufficienti al fine della condanna dell’imputato”. Tale formula destò perplessità, specie riguardo all’omologazione di regole chiamate a militare in fasi diverse[45].
L’impostazione veniva poi abbandonata a favore dell’attuale regola decisoria della sostenibilità dell’accusa in giudizio, in quanto si è affermato che il legislatore ha ritenuto che la valutazione del pubblico ministero dovesse muoversi verso l’idoneità delle indagini a sostenere l’impostazione accusatoria piuttosto che esprimere un giudizio sulla responsabilità penale dell’indagato[46]. Conferma di tale impostazione proviene anche dalla giurisprudenza della Corte costituzionale, che nella sentenza n. 88 del 1991 asseriva che: «L’art. 115 disponeva che “il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene che gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sarebbero sufficienti al fine della condanna degli imputati”, mentre l’art. 125 del testo definitivo dispone che “il pubblico ministero presenta al giudice la richiesta di archiviazione quando ritiene l’infondatezza della notizia di reato perché gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio”. È evidente, innanzitutto, che la formula iniziale comportava che all’oggetto proprio della valutazione del pubblico ministero circa i risultati delle indagini ai fini dell’esercizio, o no, dell’azione si sostituisse l’oggetto proprio della valutazione del giudice, che investe, appunto, la sufficienza delle prove per la condanna: e ciò in netta contraddizione con il fatto che, nel sistema del codice, quest’ultimo giudizio è frutto di un materiale probatorio da acquisire nel dibattimento».
Tuttavia, sono emersi immediatamente alcuni problemi circa il rapporto tra l’originaria regola di giudizio sottesa al non luogo a procedere e quella relativa all’archiviazione, laddove quest’ultima viene pronunciata in caso di infondatezza della notizia di reato ex art. 408 c.p.p.[47], che si palesa quando, a mente dell’art. 125 disp. att. c.p.p., «gli elementi acquisiti nelle indagini preliminari non sono idonei a sostenere l’accusa in giudizio». Così concepita, la regola di giudizio dell’archiviazione risultava ben più ampia rispetto a quella relativa al non luogo a procedere; distinzione giustificata, secondo la Corte costituzionale, dalle differenti ratio sottese alle due fasi, esplicata dalla Corte nella già citata sentenza n. 88 del 1991, nella quale si legge che «la differenza si giustifica, con la diversa funzione che le due regole assolvono nella logica del sistema del codice, coerentemente alla diversità delle fasi – rispettivamente, anteriore o successiva all’esercizio dell’azione penale – in cui sono destinate ad operare. Nella prima fase, il controllo del giudice è volto sì a non dar ingresso ad accuse insostenibili, ma ancor più a far fronte all’eventuale inerzia del pubblico ministero, additandogli la necessita di ulteriori indagini – non soggette a particolari limitazioni – e perfino ordinandogli di formulare l’imputazione: sicché ciò che fondamentalmente si garantisce è l’obbligatorietà dell’azione penale. Nella seconda fase, ulteriori indagini sono, invece, consentite solo se risultino “decisive” ai fini del rinvio a giudizio o del proscioglimento (art. 422); ed il controllo del giudice si svolge in chiave essenzialmente garantistica, diretto cioè a tutelare l’imputato contro accuse che, in esito al contraddittorio, si siano rivelate palesemente infondate. La diversa finalità delle due fasi e delle rispettive regole è, peraltro, coerente, ad un tempo, con la logica del “favor actionis” e con la caratterizzazione del sistema in senso accusatorio. La Corte è consapevole che la tendenza ad allargare l’area di operatività dell’archiviazione – tendenza manifestatasi prima con la redazione dell’art. 115, poi con interpretazioni dell’art. 125 volte a stabilire una sostanziale omogeneità con quello – dipende essenzialmente da preoccupazioni di deflazione dibattimentale, che la stessa Corte è ben lungi dal sottovalutare, pur dovendo rilevare come esse non bastino a legittimare interpretazioni collidenti con i principi dinanzi richiamati. Infatti, il legislatore delegante non ha considerato l’archiviazione in funzione deflattiva, tant’e che nei lavori parlamentari non esiste traccia di indicazioni tendenti a perseguire, con la sua configurazione, obiettivi di economia processuale. A tal fine, sono stati previsti altri strumenti, quali i riti alternativi ed un largo impiego del procedimento pretorile»[48].
A seguito dell’eliminazione del consenso del pubblico ministero al fine dell’accesso al giudizio abbreviato da parte dell’imputato, si è sostenuto che la Corte costituzionale dovesse individuare diversi indici sulla base dei quali parametrare la completezza delle indagini, i quali dovrebbero essere adeguati alla possibilità che in udienza preliminare venga pronunciata una sentenza a seguito di rito abbreviato, la quale dovrebbe presupporre indagini complete[49]. Tuttavia si è ribattuto che la scelta circa l’esercizio dell’azione penale, secondo tale impostazione, debba essere sempre subordinata al raggiungimento della certezza probatoria[50]; al contrario, la giurisprudenza ha sempre interpretato la sostenibilità dell’accusa in giudizio con riferimento all’utilità del dibattimento. D’altronde, al giudice dell’udienza preliminare è dato sia indicare al pubblico ministero le ulteriori indagini da compiere in caso di incompletezza delle stesse, sia disporre dei poteri di integrazione probatoria.
Secondo la nuova regola di giudizio, il giudice è chiamato oggi ad una valutazione molto più approfondita sugli elementi acquisiti dal pubblico ministero[51], per verificare poi se questi siano idonei, se confermati in dibattimento -e quindi in una prospettiva prognostica- a provare la colpevolezza dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio, e non più solo a sostenere l’accusa in giudizio. In caso di compendi probatori dubbi, il giudice dovrà ponderare in maniera attenta la propria decisione. Per logica, elementi di prova incerti non possono far ritenere raggiungibile la prova della colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, ma non è detto che l’istruttoria dibattimentale non riesca a far luce sui punti d’ombra. In materia, vi sono Autori che hanno suggerito che il giudice debba far uso dei canoni di giudizio di cui agli articoli 530 e 533 c.p.p., e quindi delle regole di valutazione della prova analoghe a quelle utilizzate dal giudice del dibattimento[52].
Tuttavia, non sembra che il legislatore abbia inteso la riforma nel senso di anticipare la fase dibattimentale in udienza preliminare, che altrimenti si trasformerebbe in un primo grado di giudizio. Questo perché il giudice del dibattimento è chiamato ad accertare se il fatto-reato è addebitabile all’imputato, e quindi se è provata la colpevolezza al di là di ogni ragionevole dubbio, mentre il giudice dell’udienza preliminare è tenuto ad effettuare un giudizio prognostico che ha come esito pur sempre un provvedimento di natura processuale che assolve una funzione di filtro.
In tema, anche il Consiglio Superiore della Magistratura ha preferito un’interpretazione che opta per il parallelismo tra la “ragionevole previsione di condanna” e il b.a.r.d. Si legge infatti nel parere espresso dal C.S.M. sulla “Riforma Cartabia” che «rispetto alla più generica formula della “ragionevole previsione di accoglimento della prospettazione accusatoria in giudizio” usata originariamente dal legislatore del D.d.l., il criterio della “ragionevole previsione di condanna” sembra assimilare la soglia probatoria cui il pubblico ministero deve improntare la propria valutazione prognostica a quella del giudice che può pronunciare una sentenza di condanna solo se l’imputato risulti colpevole del reato contestatogli “oltre ogni ragionevole dubbio” (art. 533, co. 1, c.p.p.).»[53]. In sostanza, il giudice per le indagini preliminari, il giudice dell’udienza preliminare ed il giudice del dibattimento dovrebbero decidere secondo la medesima regola di giudizio, e quindi anche i primi due dovrebbero accertare se l’indagato/imputato è colpevole al di là di ogni ragionevole dubbio. È chiaro che nessuna omologazione è possibile tra la ragionevole previsione di condanna e la prova della colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio sul piano strutturale. Il parallelismo è ammissibile solo sul piano della metodologia del ragionamento probatorio, non sullo standard; in altri termini, nelle fase iniziali l’organo giudicante deve adottare un metodo analogo a quello utilizzato dal giudice del dibattimento ma da cui promana un provvedimento strutturalmente diverso.
Il giudice dovrà disporre l’archiviazione e il non luogo a procedere, e il pubblico ministero dovrà richiedere l’archiviazione, in caso di prognosi di assoluzione, in quanto compito principale dell’udienza preliminare è quello di indicare quali procedimenti meritano di proseguire verso la fase dibattimentale e quali meritano invece di fermarsi perché non si prospetta che l’imputato verrà condannato. D’altronde giustamente è stato fatto notare come appare sorprendente richiamare il principio b.a.r.d. all’interno di fasi del procedimento in cui l’indagato o l’imputato non hanno ancora avuto modo di sviluppare adeguatamente le loro facoltà difensive[54], specie per quel che riguarda la fase delle indagini preliminari. Inoltre, la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio trova naturale sede nella fase processuale dove la prova viene formata secondo il metodo epistemologico che attualmente la scienza e l’esperienza ci forniscono, ossia il contraddittorio nelle forme dell’esame incrociato, il quale non trova applicazione neanche in udienza preliminare per espressa previsione dell’art. 422, 3° comma, c.p.p., richiamato anche dall’art. 441, 6° comma, c.p.p. in caso di integrazione probatoria disposta dal giudice a seguito di giudizio abbreviato, disposizioni sulle quali il legislatore non è intervenuto.
Le suspecificate argomentazioni a sostegno della regola decisoria della “sostenibilità dell’accusa in giudizio” hanno portato il legislatore alla modifica della regola di giudizio per archiviare, sostituendo all’attuale formula quella della ragionevole previsione di condanna, con ciò differendo dall’opzione scelta dalla Commissione Lattanzi, in cui era parso condivisibile imporre l’archiviazione e il non luogo a procedere «laddove [fosse emerso] che gli elementi acquisiti non [erano] tali da determinare la condanna».
La differenza tra le due formule risalta ove si consideri che l’eliminazione dell’elemento predittivo avrebbe certamente degradato il profilo prognostico della decisione del giudice esaltando quello diagnostico. Tuttavia tale lettura non trova conferma nella Relazione finale della Commissione, dove prevale una regola di valutazione che tende ad equilibrare i due profili. Si legge infatti che «il pubblico ministero sarà chiamato a esercitare l’azione penale solo quando gli elementi raccolti risultino – sulla base di una sorta di “diagnosi prognostica” – tali da poter condurre alla condanna dell’imputato secondo la regola dell’oltre ogni ragionevole dubbio, tanto in un eventuale giudizio abbreviato, quanto nel dibattimento. Al contrario, laddove il quadro cognitivo si connoti per la mancanza di elementi capaci di sorreggere una pronuncia di condanna, il pubblico ministero dovrà optare per l’inazione»[55]. In sostanza il giudizio di cui all’art. 533 c.p.p. si palesava già nella fase delle indagini; ne consegue che il rinvio a giudizio avrebbe dovuto essere pronunciato in assenza di ragionevoli dubbi circa la colpevolezza dell’imputato. Va da sé che tale regola di giudizio avrebbe di fatto minato la centralità del processo per spostarla verso fasi antecedenti, richiedendo una pronuncia sulla colpevolezza dell’imputato al di là di ogni ragionevole dubbio anche in una fase in cui non sia stata ancora formulata l’imputazione[56].
Di converso, neanche si può ritenere ragionevolmente prevedibile la condanna nelle ipotesi in cui il pubblico ministero o il giudice, di fronte a panorami probatori incerti, considerino ragionevole che dal successivo dibattimento possano derivare contributi idonei a superare le anzidette incertezze circa la responsabilità dell’imputato[57]. Com’è facile intuire, tale impostazione nasconderebbe un ritorno del criterio della utilità del dibattimento, a nulla rilevando il cambio della regola di giudizio, che formalmente sarebbe quella della ragionevole previsione di condanna mentre nella sostanza rimarrebbe quella della sostenibilità dell’accusa in giudizio.
Ictu oculi la regola di giudizio sembra ispirarsi alla teoria della condanna probabile, che evoca necessariamente un giudizio di natura probabilistica, in quanto «il ragionamento che impone una previsione è necessariamente probabilistico»[58]. Si tratta di capire quando una condanna è prevedibile e, di conseguenza, quando essa non lo è.
La prevedibilità si basa di solito sullo studio delle serie storiche, secondo cui ciò che è successo in passato potrebbe ripetersi in futuro. A tal fine possono essere usati il modello induttivo o quello deduttivo.
Il primo si basa principalmente sui precedenti giurisprudenziali: ad esempio se 10 sentenze su 100 dicono che in caso di x allora si applica y in futuro ci sarà il 10% di possibilità che il giudice nel caso x applicherà y. Tuttavia il modello induttivo non può essere utilizzato per una serie di ragioni. La prima è che il giudice chiamato ad operare in un sistema di civil law non è obbligato a conformarsi al precedente giurisprudenziale; in secondo luogo tale modello può essere utilizzato solo per questioni su cui siano presenti un numero considerevole di precedenti, ma anche se così fosse nulla vieta che i precedenti rappresentino degli errori, e un errore ancorché ripetuto più volte rimane sempre tale; infine, una sentenza non si basa sul numero dei precedenti a favore dell’una o dell’altra soluzione, ma sulla qualità dei percorsi logico-giuridici adottati[59].
Di contro, il modello deduttivo si basa principalmente sull’applicazione della legge ed è quindi più conforme al sistema processuale italiano, secondo cui il giudice è soggetto soltanto alla legge stessa (art. 101, co. 2 Cost.). Si farà riferimento quindi alle regole dettate dagli articoli 12 e 14 delle disposizioni sulla legge in generale (cd. preleggi)[60].
In sostanza lo standard da applicare è quello della probabilità cruciale, ossia il criterio del “più probabile che non” secondo la formula P(c) > 50% (probabilità P di condanna C maggiore del 50%). Il giudice deve prevedere, ossia effettuare una prognosi sul principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio (e non accertare la colpevolezza oltre ogni ragionevole dubbio); la prognosi relativa al principio b.a.r.d. deve tradursi in uno standard superiore al 50% rispetto all’ipotesi contrastante in quanto una previsione siffatta non può non essere superiore al 50%. Di conseguenza previsioni che vadano al di sotto di tale soglia dovranno portare alla pronuncia di una sentenza di non luogo a procedere (o all’archiviazione del procedimento). Se la difesa ad esempio prospetta ipotesi alternative che sono equivalenti a quelle dell’accusa il g.u.p. deve prosciogliere.
5. Conclusioni.
La capacità deflattiva della nuova regola di valutazione verrà dimostrata solo dai dati che promaneranno dalla sua concreta applicazione.
Il codice di procedura penale dimostra una certa rigidità per i provvedimenti suscettibili di portare alla chiusura del procedimento, a differenza dei provvedimenti che spingono il procedimento verso fasi successive. Pensiamo all’obbligo per il pubblico ministero di motivare la richiesta di archiviazione ma non la richiesta di rinvio a giudizio; o all’obbligo per il giudice di motivare il provvedimento di archiviazione e la sentenza di non luogo a procedere ma non il decreto di rinvio a giudizio.
Certo è che, com’è stato acutamente osservato, in decisioni di questo tipo – volte cioè a prevedere ciò che succederà nelle fasi successive del procedimento, come nel caso dei gravi indizi di colpevolezza inerenti alle misure cautelari – denotano un intrinseco elemento di discrezionalità in capo all’organo chiamato a decidere, che probabilmente nessuna riforma riuscirà mai ad intaccare[61]. Occorre, tuttavia, osservare che, specie per quel che riguarda la fase cautelare, il margine di errore sale significativamente rispetto ad altre decisioni, in quanto la provvisorietà degli elementi da un lato e la mancanza di contraddittorio dall’altro, portano il giudice a decidere sulla base di dati qualitativamente scarsi rispetto a quelli a disposizione non solo del giudice del dibattimento ma anche di quello dell’udienza preliminare.
A ciò si aggiunge l’eventualità, che permane nonostante la modifica della regola valutativa, che il pubblico ministero, di fronte ad un quadro investigativo incerto, confidi nello sviluppo dibattimentale degli elementi raccolti o nell’acquisizione di ulteriori elementi[62]. Ma anche in siffatte ipotesi, in cui il pubblico ministero, pur consapevole di richiedere il rinvio a giudizio sulla base di materiale probatorio non esauriente, troverà di fronte a sé un giudice chiamato a decidere sulla richiesta di rinvio a giudizio non più sulla base del criterio dell’utilità del dibattimento ma di una regola di giudizio molto più stringente.
Inoltre, come visto sopra, l’omologazione tra la regola di giudizio in sede di archiviazione e di udienza preliminare e quella valevole in sede di dibattimentale non è accettabile, perché significherebbe sostanzialmente snaturare l’udienza preliminare, che non è, salvo casi particolari, luogo di accertamento della colpevolezza dell’imputato, ma momento di decisione circa quali procedimenti meritino sfogo dibattimentale.
Chiaramente la scelta di rendere la regola di giudizio dell’udienza preliminare più rigida è condivisibile. Se si vuole rendere l’udienza preliminare davvero un utile strumento deflativo il criterio della “non superfluità del dibattimento” andava superato, tanto varrebbe altrimenti eliminare tale fase, che così come concepita oggi non contribuisce alla ragionevole durata del processo.
Non appaiono condivisibili le preoccupazioni circa il rischio che il decreto di rinvio a giudizio possa incidere sull’esito del processo, influenzando il convincimento del giudice del dibattimento. La prognosi di colpevolezza, secondo tale impostazione, verrebbe identificata con la regola di giudizio sottesa alla decisione di condanna, con conseguenti rischi di sviluppo di forme di accertamento semplificate, con ciò generando pesanti pressioni sull’imputato, che si vedrebbe costretto ad optare per un rito alternativo[63]. Tuttavia a norma dell’art. 101, co. 2, Cost. il giudice è soggetto soltanto alla legge, per cui nessun pregiudizio può sorgere in capo all’organo giudicante del dibattimento per il rinvio a giudizio dell’imputato, dovendo egli svolgere il proprio ruolo con neutralità, senza rischio che la propria decisione venga influenzata da provvedimenti emessi in fasi precedenti.
Nonostante quanto detto finora, se si vuole rendere efficiente e più spedito il procedimento, modificare le regole di giudizio non appare sufficiente.
In particolare, è stato proposta una profonda modifica della fase successiva alle indagini preliminari, convertendo l’udienza preliminare in un’udienza allo stato degli atti tramite la soppressione del potere del giudice di indicare al pubblico ministero ulteriori indagini (421-bis c.p.p.) e di disporre l’assunzione di nuove prove (422 c.p.p.), oltre all’abrogazione dell’art. 423 c.p.p. in tema di modifica dell’imputazione[64]. Tale proposta, finalizzata a snellire una fase già di per sé poco animata, non avrebbe altro risultato che quello di rendere ancora meno utile l’udienza preliminare.
Il codice prevede due diversi provvedimenti conclusivi dell’udienza preliminare: il decreto di rinvio a giudizio e la sentenza di non luogo a procedere. Il decreto è di norma non motivato salvo che la legge lo richieda espressamente, e l’art. 429 c.p.p. nulla dispone a riguardo. La sentenza di non luogo a procedere, al contrario, dev’essere “sommariamente” motivata, come richiesto dall’art. 425 c.p.p. Finora la funzione di filtro dell’udienza preliminare non è stata sufficientemente assolta, sicuramente anche a causa della regola decisoria della sostenibilità dell’accusa in giudizio che in pochi casi ha consentito di prosciogliere l’imputato, dando sfogo dibattimentale a molti procedimenti di incerta consistenza. Tuttavia pensare che per effetto della modifica della regola di valutazione le sentenze di non luogo a procedere e le archiviazioni subiranno un considerevole aumento dimostra un eccesso di ottimismo, in quanto nonostante la restrizione del filtro la regola della ragionevole previsione di condanna difficilmente consentirà di ottenere i risultati sperati[65]. Ciò a causa del carico di lavoro dei magistrati, il quale andrebbe affrontato con una ponderata opera di depenalizzazione che al momento manca[66], e con la messa a disposizione della giustizia dei mezzi senza cui nessuna organizzazione umana può funzionare: capitale e lavoro, ossia mezzi materiali e personale, su cui invece è stato intrapreso un serio percorso[67].
Concretizzando, di fronte ad un carico di lavoro enorme il magistrato che riveste le funzioni di giudice dell’udienza preliminare, che si trova a dover affrontare ruoli strapieni, avendo due opzioni, tra cui solo una da motivare, quale sceglierà in caso di dubbio? È chiaro che il giudice dell’udienza preliminare, di fronte all’alternativa decreto/sentenza, sceglierà il primo perché immotivato, e perché inoppugnabile, e quindi meno gravoso in relazione al carico di lavoro[68]. Allora la soluzione preferibile sarebbe stata quella di modificare l’art. 429 c.p.p. imponendo al giudice di motivare il rinvio a giudizio dell’imputato, senza la paura, per le ragioni viste sopra, che una tale scelta possa influire sul convincimento del giudice dibattimentale[69].
In conclusione, seguito dell’attuazione della legge delega, la pronuncia di un decreto che dispone il giudizio indicherà la consapevolezza da parte del giudice dell’udienza preliminare di maggiori probabilità di condanna rispetto all’assoluzione. In altre parole il giudice dirà che, sulla base degli elementi acquisiti, fermo restando il possibile sviluppo che gli stessi potranno subire in sede dibattimentale, se chiamato ad una pronuncia sulla colpevolezza dell’imputato, avrebbe pronunciato una sentenza di condanna al di là di ogni ragionevole dubbio. Può un provvedimento del genere non essere accompagnato una giustificazione logico-giuridica quantomeno sommaria?
[1] Infatti, il codice del 1930 –emanato con il R.D. 19 ottobre 1930, n. 1399 ed entrato in vigore il 1° luglio 1931- non prevedeva l’istituto dell’udienza preliminare. Difatti, l’art. 378 c.p.p. affermava che il giudice istruttore: «pronuncia sentenza con cui dichiara non doversi procedere perché il fatto non sussiste o perché l’imputato non lo ha commesso, tanto nel caso in ci vi è la prova che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso, quanto nel caso in cui manca del tutto la prova che il fatto sussiste o che l’imputato lo ha commesso».
[2] TONINI, Manuale di procedura penale, XVIII ed., Milano, 2017, 626, dove si parla di “funzione fondamentale”, consistente nel controllo, per mano di un giudice, circa il merito e la legittimità della richiesta di rinvio a giudizio formulata dal pubblico ministero. A questa, l’Autore affianca una funzione ulteriore, che si sostanzia nella possibilità che in udienza preliminare si celebrino eventuali riti alternativi.
[3] Degna di nota è anche la sospensione del procedimento con messa alla prova, che a seguito della riforma troverà ancora più spazio.
[4] Relazioni al progetto preliminare e al testo definitivo del codice di procedura penale, delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni e delle norme per l’adeguamento dell’ordinamento giudiziario al nuovo processo penale ed a quello a carico degli imputati minorenni. (GU Serie Generale n.250 del 24-10-1988 – Suppl. Ordinario n. 93), 101.
[5] MORISCO, L’udienza preliminare, in Dig. pen., I, agg., 2011, 710.
[6] DOMINIONI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, in AA.VV., Il nuovo processo penale. Dalle indagini preliminari al dibattimento, Milano, 1989, 69, dove si parla di “filtro delle accuse azzardate”.
[7] VIRGILIO, Profili ideologici ed evolutivi dell’udienza preliminare, Napoli, 2007, 24. Nonostante esalti il ruolo da ultimo indicato, l’Autore precisa che la funzione di gran lunga primaria dell’udienza preliminare resta quella filtrante.
[8] La Corte cost., con la sentenza 10 febbraio 1993 n. 41, ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 425, co. 1., c.p.p. nella parte in cui prevedeva la possibilità per il giudice di pronunciare sentenza di non luogo a procedere quando risultava evidente la non imputabilità della persona sottoposta a processo, per violazione degli artt. 3, 24 e 76 Cost. In motivazione, la Consulta precisava come la norma in esame privasse l’imputato della fruibilità del dibattimento e del diritto alla prova in ordine alla regiudicanda, non ragionevolmente bilanciato dal principio di economia processuale. La stessa norma creava una disparità di trattamento rispetto agli imputati in quei procedimenti che non prevedevano l’udienza preliminare (anche nei casi di giudizio direttissimo), laddove l’imputato poteva esercitare appieno il diritto di difesa. Infine, l’incostituzionalità veniva segnalata per mancanza, nell’art. 2 della legge-delega, della non imputabilità tra le cause di non luogo a procedere, in veste di norma interposta tra la disposizione processuale e l’art. 76 Cost.
[9] Cass. pen. Sez. VI, 12/06/1991, Brunetti, in studiolegale.leggiditalia.it: «Il giudice dell’udienza preliminare pronuncia sentenza di non luogo a procedere quando <risulta evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso o che il fatto non costituisce reato>; il che si verifica sia nell’ipotesi in cui esiste la prova evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato sia nell’ipotesi in cui tale prova manchi totalmente»; Cass. pen. Sez. I, 12/01/1993, n. 50: «Presupposto per l’emissione di una sentenza di non luogo a provvedere sulla richiesta dal p.m. di emissione del decreto di rinvio a giudizio è che risulti <evidente che il fatto non sussiste o che l’imputato non lo ha commesso o che il fatto non costituisce reato>, secondo la formulazione letterale dell’art. 425 c.p.p. che richiama il principio generale affermato dall’art. 129 stesso codice, e che deve essere interpretato nel senso che alla prova positiva dell’innocenza va equiparata la totale mancanza di prova della colpevolezza; quest’ultima, peraltro, non va confusa con il giudizio di insufficienza di prove a condurre alla condanna, atteso che nel nuovo sistema processuale la prova si forma nel dibattimento ed è al giudice di tale fase che compete il giudizio, mentre, d’altro canto, separate regole per la situazione di insufficienza od inidoneità della prova sono dettate dall’art. 125 disp. att., che riserva in tal caso al p.m. la valutazione in ordine all’opportunità di richiedere l’archiviazione».
[10] SCALFATI, L’udienza preliminare. Profili di una disciplina in trasformazione, Padova, 1999, 101.
[11] NAPPI, voce Udienza preliminare, in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 522. Continua l’Autore: «il legislatore, quindi, da un canto ha affidato al pubblico ministero il compito di operare, con criterio di efficienza, una selezione delle notizie fondate, dall’altro canto ha demandato al giudice dell’udienza preliminare di verificare, con una valutazione sul rito, se il pubblico ministero abbia correttamente esercitato il compito affidatogli o abbia, invece, promosso il giudizio in casi di palese infondatezza dell’accusa».
[12] DOMINIONI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit., 75.
[13] DOMINIONI, Chiusura delle indagini preliminari e udienza preliminare, cit.; MANZIONE, Sub art. 425 c.p.p., in CHIAVARIO, Commento al nuovo codice di procedura penale, Torino, 1991, 662.
[14] MANZIONE, Sub art. 425 c.p.p., cit., 663.
[15]MANZIONE, Sub art. 425 c.p.p., cit., 663.
[16] Corte cost., 24/09/1990, n. 431; Corte cost., 26/02/1993, n. 82, in studiolegale.leggiditalia.it.
[17] Corte cost., 26/02/1993, n. 82, in studiolegale.leggiditalia.it.
[18] Corte cost., 28/01/1991, n. 64 in studiolegale.leggiditalia.it.
[19] Cass. pen., Sez. VI, 09/10/1995, n. 3467, La Penna e altri, in studiolegale.leggiditalia.it: «il legislatore ha inteso evitare (sia a fini di garanzia soggettiva sia a fini di funzionalità generale del sistema) che pervengano alla fase del giudizio situazioni nelle quali risulti, con ragionevole certezza, che l’imputato meriti il proscioglimento: ciò avviene nei casi di sicura infondatezza dell’accusa, quando cioè gli atti offrono, eventualmente all’esito della integrazione delle fonti di prova ex art. 422 c.p.p., la prova dell’innocenza dell’accusato o la totale mancanza di elementi di prova a carico, ma anche in presenza di sicura inidoneità delle fonti di prova acquisite ad un adeguato sviluppo probatorio, nella dialettica del contraddittorio dibattimentale. In tutti i casi in cui sussistono fonti o elementi di prova, pur contraddittori o insufficienti, che si prestino, secondo una inevitabile valutazione prognostica, a “soluzioni aperte” è doverosa la verifica dibattimentale. La sentenza di non luogo a procedere va, invece, adottata quando la situazione probatoria è tale da far prevedere, secondo criterio di ragionevolezza, l’inutilità del giudizio, cioè quando l’istruzione dibattimentale appaia incapace di arrecare, in termini di prova a carico, alcun risultato utile per superare lo stato di incertezza o contraddittorietà». In giurisprudenza v. anche Cass. pen. Sez. I, 18/11/1998, n. 1490, Gabriele e altri, in studiolegale.leggiditalia.it: «In tema di sentenza di non luogo a procedere, a seguito della modifica apportata all’art. 425 c.p.p. dell’art. 1 della l. 8 aprile 1993, n. 105 (soppressione del requisito dell'”evidenza” dei presupposti per l’emissione del provvedimento), va affermato il principio della necessità di pronunziare sentenza di non luogo a procedere sia nel caso di prova positiva della innocenza, sia nel caso di mancanza, insufficienza o contraddittorietà della prova di colpevolezza, sempre che essa non appaia integrabile nella successiva fase del dibattimento»; Cass. pen. Sez. I, 30/01/1995, n. 532, Valle, in studiolegale.leggiditalia.it: «Il legislatore, modificando la formulazione dell’art. 425 c.p.p. con l’art. 1 della l. 8 aprile 1993, n. 105 con la soppressione del requisito dell’evidenza della causa di non luogo a procedere, ha inteso ampliare i poteri decisori del giudice dell’udienza preliminare nella funzione di filtro che gli è propria al fine di evitare la celebrazione di dibattimenti inutili. Perciò la richiesta di rinvio a giudizio del p.m. potrà trovare accoglimento solo quando risulti accertata la reale consistenza degli elementi da lui presentati nella prospettiva di una loro trasformazione in prova nella fase dibattimentale»; Cass. pen. Sez. III, 08/11/1996, n. 3776, Tani, in studiolegale.leggiditalia.it: «Il g.u.p. non può pronunziare sentenza di non luogo a procedere perchè il fatto non sussiste in tutti i casi nei quali esistono fonti o elementi di prova, pur se contraddittori o insufficienti, che si prestino, secondo una valutazione prognostica, a “soluzioni aperte”, cioè ad integrazioni probatorie ovvero ad ulteriori chiarimenti in sede dibattimentale»; Cass. pen. Sez. I, 21/04/1997, n. 2875, Mocera e altri, in studiolegale.leggiditalia.it: «Il giudice dell’udienza preliminare, una volta che risultino certe tanto la verificazione del fatto-reato, sotto il profilo della sua materialità, quanto la sua attribuibilità all’imputato sotto il profilo del rapporto causale, non è legittimato a valorizzare, nell’ambito della pur necessaria indagine in ordine all’elemento psicologico del reato, ipotetiche e incerte alternative, concernenti l’effettiva direzione della volontà, nè ad operare scelte fra le molteplici “soluzioni aperte”, che sono viceversa riservate in via esclusiva al libero convincimento del giudice del dibattimento, in esito all’effettivo contraddittorio delle parti sulla prova»; Cass. pen. Sez. III, 22/01/1997, n. 172, Ferrara, in studiolegale.leggiditalia.it; Cass. pen. Sez. VI, 07/05/1996 n. 6191, Carnevale, in studiolegale.leggiditalia.it.
[20] Cass. pen. Sez. Unite, 25/10/1995, n. 38, Liotta, in studiolegale.leggiditalia.it.
[21] Sul punto v. Corte cost., Ord., 06/06/1991, n. 252, in studiolegale.leggiditalia.it: «Perché il giudice pronunci l’archiviazione nei confronti dell’indagato o il non luogo a procedere rispetto all’imputato occorre, nel primo caso, che, sulla base degli elementi acquisiti, l’accusa sia chiaramente insostenibile e, quindi, la “notitia criminis” inequivocamente infondata; mentre nel secondo è necessaria l’evidenza della prova di non responsabilità. Tale differenza è giustificata dalla diversa funzione che le due discipline assolvono nel sistema del codice, attinendo la prima ad una fase in cui il controllo del giudice è volto sì a non dar ingresso ad accuse insostenibili, ma ancor più a far fronte all’eventuale inerzia del pubblico ministero e, quindi, a garantire l’obbligatorietà dell’azione penale, mentre la seconda concerne una fase in cui il controllo stesso si svolge in chiave essenzialmente garantistica, al fine cioè di tutelare l’imputato nei confronti di accuse rivelatesi palesemente infondate. Peraltro la posizione dell’imputato nell’udienza preliminare è diversa da quella della persona sottoposta alle indagini, essendo stata già esercitata l’azione penale nei suoi confronti mediante la richiesta di rinvio a giudizio del P.M., a differenza di quella, non fondatamente assunta come termine di raffronto».
[22] MORISCO, L’udienza preliminare, cit., 710; NAPPI, voce Udienza preliminare, in Enc. dir., XLV, Milano, 1992, 521.
[23] APRILE, L’udienza preliminare, Milano, 2005, 5, segnala, dopo la non più necessaria evidenza probatoria, la possibilità di «parificare il criterio di giudizio rimesso al giudice dell’udienza preliminare a quello che è chiamato a ad utilizzare il giudice dell’archiviazione a mente dell’art. 125 disp. att. c.p.p.: in entrambi i casi il giudicante è tenuto ad effettuare una valutazione prognostica circa i possibili sviluppi del procedimento nella fase del giudizio dibattimentale».
[24] Corte cost., 17/06/1997, n. 206; Corte cost., Ord., 24/01/1996, n. 24; Corte cost., Ord., 26/06/1996, n. 232; Corte cost., Ord., 11/07/1996, n. 279; Corte cost., Ord., 11/12/1996, n. 410, in studiolegale.leggiditalia.it.
[25] Corte cort., 7/03/1996, n. 71, in studiolegale.leggiditalia.it: «Nell’apportare, infatti, la già evidenziata modifica all’art. 425 cod. proc. pen., il legislatore, volutamente omettendo qualsiasi richiamo contenutistico alla disciplina della sentenza di assoluzione dettata dall’art. 530 cod. proc. pen., ha evidentemente inteso mantenere nettamente separate fra loro le due pronunce, non soltanto sul piano funzionale e degli effetti che dalle stesse scaturiscono, ma anche – ed è ciò che qui maggiormente rileva – sotto il profilo dei differenti elementi strutturali che caratterizzano i corrispondenti “giudizi”. Mentre, infatti, nel quadro di una valutazione comparata degli artt. 425 e 530 cod. proc. pen. possono ritenersi fra loro assimilabili le ipotesi di prova positiva dell’innocenza e quella speculare di totale assenza di prova della colpevolezza, di talché la medesima situazione di fatto è idonea a determinare, su di un piano di sostanziale simmetria, la sentenza di assoluzione in dibattimento e quella di non luogo a procedere nell’udienza preliminare, non altrettanto è a dirsi in tutte le ipotesi in cui la prova risulti invece insufficiente o contraddittoria. In tal caso, infatti, alla sentenza di assoluzione imposta dall’art. 530, comma 2, cod. proc. pen., non corrisponde un omologo per la sentenza di non luogo a procedere, ma una più articolata regola di giudizio che deve necessariamente tener conto della diversa natura e funzione che quella pronuncia è destinata a svolgere nel sistema. L’apprezzamento del merito che il giudice è chiamato a compiere all’esito della udienza preliminare non si sviluppa, infatti, secondo un canone, sia pur prognostico, di colpevolezza o di innocenza, ma si incentra sulla ben diversa prospettiva di delibare se, nel caso di specie, risulti o meno necessario dare ingresso alla successiva fase del dibattimento: la sentenza di non luogo a procedere, dunque, era e resta, anche dopo le modifiche subite dall’art. 425 cod. proc. pen., una sentenza di tipo “processuale”, destinata null’altro che a paralizzare la domanda di giudizio formulata dal pubblico ministero. Da ciò consegue che, ove la prova risulti insufficiente o contraddittoria, l’adozione della sentenza di non luogo a procedere potrà dirsi imposta soltanto nei casi in cui si appalesi la superfluità del giudizio, vale a dire nelle sole ipotesi in cui è fondato prevedere che l’eventuale istruzione dibattimentale non possa fornire utili apporti per superare il quadro di insufficienza o contraddittorietà probatoria. Ove ciò non accada, quindi, risulterà scontato il provvedimento di rinvio a giudizio che, in una simile eventualità, lungi dal rinvenire il proprio fondamento in una previsione di probabile condanna, si radicherà null’altro che sulla ritenuta necessità di consentire nella dialettica del dibattimento lo sviluppo di elementi ancora non chiariti». Dello stesso tenore Corte cost., (ud. 26/03/1997) 11-04-1997, n. 94, in studiolegale.leggiditalia.it.
[26] L. 16 dicembre 1999, n. 479, recante “modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense”.
[27] Rubricato “ordinanza per l’integrazione delle indagini”, la disposizione recita: «1. Quando non provvede a norma del comma 4 dell’art. 421, il giudice, se le indagini preliminari sono incomplete, indica le ulteriori indagini, fissando il termine per il loro compimento e la data della nuova udienza preliminare. Del provvedimento è data comunicazione al procuratore generale presso la corte d’appello.
2. Il procuratore generale presso la corte d’appello può disporre con decreto motivato l’avocazione delle indagini a seguito della comunicazione prevista dal comma 1. Si applica, in quanto compatibile, la disposizione dell’art. 412, comma 1».
[28] L’art. 422 c.p.p. attualmente recita: «1. Quando non provvede a norma del comma 4 dell’art. 421, ovvero a norma dell’art. 421-bis, il giudice può disporre, anche d’ufficio, l’assunzione delle prove delle quali appare evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere. 2. Il giudice, se non è possibile procedere immediatamente all’assunzione delle prove, fissa la data della nuova udienza e dispone la citazione dei testimoni, dei periti, dei consulenti tecnici e delle persone indicate nell’art. 210 di cui siano stati ammessi l’audizione o l’interrogatorio. 3. L’audizione delle persone indicate nel comma 2 sono condotti dal giudice. Il pubblico ministero e i difensori possono porre domande, a mezzo del giudice, nell’ordine previsto dall’art. 421, comma 2. Successivamente, il pubblico ministero e i difensori formulano e illustrano le rispettive conclusioni. 4. In ogni caso l’imputato può chiedere di essere sottoposto all’interrogatorio, per il quale si applicano le disposizioni degli articoli 64 e 65. Su richiesta di parte, il giudice dispone che l’interrogatorio sia reso nelle forme previste dagli articoli 498 e 499».
[29] MORISCO, L’udienza preliminare, cit., 725. L’Autore ritiene che «il dato letterale dell’art. 425, 3° co., c.p.p. impone di superare il criterio della “probabilità” della conferma dell’ipotesi accusatoria nel dibattimento. Ai fini del rinvio a giudizio è richiesto uno standard di convincimento di grado superiore che, sebbene non sia identico a quello previsto per la conclusione del giudizio, quanto meno sia capace di escluderne l’epilogo assolutorio in fase dibattimentale». Dello stesso parere APRILE, L’udienza preliminare, cit., 27.
[30] Corte cost., Ord., 04/06/2001, n. 185. Idem Corte cost., Ord., 25/02/2002, n. 39; Corte cost., Ord., 26/02/2004, n. 90, in studiolegale.leggiditalia.it.
[31] Corte cost., 04/07/2001, n. 224, in studiolegale.leggiditalia.it. Afferma difatti la Corte che «a seguito delle importanti innovazioni introdotte, in particolare, dalla legge 16 dicembre 1999, n. 479, l’udienza preliminare ha subito una profonda trasformazione sul piano sia della quantità e qualità di elementi valutativi che vi possono trovare ingresso, sia dei poteri correlativamente attribuiti al Giudice, e, infine, per ciò che attiene alla più estesa gamma delle decisioni che lo stesso Giudice è chiamato ad adottare. L’esigenza di completezza delle indagini preliminari, […] ora significativamente valutabile anche in sede di udienza preliminare, al cui Giudice è attribuito il potere di disporre l’integrazione delle indagini stesse (art. 421-bis c.p.p.); l’analogo potere di integrazione concernente i mezzi di prova, a fronte del quale il Giudice può assumere anche d’ufficio le prove delle quali appaia evidente la decisività ai fini della sentenza di non luogo a procedere (art. 422 c.p.p.); le nuove cadenze delle indagini difensive – introdotte dalla legge 7 dicembre 2000, n. 397 – ed il conseguente ampliamento del tema decisorio, non più limitato al materiale raccolto dall’organo dell’accusa: sono tutti elementi di novità che postulano, all’interno della udienza preliminare, da un lato, un contraddittorio più esteso rispetto al passato, e, dall’altro, un incremento degli elementi valutativi, cui necessariamente corrisponde – quanto alla determinazione conclusiva – un apprezzamento del merito ormai privo di quei caratteri di “sommarietà” che prima della riforma erano tipici di una delibazione tendenzialmente circoscritta allo “stato degli atti”.
Accanto a ciò, vengono poi in considerazione i nuovi “contenuti” che, sempre alla stregua degli apporti novellistici, può assumere la decisione con la quale il Giudice è chiamato a definire l’udienza preliminare. In base alla nuova formulazione dell’art. 425 c.p.p., infatti, la regula iuris posta a fondamento del rinvio a giudizio, si radica – in positivo – sulla sufficienza, non contraddittorietà e, comunque, idoneità degli elementi acquisiti a sostenere l’accusa in giudizio, imponendosi, in caso di diverso apprezzamento, l’adozione della sentenza di non luogo a procedere. Quest’ultima, a sua volta, può scaturire anche dal riconoscimento di circostanze attenuanti e dalla correlativa applicazione della disciplina di cui all’art. 69 c.p., con i riflessi tipici delle statuizioni che incidono sul merito della causa». Idem Corte cost., Ord., (ud. 10/01/2004) 16-01-2004, n. 20.
[32] Corte cost., 8/07/2002, n. 335. Cfr. inoltre Corte cost., Ord., 10/07/2002, n. 367, Corte cost., Ord., 20/11/2002, n. 490, Corte cost., Ord., 03/07/2003, n. 269 e Corte cost., Ord., 03/07/2003, n. 271, in studiolegale.leggiditalia.it.
[33] Cass. pen. Sez. VI, 6/04/2000, n. 1662, Pacifico; Cass. pen. sez. V 13/02/2007, n. 9232, Procuratore Generale della Repubblica presso Giudice Udienza Preliminare di Campobasso c. P.N.; Cass. pen., sez. I, 22/05/2007, n. 22810, Pubblico Ministero presso Tribunale di Catanzaro c. M.F., in studiolegale.leggiditalia.it.
[34] DANIELE, La regola di giudizio dell’udienza preliminare, in Riv. dir. proc., 2/2002, 564; Ibid., Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere, Torino, 2005, 44.
[35] Corte cost., 8/07/2002, n. 335, in studiolegale.leggiditalia.it: «i contenuti delle decisioni che concludono l’udienza preliminare hanno assunto, in parallelo alle novità appena segnalate, una diversa e maggiore pregnanza. Il giudice infatti non è solo chiamato a valutare, ai fini della pronuncia di non luogo a procedere, se sussiste una causa che estingue il reato o per la quale l’azione penale non doveva essere iniziata o non deve essere proseguita, se il fatto non è previsto dalla legge come reato, ovvero se risulta che il fatto non sussiste o che l’imputato non l’ha commesso o non costituisce reato o che si tratta di persona non punibile per qualsiasi causa, tenendo conto, se del caso, delle circostanze attenuanti e applicando l’art. 69 del codice penale (art. 425, commi 1 e 2, cod. proc. pen.). Il giudice deve considerare inoltre se gli elementi acquisiti risultino sufficienti, non contraddittori o comunque idonei a sostenere l’accusa nel giudizio (art. 425, comma 3, cod. proc. pen.), dovendosi determinare, se no, a disporre il non luogo a procedere; se sì, a disporre il giudizio. Il nuovo art. 425 del codice, in questo modo, chiama il giudice a una valutazione di merito sulla consistenza dell’accusa, consistente in una prognosi sulla sua possibilità di successo nella fase dibattimentale».
[36] DANIELE, La regola di giudizio in udienza preliminare, cit., 566.
[37] ZIROLDI, Udienza preliminare: preparazione e svolgimento, in Trattato di procedura penale, a cura di SPANGHER, Torino, 2009, 962.
[38] Cass. pen. Sez. VI, 06/04/2000, n. 1662, Pacifico, in studiolegale.leggiditalia.it.
[39] Cass. pen. Sez. IV Sent., 19/04/2007, n. 26410, studiolegale.leggiditalia.it, laddove la Corte precisa che «il parametro non è l’innocenza ma l’impossibilità di sostenere l’accusa in giudizio. L’insufficienza e la contraddittorietà degli elementi devono quindi avere caratteristiche tali da non poter essere ragionevolmente considerate superabili nel giudizio. Insomma la situazione non deve poter essere considerata suscettibile di chiarimenti o sviluppi nel giudizio. Questo giudizio prognostico vale sia per l’ipotesi dell’insufficienza che per quella della contraddittorietà: queste caratteristiche legittimeranno la pronunzia della sentenza di n.l.p. solo se non appariranno superabili nel giudizio. In conclusione, a meno che ci si trovi in presenza di elementi palesemente insufficienti per sostenere l’accusa in giudizio per l’esistenza di prove positive di innocenza o per la manifesta inconsistenza di quelle di colpevolezza, la sentenza di non luogo a procedere non è consentita quando l’insufficienza o contraddittorietà degli elementi acquisiti siano superabili in dibattimento». Nello stesso senso Cass. pen. Sez. IV Sent., 08/11/2007, n. 47169; Cass. pen. Sez. II Sent., 18/03/2008, n. 14034; Cass. pen. Sez. IV Sent., 28/10/2008, n. 46403; Cass. pen. Sez. V Sent., 15/05/2009, n. 22864, in studiolegale.leggiditalia.it.
[40] Cass. pen. Sez. Unite, 20/12/2007, n. 5307, Proc. Rep. presso il Tribunale di Pordenone c. B.D., in studiolegale.leggiditalia.it.
[41] Ex multis v. Cass. pen. Sez. VI Sent., 12/01/2012, n. 10849; Cass. pen. Sez. VI Sent., 17/07/2012, n. 33921; Cass. pen. Sez. III Sent., 21/03/2013, n. 39401; Cass. pen. Sez. II Sent., 18/10/2013, n. 45989; Cass. pen. Sez. II Sent., 14/11/2013, n. 48831; Cass. pen. Sez. VI Sent., 24/01/2014, n. 6765; Cass. pen. Sez. V Sent., 19/06/2014, n. 41162; Cass. pen. Sez. II Sent., 05/11/2015, n. 46145; ass. pen. Sez. V Sent., 26/02/2016, n. 26756; Cass. pen. Sez. II Sent., 07/04/2016, n. 15942; Cass. pen. Sez. V Sent., 26/10/2016, n. 565, in studiolegale.leggiditalia.it.
[42] CASSIBBA, L’udienza preliminare: struttura e funzioni, Milano, 2007, 95; LOZZI, L’udienza preliminare: un filtro inefficiente nel pensiero della Suprema Corte, in Riv. it. dir. proc. pen., 2008, 370. Contra PISTORELLI, voce Udienza preliminare, in Enc. giur., XVII, Roma, 2001, 4; DANIELE, Profili sistematici della sentenza di non luogo a procedere, cit., 205.
[43] CASSIBBA, L’udienza preliminare: struttura e funzioni, cit., 95.
[44] CASSIBBA, L’udienza preliminare: struttura e funzioni, cit., 96. L’Autore evidenzia infatti che «l’insufficienza e la contraddittorietà della prova esprimono, comunque, l’inidoneità degli elementi probatori a sostenere l’accusa in giudizio: sebbene la formula normativa non abbia un limpido significato, è questo il senso dell’art. 425, comma 3, c.p.p., laddove l’impiego della disgiuntiva «o comunque» assume un carattere esplicativo e riassuntivo dell’intera previsione».
[45] V. Parere del C.S.M. al Prog. Prel. n. att. c.p.p., in Doc. Giust., 1990, 2 – 3, 127.
[46] MARZADURI, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflativi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo, in www.lalegislazionepenale.eu, 25 gennaio 2022, 13 – 14.
[47] A differenza della “manifesta infondatezza” richiesta dall’art. 2 n. 50 della legge-delega.
[48] Corte cost., 28/01/1991, n. 88, in studiolegale.leggiditalia.it, in cui la Corte costituzionale era chiamata a risolvere la questione di legittimità costituzionale dell’art. 125 disp. att. c.p.p. per violazione del parametro interposto rappresentato dalla direttiva n. 50 della legge-delega che prevedeva l’archiviazione per le sole ipotesi di manifesta infondatezza delle notizia di reato, decidendo per il rigetto. In motivazione la Corte ricollegava l’obbligo di esercitare l’azione penale al cd. principio di tendenziale “completezza” delle indagini preliminari «che nella struttura del nuovo processo assolve una duplice, fondamentale funzione. La completa individuazione dei mezzi di prova è, invero, necessaria, da un lato, per consentire al pubblico ministero di esercitare le varie opzioni possibili (tra cui la richiesta di giudizio immediato, “saltando” l’udienza preliminare) e per indurre l’imputato ad accettare i riti alternativi: ciò che è essenziale ai fini della complessiva funzionalità del sistema, ma presuppone, appunto, una qualche solidità del quadro probatorio. Dall’altro lato, il dovere di completezza funge da argine contro eventuali prassi di esercizio “apparente” dell’azione penale, che, avviando la verifica giurisdizionale sulla base di indagini troppo superficiali, lacunose o monche, si risolverebbero in un ingiustificato aggravio del carico dibattimentale». Nello stesso senso Corte cost., Ord., 22/05/1991, n. 252, in studiolegale.leggiditalia.it.
[49] SIRACUSANO, La completezza delle indagini nel processo penale, Torino, 2005, 46 ss.
[50] MARZADURI, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflativi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo, cit., 18, in cui viene criticata altresì la premessa da cui muove l’impostazione suesposta, la quale «commisura la necessaria estensione dell’attività investigativa ad una mera eventualità processuale, la richiesta del rito speciale da parte dell’imputato».
[51] LA ROCCA, Il modello di riforma “Cartabia”: ragioni e prospettive della Delega n. 134/2021, in Arch. pen., 3/2021, 27; ALVINO, Il controllo giudiziale dell’azione penale: appunti a margine della “Riforma Cartabia”, in Sistema penale, 3/2022, 31.
[52] ALVINO, Il controllo giudiziale dell’azione penale: appunti a margine della “Riforma Cartabia”, cit., 32.
[53] Parere C.S.M. 19/PP/2020 Disegno di Legge AC n. 2435, delibera del 29 luglio 2021, in www.csm.it.
[54] MARZADURI, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflativi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo penale, cit., 26.
[55] Relazione finale della «Commissione di studio per elaborare proposte di riforma in materia di processo e sistema sanzionatorio penale, nonché in materia di prescrizione del reato, attraverso la formulazione di emendamenti al Disegno di legge A.C. 2435, recante Delega al Governo per l’efficienza del processo penale e disposizioni per la celere definizione dei procedimenti giudiziari pendenti presso le corti d’appello», in www.giustizia.it, 20.
[56] MARZADURI, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflativi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo penale, cit., 24.
[57] MARZADURI, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflativi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo penale, cit., 27.
[58] INTRIERI – VIOLA, Ragionevole previsione di condanna e giustizia predittiva: una modesta proposta per la riforma dell’art. 425 c.p.p., in www.giustiziainsieme.it, 1° febbraio 2022.
[59] INTRIERI – VIOLA, Ragionevole previsione di condanna e giustizia predittiva: una modesta proposta per la riforma dell’art. 425 c.p.p., cit., dove ai fini di una migliore comprensione si fa l’esempio di Russell: «immaginate di essere un tacchino, che ogni giorno viene alimentato dal proprietario; ebbene, il tacchino penserà che in futuro verrà ancora alimentato e che il proprietario è buono, ma arriva il giorno del Ringraziamento ed il tacchino viene ucciso; il fatto narrato dimostra che la previsione c.d. induttiva, basata solo sui precedenti, è fisiologicamente fallace».
[60] INTRIERI – VIOLA, Ragionevole previsione di condanna e giustizia predittiva: una modesta proposta per la riforma dell’art. 425 c.p.p., cit., in cui si fa il seguente esempio: «Tizia guidava l’auto Y, trasportando il convivente da diversi anni Tizio; purtroppo, Tizia causava un incidente, investendo il passante Caio, che subiva gravi ferite e la perdita della gamba destra. Tizia scappava subito, omettendo ogni soccorso. Sopraggiunti i carabinieri, Tizio si dichiarava alla guida dell’auto Y, al fine di favorire la posizione di Tizia che aveva guidato senza patente, perché revocata, e non aveva prestato i soccorsi.
Ai fini dell’art. 425, comma 3, c.p.p., si pone il problema di capire se Tizio ha una “ragionevole probabilità di condanna” per favoreggiamento personale ex art. 378 c.p., oppure se questa non sussista in ragione dell’estensione al convivente della causa di non punibilità dell’art. 384 c.p.». Le soluzioni sono diverse a seconda del metodo adottato: «se applichiamo quello induttivo, allora bisognerà verificare quante sentenze (almeno nomofilattiche) in percentuale hanno applicato l’art. 384 c.p. in un caso simile; ammettendo che queste saranno in netta maggioranza in ragione del rilievo della sentenza delle SU allora “gli elementi acquisiti non consentono una ragionevole previsione di condanna”, così da doversi pronunciare sentenza di non luogo a procedere; – se applichiamo quello deduttivo, più legato alla lettera della legge, allora si tenderebbe a negare l’applicabilità dell’art. 384 c.p., in quanto riferito al “prossimo congiunto” diversamente dal caso de quo dove appare un convivente; con la conseguenza che gli elementi acquisiti consentirebbero una ragionevole previsione di condanna, così da dover disporre il rinvio a giudizio».
[61] DEL COCO, La verifica preliminare dell’accusa, in “Riforma Cartabia” e rito penale. La Legge Delega tra impegni europei e scelte valoriali, cit., 178 – 179.
[62] DEL COCO, La verifica preliminare dell’accusa, in “Riforma Cartabia” e rito penale. La Legge Delega tra impegni europei e scelte valoriali, cit., 181.
[63] DEL COCO, Rimaneggiamento delle regole per non procedere: archiviazione e udienza preliminare, in www.processopenaleegiustizia.it;DEL COCO, La verifica preliminare dell’accusa, in “Riforma Cartabia” e rito penale. La Legge Delega tra impegni europei e scelte valoriali, cit., 178.
[64] ORLANDI, Riforma della giustizia penale: due occasioni mancate e una scelta ambigua in tema di prescrizione, in www.discrimen.it, 16 luglio 2021, 3.
[65] DEL COCO, La verifica preliminare dell’accusa, in “Riforma Cartabia” e rito penale. La Legge Delega tra impegni europei e scelte valoriali, cit., 178 ss.; PISTORELLI, Riforma del processo penale: le direttive di intervento in materia di indagini preliminari e udienza preliminare, in Il penalista, 8 ottobre 2021.
[66] Che eviterebbe l’apertura di inutili procedimenti, evitando inutili attività di indagine, oltre alla miriade di richieste di archiviazione che investe i giudici per le indagini preliminari.
[67] Si pensi in particolare al reclutamento di 16.500 addetti all’Ufficio del processo. Sul punto, in maniera critica, v. MARZADURI, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflativi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo penale, cit., 6.
[68] FERRUA, Appunti critici sulla riforma del processo penale secondo la Commissione Lattanzi, in www.discrimen.it, 12 luglio 2021, 3. L’Autore fa notare che gli artefici della riforma credono erroneamente di aver modificato la regola di giudizio perché in realtà ciò che muta sono i presupposti dell’archiviazione e della sentenza di non luogo a procedere. Egli evidenzia che «la regola di giudizio è la regola che riguarda il rapporto tra i due termini di un’alternativa decisoria e indica quale debba prevalere in caso di incertezza. In ogni alternativa occorre distinguere un termine per così dire ‘marcato’, del quale la legge fissa i presupposti necessari per la sua affermazione; e un termine per così dire ‘consequenziale’, che va affermato ogni qual volta non sia interamente raggiunta o appaia incerta la prova in ordine al termine ‘marcato’. Questo, e non altro, è la regola di giudizio, correttamente intesa. Ora, sia nell’attuale sia nella nuova formulazione, la legge non fissa i presupposti del rinvio a giudizio ma quelli dell’archiviazione e della sentenza di non luogo, sulle quali viene così a gravare l’onere della prova e l’obbligo della motivazione. La conseguenza è che, in caso di mancata prova o di incertezza, a prevalere sarà sempre il rinvio a giudizio; anche perché, nella scelta tra un provvedimento motivato ed uno immotivato, il giudice tenderà, per accidia, a privilegiare quello immotivato. Limitarsi alla modifica dei presupposti per l’archiviazione e per la sentenza di non luogo a procedere serve a poco sino a che la regola di giudizio impone, nel dubbio, il rinvio a giudizio. L’udienza preliminare continuerà a funzionare come un filtro poco selettivo», concludendo che per modificare la regola di giudizio sarebbe necessario indicare i casi in cui il giudice deve disporre il rinvio a giudizio, con una formula imperniata sulla prognosi della probabile condanna – e non della condanna tout-court – e obbligando di conseguenza il giudice ad accompagnare il provvedimento con apposita motivazione. Dello stesso parere MARZADURI, La riforma Cartabia e la ricerca di efficaci filtri predibattimentali: effetti deflativi e riflessi sugli equilibri complessivi del processo penale, cit., 15.
[69] Rischio evidenziato da FERRUA, Brevi appunti in tema di udienza preliminare, appello e improcedibilità, in www.discriment.it, 9 dicembre 2021.