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Esame testimoniale: il ruolo e le garanzie della difesa nella pratica dibattimentale

 

I. Ogni[1] considerazione sulla figura del difensore nell’esame testimoniale deve necessariamente muovere dall’analisi del sistema procedimentale in cui si inserisce tale mezzo di prova; ciò in quanto, nella disciplina dell’esame del testimone in dibattimento si condensano molti degli obiettivi e dei principi originariamente perseguiti dal Codice Vassalli del 1988, fondato sul modello accusatorio. E’ imposto cioè di avere riferimento al metodo del contraddittorio nella formazione della prova, cardine del modello accusatorio, fondato sul rilievo che la dialettica, intesa come scontro di tesi contrapposte, sia lo strumento migliore per arrivare alla ricostruzione del fatto. Nel contraddittorio in senso oggettivo, per la prova, sancito dalla prima parte del comma 4 dell’art. 111 Cost., introdotto dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, la dialettica si manifesta nell’escussione della fonte di prova attraverso l’esame incrociato.

II. Tale passaggio è essenziale, pure se il Codice di Procedura Penale attuale non è quello originario, di impostazione accusatoria e garantista, ma – sia consentito il riferimento al pensiero del Prof. Giorgio Spangher, pure espresso in una recentissima intervista doppia con il Prof. Paolo Ferrua[2] – sia stato in un certo senso stravolto da una svolta inquisitoria, a partire dalle sentenze della Corte Costituzionale nn. 254 e 255 del 1992 e dalle modiche legislative di matrice emergenziale dello stesso anno, correlate alla stagione del più aspro contrasto al fenomeno della criminalità organizzata, in particolare mafiosa. Si sia assistito, in altri termini, ad una progressiva erosione delle connotazioni accusatorie del nuovo modello processuale: si pensi, ad esempio, al c.d. doppio binario previsto per i reati in materia di criminalità organizzata, ai casi di limitazione del diritto ad ottenere l’ammissione della prova di tipo dichiarativo, correlati a particolari imputazioni e ipotesi, di cui all’art. 190 bis c.p.p..

Al di là delle definizioni di sistema (oggi per lo più indicato come tendenzialmente accusatorio o accusatorio temperato), se anche, dunque, ci troviamo davanti ad uno iato tra un modello che si poteva sperare e che ci troviamo ora a gestire, anche nella esperienza concreta dei Tribunali, non vi è dubbio che in via generale la struttura dell’esame dibattimentale del testimone, imperniata sull’esame incrociato, sia stata fondata su una scelta di principio, che connota profondamente il modello accusatorio: l’adesione al principio dialettico.

Il principio rappresenta il superamento di quello opposto di autorità e, secondo definizione tradizionale, prende atto dei limiti della natura umana ritenendo che nessuna persona sia depositaria del vero e del giusto; la verità si può accertare tanto meglio quanto più le funzioni processuali siano ripartite tra soggetti con interessi antagonisti, al giudice, indipendente e imparziale, spetta di decidere sulla base delle prove prodotte dalle parti, lo scontro tra le tesi sostenute da ciascun interlocutore è una tecnica che consente di valutare la fondatezza degli argomenti che le sorreggono e costituisce il metodo per avvicinarsi alla verità. Il contraddittorio nella formazione della prova, quale tecnica di accertamento dei fatti, tende a far sì che ciascuna delle parti possa contribuire alla formazione della prova ponendo le domande al testimone.

L’esame incrociato, quale miglior strumento per conoscere la verità di derivazione anglosassone, costituisce massima espressione della dialettica tra le parti in conflitto: il suo scopo è quello di consentire alle stesse, sotto il penetrante controllo del giudice, di trarre dalla fonte di prova tutto quanto essa può dare, svelandone al tempo stesso il grado di attendibilità, mediante la immediata verifica delle parti contrapposte. La ratio del mezzo di prova segna la ragion d’essere delle regole che presiedono all’esame incrociato, che riguardano sia il modo di rivolgere le domande che il modo di rispondere alle stesse e presiedono ai tre momenti dell’esame diretto, del controesame e del riesame, avendo sempre di mira la genuinità della prova.

 

III. Viene, in sintesi e nella sostanza, delineato un sistema che prevede un esame dibattimentale che non può essere sottoposto a interruzioni e che muove dall’esame diretto, condotto dalla parte che ha chiesto di interrogare il testimone.

L’esame diretto tende ad ottenere la manifestazione dei fatti conosciuti dal testimone, che dovrebbero essere utili a dimostrare la tesi di colui che lo ha chiamato a deporre; sono vietate le domande suggestive, che tendono a suggerire le risposte, in modo da evitare che chi induce un teste a prova possa anche suggerirgli le risposte, in modo da manipolare a suo piacimento la genuinità della prova.

Il controesame, condotto dalla parte che ha un interesse contrario a quello della parte che ha chiesto l’esame, è eventuale e può avvenire sia sui fatti che sulla credibilità del testimone, tendendo nel primo caso a far dichiarare al testimone un fatto diverso e contrario o comunque alternativo rispetto a quello esposto nell’esame diretto e nel secondo caso a fargli dichiarare fatti che dimostrano la sua non credibilità. Nel controesame sono ammesse le domande-suggerimento (per la precisione, sono consentite tali domande alla parte che ha un interesse differente da quello che ha chiesto la citazione del testimone): il loro scopo è sia quello di contrastare la ricostruzione precedentemente resa dal testimone che di saggiare la sua attendibilità. Con ciò si dà attuazione al principio secondo cui la prova capace di resistere alle suggestioni è quella che più si accredita.

Il riesame, doppiamente eventuale, è condotto dalla persona che ha chiesto l’assunzione della testimonianza, avviene soltanto nell’ipotesi in cui si sia svolto il controesame e in cui la parte che ha svolto l’esame diretto intenda procedervi. Come intuibile, il riesame tende a corroborare la validità della dichiarazione inizialmente resa, sia sotto il profilo della ricostruzione del fatto che sotto quello attinente alla credibilità del testimone.

Al termine della sequenza esame diretto/controesame/riesame, il giudice può porre domande al testimone: è evidente che una differente collocazione temporale di tale intervento ne altererebbe la logica e la finalità e potrebbe nella prassi condizionare la linea seguita dalle parti. Dopo le domande rivolte dal giudice, le parti hanno diritto a concludere l’esame secondo l’ordine innanzi descritto.

Durante lo svolgimento dell’esame, le altre parti hanno la possibilità di formulare opposizioni inerenti alla correttezza dello svolgimento del mezzo di prova, sulle quali il giudice decide immediatamente e senza formalità. Rientrano nell’ambito applicativo della previsione di cui all’art. 504 c.p.p., tutte le questioni attinenti alla inosservanza di una delle prescrizioni normative che governano l’elaborazione della prova orale e che ne garantiscono la corretta formazione.

Vi è poi una dettagliata disciplina di carattere generale che garantisce la corretta formazione della prova, improntata al canone della pubblicità (con alcune eccezioni), definendo oggetto e limiti della testimonianza (ad esempio prevedendo che le domande debbano avere riferimento a fatti specifici, escludendo le domande nocive, disciplinando il regime delle contestazioni).

Al giudice viene demandato il controllo di legalità, che può essere sollecitato dalle parti proprio mediante le opposizioni: l’organo giudicante è in altri termini chiamato a garantire unità, continuità e immediatezza dell’esame incrociato, dovendo intervenire allo scopo di assicurare la pertinenza delle domande, la genuinità delle risposte, la lealtà dell’esame e la correttezza delle contestazioni.

In via ulteriore, la funzione di garanzia dei principi di uguaglianza, legalità e obbligatorietà dell’azione penale e dello stesso diritto di difesa – secondo quanto sostenuto dalla Corte Costituzionale nella nota sentenza n. 111 del 1993 – fa sì che, ai sensi dell’art. 506 c.p.p., il giudice possa indicare alle parti temi di prova nuovi o più ampi, utili per la completezza dell’esame, e rivolgere domande ai testimoni e, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., disporre anche d’ufficio l’assunzione di nuovi mezzi di prova.

Il limite all’attività del giudice è che egli, sempre e in ogni caso, a mezzo dei suoi interventi non si sostituisca alle parti nella conduzione dell’esame e non superi il principio dispositivo ex art. 190 c.p.p..

 

IV. I tratti dell’esame incrociato appena descritti – e prima ancora il modello processuale cui il legislatore ha avuto riferimento nel definirne la disciplina e il principio costituzionale del contraddittorio nella formazione della prova – consentono di affrontare il tema del ruolo del difensore e quello, correlato, del rispetto delle garanzie difensive: al di là delle prerogative defensionali in senso stretto (espletate nello svolgimento dell’esame diretto, del controesame o del riesame), non vi è dubbio che il difensore possa primariamente garantire i diritti del proprio assistito mediante il ferreo controllo delle regole che presiedono all’esame del testimone, che, se superate, alterano la genuinità del risultato probatorio. Al difensore, può dirsi, spetta il potere (rectius, il dovere) di monitorare la legalità dell’esame e di richiedere l’attivazione del controllo di legalità demandato al giudice o pretendere che quest’ultimo impronti a legalità il procedimento probatorio.

Il Codice, come accennato, riserva al difensore lo strumento di intervento dell’opposizione; l’inutilizzabilità è la conseguenza prevista in via generale dall’art. 526, comma 1, c.p.p. per le prove diverse da quelle acquisite legittimamente nel dibattimento.

 

V. Si pone, tuttavia, un problema pratico, che comporta la valutazione della tensione cui sono esposti i principi e le norme di matrice costituzionale e codicistica nel concreto e la conseguente presa di coscienza del loro svilimento nella prassi mediante modi di agire invalsi nelle aule di giustizia che da essi si discostano.

Il tema è strettamente legato a quello relativo all’esistenza di tendenze giurisprudenziali devianti, di interpretazioni creative che praticano una lettura fortemente riduttiva delle garanzie, che assecondano dette prassi, ponendosi il fine di imporre come diritto vivente distorsioni pratiche comunemente diffuse.

In questa dimensione, possono individuarsi, a titolo non esaustivo, quali prassi devianti, in alcuni casi assecondate dalle tendenze giurisprudenziali degenerative anzidette, che si pongono in tensione con i principi e le regole cui si è fatto prima riferimento:

a. una certa attitudine, diffusa nei tribunali, a sollecitare le parti ad acconsentire, essenzialmente in base ad esigenze pratiche, alla inversione dell’ordine probatorio, ossia alla modifica dell’ordine legale dei turni;

b. la proposizione, da parte del giudice, di domande suggestive al testimone (avallata da una parte della giurisprudenza di legittimità);

c. la prassi seguita da alcuni giudici di condurre in senso proprio l’esame diretto del testimone;

d. l’ammissione, a norma dell’art. 507 c.p.p., di nuovi mezzi prova, tra i quali appunto la testimonianza, prima che sia terminata l’acquisizione delle prove;

e. la corrente propensione a snaturare le contestazioni, chiedendo al testimone la semplice conferma della dichiarazione precedentemente resa a seguito di sua lettura.

 

a. Le pressioni rivolte ai difensori, da parte dell’organo giudicante, al fine di acconsentire alla modifica dell’ordine di assunzione delle prove, su cui possono liberamente concordare ai sensi del secondo comma dell’art. 496 c.p.p., contrastano, ad iniziare, con il principio di non colpevolezza ex art. 27 Cost.: gravando l’onere della prova sul pubblico ministero, costui è chiamato a dare dimostrazione dell’ipotesi descritta dal capo di imputazione, chiamando i testimoni a sostegno; specularmente, il diritto riconosciuto all’imputato di difendersi provando gli consente di assumere le prove per ultimo, in relazione a quanto acquisito a suo carico.

Tale passaggio è intimamente connesso all’essenza del metodo dialettico e, dunque, del sistema processuale di riferimento: l’iniziale disinformazione del giudice sui fatti oggetto del processo, l’inesistenza di una sua conoscenza precostituita e di convincimento circa la responsabilità dell’imputato prima del dibattimento, impone che questi accerti la verità mediante la sintesi di tesi e antitesi illustrate dalle parti sulla base dei risultati di prova elaborati in via corrispondente, mediante il “movimento dialettico” basato sulla sequenza esame diretto/controesame/riesame. Al fine di conferire effettività al principio di non colpevolezza e al diritto di difesa, in altri termini, è necessario che, a fronte del vuoto conoscitivo iniziale del giudice, terzo ed estraneo alla contesa, la pubblica accusa dimostri l’ipotesi accusatoria, assolvendo l’onere su di essa incombente, mediante un metodo che garantisca la correttezza, in termini di genuinità, del risultato di prova. Ciò rappresenta il netto superamento del sistema delineato dal Codice di Procedura Penale del 1930, in cui, non a caso, il giudice, che poteva scegliere liberamente l’ordine in cui ascoltare i testimoni, si trovava in una situazione di oggettiva prevenzione, conoscendo gli atti prima del dibattimento, e l’istruttoria dibattimentale iniziava con l’interrogatorio dell’imputato, chiamato a discolparsi, a “purgare gli indizi”, secondo un’espressione ricorrente nel lessico inquisitorio.

L’ordine legale di assunzione delle prove corrisponde, d’altro canto, alla gnoseologia del processo di parti, che presuppone ipotesi da dimostrare secondo le scansioni affermazione/falsificazione, quindi in generale prova/controprova e prova a carico/prova a discarico.

 

b. La proposizione, da parte dell’organo giudicante, di domande suggestive al testimone, sviluppatasi nella prassi e avallata da una parte della giurisprudenza di legittimità, che ritiene che il divieto non operi con riguardo al giudice, il quale, agendo in una posizione di terzietà, potrebbe rivolgere al testimone tutte le domande ritenute utili a fornire un contributo per l’accertamento della verità, ad esclusione di quelle atte ad incidere sulla sincerità della risposta[3], snatura certamente il ruolo del giudice, istituzionalmente chiamato a garantire ex art. 499, comma 6, c.p.p. la genuinità delle risposte.

In un sistema imperniato sul principio dispositivo, temperato nei termini di cui al secondo comma dell’art. 190 c.p.p., che permette al giudice in alcune ipotesi l’iniziativa probatoria di ufficio, e agli artt. 506 e 507 c.p.p., nei limiti già evidenziati, in generale orientati a configurare l’iniziativa del giudice come supplenza dell’inerzia della parte, non è chi non veda come la possibilità riconosciuta all’organo giudicante di porre domande-suggerimento, sia intese come domande che tendono a suggerire le risposte che come domande che forniscono le informazioni necessarie per rispondere secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche attraverso una semplice conferma, rappresenti una svolta inquisitoria, allontanandolo dalla posizione di terzietà ed equidistanza dalle parti.

La domanda suggestiva, decontestualizzata dal controesame riservato alla parte processuale e dalle finalità di contrastare la ricostruzione precedentemente resa dal testimone e saggiarne la attendibilità ivi prevista, viene in tal caso piegata al diverso scopo di supportare probatoriamente una diversa ricostruzione del fatto che il giudice possa ipotizzare.

 

c. Considerazioni affini valgono con riferimento alla conduzione, da parte del giudice, dell’esame diretto del testimone, in un’ottica suppletiva rispetto al pubblico ministero.

Tale prassi altera il metodo dialettico nella formazione della prova testimoniale e priva il giudice di ogni terzietà: solo la salvaguardia di tale ultimo requisito, che il metodo in parola assicura, garantisce che questi, estraneo alla contesa, possa meglio concentrarsi per valutare chi abbia prevalso, ossia quale ricostruzione dei fatti sia razionalmente preferibile. Il giudice in tal modo giudica soprattutto i risultati di prova acquisiti e raggiunti a mezzo dell’opera delle parti, non quelli raggiunti per opera sua.

Il metodo dialettico cui il Codice ha aderito impone sempre che il vuoto conoscitivo iniziale, che priva il giudice di connotati inquisitori, sia colmato operativamente con lo strumento dell’esame incrociato condotto dalle parti su un piano di parità.

 

d. Ancora, merita considerazione la prassi giudiziale (sostanzialmente tollerata dall’elaborazione di legittimità[4]) volta ad ammettere, ai sensi dell’art. 507 c.p.p., nuovi testimoni prima che sia terminata l’acquisizione delle prove, discostandosi dal disposto della norma, che prevede che il giudice possa procedervi solo “terminata l’acquisizione delle prove”.

L’assunzione di nuovi mezzi di prova in un momento diverso, a ben vedere, rischia di compromette l’equilibrio fra iniziativa delle parti e poteri del giudice, determinando l’elusione del principio dispositivo, e lo stesso principio di terzietà del giudice dibattimentale, perché può rilevare come lo stesso muova da una propria ipotesi ricostruttiva, mancando la necessaria piattaforma cognitiva che orienti la sua attività officiosa.

La collocazione dell’intervento giudiziale al termine dell’istruzione dibattimentale, in altri termini, si giustifica col fatto che il giudice è in grado di valutare la assoluta necessità di introdurre d’ufficio nuove prove solo dopo aver acquisito una compiuta conoscenza dei fatti oggetto di accertamento; potere esercitabile al solo e individuato fine di definire il processo rispetto ad un quadro probatorio che rende impossibile pervenire ad una decisione, con esclusione appunto della possibilità di valersi dell’art. 507 c.p.p. solo per verificare una propria tesi sulla base di mezzi di prova non dotati di sicura concludenza oppure per integrare ulteriormente un quadro probatorio già idoneo a sostenere la decisione.

 

e. E’ il caso, da ultimo, di avere riferimento all’ipotesi, non infrequente nella esperienza delle aule di giustizia, afferente all’utilizzo improprio e innaturale dello strumento della contestazione delle dichiarazioni rese dal testimone prima del dibattimento: non è, invero, infrequente, che il pubblico ministero proceda alla semplice lettura delle precedenti dichiarazioni rese dal testimone, senza che lo stesso abbia ancora riferito sulle circostanze oggetto di accertamento, chiedendogliene la conferma, secondo uno schema tollerato dall’organo giudicante.

Giova ricordare come, sul piano degli effetti, l’istituto delle contestazioni – quale veicolo tecnico di utilizzazione processuale di dichiarazioni raccolte prima e al di fuori del contraddittorio – si atteggi alla stregua di meccanismo di valutazione della credibilità del dichiarante e, d’altro lato, voglia pure permettere allo stesso di ricalibrare quanto affermato in dibattimento o, comunque, di dare una differente versione; lo strumento si attiva (ai sensi dell’art. 500, comma 1, c.p.p.) tutte le volte in cui le precedenti dichiarazioni presentino difformità con le dichiarazioni dibattimentali, sia che in dibattimento il soggetto esaminato manifesti una conoscenza diversa, sia che riveli di non ricordare le vicende o i fatti sui quali aveva riferito in precedenza[5].

L’istituto diviene invece meccanismo di acquisizione probatoria delle dichiarazioni contenute nel fascicolo del pubblico ministero in caso di violenza, minaccia o subornazione del testimone o di accordo fra le parti.

La giurisprudenza di legittimità, in maniera non condivisibile, ha nel tempo ampliato l’utilizzabilità delle dichiarazioni utilizzate per la contestazione, arrivando a ritenere che, in ogni caso, le stesse possono essere valutate – anche al di fuori dei casi di consenso, violenza, minaccia o subornazione – ai fini di prova dei fatti in esse narrati quando confermate, sia pure in termini laconici, potendo, in tal caso, essere recepite e valutate come dichiarazioni rese direttamente dal medesimo in sede dibattimentale[6].

Si assiste oggi, nella esperienza concreta dei tribunali, alla deriva di tale impostazione: la lettura “pura” della precedente dichiarazione, seguita dalla richiesta di conferma e in assenza di precedente domanda, cui si è fatto poc’anzi riferimento.

Non occorrono particolari riflessioni per comprendere come tali prassi, propria di un sistema che tende a confermare i propri risultati iniziali, raccolti dalla pubblica accusa in segreto, riporti ad un sistema puramente inquisitorio e travolga il metodo dialettico di formazione della prova: l’esame testimoniale in dibattimento si riduce in tal modo a conferma della precedente dichiarazione, mediante un metodo larvato dalla forza della prevenzione.

E’ la morte del confronto, della prova di verità, dell’efficacia euristica dello schema adversary, della genuinità che questo garantisce: è la morte della pubblicità, dell’oralità e dell’immediatezza che tale ultimo valore sono preordinate ad assicurare.

 

VI. Tutto quanto evidenziato richiede necessariamente l’intervento del difensore, in chiave “ripristinatoria” dello schema processuale previsto dalla legge e conforme a Costituzione: le prassi degenerative cui si è fatto riferimento impongono di reagire, all’interno del processo e immediatamente, anche tramite lo strumento “generale” dell’opposizione, prima ancora che mediante le impugnazioni, e, al di fuori del processo, attraverso la presa di coscienza di tali situazioni, che non pare non possa che tramutarsi in un intervento legislativo che ponga rimedio, ove necessario, allo “squilibrio creativo” creatosi in parte della giurisprudenza di merito, avallato da parte della giurisprudenza di legittimità.

In tal senso, il controllo di legalità “mediato” o “indiretto” (inteso come potere di monitorare la legalità dell’esame, spettando invece al solo giudice il controllo di legalità in senso stretto) attribuito dal Codice al difensore può dirsi effettivo soltanto ove la pretesa di legalità del procedimento probatorio sia estesa pure all’organo giudicante, oltre che alle parti del processo.

In tali considerazioni pare possa condensarsi, nei limiti della riflessione che precede, il ruolo di garanzia incombente sul difensore nell’esame testimoniale.

[1] Il contributo è tratto dalla relazione dell’autore all’incontro di studio “L’istruttoria: esame, riesame, controesame, tecniche di conduzione nel procedimento penale”, organizzato dagli Ordini degli Avvocati di Udine, Gorizia, Trieste e Pordenone e svoltosi il 10 novembre 2021.

[2] “Ferrua e Spangher: “La Vassalli fu stravolta dalla cultura inquisitoria””, pubblicata su Il Dubbio in data 1 novembre 2021.

[3] Cass. Pen., Sez. VI, 13 gennaio 2021, n. 8307. In senso contrario, Cass. Pen., Sez. IV, 6 febbraio 2020, n. 15331, con nota di Benevieri, Il giudice suggestivo. L’esame testimoniale condotto dal giudice in una prospettiva tra diritto e linguaggio, in Penale Diritto e Procedura, 2020, che in maniera condivisibile ritiene che “il divieto di formulare domande che possano nuocere alla sincerità delle risposte, nel duplice senso delle domande “suggestive” – nel significato che il termine assume nel linguaggio giudiziario di domande che tendono a suggerire la risposta al teste ovvero forniscono le informazioni necessarie per rispondere secondo quanto desiderato dall’esaminatore, anche attraverso una semplice conferma – e delle domande “nocive” – finalizzate a manipolare il teste, fuorviandone la memoria, poiché gli forniscono informazioni errate e falsi presupposti tali da minare la stessa genuinità della risposta – è espressamente previsto con riferimento alla parte che ha chiesto la citazione del teste, in quanto tale parte è ritenuta dal legislatore interessata a suggerire al teste risposte utili per la sua difesa. A maggior ragione, detto divieto deve applicarsi al giudice al quale spetta il compito di assicurare, in ogni caso, la genuinità delle risposte ai sensi del comma 6 dell’art. 499 c.p.p.”.

[4] La giurisprudenza ritiene che l’assunzione di mezzi di prova ai sensi dell’art. 507 in un momento diverso da quello indicato dalla norma costituisca una mera irregolarità, non essendo la stessa affetta da inutilizzabilità o da nullità di ordine generale ricollegabile all’art. 178, lett. c), c.p.p., in quanto l’assunzione di un mezzo di prova, «anticipata» rispetto al termine di acquisizione delle prove, non può incidere sull’assistenza, sulla rappresentanza o sull’intervento dell’imputato (Cass. Pen., Sez. III, n. 45931 del 2014).

[5] Cass. Pen., Sez. II, n. 13927 del 2015.

[6] Cass. Pen., Sez. II, 17 marzo 2016, n. 13910. Nella stessa direzione, Cass. Pen., Sez. II, 8 maggio 2018, n. 35428, secondo cui “le dichiarazioni predibattimentali utilizzate per le contestazioni al testimone che siano state confermate, anche se in termini laconici, vanno recepite e valutate come dichiarazioni rese dal testimone direttamente in sede dibattimentale, poiché l’art. 500, comma 2, cod. proc. pen. concerne il solo caso di dichiarazioni dibattimentali difformi da quelle contenute nell’atto utilizzato per le contestazioni”. In precedenza, altra impostazione aveva rilevato, in senso opposto, condivisibilmente, che “le dichiarazioni fornite dal testimone nel corso delle indagini preliminari e lette per le contestazioni ex art. 500 – al di fuori dei casi di consenso delle parti o di violenza, minaccia o subornazione – possono essere valutate solo ai fini della credibilità dello stesso (art. 500, comma 2), ma mai come elemento di riscontro o come prova dei fatti in esse narrati, neppure quando il dichiarante, nel ritrattarle in dibattimento asserendone la falsità, riconosca di averle rese” (Cass. Pen., Sez. III, n. 20388 del 2015).

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