Premessa
Con l’ordinanza n. 97 del 2021 depositata l’11 maggio 2021 (ed emessa all’esito dell’udienza del 15 aprile 2021, con pubblicazione di relativo comunicato stampa) la Corte Costituzionale ha stabilito che spetta al parlamento modificare la disciplina relativa al c.d. “ergastolo ostativo” nella parte in cui presenta profili di contrarietà alla Carta fondamentale ed ai principi della CEDU. Il rinvio della questione sottoposta alla Consulta al maggio 2022 viene, dunque, giustificato stante il rilievo che un intervento “demolitorio” del Giudice delle Leggi potrebbe produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio della disciplina al vaglio della Corte, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva cui le norme sono preposte, al fine di contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa.
In particolare, in relazione al giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4bis, comma 1, 58ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa) convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, sollevato dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale, con ordinanza del 3 giugno 2020[1], in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost. con riguardo all’art. 3 della CEDU, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste che non abbia collaborato con la giustizia, la Corte rivoluziona l’esegesi di quei principi in passato richiamati nella sentenza n. 306 del 1993.
La pronuncia del 1993, da cui la Consulta prende decisamente le distanze, aveva qualificato l’impossibilità di accedere alla liberazione condizionale come preclusione non derivante automaticamente dall’art. 4bis, comma 1, ord. pen.[2], bensì dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni di farlo.
Dopo quasi un ventennio, la Corte Costituzionale analizza la stessa norma con una diversa lente, particolarmente adatta a cogliere nuovi dettagli, rilevati grazie ad un focus composito e strutturatosi tra l’esegesi domestica e sovranazionale in materia di ergastolo e trattamenti disumani o degradanti. Infatti, nella motivazione si effettua una piena ricostruzione del quadro giurisprudenziale di riferimento richiamato dal giudice a quo a sostegno della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione (Corte Cost. nn. 253 del 2019, 161 del 1997, 274 del 1983 e 264 del 1974 e CEDU 13 giugno 2019 Viola c. Italia), ed inoltre una puntuale disamina dell’evoluzione legislativa (in particolare, art. 2, L. 1634/1962 e art. 28 L. 663/1986) e di quella giurisprudenziale, sia costituzionale (sentenze nn. 264/1974, 274/1983, 168/1994, 161/1997) sia sovranazionale (CEDU 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro; 9 luglio 2013, Vinter contro Regno Unito; 4 settembre 2014, Trabelsi contro Belgio; 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi; 4 ottobre 2016, T.P. e A.T. contro Ungheria), sulla compatibilità della pena dell’ergastolo col principio costituzionale di risocializzazione.
Nel complesso, l’ordinanza della Consulta dimostra di recepire l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo circa l’incompatibilità convenzionale e costituzionale di un regime che condiziona l’accesso alla liberazione condizionale alla collaborazione dell’interessato con l’autorità giudiziaria.
I precedenti sovranazionali: la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Viola c. Italia
E’ certamente nota l’indicazione del resa dalla sez. I della Corte EDU nella sentenza Viola contro Italia del 13 giugno 2019 n. 77633, laddove nel caso sottoposto alla sua cognizione, i giudici hanno osservato che a causa dell’esistenza della circostanza aggravante legata al fatto di avere svolto il ruolo di capo all’interno del gruppo mafioso di appartenenza, la collaborazione dell’interessato non può essere definita «impossibile» o «irrilevante» ai sensi della legislazione vigente e della giurisprudenza della Corte di Cassazione[3].
Da tale presupposto, nel valutare se la pena perpetua detta «ergastolo ostativo» sia de jure e de facto riducibile, ovvero se offra una prospettiva di liberazione e una possibilità di riesame nel caso di collaborazione, la Corte ha analizzato il sistema interno, osservando che esso non vieta, in maniera assoluta e con effetto automatico, l’accesso alla liberazione condizionale e agli altri benefici propri del sistema penitenziario, ma lo subordina alla «collaborazione con la giustizia».
In effetti, la situazione derivante dall’articolo 4bis ord. pen. si situa in questo modo tra quella del condannato all’ergastolo ordinario, prevista dall’articolo 22 del codice penale, la cui pena è riducibile de jure e de facto, e quella del detenuto a cui è preclusa dal sistema, a causa di un ostacolo giuridico o pratico, qualsiasi possibilità di liberazione, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. La Corte sovranazionale ha, quindi, esaminato se l’equilibrio tra le finalità di politica criminale e la funzione di risocializzazione della pena non finisca, nella sua applicazione pratica, per limitare eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di chiedere il riesame della sua pena.
La Corte europea dei diritti dell’uomo offre, così, nel caso Viola una approfondita disamina del sistema italiano. In argomento, osserva che il sistema penitenziario italiano si basa sul principio della progressione trattamentale del detenuto, secondo il quale la partecipazione attiva al programma individuale di rieducazione e il passare del tempo possono produrre effetti positivi sul condannato e promuovere il suo pieno reinserimento nella società. Man mano che fa progressi in carcere, ammettendo che ne faccia, al condannato viene offerta dal sistema la possibilità di beneficiare di misure progressive (che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale, passando attraverso i permessi premio e la semilibertà, finalizzati a favorire il processo di risocializzazione del detenuto) che lo accompagnino nel suo «percorso verso l’uscita».
Si tratta di una declinazione della funzione di correzione della detenzione evocata nella stessa sentenza Murray c. Paesi Bassi.
Già nella pronuncia Viola c. Italia, la Corte rammenta inoltre di avere affermato che il principio della «dignità umana» impedisce di privare una persona della sua libertà con la costrizione senza operare, nel contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà. Essa ha precisato che «un detenuto condannato all’ergastolo effettivo ha il diritto di sapere (…) cosa deve fare perché sia esaminata una sua possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili»[4]. Essa ha anche dichiarato che le autorità nazionali devono dare ai detenuti condannati all’ergastolo una possibilità reale di reinserirsi[5]. Si tratta chiaramente di un obbligo positivo di mezzi, e non di risultato, che implica di garantire per questi detenuti l’esistenza di regimi penitenziari che siano compatibili con l’obiettivo di correzione e che permettano loro di fare progressi in questa direzione[6].
La portata rivoluzionaria dell’esegesi della Corte europea sta nel fatto che il Giudice sovranazionale deduce che la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata soltanto dalla persistenza dell’adesione ai «valori criminali» e al mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza. Del resto, ciò è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 306 dell’11 giugno 1993, nella quale si è affermato che l’assenza di collaborazione non indicava necessariamente il mantenimento di legami con l’organizzazione mafiosa.
Inoltre, la Corte Europea ha osservato, analogamente a quanto fatto dalla Corte costituzionale nella stessa sentenza del 1993, che ci si potrebbe ragionevolmente trovare di fronte alla situazione in cui il condannato collabora con le autorità senza che, in ogni caso, il suo comportamento rispecchi una correzione da parte sua o la sua «dissociazione» effettiva dall’ambiente criminale, avendo l’interessato agito in tal modo al solo scopo di ottenere i vantaggi previsti dalla legge[7].
Già l’analisi di questi principi di diritto enucleati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo mostra l’incongruenza del meccanismo previsto dal sistema interno, laddove in tutti i casi in cui ricorra l’ergastolo ostativo, il solo fatto di non aver «collaborato con la giustizia» esclude per il condannato dal beneficio di occasioni progressive di reinserimento sociale.
È evidente, del resto, che si giungerebbe al paradosso per cui un condannato che abbia effettivamente dimostrato di conformarsi ai principi costituzionali di recupero e rieducazione, mediante un percorso di ravvedimento e rieducazione non sia in una condizione sufficiente per l’ottenimento della liberazione condizionale, al quale ben potrebbe, in potenza, essere ammesso un altro soggetto che abbia “collaborato” al solo fine di ottenerne il beneficio e senza un reale percorso di ravvedimento. Senza contare che un “capo promotore” di associazione per delinquere di stampo mafioso – dichiarato tale in esito ad una sentenza passata in giudicato – abbia potenzialmente (e concretamente) più possibilità di beneficiare di misure progressive di reinserimento rispetto al sodale che, a fronte di una condanna passata in giudicato per tale reato, non collabori con la giustizia, tendenzialmente perché sprovvisto di mezzi e conoscenze idonee a fornire una concreta collaborazione.
Invero, la Corte Edu ebbe già ad evidenziare nella nota pronuncia Murray che la personalità di un condannato non rimanga fissata al momento in cui il reato è stato commesso, ma possa evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come prevede la funzione di risocializzazione, che permette all’individuo di rivedere in maniera critica il proprio percorso criminale e di ricostruire la sua personalità. Sul punto, il Giudice europeo ritiene che l’assenza di «collaborazione con la giustizia» determini una presunzione inconfutabile di pericolosità, che ha l’effetto di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione[8]. Questi rischia di non potersi mai riscattare: qualsiasi cosa faccia in carcere, la sua pena rimane immutabile e non soggetta a controllo, e rischia altresì di appesantirsi ancora di più con il passare del tempo[9].
Da questa prospettiva, la continua detenzione risulta contraria all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto, mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, il regime vigente riconduce in realtà la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, anziché tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna.
Costituzionalità dell’ergastolo e incostituzionalità della presunzione assoluta di pericolosità: qualcosa si muove
Già prima della pronuncia Viola c. Italia, a livello domestico, sembrava svilupparsi la tendenza a rimettere in discussione la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale. Del resto, la Consulta aveva già evidenziato con la sentenza n. 149 dell’11 luglio 2018 che un lungo tempo di carcerazione può aver determinato rilevanti trasformazioni sulla personalità del detenuto. Sicché il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata che impedisce alla magistratura di sorveglianza di valutare l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27 Cost. terzo comma, Cost.
Da tali premesse sembrava muovere anche l’ordinanza di rinvio della Corte di Cassazione alla Corte Costituzionale in merito alla legittimità costituzionale dell’articolo 4bis, ord. pen. Infatti, le norme censurate dalla Cassazione e portate all’attenzione della Consulta stabiliscono che i condannati all’ergastolo per reati di contesto mafioso, se non collaborino utilmente con la giustizia non possono essere ammessi al beneficio della c.d. liberazione condizionale, che consiste in un periodo di libertà vigilata, a conclusione del quale, solo in caso di comportamento corretto, consegue l’estinzione della pena e la definitiva restituzione alla libertà. Possono, invece, accedere a tale beneficio, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia.
In argomento, la Consulta evidenzia come per i casi di dimostrati e persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41bis, la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone appunto, l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017). In costanza di assoggettamento a tale regime, l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile, e di certo non è compatibile con una valutazione di “sicuro ravvedimento” ex art. 176 c.p. Allo stesso tempo, anche in relazione a condannati per reati di affiliazione a una associazione mafiosa (e per reati a questa collegati), ai soli fini dell’accesso al permesso-premio, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tute le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo.
Particolarmente importante è, dunque, il provvedimento depositato l’11 maggio del 2021, mediante il quale la Consulta tiene ancora sospesa una pronuncia sulla verifica di legittimità costituzionale della disciplina che non consente di concedere lo specifico beneficio della liberazione condizionale al condannato all’ergastolo, per delitti di “contesto” mafioso, che non collabora utilmente con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni di carcere. Nella motivazione, richiamato un excursus sull’evoluzione legislativa, ed un’accurata disamina sulle precedenti decisioni della Consulta[10], si evidenzia che «se la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque, con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove, sia pure attraverso il passaggio per uno o più esperimenti negativi, fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale»[11]. Negli anni, infatti, l’accesso alla liberazione condizionale ha accentuato il proprio ruolo di fattore di riequilibrio tra il corredo genetico dell’ergastolo (quale pena senza fine) e l’obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato[12]. Quindi, è proprio la vigente disciplina “ostativa” a mettere in tensione il principio rieducativo previsto dall’art. 27, comma 3, Cost. comprimendo in misura intollerabile la funzione rieducativa della pena.
La Consulta nell’ordinanza di maggio, in cui differisce la risoluzione della questione ad un anno, afferma, in primo luogo, che la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento. Del resto, può essere dubbia la libertà del condannato medesimo, costretto invero “tragicamente”[13] a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà a costo della sicurezza sua e dei propri cari e un destino di reclusione senza fine[14].
All’uopo, la stessa Consulta richiama una precedente propria sentenza, la n. 253 del 2019[15], ove rilevava che la presunzione assoluta di pericolosità a carico del non collaborante mostra la propria irragionevolezza, perché si basa su una generalizzazione che i dati dell’esperienza possono smentire. Infatti, nella sentenza n. 253 del 2019, la Corte Costituzionale aveva già stabilito che, in relazione a condannati per reati di affiliazione a una associazione mafiosa (e per reati a questa collegati), ai soli fini dell’accesso al permesso-premio, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – doveva rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo. Non è affatto irragionevole presumere dalla mancata collaborazione il mantenimento di legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza (fortemente radicata nel territorio, caratterizzata da una fitta rete di collegamenti personali, dotata di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo) a condizione, tuttavia, che quest’ultima sia da considerarsi una presunzione relativa superabile da prova contraria (consistente in congrui e specifici elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il rischio del loro futuro ripristino e, comunque, non riducibili alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo o a una soltanto dichiarata dissociazione) rimessa alla valutazione del tribunale di sorveglianza[16].
Nella recentissima ordinanza in commento, la posta in gioco è ancora più radicale rispetto alla precedente sentenza n. 253 del 2019[17] giacché, in termini ordinamentali, sono in questione le condizioni alle quali la pena perpetua può dirsi compatibile con la Costituzione, mentre, dal punto di vista del condannato, è in discussione la sua stessa possibilità di sperare nella fine della pena. La Consulta evidenzia che «la presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente». In particolare, non è incostituzionale la presunzione di pericolosità sull’ergastolano condannato per i reati di mafia, ma il fatto che tale presunzione sia superabile esclusivamente con il parametro della collaborazione.
Il Giudice delle Leggi spiega, infatti, che non è affatto irragionevole presumere che il condannato all’ergastolo mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza. Ma, appunto, tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. La Corte, quindi, chiosa «anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza. Il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata impedisce, infatti, alla magistratura di sorveglianza di valutare – dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto (sentenza n. 149 del 2018) – l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.».
L’intervento cauto della Consulta
Essendo sospettati di illegittimità costituzionale aspetti “centrali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali con riguardo, peraltro, al beneficio che dischiude l’accesso alla definitiva estinzione della pena, la Corte ritiene che, anche per come è stata formulata la questione in aderenza al procedimento a quo (con riferimento ai soli delitti di contesto mafioso e al solo beneficio della liberazione condizionale), un intervento meramente “demolitorio” potrebbe mettere a rischio, per effetto di “disarmonie” e “contraddizioni”, il complessivo equilibrio della disciplina in esame e, soprattutto, le sottese esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, rientrando piuttosto nella discrezionalità legislativa la scelta, complessiva, ponderata e coordinata, tra le diverse soluzioni di politica criminale in campo[18].
Tra l’altro, la Corte rileva come la normativa risultante da una eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni, conchiusa nei termini proposti dal giudice a quo, darebbe vita a un sistema penitenziario caratterizzato, a sua volta, da tratti di incoerenza. In esso, i condannati per i reati di cui all’art. 4bis, comma 1, ord. pen., pur se non collaborino utilmente con la giustizia, possono attualmente essere valutati al fine di ottenere uno o più permessi premio. All’esito di una pronuncia di accoglimento dell’odierna questione – alla fine della pena e perciò del loro percorso penitenziario – i condannati (non collaboranti) potrebbero accedere (anche) al procedimento di ammissione alla liberazione condizionale: ma resterebbe loro inibito l’accesso alle altre misure – lavoro all’esterno e semilibertà – cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso recupero della libertà.
Per questi motivi, facendo leva sui poteri di gestione del processo costituzionale in nome di esigenze di collaborazione istituzionale, la Corte, come già fatto in passato[19], ruota la clessidra, limitandosi a disporre il rinvio del giudizio all’udienza del 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia e riservandosi di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni eventualmente assunte.
Non mancano le critiche circa l’atteggiamento frenato della Consulta[20], che non si era posta simili limiti nella sentenza n. 253 del 2019, laddove non aveva ravvisato un ostacolo insuperabile all’accoglimento della questione sottoposta, allora, al suo giudizio.
Di pregio si mostra, invece, la motivazione del Giudice delle Leggi, laddove argomenta che l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere contraddetta, ad esempio alle determinate e rigorose condizioni già previste dalla stessa sentenza n. 253 del 2019, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che, appunto, devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza, particolarmente nel caso in cui il detenuto abbia affrontato un lungo percorso carcerario, come accade per i condannati a pena perpetua.
La Consulta nel provvedimento che rinvia la trattazione della questione di costituzionalità al prossimo anno, indica che «per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del suo futuro ripristino. (…) Come si è detto, la mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è comunque non irragionevole fondamento di una presunzione di pericolosità specifica. Appartiene perciò alla discrezionalità legislativa, e non già a questa Corte, decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione sul suo sicuro ravvedimento ex art. 176 cod. pen.: scelte fra le quali potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione».
Ebbene, l’esegesi fornita dalla Consulta indirizza nel senso che la concreta collaborazione alla socializzazione dimostrata dall’ergastolano potrebbe valere, già sola, a escludere la possibilità che quest’ultimo commetta ulteriori reati, ritendo, quindi, soddisfatti i presupposti per l’applicazione della liberazione condizionale.
L’atteggiamento collaborativo di “sintonia” con l’Ordinamento non può, del resto, essere ridotto alla sola «collaborazione con la giustizia» (da effettuarsi – peraltro – in stringenti tempistiche dall’Ordinamento imposte e collocato all’inizio del circuito detentivo), ma occorre valorizzare anche la «collaborazione trattamentale», di più ampio respiro, dai contenuti più risocializzanti e verificata alla luce di un’osservazione molto più dilatata e, dunque, probabilmente più affidabile.
Del resto, occorre porre mente anche al dato di sistema per cui, mentre in fase cautelare il codice di rito (art. 247, comma 1, lett. a) non annette alcuna valenza negativa al rifiuto dell’imputato di confessare o rendere dichiarazioni etero-accusatorie, la disciplina dell’ergastolo ostativo implica un ribaltamento di tale principio, nel passaggio dalla fase del processo a quella dell’esecuzione, conseguendone una diminuzione della libertà di determinazione dell’individuo nelle proprie scelte difensive. La collaborazione potrà costituire il presupposto per trattamenti premiali, ma la sua mancanza non potrebbe costituire fondamento per trattamenti deteriori, spinti fino alla preclusione di ogni sblocco rieducativo.
Tuttavia, la Consulta non interviene nell’opera di “assestamento” che affida al Legislatore, auspicando un intervento di modifica di aspetti essenziali dell’ordinamento penale e penitenziario – sollecitata dall’ordinanza di rimessione – compiuto mediante una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa.
[1] La Corte rimettente è investita del ricorso per cassazione proposto contro un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila da persona irrevocabilmente condannata alla pena dell’ergastolo con sentenza della Corte di assise di Palermo del 24 giugno 2005, confermata dalla locale Corte di assise di appello (decisione irrevocabile dal 9 febbraio 2007). Il ricorrente, in particolare, è stato riconosciuto colpevole di un delitto di omicidio volontario aggravato ex art. 7 del d.l. n. 152 del 1991. La sanzione dell’ergastolo concernente il reato in questione, originariamente cumulata alle pene inflitte per fatti ulteriori, è in esecuzione dal 23 novembre 1999. Nel procedimento da cui promana l’ordinanza di rimessione, il condannato si è rivolto al Tribunale di sorveglianza per ottenere un provvedimento di liberazione condizionale. La richiesta, tuttavia, è stata dichiarata inammissibile, poiché la pena in corso di esecuzione è stata inflitta per un reato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività della associazione in esso prevista (associazione di tipo mafioso). In tali condizioni, i benefici penitenziari e la stessa liberazione condizionale potrebbero infatti essere accordati solo se il condannato abbia prestato collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter o.p., o si sia trovato nella impossibilità di collaborare efficacemente. Nella specie, però, non è mai stato registrato un atteggiamento collaborativo e, già in precedenti occasioni (da ultimo con ordinanza el 6 novembre 2018, il Tribunale di sorveglianza aveva negato che potesse riconoscersi, in favore del ricorrente, una situazione “equivalente”, di impossibilità a prestare una collaborazione utile. Su queste premesse il Tribunale di sorveglianza ha quindi ritenuto di non procedere a un esame di merito della richiesta del condannato, negando che gli sviluppi recenti della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale consentano il superamento, in via di interpretazione, della condizione posta dal comma 1 dell’art. 4 bis o.p., e dichiarando la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevata in proposito della difesa del ricorrente. La Corte di cassazione, in via preliminare, ricorda che il regime restrittivo per l’accesso ai benefici penitenziari, regolato dall’art. 4 bis o.p., è applicabile con riguardo alla liberazione condizionale per effetto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991: di conseguenza, il beneficio è ammissibile, in rapporto ai delitti elencati al primo comma del citato art. 4 bis, solo nel caso di collaborazione con la giustizia o di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione medesima. Può vedersi, in dottrina, E. Dolcini, Ergastolo ostativo, liberazione condizionale, diritto alla speranza, in G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, Atti del Seminario, Ferrara, 25 settembre 2020, p. 124 ss.
[2] Infatti, la disciplina restrittiva per l’accesso ai benefici penitenziari, prevista dall’art. 4bis ord. pen., si estende, per effetto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991, anche al regime della liberazione condizionale. In virtù di tale complesso normativo, la richiesta di accedere alla liberazione condizionale, se presentata da condannati per i delitti compresi nel comma 1 dell’art. 4bis, può essere valutata solo laddove essi abbiano collaborato con la giustizia, oppure nei casi di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione medesima.
[3] Corte EDU, Sez. I, 13 giugno 2019, Viola C. Italia, § 33 e 46.
[4] Cfr. anche Corte EDU Vinter e altri c. Regno Unito ([GC], nn. 66069/09 e altri 2, § 122
[5] Cfr., Corte EDU, Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, nn. 15018/11 e 61199/12, § 264, CEDU 2014.
[6] Corte EDU, Murray c. Paesi Bassi, § 104).
[7] Corte EDU, Sez. I, 13 giugno 2019, Viola C. Italia, § 120. Essa constata che, se altre circostanze o altre considerazioni possono spingere il condannato a rifiutarsi di collaborare, o se la collaborazione può eventualmente essere proposta a uno scopo meramente opportunistico, l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al percorso reale di rieducazione del ricorrente. 121. Essa osserva infatti che, considerando la collaborazione con le autorità come l’unica dimostrazione possibile della «dissociazione» del condannato e della sua correzione, non si tiene conto degli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto. In effetti, non è escluso che la «dissociazione» dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione la giustizia. Si veda il commento di E. Dolcini, Dalla Corte Edu una nuova condanna per l’Italia: l’ergastolo ostativo contraddice il principio di umanità della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 925 ss.; S. Santini, Anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a una concreta “via di scampo”: dalla Corte di Strasburgo un monito al rispetto della dignità umana, in Dir. pen. cont., 1 luglio 2019.
[8] Si vedano, tra altre, Corte EDU Harakchiev e Tolumov, § 264, e Corte EDU Matiošaitis e altri, § 177.
[9] Cfr. Corte EDU Vinter e altri c. Regno Unito ([GC], nn. 66069/09 e altri 2, § 112.
[10] In particolare, la motivazione richiama la sentenza n. 264 del 1974 della Consulta che aveva risolto nel senso della non fondatezza la questione di compatibilità tra l’art. 22 c.p. e l’art. 27, comma 3, Cost. anche attraverso un riferimento alla possibilità di accedere alla liberazione condizionale, ormai riconosciuta al condannato pur nel caso in cui risultasse privo dei mezzi utili all’adempimento delle obbligazioni nascenti da reato.
[11] Corte Cost., sent. n. 161 del 1997, cfr. A. Longo, Brevi osservazioni sui rapporti tra ergastolo e liberazione condizionale suggerite dalla sentenza n. 161/97, in Giur. it., 1999, p. 121 ss.
[12] Nella sentenza n. 274 del 1983, la Consulta dichiarava costituzionalmente illegittimo l’art. 54 ord. pen. nella parte in cui non prevedeva, ai soli fini della maturazione della soglia di pena che consente la richiesta di liberazione condizionale, la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo le detrazioni di pena previste da quella norma. a seguito della pronuncia, l’art. 28 della legge 10 ottobre 1986, n. 633 modificava l’art 176, comma 3 c.p., riducendo a 26 anni la soglia minima di pena eseguita a carico del condannato prima del suo potenziale accesso alla liberazione condizionale, ed eliminando il riferimento al carattere “effettivo” dell’esecuzione. In dottrina, cfr., E. Fassone, Riduzioni di pena ed ergastolo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, p. 799 ss.; V. Grevi, Sulla configurabilità di una liberazione condizionale “anticipata” per i condannati all’ergastolo, in Foro it., 1984, pt. I, p. 19 ss. Nel contempo, al fine di superare ogni residua controversia sulla rilevanza dei periodi di liberazione anticipata nel computo della pena da scontare prima della richiesta di liberazione condizionale, il legislatore modificava anche l’ultimo comma dell’art. 54 ord. pen., specificando che la regola di equivalenza alla esecuzione effettiva si applica anche ai condannati all’ergastolo. Con la sentenza n. 168 del 1994, la Consulta escludeva l’applicabilità dell’ergastolo ai minori: in particolare nella motivazione la Corte costituzionale cita un passo relativo alla liberazione condizionale e ad altre misure premiali applicabili al condannato all’ergastolo: «tutti gli anzidetti correttivi finiscono con l’incidere sulla natura stessa della pena dell’ergastolo, che non è più quella concepita alle sue origini dal codice penale del 1930. La previsione astratta dell’ergastolo deve ormai essere inquadrata in quel tessuto normativo che progressivamente ha finito per togliere ogni significato al carattere della perpetuità che all’epoca dell’emanazione del codice la connotava». In dottrina, E. Gallo, Un primo passo per il superamento dell’ergastolo, in Giur. cost., 1994, p. 1267 ss.; M. Ruotolo, L’illegittimità costituzionale della pena dell’ergastolo nei confronti del minore: un segno di civiltà giuridica, in Giur. it., 1995, p. 358 ss.
[13] Lemma utilizzato dalla stessa Consulta.
[14] Nella sentenza in commento la Consulta spiega che la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può essere determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali. Ed ancora spiega «In casi limite può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la proprio (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli».
[15] La sentenza n. 253 del 2019 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di accordare permessi premio, in caso di condanna alla pena dell’ergastolo per reati “ostativi”, sottolineando la necessità che il giudice, superando la presunzione, possa in concreto valutare ed eventualmente valorizzare situazioni di sicuro ravvedimento. Cfr., M. Bortolato, Il futuro rientro nella società non può essere negato a chi non collabora, ma la strada è ancora lunga, in Dir. pen. proc., 2020, p. 632 ss.; R. De Vito, Mancata collaborazione e permessi premio: cade il muro della presunzione assoluta, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 349 ss.; G. Dodaro, L’onere di collaborazione con la giustizia per l’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis, comma 1, ord. penit. di fronte alla Costituzione, ivi, 2020, p. 259 ss.; F. Fiorentin, Preclusioni penitenziarie e permessi premio, in Cass. pen., 2020, p. 1019 ss.; A. Menghini, Permessi premio: la Consulta apre un varco nell’art. 4 bis 1° comma ord. pen., in Giur. it., 2020, p. 410 ss.
[16] Nella sentenza in commento si legge «Ciò non significa affatto svalutare il rilievo e utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione. Significa, invece, negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale».
[17] La Consulta argomenta «è qui in esame l’accesso al ben diverso istituto che determina, all’esito positivo del io di libertà vigilata, l’estinzione della pena e il definitivo riacquisto della libertà, e non semplicemente, come nel caso del permesso-premio, la concessione di una breve sospensione della carcerazione, senza interruzione dell’esecuzione della pena, in costanza dei connessi controlli».
[18] Appartiene invece alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale. Fra queste scelte la Consulta suggerisce che «potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione».
[19] Cfr., Corte Costituzionale, ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018.
[20] Secondo E. Dolcini, L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, in Sistema penale, 25 maggio 2021, «Da oggi a maggio 2022, o almeno fino a un intervento del legislatore, l’ergastolano ‘ostativo’ che chieda di essere ammesso alla liberazione condizionale non otterrà il vaglio nel merito della sua istanza. L’istanza sarà dichiarata inammissibile (inammissibile ‘allo stato’): e ciò, paradossalmente, in forza di una disciplina della quale la Corte ha accertato, con solide argomentazioni, l’illegittimità costituzionale. Il condannato non avrà alcuna chance di tornare in libertà, anche se la Costituzione impone che quella possibilità gli venga offerta. Al magistrato di sorveglianza si offrirà soltanto la possibilità di sollevare, nuovamente, una questione di legittimità costituzionale: ma si tratterebbe, a mio avviso, di un circolo vizioso, a fronte del rinvio della trattazione nel merito disposto dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 97 del 2021».
In materia, sul nostro sito, si vedano anche i seguenti contributi del Prof. Bartolomeo Romano:
L’incostituzionalità “prospettata” dell’ergastolo ostativo
Ergastolo ostativo e liberazione condizionale: La Corte costituzionale decide di non decidere
Ergastolo ostativo e liberazione condizionale per i reati di mafia: depositata l’ordinanza della Corte Costituzionale.
Premessa
Con l’ordinanza n. 97 del 2021 depositata l’11 maggio 2021 (ed emessa all’esito dell’udienza del 15 aprile 2021, con pubblicazione di relativo comunicato stampa) la Corte Costituzionale ha stabilito che spetta al parlamento modificare la disciplina relativa al c.d. “ergastolo ostativo” nella parte in cui presenta profili di contrarietà alla Carta fondamentale ed ai principi della CEDU. Il rinvio della questione sottoposta alla Consulta al maggio 2022 viene, dunque, giustificato stante il rilievo che un intervento “demolitorio” del Giudice delle Leggi potrebbe produrre effetti disarmonici sul complessivo equilibrio della disciplina al vaglio della Corte, compromettendo le esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva cui le norme sono preposte, al fine di contrastare il fenomeno della criminalità mafiosa.
In particolare, in relazione al giudizio di legittimità costituzionale degli artt. 4bis, comma 1, 58ter della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull’ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della libertà), e dell’art. 2 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalità organizzata e di trasparenza e buon andamento dell’attività amministrativa) convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, sollevato dalla Corte di Cassazione, prima sezione penale, con ordinanza del 3 giugno 2020[1], in riferimento agli artt. 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost. con riguardo all’art. 3 della CEDU, nella parte in cui escludono che possa essere ammesso alla liberazione condizionale il condannato all’ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all’art. 416bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste che non abbia collaborato con la giustizia, la Corte rivoluziona l’esegesi di quei principi in passato richiamati nella sentenza n. 306 del 1993.
La pronuncia del 1993, da cui la Consulta prende decisamente le distanze, aveva qualificato l’impossibilità di accedere alla liberazione condizionale come preclusione non derivante automaticamente dall’art. 4bis, comma 1, ord. pen.[2], bensì dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni di farlo.
Dopo quasi un ventennio, la Corte Costituzionale analizza la stessa norma con una diversa lente, particolarmente adatta a cogliere nuovi dettagli, rilevati grazie ad un focus composito e strutturatosi tra l’esegesi domestica e sovranazionale in materia di ergastolo e trattamenti disumani o degradanti. Infatti, nella motivazione si effettua una piena ricostruzione del quadro giurisprudenziale di riferimento richiamato dal giudice a quo a sostegno della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione (Corte Cost. nn. 253 del 2019, 161 del 1997, 274 del 1983 e 264 del 1974 e CEDU 13 giugno 2019 Viola c. Italia), ed inoltre una puntuale disamina dell’evoluzione legislativa (in particolare, art. 2, L. 1634/1962 e art. 28 L. 663/1986) e di quella giurisprudenziale, sia costituzionale (sentenze nn. 264/1974, 274/1983, 168/1994, 161/1997) sia sovranazionale (CEDU 12 febbraio 2008, Kafkaris contro Cipro; 9 luglio 2013, Vinter contro Regno Unito; 4 settembre 2014, Trabelsi contro Belgio; 26 aprile 2016, Murray contro Paesi Bassi; 4 ottobre 2016, T.P. e A.T. contro Ungheria), sulla compatibilità della pena dell’ergastolo col principio costituzionale di risocializzazione.
Nel complesso, l’ordinanza della Consulta dimostra di recepire l’orientamento della Corte europea dei diritti dell’uomo circa l’incompatibilità convenzionale e costituzionale di un regime che condiziona l’accesso alla liberazione condizionale alla collaborazione dell’interessato con l’autorità giudiziaria.
I precedenti sovranazionali: la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo nel caso Viola c. Italia
E’ certamente nota l’indicazione del resa dalla sez. I della Corte EDU nella sentenza Viola contro Italia del 13 giugno 2019 n. 77633, laddove nel caso sottoposto alla sua cognizione, i giudici hanno osservato che a causa dell’esistenza della circostanza aggravante legata al fatto di avere svolto il ruolo di capo all’interno del gruppo mafioso di appartenenza, la collaborazione dell’interessato non può essere definita «impossibile» o «irrilevante» ai sensi della legislazione vigente e della giurisprudenza della Corte di Cassazione[3].
Da tale presupposto, nel valutare se la pena perpetua detta «ergastolo ostativo» sia de jure e de facto riducibile, ovvero se offra una prospettiva di liberazione e una possibilità di riesame nel caso di collaborazione, la Corte ha analizzato il sistema interno, osservando che esso non vieta, in maniera assoluta e con effetto automatico, l’accesso alla liberazione condizionale e agli altri benefici propri del sistema penitenziario, ma lo subordina alla «collaborazione con la giustizia».
In effetti, la situazione derivante dall’articolo 4bis ord. pen. si situa in questo modo tra quella del condannato all’ergastolo ordinario, prevista dall’articolo 22 del codice penale, la cui pena è riducibile de jure e de facto, e quella del detenuto a cui è preclusa dal sistema, a causa di un ostacolo giuridico o pratico, qualsiasi possibilità di liberazione, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. La Corte sovranazionale ha, quindi, esaminato se l’equilibrio tra le finalità di politica criminale e la funzione di risocializzazione della pena non finisca, nella sua applicazione pratica, per limitare eccessivamente la prospettiva di liberazione dell’interessato e la possibilità per quest’ultimo di chiedere il riesame della sua pena.
La Corte europea dei diritti dell’uomo offre, così, nel caso Viola una approfondita disamina del sistema italiano. In argomento, osserva che il sistema penitenziario italiano si basa sul principio della progressione trattamentale del detenuto, secondo il quale la partecipazione attiva al programma individuale di rieducazione e il passare del tempo possono produrre effetti positivi sul condannato e promuovere il suo pieno reinserimento nella società. Man mano che fa progressi in carcere, ammettendo che ne faccia, al condannato viene offerta dal sistema la possibilità di beneficiare di misure progressive (che vanno dal lavoro all’esterno alla liberazione condizionale, passando attraverso i permessi premio e la semilibertà, finalizzati a favorire il processo di risocializzazione del detenuto) che lo accompagnino nel suo «percorso verso l’uscita».
Si tratta di una declinazione della funzione di correzione della detenzione evocata nella stessa sentenza Murray c. Paesi Bassi.
Già nella pronuncia Viola c. Italia, la Corte rammenta inoltre di avere affermato che il principio della «dignità umana» impedisce di privare una persona della sua libertà con la costrizione senza operare, nel contempo, per il suo reinserimento e senza fornirgli una possibilità di recuperare un giorno tale libertà. Essa ha precisato che «un detenuto condannato all’ergastolo effettivo ha il diritto di sapere (…) cosa deve fare perché sia esaminata una sua possibile liberazione e quali siano le condizioni applicabili»[4]. Essa ha anche dichiarato che le autorità nazionali devono dare ai detenuti condannati all’ergastolo una possibilità reale di reinserirsi[5]. Si tratta chiaramente di un obbligo positivo di mezzi, e non di risultato, che implica di garantire per questi detenuti l’esistenza di regimi penitenziari che siano compatibili con l’obiettivo di correzione e che permettano loro di fare progressi in questa direzione[6].
La portata rivoluzionaria dell’esegesi della Corte europea sta nel fatto che il Giudice sovranazionale deduce che la mancanza di collaborazione non può essere sempre imputata ad una scelta libera e volontaria, né giustificata soltanto dalla persistenza dell’adesione ai «valori criminali» e al mantenimento di legami con il gruppo di appartenenza. Del resto, ciò è stato riconosciuto dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 306 dell’11 giugno 1993, nella quale si è affermato che l’assenza di collaborazione non indicava necessariamente il mantenimento di legami con l’organizzazione mafiosa.
Inoltre, la Corte Europea ha osservato, analogamente a quanto fatto dalla Corte costituzionale nella stessa sentenza del 1993, che ci si potrebbe ragionevolmente trovare di fronte alla situazione in cui il condannato collabora con le autorità senza che, in ogni caso, il suo comportamento rispecchi una correzione da parte sua o la sua «dissociazione» effettiva dall’ambiente criminale, avendo l’interessato agito in tal modo al solo scopo di ottenere i vantaggi previsti dalla legge[7].
Già l’analisi di questi principi di diritto enucleati dalla Corte europea dei diritti dell’uomo mostra l’incongruenza del meccanismo previsto dal sistema interno, laddove in tutti i casi in cui ricorra l’ergastolo ostativo, il solo fatto di non aver «collaborato con la giustizia» esclude per il condannato dal beneficio di occasioni progressive di reinserimento sociale.
È evidente, del resto, che si giungerebbe al paradosso per cui un condannato che abbia effettivamente dimostrato di conformarsi ai principi costituzionali di recupero e rieducazione, mediante un percorso di ravvedimento e rieducazione non sia in una condizione sufficiente per l’ottenimento della liberazione condizionale, al quale ben potrebbe, in potenza, essere ammesso un altro soggetto che abbia “collaborato” al solo fine di ottenerne il beneficio e senza un reale percorso di ravvedimento. Senza contare che un “capo promotore” di associazione per delinquere di stampo mafioso – dichiarato tale in esito ad una sentenza passata in giudicato – abbia potenzialmente (e concretamente) più possibilità di beneficiare di misure progressive di reinserimento rispetto al sodale che, a fronte di una condanna passata in giudicato per tale reato, non collabori con la giustizia, tendenzialmente perché sprovvisto di mezzi e conoscenze idonee a fornire una concreta collaborazione.
Invero, la Corte Edu ebbe già ad evidenziare nella nota pronuncia Murray che la personalità di un condannato non rimanga fissata al momento in cui il reato è stato commesso, ma possa evolvere durante la fase di esecuzione della pena, come prevede la funzione di risocializzazione, che permette all’individuo di rivedere in maniera critica il proprio percorso criminale e di ricostruire la sua personalità. Sul punto, il Giudice europeo ritiene che l’assenza di «collaborazione con la giustizia» determini una presunzione inconfutabile di pericolosità, che ha l’effetto di privare il ricorrente di qualsiasi prospettiva realistica di liberazione[8]. Questi rischia di non potersi mai riscattare: qualsiasi cosa faccia in carcere, la sua pena rimane immutabile e non soggetta a controllo, e rischia altresì di appesantirsi ancora di più con il passare del tempo[9].
Da questa prospettiva, la continua detenzione risulta contraria all’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, in quanto, mantenendo l’equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale, il regime vigente riconduce in realtà la pericolosità dell’interessato al momento in cui i reati sono stati commessi, anziché tenere conto del percorso di reinserimento e dei progressi eventualmente compiuti a partire dalla condanna.
Costituzionalità dell’ergastolo e incostituzionalità della presunzione assoluta di pericolosità: qualcosa si muove
Già prima della pronuncia Viola c. Italia, a livello domestico, sembrava svilupparsi la tendenza a rimettere in discussione la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale. Del resto, la Consulta aveva già evidenziato con la sentenza n. 149 dell’11 luglio 2018 che un lungo tempo di carcerazione può aver determinato rilevanti trasformazioni sulla personalità del detenuto. Sicché il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata che impedisce alla magistratura di sorveglianza di valutare l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo si pone in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27 Cost. terzo comma, Cost.
Da tali premesse sembrava muovere anche l’ordinanza di rinvio della Corte di Cassazione alla Corte Costituzionale in merito alla legittimità costituzionale dell’articolo 4bis, ord. pen. Infatti, le norme censurate dalla Cassazione e portate all’attenzione della Consulta stabiliscono che i condannati all’ergastolo per reati di contesto mafioso, se non collaborino utilmente con la giustizia non possono essere ammessi al beneficio della c.d. liberazione condizionale, che consiste in un periodo di libertà vigilata, a conclusione del quale, solo in caso di comportamento corretto, consegue l’estinzione della pena e la definitiva restituzione alla libertà. Possono, invece, accedere a tale beneficio, dopo aver scontato almeno 26 anni di carcere, tutti gli altri condannati alla pena perpetua, compresi quelli per delitti connessi all’attività di associazioni mafiose, i quali abbiano collaborato utilmente con la giustizia.
In argomento, la Consulta evidenzia come per i casi di dimostrati e persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l’ordinamento penitenziario appresta l’apposito regime di cui all’art. 41bis, la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone appunto, l’attualità dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017). In costanza di assoggettamento a tale regime, l’accesso ai benefici penitenziari non risulta possibile, e di certo non è compatibile con una valutazione di “sicuro ravvedimento” ex art. 176 c.p. Allo stesso tempo, anche in relazione a condannati per reati di affiliazione a una associazione mafiosa (e per reati a questa collegati), ai soli fini dell’accesso al permesso-premio, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tute le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo.
Particolarmente importante è, dunque, il provvedimento depositato l’11 maggio del 2021, mediante il quale la Consulta tiene ancora sospesa una pronuncia sulla verifica di legittimità costituzionale della disciplina che non consente di concedere lo specifico beneficio della liberazione condizionale al condannato all’ergastolo, per delitti di “contesto” mafioso, che non collabora utilmente con la giustizia e che abbia già scontato ventisei anni di carcere. Nella motivazione, richiamato un excursus sull’evoluzione legislativa, ed un’accurata disamina sulle precedenti decisioni della Consulta[10], si evidenzia che «se la liberazione condizionale è l’unico istituto che in virtù della sua esistenza nell’ordinamento rende non contrastante con il principio rieducativo, e dunque, con la Costituzione, la pena dell’ergastolo, vale evidentemente la proposizione reciproca, secondo cui detta pena contrasta con la Costituzione ove, sia pure attraverso il passaggio per uno o più esperimenti negativi, fosse totalmente preclusa, in via assoluta, la riammissione del condannato alla liberazione condizionale»[11]. Negli anni, infatti, l’accesso alla liberazione condizionale ha accentuato il proprio ruolo di fattore di riequilibrio tra il corredo genetico dell’ergastolo (quale pena senza fine) e l’obiettivo costituzionale della risocializzazione di ogni condannato[12]. Quindi, è proprio la vigente disciplina “ostativa” a mettere in tensione il principio rieducativo previsto dall’art. 27, comma 3, Cost. comprimendo in misura intollerabile la funzione rieducativa della pena.
La Consulta nell’ordinanza di maggio, in cui differisce la risoluzione della questione ad un anno, afferma, in primo luogo, che la collaborazione con la giustizia non necessariamente è sintomo di credibile ravvedimento, così come il suo contrario non può assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento. Del resto, può essere dubbia la libertà del condannato medesimo, costretto invero “tragicamente”[13] a scegliere tra la possibilità di riacquisire la libertà a costo della sicurezza sua e dei propri cari e un destino di reclusione senza fine[14].
All’uopo, la stessa Consulta richiama una precedente propria sentenza, la n. 253 del 2019[15], ove rilevava che la presunzione assoluta di pericolosità a carico del non collaborante mostra la propria irragionevolezza, perché si basa su una generalizzazione che i dati dell’esperienza possono smentire. Infatti, nella sentenza n. 253 del 2019, la Corte Costituzionale aveva già stabilito che, in relazione a condannati per reati di affiliazione a una associazione mafiosa (e per reati a questa collegati), ai soli fini dell’accesso al permesso-premio, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata – da parte di tutte le autorità coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza – doveva rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l’abbandono definitivo. Non è affatto irragionevole presumere dalla mancata collaborazione il mantenimento di legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza (fortemente radicata nel territorio, caratterizzata da una fitta rete di collegamenti personali, dotata di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo) a condizione, tuttavia, che quest’ultima sia da considerarsi una presunzione relativa superabile da prova contraria (consistente in congrui e specifici elementi tali da escludere sia l’attualità di collegamenti con la criminalità organizzata sia il rischio del loro futuro ripristino e, comunque, non riducibili alla regolare condotta carceraria, alla partecipazione al percorso rieducativo o a una soltanto dichiarata dissociazione) rimessa alla valutazione del tribunale di sorveglianza[16].
Nella recentissima ordinanza in commento, la posta in gioco è ancora più radicale rispetto alla precedente sentenza n. 253 del 2019[17] giacché, in termini ordinamentali, sono in questione le condizioni alle quali la pena perpetua può dirsi compatibile con la Costituzione, mentre, dal punto di vista del condannato, è in discussione la sua stessa possibilità di sperare nella fine della pena. La Consulta evidenzia che «la presunzione di pericolosità gravante sul condannato all’ergastolo per reati di contesto mafioso che non collabora con la giustizia non è, di per sé, in tensione con i parametri costituzionali evocati dal rimettente». In particolare, non è incostituzionale la presunzione di pericolosità sull’ergastolano condannato per i reati di mafia, ma il fatto che tale presunzione sia superabile esclusivamente con il parametro della collaborazione.
Il Giudice delle Leggi spiega, infatti, che non è affatto irragionevole presumere che il condannato all’ergastolo mantenga vivi i legami con l’organizzazione criminale di originaria appartenenza. Ma, appunto, tale tensione si evidenzia laddove sia stabilito che la collaborazione sia l’unica strada a disposizione del condannato a pena perpetua per l’accesso alla valutazione da cui dipende, decisivamente, la sua restituzione alla libertà. La Corte, quindi, chiosa «anche in tal caso, è insomma necessario che la presunzione in esame diventi relativa e possa essere vinta da prova contraria, valutabile dal tribunale di sorveglianza. Il carattere assoluto della presunzione di attualità dei collegamenti con la criminalità organizzata impedisce, infatti, alla magistratura di sorveglianza di valutare – dopo un lungo tempo di carcerazione, che può aver determinato rilevanti trasformazioni della personalità del detenuto (sentenza n. 149 del 2018) – l’intero percorso carcerario del condannato all’ergastolo, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero anche di un tale condannato alla vita sociale, ai sensi dell’art. 27, terzo comma, Cost.».
L’intervento cauto della Consulta
Essendo sospettati di illegittimità costituzionale aspetti “centrali” della normativa apprestata per il contrasto alle organizzazioni criminali con riguardo, peraltro, al beneficio che dischiude l’accesso alla definitiva estinzione della pena, la Corte ritiene che, anche per come è stata formulata la questione in aderenza al procedimento a quo (con riferimento ai soli delitti di contesto mafioso e al solo beneficio della liberazione condizionale), un intervento meramente “demolitorio” potrebbe mettere a rischio, per effetto di “disarmonie” e “contraddizioni”, il complessivo equilibrio della disciplina in esame e, soprattutto, le sottese esigenze di prevenzione generale e di sicurezza collettiva, rientrando piuttosto nella discrezionalità legislativa la scelta, complessiva, ponderata e coordinata, tra le diverse soluzioni di politica criminale in campo[18].
Tra l’altro, la Corte rileva come la normativa risultante da una eventuale pronuncia di accoglimento delle questioni, conchiusa nei termini proposti dal giudice a quo, darebbe vita a un sistema penitenziario caratterizzato, a sua volta, da tratti di incoerenza. In esso, i condannati per i reati di cui all’art. 4bis, comma 1, ord. pen., pur se non collaborino utilmente con la giustizia, possono attualmente essere valutati al fine di ottenere uno o più permessi premio. All’esito di una pronuncia di accoglimento dell’odierna questione – alla fine della pena e perciò del loro percorso penitenziario – i condannati (non collaboranti) potrebbero accedere (anche) al procedimento di ammissione alla liberazione condizionale: ma resterebbe loro inibito l’accesso alle altre misure – lavoro all’esterno e semilibertà – cioè proprio alle misure che invece normalmente segnano, in progressione dopo i permessi premio, l’avvio verso recupero della libertà.
Per questi motivi, facendo leva sui poteri di gestione del processo costituzionale in nome di esigenze di collaborazione istituzionale, la Corte, come già fatto in passato[19], ruota la clessidra, limitandosi a disporre il rinvio del giudizio all’udienza del 10 maggio 2022, dando al Parlamento un congruo tempo per affrontare la materia e riservandosi di verificare ex post la conformità a Costituzione delle decisioni eventualmente assunte.
Non mancano le critiche circa l’atteggiamento frenato della Consulta[20], che non si era posta simili limiti nella sentenza n. 253 del 2019, laddove non aveva ravvisato un ostacolo insuperabile all’accoglimento della questione sottoposta, allora, al suo giudizio.
Di pregio si mostra, invece, la motivazione del Giudice delle Leggi, laddove argomenta che l’assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che può essere contraddetta, ad esempio alle determinate e rigorose condizioni già previste dalla stessa sentenza n. 253 del 2019, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che, appunto, devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza, particolarmente nel caso in cui il detenuto abbia affrontato un lungo percorso carcerario, come accade per i condannati a pena perpetua.
La Consulta nel provvedimento che rinvia la trattazione della questione di costituzionalità al prossimo anno, indica che «per l’accesso alla liberazione condizionale di un ergastolano (non collaborante) per delitti collegati alla criminalità organizzata, e per la connessa valutazione del suo sicuro ravvedimento, sarà quindi necessaria l’acquisizione di altri, congrui e specifici elementi, tali da escludere, sia l’attualità di suoi collegamenti con la criminalità organizzata, sia il rischio del suo futuro ripristino. (…) Come si è detto, la mancata collaborazione, se non può essere condizione ostativa assoluta, è comunque non irragionevole fondamento di una presunzione di pericolosità specifica. Appartiene perciò alla discrezionalità legislativa, e non già a questa Corte, decidere quali ulteriori scelte risultino opportune per distinguere la condizione di un tale condannato alla pena perpetua rispetto a quella degli altri ergastolani, a integrazione della valutazione sul suo sicuro ravvedimento ex art. 176 cod. pen.: scelte fra le quali potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione».
Ebbene, l’esegesi fornita dalla Consulta indirizza nel senso che la concreta collaborazione alla socializzazione dimostrata dall’ergastolano potrebbe valere, già sola, a escludere la possibilità che quest’ultimo commetta ulteriori reati, ritendo, quindi, soddisfatti i presupposti per l’applicazione della liberazione condizionale.
L’atteggiamento collaborativo di “sintonia” con l’Ordinamento non può, del resto, essere ridotto alla sola «collaborazione con la giustizia» (da effettuarsi – peraltro – in stringenti tempistiche dall’Ordinamento imposte e collocato all’inizio del circuito detentivo), ma occorre valorizzare anche la «collaborazione trattamentale», di più ampio respiro, dai contenuti più risocializzanti e verificata alla luce di un’osservazione molto più dilatata e, dunque, probabilmente più affidabile.
Del resto, occorre porre mente anche al dato di sistema per cui, mentre in fase cautelare il codice di rito (art. 247, comma 1, lett. a) non annette alcuna valenza negativa al rifiuto dell’imputato di confessare o rendere dichiarazioni etero-accusatorie, la disciplina dell’ergastolo ostativo implica un ribaltamento di tale principio, nel passaggio dalla fase del processo a quella dell’esecuzione, conseguendone una diminuzione della libertà di determinazione dell’individuo nelle proprie scelte difensive. La collaborazione potrà costituire il presupposto per trattamenti premiali, ma la sua mancanza non potrebbe costituire fondamento per trattamenti deteriori, spinti fino alla preclusione di ogni sblocco rieducativo.
Tuttavia, la Consulta non interviene nell’opera di “assestamento” che affida al Legislatore, auspicando un intervento di modifica di aspetti essenziali dell’ordinamento penale e penitenziario – sollecitata dall’ordinanza di rimessione – compiuto mediante una più complessiva, ponderata e coordinata valutazione legislativa.
[1] La Corte rimettente è investita del ricorso per cassazione proposto contro un’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza dell’Aquila da persona irrevocabilmente condannata alla pena dell’ergastolo con sentenza della Corte di assise di Palermo del 24 giugno 2005, confermata dalla locale Corte di assise di appello (decisione irrevocabile dal 9 febbraio 2007). Il ricorrente, in particolare, è stato riconosciuto colpevole di un delitto di omicidio volontario aggravato ex art. 7 del d.l. n. 152 del 1991. La sanzione dell’ergastolo concernente il reato in questione, originariamente cumulata alle pene inflitte per fatti ulteriori, è in esecuzione dal 23 novembre 1999. Nel procedimento da cui promana l’ordinanza di rimessione, il condannato si è rivolto al Tribunale di sorveglianza per ottenere un provvedimento di liberazione condizionale. La richiesta, tuttavia, è stata dichiarata inammissibile, poiché la pena in corso di esecuzione è stata inflitta per un reato commesso avvalendosi delle condizioni previste dall’art. 416 bis c.p., ovvero al fine di agevolare l’attività della associazione in esso prevista (associazione di tipo mafioso). In tali condizioni, i benefici penitenziari e la stessa liberazione condizionale potrebbero infatti essere accordati solo se il condannato abbia prestato collaborazione con la giustizia ai sensi dell’art. 58 ter o.p., o si sia trovato nella impossibilità di collaborare efficacemente. Nella specie, però, non è mai stato registrato un atteggiamento collaborativo e, già in precedenti occasioni (da ultimo con ordinanza el 6 novembre 2018, il Tribunale di sorveglianza aveva negato che potesse riconoscersi, in favore del ricorrente, una situazione “equivalente”, di impossibilità a prestare una collaborazione utile. Su queste premesse il Tribunale di sorveglianza ha quindi ritenuto di non procedere a un esame di merito della richiesta del condannato, negando che gli sviluppi recenti della giurisprudenza costituzionale e sovranazionale consentano il superamento, in via di interpretazione, della condizione posta dal comma 1 dell’art. 4 bis o.p., e dichiarando la manifesta infondatezza delle questioni di legittimità costituzionale sollevata in proposito della difesa del ricorrente. La Corte di cassazione, in via preliminare, ricorda che il regime restrittivo per l’accesso ai benefici penitenziari, regolato dall’art. 4 bis o.p., è applicabile con riguardo alla liberazione condizionale per effetto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991: di conseguenza, il beneficio è ammissibile, in rapporto ai delitti elencati al primo comma del citato art. 4 bis, solo nel caso di collaborazione con la giustizia o di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione medesima. Può vedersi, in dottrina, E. Dolcini, Ergastolo ostativo, liberazione condizionale, diritto alla speranza, in G. Brunelli, A. Pugiotto, P. Veronesi (a cura di), Il fine e la fine della pena. Sull’ergastolo ostativo alla liberazione condizionale, Atti del Seminario, Ferrara, 25 settembre 2020, p. 124 ss.
[2] Infatti, la disciplina restrittiva per l’accesso ai benefici penitenziari, prevista dall’art. 4bis ord. pen., si estende, per effetto dell’art. 2 del d.l. n. 152 del 1991, anche al regime della liberazione condizionale. In virtù di tale complesso normativo, la richiesta di accedere alla liberazione condizionale, se presentata da condannati per i delitti compresi nel comma 1 dell’art. 4bis, può essere valutata solo laddove essi abbiano collaborato con la giustizia, oppure nei casi di accertata impossibilità o inesigibilità della collaborazione medesima.
[3] Corte EDU, Sez. I, 13 giugno 2019, Viola C. Italia, § 33 e 46.
[4] Cfr. anche Corte EDU Vinter e altri c. Regno Unito ([GC], nn. 66069/09 e altri 2, § 122
[5] Cfr., Corte EDU, Harakchiev e Tolumov c. Bulgaria, nn. 15018/11 e 61199/12, § 264, CEDU 2014.
[6] Corte EDU, Murray c. Paesi Bassi, § 104).
[7] Corte EDU, Sez. I, 13 giugno 2019, Viola C. Italia, § 120. Essa constata che, se altre circostanze o altre considerazioni possono spingere il condannato a rifiutarsi di collaborare, o se la collaborazione può eventualmente essere proposta a uno scopo meramente opportunistico, l’immediata equivalenza tra l’assenza di collaborazione e la presunzione inconfutabile di pericolosità sociale finisce per non corrispondere al percorso reale di rieducazione del ricorrente. 121. Essa osserva infatti che, considerando la collaborazione con le autorità come l’unica dimostrazione possibile della «dissociazione» del condannato e della sua correzione, non si tiene conto degli altri elementi che permettono di valutare i progressi compiuti dal detenuto. In effetti, non è escluso che la «dissociazione» dall’ambiente mafioso possa esprimersi in modo diverso dalla collaborazione la giustizia. Si veda il commento di E. Dolcini, Dalla Corte Edu una nuova condanna per l’Italia: l’ergastolo ostativo contraddice il principio di umanità della pena, in Riv. it. dir. proc. pen., 2019, p. 925 ss.; S. Santini, Anche gli ergastolani ostativi hanno diritto a una concreta “via di scampo”: dalla Corte di Strasburgo un monito al rispetto della dignità umana, in Dir. pen. cont., 1 luglio 2019.
[8] Si vedano, tra altre, Corte EDU Harakchiev e Tolumov, § 264, e Corte EDU Matiošaitis e altri, § 177.
[9] Cfr. Corte EDU Vinter e altri c. Regno Unito ([GC], nn. 66069/09 e altri 2, § 112.
[10] In particolare, la motivazione richiama la sentenza n. 264 del 1974 della Consulta che aveva risolto nel senso della non fondatezza la questione di compatibilità tra l’art. 22 c.p. e l’art. 27, comma 3, Cost. anche attraverso un riferimento alla possibilità di accedere alla liberazione condizionale, ormai riconosciuta al condannato pur nel caso in cui risultasse privo dei mezzi utili all’adempimento delle obbligazioni nascenti da reato.
[11] Corte Cost., sent. n. 161 del 1997, cfr. A. Longo, Brevi osservazioni sui rapporti tra ergastolo e liberazione condizionale suggerite dalla sentenza n. 161/97, in Giur. it., 1999, p. 121 ss.
[12] Nella sentenza n. 274 del 1983, la Consulta dichiarava costituzionalmente illegittimo l’art. 54 ord. pen. nella parte in cui non prevedeva, ai soli fini della maturazione della soglia di pena che consente la richiesta di liberazione condizionale, la possibilità di concedere anche al condannato all’ergastolo le detrazioni di pena previste da quella norma. a seguito della pronuncia, l’art. 28 della legge 10 ottobre 1986, n. 633 modificava l’art 176, comma 3 c.p., riducendo a 26 anni la soglia minima di pena eseguita a carico del condannato prima del suo potenziale accesso alla liberazione condizionale, ed eliminando il riferimento al carattere “effettivo” dell’esecuzione. In dottrina, cfr., E. Fassone, Riduzioni di pena ed ergastolo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1984, p. 799 ss.; V. Grevi, Sulla configurabilità di una liberazione condizionale “anticipata” per i condannati all’ergastolo, in Foro it., 1984, pt. I, p. 19 ss. Nel contempo, al fine di superare ogni residua controversia sulla rilevanza dei periodi di liberazione anticipata nel computo della pena da scontare prima della richiesta di liberazione condizionale, il legislatore modificava anche l’ultimo comma dell’art. 54 ord. pen., specificando che la regola di equivalenza alla esecuzione effettiva si applica anche ai condannati all’ergastolo. Con la sentenza n. 168 del 1994, la Consulta escludeva l’applicabilità dell’ergastolo ai minori: in particolare nella motivazione la Corte costituzionale cita un passo relativo alla liberazione condizionale e ad altre misure premiali applicabili al condannato all’ergastolo: «tutti gli anzidetti correttivi finiscono con l’incidere sulla natura stessa della pena dell’ergastolo, che non è più quella concepita alle sue origini dal codice penale del 1930. La previsione astratta dell’ergastolo deve ormai essere inquadrata in quel tessuto normativo che progressivamente ha finito per togliere ogni significato al carattere della perpetuità che all’epoca dell’emanazione del codice la connotava». In dottrina, E. Gallo, Un primo passo per il superamento dell’ergastolo, in Giur. cost., 1994, p. 1267 ss.; M. Ruotolo, L’illegittimità costituzionale della pena dell’ergastolo nei confronti del minore: un segno di civiltà giuridica, in Giur. it., 1995, p. 358 ss.
[13] Lemma utilizzato dalla stessa Consulta.
[14] Nella sentenza in commento la Consulta spiega che la condotta di collaborazione ben può essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione, così come, di converso, la scelta di non collaborare può essere determinata da ragioni che nulla hanno a che vedere con il mantenimento di legami con associazioni criminali. Ed ancora spiega «In casi limite può trattarsi di una “scelta tragica”: tra la proprio (eventuale) libertà, che può tuttavia comportare rischi per la sicurezza dei propri cari, e la rinuncia a essa, per preservarli da pericoli».
[15] La sentenza n. 253 del 2019 ha dichiarato l’illegittimità costituzionale del divieto di accordare permessi premio, in caso di condanna alla pena dell’ergastolo per reati “ostativi”, sottolineando la necessità che il giudice, superando la presunzione, possa in concreto valutare ed eventualmente valorizzare situazioni di sicuro ravvedimento. Cfr., M. Bortolato, Il futuro rientro nella società non può essere negato a chi non collabora, ma la strada è ancora lunga, in Dir. pen. proc., 2020, p. 632 ss.; R. De Vito, Mancata collaborazione e permessi premio: cade il muro della presunzione assoluta, in Riv. it. dir. proc. pen., 2020, p. 349 ss.; G. Dodaro, L’onere di collaborazione con la giustizia per l’accesso ai permessi premio ex art. 4-bis, comma 1, ord. penit. di fronte alla Costituzione, ivi, 2020, p. 259 ss.; F. Fiorentin, Preclusioni penitenziarie e permessi premio, in Cass. pen., 2020, p. 1019 ss.; A. Menghini, Permessi premio: la Consulta apre un varco nell’art. 4 bis 1° comma ord. pen., in Giur. it., 2020, p. 410 ss.
[16] Nella sentenza in commento si legge «Ciò non significa affatto svalutare il rilievo e utilità della collaborazione, intesa come libera e meditata decisione di dimostrare l’avvenuta rottura con l’ambiente criminale, e che certamente mantiene il proprio positivo valore, riconosciuto dalla legislazione premiale vigente, qui non in discussione. Significa, invece, negarne la compatibilità con la Costituzione se e in quanto essa risulti l’unica possibile strada, a disposizione del condannato all’ergastolo, per accedere alla liberazione condizionale».
[17] La Consulta argomenta «è qui in esame l’accesso al ben diverso istituto che determina, all’esito positivo del io di libertà vigilata, l’estinzione della pena e il definitivo riacquisto della libertà, e non semplicemente, come nel caso del permesso-premio, la concessione di una breve sospensione della carcerazione, senza interruzione dell’esecuzione della pena, in costanza dei connessi controlli».
[18] Appartiene invece alla discrezionalità legislativa decidere quali ulteriori scelte possono accompagnare l’eliminazione della collaborazione quale unico strumento per accedere alla liberazione condizionale. Fra queste scelte la Consulta suggerisce che «potrebbe, ad esempio, annoverarsi la emersione delle specifiche ragioni della mancata collaborazione, ovvero l’introduzione di prescrizioni peculiari che governino il periodo di libertà vigilata del soggetto in questione».
[19] Cfr., Corte Costituzionale, ordinanze n. 132 del 2020 e n. 207 del 2018.
[20] Secondo E. Dolcini, L’ordinanza della Corte Costituzionale n. 97 del 2021: eufonie, dissonanze, prospettive inquietanti, in Sistema penale, 25 maggio 2021, «Da oggi a maggio 2022, o almeno fino a un intervento del legislatore, l’ergastolano ‘ostativo’ che chieda di essere ammesso alla liberazione condizionale non otterrà il vaglio nel merito della sua istanza. L’istanza sarà dichiarata inammissibile (inammissibile ‘allo stato’): e ciò, paradossalmente, in forza di una disciplina della quale la Corte ha accertato, con solide argomentazioni, l’illegittimità costituzionale. Il condannato non avrà alcuna chance di tornare in libertà, anche se la Costituzione impone che quella possibilità gli venga offerta. Al magistrato di sorveglianza si offrirà soltanto la possibilità di sollevare, nuovamente, una questione di legittimità costituzionale: ma si tratterebbe, a mio avviso, di un circolo vizioso, a fronte del rinvio della trattazione nel merito disposto dalla Corte costituzionale nell’ordinanza n. 97 del 2021».
In materia, sul nostro sito, si vedano anche i seguenti contributi del Prof. Bartolomeo Romano:
L’incostituzionalità “prospettata” dell’ergastolo ostativo
Ergastolo ostativo e liberazione condizionale: La Corte costituzionale decide di non decidere
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