Cass., sez. I, 11 febbraio 2021 (dep. 9 settembre 2021), n. 33324 – Presidente Di Tomassi, Estensore Magi
Cass., sez. I, 15 maggio 2021 (dep. 20 settembre 2021), n. 34854 – Presidente Di Tomassi, Estensore Fiordalisi
- Con le sentenze in esame, la Corte di legittimità si pronuncia su due questioni giuridiche in materia di armi, di trattazione frequente nei tribunali italiani, confermando gli orientamenti già accreditati, così fornendo l’occasione per saggiarne la tenuta.
La prima pronunzia (n. 33324/2021) concerne il porto al di fuori della abitazione di un bastone di legno lungo circa 90 cm e di 572 gr. di peso; il soggetto agente, a bordo del proprio veicolo, veniva fermato sulla pubblica via dai verbalizzanti e subiva dagli stessi un controllo all’esito del quale, all’interno del bagagliaio, veniva rinvenuto un manico di zappa; nell’immediatezza l’imputato non forniva spiegazioni circa il possesso dell’oggetto; veniva condannato in primo grado, con applicazione della circostanza attenuante (lieve entità del fatto) di cui all’art. 4 co. 3 L. 110 del 1975.
- Il ricorso del difensore veniva accolto dalla Corte di legittimità, la quale volge il proprio sguardo critico sul profilo del pericolo di offesa alla persona.
Nello specifico, si osserva che l’art. 4 co. 2, L. 110 del 1975 elenca in primo luogo le armi improprie il cui porto è vietato se non sostenuto da un giustificato motivo (bastoni muniti di puntale acuminato, strumenti da punta o da taglio atti ad offendere, mazze, tubi, catene, fionde, bulloni e sfere metalliche): in questo caso, ascritto l’oggetto al tessuto letterale, l’agente è punibile ove non abbia giustificato il porto.
La seconda parte dell’art. 4 co. 2 L. cit. annovera invece “qualsiasi altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio, chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona […]”[1]. Questa ipotesi differisce dalla precedente poiché il giudicante dovrà verificare la sussistenza di tre condizioni: a) che si tratti di altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio; b) che il porto risulti ingiustificato; c) che le circostanze di luogo o di tempo che connotano il momento dell’accertamento disvelino con rassicurante certezza il pericolo di offesa alla persona.
La Corte annulla la sentenza senza rinvio, per insussistenza del fatto tipico, attesa l’assenza di indici rivelatori del pericolo di offesa alla persona. Infatti, secondo il Collegio, il “manico di zappa” (così definito dai verbalizzanti) non rientra nella più rigorosa nozione di “mazza” – di regola qualificabile come grosso bastone, di forma e grandezza varie, per lo più nodoso, corto e robusto, con testa appesantita sulla cima[2] – ma nel più blando concetto di “bastone”, a propria volta annoverabile nella seconda parte dell’art. 4 co. 2 cit., ovvero nella locuzione “altro strumento non considerato espressamente come arma da punta o da taglio chiaramente utilizzabile, per le circostanze di tempo e di luogo, per l’offesa alla persona”[3].
Va dato atto di un orientamento contrario, secondo cui nella nozione di “mazza” occorre includere il bastone in legno. Infatti, secondo Cass. sez. I, 10 gennaio 2020, n. 11644[4], i bastoni di legno sono da ritenersi «mazze il cui porto è vietato ai sensi della prima parte della disposizione citata e ciò a prescindere dalla concreta prospettabilità, per le circostanze di tempo e di luogo, di una sua utilizzazione per l’offesa alla persona».
In verità, la diversità ontologica del bastone e della mazza è attestata dal primo comma dell’art. 4 L. 110/1975, che li annovera entrambi (“mazze ferrate o bastoni ferrati”), unificandoli sul piano normativo (se “ferrati”) ma al contempo confermandone l’eterogeneità. Il fatto che la prima parte del comma 2 del medesimo articolo citi soltanto le “mazze” non comporta una unificazione dei due concetti, ma solo la possibilità che il bastone resti annoverato, in via residuale, dall’art. 4 co. 2, seconda parte, L. cit.
Pare possibile sostenere, alla luce delle citate opinioni giurisprudenziali, che hanno in verità affrontato casi in cui il bastone portato dal soggetto agente appariva di importante consistenza, che la suscettibilità di inclusione dei bastoni nel novero delle “mazze”, ai fini dell’applicazione dell’art. 4, co. 2, prima parte, legge 110/1975, dipenda da una valutazione di fatto, rimessa al giudicante, sulla forma, dimensione e peso dell’oggetto.
Il rispetto del principio di tassatività richiede perciò un controllo attento sulla morfologia del corpo contundente; infatti, laddove quest’ultimo non aderisca perfettamente alle specifiche descrittive tradizionalmente riferite alla mazza, occorrerà applicare la seconda parte dell’art. 4 co. 2 L. 110/1975, che prevede una disciplina più favorevole al soggetto agente, richiedendosi, ai fini della punibilità, non solo l’assenza di giustificato motivo ma anche la sussistenza di elementi concreti che attestino il pericolo di offesa alla persona.
- La seconda pronunzia (n. 34854/2021) richiama il tradizionale orientamento sul più complesso tema dell’assenza del giustificato motivo, che impone l’analisi della meritevolezza delle ragioni che sostengono il porto da parte del soggetto agente.
Sul piano dogmatico, a seconda della linea di pensiero cui si ritiene di aderire, la presenza del giustificato motivo esclude la tipicità del fatto laddove lo si intenda quale elemento strutturale della fattispecie, giacché inserito espressamente nel testo della norma incriminatrice[5]; o esclude l’illiceità del fatto tipico, laddove lo si intenda quale veicolo di richiamo a cause di giustificazione tipiche o comunque a situazioni facoltizzanti[6].
La Corte di legittimità ha sul punto avuto modo di chiarire che «la formula “giusta causa” e formule a essa equivalenti od omologhe – “senza giustificato motivo”, “senza giusto motivo”, “senza necessità”, “arbitrariamente”, ecc.- non descritte dal legislatore nel loro contenuto compaiono nel corpo di norme incriminatrici fungendo da “valvola di sicurezza” del meccanismo repressivo, così da evitare che la sanzione penale scatti allorché – anche al di fuori della presenza di vere e proprie cause di giustificazione, l’osservanza del precetto appaia concretamente “inesigibile” in ragione, a seconda dei casi, di situazioni ostative a carattere soggettivo od oggettivo, di obblighi di segno contrario, ovvero della necessità di tutelare interessi confliggenti, con rango pari o superiore rispetto
a quello protetto dalla norma incriminatrice, in ragione di un ragionevole bilanciamento di valori. Proprio perché la relativa nozione non è fornita dal legislatore, questa è affidata, di volta in volta, al concreto apprezzamento del giudice, il quale è tenuto a determinare, nel caso specifico, la liceità o no – sotto il profilo etico e sociale – dei motivi che hanno determinato il soggetto a un certo atto o comportamento»[7].
Ad ogni buon conto, la Corte di cassazione ha meglio perimetrato la nozione di giustificato motivo in materia di porto di arma impropria, definendolo quale esigenza dell’agente che risulti perfettamente corrispondente a regole comportamentali lecite relazionate alla natura dell’oggetto, alle modalità di verificazione del fatto, alle condizioni soggettive del portatore, ai luoghi dell’accadimento e alla normale funzione dell’oggetto[8].
È stata perciò esclusa la natura di motivo giustificato, in primo luogo, nei casi di finalità di utilizzo in attività illecita, a prescindere dalla sua natura violenta[9]; è dibattuta invece la legittimità del porto per motivi religiosi, rispetto alla quale in giurisprudenza sembra prevalere la soluzione negativa[10].
Detta impostazione restrittiva avvalora la sensazione che la nozione di giustificato motivo sia allo stato intesa quale clausola di richiamo alle cause di giustificazione tipiche (c.d. antigiuridicità espressa), difatti escludendosi, nel caso del motivo religioso, l’esercizio di un
diritto alla cultura (art. 51 c.p.) prevalente sulle esigenze di tutela dell’ordine pubblico[11].
Rinviando alle più approfondite e articolate dissertazioni dottrinali sul punto, preme in questa sede evidenziare come il rigoroso approccio strida, a prima vista, con la tesi giurisprudenziale, superiormente richiamata, che assegna alle formule elastiche “senza giusta causa” e simili la natura di valvole di sicurezza riferibili a motivi non illeciti e al contempo ritenuti eticamente e socialmente apprezzabili, anche in un’ottica di rispondenza a prerogative esistenziali comunque tutelate dall’ordinamento nazionale: in questa definizione dovrebbe poter rientrare, a rigore, anche il motivo religioso qualora adeguatamente dimostrato, in grado ex se di essere apprezzato sul piano sociale oltre che costituzionale e di escludere, sul piano soggettivo, una proiezione concreta verso il turbamento dell’ordine pubblico.
Posto che le armi improprie posseggono ontologicamente una funzione diversa dall’offesa alla persona e possono solo occasionalmente servire per fini lesivi laddove sviati dal loro normale uso (a differenza delle armi proprie che hanno quale unico scopo di esistenza l’offesa alla persona), la Corte di legittimità non reputa sufficiente la probabilità che il soggetto non sia animato da scopi illeciti, ma richiede che lo strumento, letto alla luce delle circostanze oggettive e soggettive, appaia destinato alla specifica funzione che per natura assolve in virtù delle sue caratteristiche strutturali[12].
- Non meno complesso il tema dell’accertamento del giustificato motivo sul piano procedimentale.
È noto l’orientamento di legittimità secondo cui «il giustificato motivo rilevante ai sensi dell’art. 4 della legge 18 aprile 1975, n. 110, non è quello dedotto a posteriori dall’imputato o dalla sua difesa, ma quello espresso immediatamente, in quanto riferibile all’attualità e suscettibile di una immediata verifica da parte dei verbalizzanti»[13].
Possono trarsi alcune preliminari riflessioni. In primo luogo, in disparte l’ipotesi di motivo sussistente e legittimo ictu oculi sulla base della percezione visiva dei verbalizzanti, appare ragionevole ritenere, al fine di prevenire situazioni equivoche, che il motivo debba essere richiesto espressamente dagli accertatori al soggetto interessato dal controllo e che di tale interlocuzione debba essere dato atto nel verbale di perquisizione e sequestro.
All’atto della esposizione del motivo, occorre inoltre che esso sia «suscettibile di una immediata verifica da parte dei verbalizzanti»[14].
I casi meno problematici in dibattimento sono quelli in cui i verbalizzanti, dopo aver raccolto la dichiarazione della persona fermata che abbia dato atto di un motivo apparentemente inconsistente, abbiano comunque, autonomamente, svolto attività investigative a riscontro, le quali abbiano rivelato l’infondatezza della giustificazione addotta: la provata carenza di una giustificazione credibile è circostanza assorbente e conduce senz’altro alla declaratoria di responsabilità.
Nei casi in cui ciò non avvenga, la linea di pensiero della Corte di legittimità si mostra particolarmente rigorosa, in quanto non si reputa sufficiente che il motivo abbia un fondamento reale astrattamente dimostrabile nel breve o lungo termine, ma si richiede che quanto dedotto possa essere verificato “immediatamente” dalla p.g. operante. La locuzione adoperata (“suscettibile di una immediata verifica da parte dei verbalizzanti”), richiamata in maniera tralatizia dalle pronunce del giudice della nomofilachia, in verità si espone a più interpretazioni.
Potrebbe infatti tanto ritenersi che il motivo debba essere suscettibile di verifica al momento e sul posto del controllo di polizia, intendendosi per motivo giustificato il motivo dedotto e subito dimostrato; tanto che l’immediata verifica possa anche consistere in rapide attività di p.g. svolte in località poco distanti dal luogo del controllo e/o con modalità non particolarmente articolate, intendendosi per motivo giustificato il motivo dedotto e dimostrabile in tempi ragionevoli in quanto non palesemente infondato.
Se si accoglie la prima impostazione, potranno essere avviati procedimenti penali nei confronti di taluno ogni qual volta il motivo non sia dedotto e/o non risulti fondato al momento e sul luogo del controllo; se si privilegia la seconda impostazione, dovrà mandarsi assolto l’imputato in tutti i casi in cui i verbalizzanti, pur potendo svolgere un agile controllo a riscontro del motivo fornito, abbiano sequestrato l’arma sul luogo in cui l’hanno rinvenuta, senza ulteriori approfondimenti.
Va dato atto della esistenza di un orientamento giurisprudenziale che, nel caso di giustificazione addotta ma non dimostrabile in tempi ragionevoli, ha consentito all’imputato e alla sua difesa, in contrasto con la rigorosa impostazione tradizionale, di provare nel corso della istruttoria dibattimentale la sussistenza, ora per allora, del giustificato motivo. Il caso è quello di una donna che, durante i controlli eseguiti al momento del suo ingresso in un tribunale, veniva trovata in possesso di un coltello da cucina; aveva allegato nell’immediatezza il motivo del porto senza poterne darne tempestiva prova, e successivamente aveva veicolato la relativa prova testimoniale in corso di istruttoria dibattimentale[15].
La soluzione adottata dalla suprema Corte con l’ultima pronunzia citata appare un ragionevole compromesso tra la prerogativa dell’imputato di non subire una condanna per un porto di arma ab initio retto da motivo legittimante di cui era, al momento dell’accertamento, impossibile fornire prova immediata, e la necessità di non frustrare le esigenze di servizio degli organi accertatori ai quali viene consentito di portare avanti, senza soluzione di continuità, le attività di prevenzione e sicurezza sul territorio.
Volendo sintetizzare, potrebbe addivenirsi a statuizione di responsabilità penale nei confronti del soggetto trovato in possesso di arma impropria (eventualmente in circostanze tali da palesare il pericolo di offesa alla persona, nei casi di cui all’art. 4 co. 2, seconda parte, L. 110 del 1975):
- nel caso in cui, dietro richiesta dei verbalizzanti, non abbia fornito alcuna ragione a sostegno del porto dell’oggetto (la persona rimane cioè in silenzio e non adduce alcuna giustificazione al possesso);
- nel caso in cui, dietro richiesta dei verbalizzanti, abbia fornito una spiegazione palesemente irrazionale, pretestuosa o che, pur potendo secondo massime di esperienza essere dimostrata nell’immediatezza, sia rimasta meramente assertiva (essendo questo un elemento fortemente indiziante della pretestuosità del motivo)[16];
- nel caso in cui, dietro richiesta dei verbalizzanti, abbia fornito una spiegazione plausibile, ma, a cagione delle concrete contingenze, non dimostrabile in tempi ragionevoli, e non abbia fornito prova nemmeno nel corso della istruttoria dibattimentale.
Potrebbe invece andare esente da pena, in tutti i casi in cui:
- a) abbia fornito un motivo plausibile immediatamente riscontrato; o un motivo plausibile riscontrabile, sul luogo del controllo o mediante celeri accertamenti di polizia giudiziaria, ma non riscontrato o ritenuto insussistente, per cause o errori imputabili ai verbalizzanti;
- b) abbia fornito un motivo plausibile, non riscontrabile in tempi ragionevoli, ma dimostrato in istruttoria dibattimentale.
- Un siffatto approccio metodologico muove dalla considerazione per cui raramente il possessore di uno strumento atto ad offendere, sebbene non intenzionato a fare di quest’ultimo un uso pregiudizievole per l’incolumità pubblica, si trova in condizione di allegare e altresì compiutamente provare il motivo lecito a sostegno del porto. In questi casi, anche allo scopo di meglio armonizzare il reato di cui all’art. 4 co. 2 L. 110/1975 con il principio di offensività, e di superare la persistente ombra del reato di sospetto o di pericolo presunto che ancora connota il reato in parola[17], appare opportuno – nella misura esposta al paragrafo che precede – imputare agli organi accertatori un minimo sforzo investigativo che esorbiti dal richiamato principio giurisprudenziale dell’ hic et nunc e/o concedere allo stesso soggetto agente il potere di provare in dibattimento la fondatezza della giustificazione addotta.
[1] Per alcune utili definizioni, cfr. C. FIANDANESE, Armi, munizioni ed esplosivi, in Il Penalista, 14 settembre 2018.
[2] Il caso più frequente nella prassi è quello della mazza da baseball, v. Cass. sez. I, 24 maggio 2019, n. 26161, in Dir. e giust. (web), 2019, 13 giugno 2019; Cass. sez. VII, ord. 15 gennaio 2015, dep. 10 agosto 2015, n. 34774, in C.E.D. Cass., n. 264771; Cass. sez. I, 3 luglio 2003, n. 32269; Cass. n. 10279 del 2011; v. anche Cass. sez. I, 18 giugno 2014, n. 32785.
[3] V. anche l’art. 45 regolamento T.u.l.p.s.
[4] Cfr. Cass. sez. I, 21 febbraio 1979, n. 4355, in C.E.D. Cass., n. 141972.
[5] Cass. sez. un., 9 luglio 1997, n. 7739, in Riv. pen., 1997, 9, p. 803.
[6] A. LAGO, sub art. 616 c.p., in Codice penale commentato (a cura di E. Dolcini-G. Marinucci), Giuffrè, 2006, p. 4350; B. VENTURATO, Nota a Cass. pen., sez. VI, 13 aprile 2018, n. 24163, in Riv. it. med. leg., 2018, 3, p. 1122).
[7] Cass. sez. V, 26 novembre 2020, n. 318, in Guida dir., 2021, 8.
[8] Cass. sez. IV, 14 novembre 2019, dep. 9 dicembre 2019, n. 49769, in C.E.D. Cass., n. 277878; in dottrina, CARCANO-VARDARO, La disciplina delle armi, delle munizioni e degli esplosivi, Giuffrè, 1999, p. 192 s.
[9] Cass. sez. III, 17 settembre 2020, n. 37163, in Dir. e giust. (web), 2021, 4 gennaio 2021; Cass. sez. IV, 14 novembre 2019, dep. 9 dicembre 2019, n. 49769, in C.E.D. Cass., n. 277878, sullo scopo d’uso del coltellino per tagliare lo stupefacente al fine di cessione a terzi; conf. Cass. sez. I, 8 aprile 2009, dep. 4 maggio 2009, n. 18189, in C.E.D. Cass., n. 243549 in tema di taglio dello stupefacente per uso personale; Cass. sez. I, 9 maggio 2013, dep. 31 luglio 2013, n. 33244, in C.E.D. Cass., n. 256989 sul porto di arma impropria a scopo di suicidio; Cass. sez. IV, 6 ottobre 2005, n. 11356; Cass. sez. I, 14 gennaio 2008, n. 4498.
[10] Il riferimento è al noto caso del porto di pugnale kirpan da parte di persona di cultura Sikh, v. Cass. sez. I, 31 marzo 2017, n. 24084, in Dir. pen. proc., 2017, 8, p. 1022, in Il Penalista, 4 luglio 2017, con nota di M. SBEZZI e in Guida dir. 2017, 24, p. 60; cfr. E. MAZZANTI, Porto non autorizzato di kirpan e conformazione ai valori occidentali: un caso di diritto penale “dalla parte del manico”, in Cass. pen., 2017, 12, p. 4476 ss., e dottrina e giurisprudenza ivi citate).
[11] Per un’ampia critica alla posizione attualmente dominante in giurisprudenza, A. BERNARDI, Populismo giudiziario? l’evoluzione della giurisprudenza penale sul kirpan, in Riv. it. dir. proc. pen., 2017, 1, p. 671 ss.
[12] A. PROVERA, Il “giustificato motivo”: la fede religiosa come limite intrinseco della tipicità, in Riv. it. dir. proc. pen., 2010, 2, p. 964 ss.
[13] Cass. sez. I, 30 gennaio 2019, n. 19307, in C.E.D. Cass., n. 276187; conf. Cass. sez. I, 15 marzo 2019, n. 16376, in Dir. e giust. (web), 15 aprile 2019; Cass. sez. I, 12 settembre 2017, n. 3822, in Guida dir., 2018, 18, p. 90; Cass. sez. I, 26 febbraio 2013, n. 18925, in C.E.D. Cass., n. 256007.
[14] Cfr. anche Cass. sez. I, 14 gennaio 1999, n. 4696, in C.E.D. Cass., n. 213023).
[15] Cass. sez. I, 3 ottobre 2013, n. 9662, in Italgiure Web e in Dir. e giust. (web), 28 febbraio 2014, con nota di FERRETTI.
[16] Ad esempio, nel caso trattato da Trib. Firenze, sez. II, 10 luglio 2017, (ud. 11/05/2017), n. 1906, in De Jure, veniva reputato non giustificato il motivo addotto dal soggetto agente, trovato in possesso di un coltello; riferiva di averlo appena acquistato ma non mostrava documentazione o altro che potesse comprovare l’acquisto.
[17] Ad onor del vero, una auspicata rilettura della norma incriminatrice alla luce del principio di offensività comporterebbe la necessità di richiedere, ai fini punitivi, che il porto di tutti gli strumenti enunciati dall’art. 4 co. 2 L. 110 del 1975 sia assistito, oltre che dall’assenza di un giustificato motivo, da circostanze di fatto che preludano ad un concreto pericolo per l’incolumità pubblica.