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Gli incerti orizzonti della giustizia penale tra la forza della politica e quella della volontà: spargere l’ottimismo non basta.

Alla fine, la riforma dell’Ordinamento giudiziario – sub specie di modifiche alla riforma Bonafede – è approdata in Consiglio dei Ministri, dopo essere rimasta per mesi parcheggiata a Palazzo Chigi, con interlocuzioni tra la Ministra Cartabia ed il Capo di Gabinetto del Presidente Draghi, non necessariamente anche con le forze politiche di maggioranza e la magistratura associata (anche se il dialogo a distanza non è probabilmente venuto meno).
Al di là dell’ottimismo di facciata, l’esito del Consiglio è decisamente sconfortante se si consideri che a prescindere dai capitoli della riforma (sistema elettorale, porte girevoli, rapporti politica-magistratura, valutazioni di professionalità, fuori ruolo, per citarne alcuni), l’unica convergenza riguarda l’impegno a varare la riforma ricercando i possibili punti di incontro tra le forze politiche, la cui problematicità si accentua per effetto della volontà di escludere voti di fiducia.
Trattandosi in parte di legge delega, anche se qualche aspetto potrà essere rinviato ad un provvedimento successivo, sarà necessario trovare le adeguate convergenze parlamentari nel confronto politico che muove da prospettive diverse anche per il collateralismo di alcune con settori della Magistratura.
Una avvisaglia significativa si è già prospettata, del resto, in limine allo stesso C.d.M. e di cui l’esito del rinvio, perché di questo si tratta, è la rappresentazione plastica. Diffusa rimane l’opinione che esigenze di urgenza (la scadenza del C.S.M.) e le pressioni politiche a vari livelli, ci consegnino ancora una volta una riforma al ribasso, che lasci insoluti i profili nodali soprattutto del rapporto a vari livelli tra politica e magistratura.
Sarà facile prevedere che sarà fornito alla pubblica opinione qualche slogan di facile impatto, pur nella consapevolezza che a fronte della forza delle aggregazioni (correnti) i meccanismi elettorali non sembrano essere in grado di eliminarne il peso, ma forse – forse, va ribadito – solo di limitarlo.
Va, peraltro, sottolineato che se la riforma ordinamentale è cruciale per le implicazioni che si irradiano su vari profili della vita giudiziaria, sono molti i dossier sul tavolo del Ministero che si stanno accumulando senza che si prospettino le risposte, sia quelle più volte annunciate, come imminenti, sia quelle per le quali la mediazione fruttuosa è ancora viva.
In rapida sintesi, risposte attendono le richieste della Corte costituzionale in tema di ergastolo ostativo, di adeguamento retributivo dei giudici onorari, da ultimo la questione delle Rems, la richiesta europea sul caso Viola.
Non possono non segnalarsi le valutazioni dei risultati della Commissione Ruotolo, con l’accentuazione della necessaria scelta di sostituzione del responsabile del DAP. Vanno altresì messe in luce, come emerso dagli interventi dei capi di alcuni uffici importanti, le molte questioni normative, nonché quelle logistiche dei soggetti destinati a costituire l’ufficio del processo, mentre continuano ad evidenziarsi le disfunzioni di sistema del processo telematico.
Non può non evidenziarsi, invece, la favorevole tendenza dell’azione di bonifica delle impostazioni inquisitorie (e non solo) svolta dalla Corte Costituzionale. Oltre alle segnalate sollecitazioni alla politica, si devono evidenziare sicuramente due fondamentali decisioni di incostituzionalità che dovranno avere significative ripercussioni su altri profili procedurali, anche nella prospettiva della riforma, di cui si attende il deposito degli elaborati delle Commissioni.
Dovrebbero essere valutate le implicazioni della sentenza n. 18 del 2022 che ha affrontato il tema del controllo della corrispondenza tra il detenuto a 41 bis ord. penit. ed il suo difensore, con la previsione del possibile differimento del contatto immediato del difensore con il soggetto in vinculis ai sensi dell’art. 304 c.p.p. Invero, come emerso dalle discussioni in sede di Commissione Canzio, la soluzione compromissoria escludente i reati di cui agli artt. 51, comma 3 bis e 51, comma 3 quater c.p.p. nasceva dal pregiudizio del ruolo del difensore con riferimenti impliciti alla sua “ripulitura” nel succedersi dei rapporti parentali e genitoriali. È di tutta evidenza, peraltro, il contrasto con i riferimenti ai “tempi e modi” per esercitare il diritto di difesa in vista dell’interrogatorio di garanzia a cui non può fungere da rimedio “compensativo” quanto indicato nell’art. 309 c.p.p., che anzi allarga il tempo di restrizione di un provvedimento privo di contraddittorio anticipato.
Non meno significativa la sentenza n. 16 del 2022 che dichiara per l’ennesima volta (la 25° o 26°) l’incostituzionalità dell’art. 34 c.p.p. in relazione alla posizione del giudice che richiesto di un decreto penale di condanna abbia restituito gli atti per la riformulazione dell’imputazione.
È evidente che la decisione mette non solo in fibrillazione quanto sostenuto dalle Sezioni Unite Battistella, ma anche quanto ribadito da una specifica direttiva della legge delega.
L’art. 1, comma 9 lett. n) della l. n. 134 del 2022 stabilisce di prevedere che, in caso di violazione della disposizione dell’articolo 417, comma 1, lettera b), del codice di procedura penale, il giudice, sentite le parti, quando il pubblico ministero non provvede alla riformulazione dell’imputazione, dichiari, anche d’ufficio, la nullità e restituisca gli atti; prevedere che, al fine di consentire che il fatto, le circostanze aggravanti e quelle che possono comportare l’applicazione di misure di sicurezza, nonché i relativi articoli di legge, siano indicati in termini corrispondenti a quanto emerge dagli atti, il giudice, sentite le parti, ove il pubblico ministero non provveda alle necessarie modifiche, restituisca, anche d’ufficio, gli atti al pubblico ministero. Appare evidente che a seguito di una nuova formulazione da parte del pubblico ministero il giudice dell’udienza preliminare versi in una situazione di incompatibilità alla celebrazione dell’udienza preliminare.
Come puntualmente evidenziato nella motivazione di C. cost. n. 28 del 2022, il legislatore dovrà adeguare quanto indicato dalla lett. l dell’art. 1, comma 17 della l. n. 134 del 2021 ove si prevede che “quanto alla pena pecuniaria, ferma restando la disciplina dell’art. 53, comma 2°, della l. 24 novembre 1981, n. 689, che il valore giornaliero al quale può essere assoggettato il condannato sia individuato, nel minimo, in misura indipendente dalla somma indicata dall’art. 135 c.p. e, nel massimo, in misura non eccedente 2.500 euro, ovvero, in caso di sostituzione della pena detentiva con decreto penale di condanna, in 250 euro; determinare il valore giornaliero minimo in modo tale da evitare che la sostituzione della pena risulti eccessivamente onerosa in rapporto alle condizioni economiche del condannato e del suo nucleo familiare, consentendo al giudice di adeguare la sanzione sostitutiva alle condizioni economiche e di vita del condannato”.
Con la citata decisione, infatti, i giudici hanno affermato che è illegittimo il tasso minimo giornaliero di 250 euro previsto dalla legge per la conversione della pena detentiva in pecuniaria, di cui all’art. 53, secondo comma, l. n. 689 del 1981.
Mancano indicazioni precise, inoltre, sulle modalità con le quali si intende rimediare all’errata modifica dell’art. 380 c.p.p. di cui all’art. 2, comma 15, della l. n. 134 del 2021, rivelatasi del tutto inadeguata alla sua finalità di tutela della vittima connessa alla violazione del divieto di avvicinamento (ex art. 387 bis c.p.).
In questa stessa prospettiva di tutela della vittima andrebbe considerata la necessità di rafforzare, con un adeguato corredo sanzionatorio, i diritti riconosciuti al soggetto di cui all’art. 90 bis c.p.p. dettagliatamente “elencati”, in tema di diritto di difesa.
Si consideri che a fronte del diritto di essere informato delle indagini e di quello di nominare un difensore, la violazione dell’art. 369 c.p.p., costituisce allo stato per la persona offesa una mera irregolarità.
Sarebbe opportuno, infine, conoscere gli esiti di quanto è emerso dalle attività indicate nell’art. 35 bis del d.l. n. 152 del 2021, conv. in l. n. 233 del 2021 che ha modificato l’art. 37 del d.l. n. 98 del 2011, conv. in l. n. 111 del 2011, a mente del quale i capi degli uffici giudiziari sentiti per il settore penale, il procuratore della Repubblica presso il tribunale e, in ogni caso, i presidenti dei rispettivi consigli dell’ordine degli avvocati, entro il 31 gennaio di ogni anno redigono un programma per la gestione dei procedimenti civili, penali, amministrativi e tributari pendenti. Con il programma, il capo dell’ufficio giudiziario determina: a) gli obiettivi di riduzione della durata dei procedimenti concretamente raggiungibili nell’anno in corso; b) gli obiettivi di rendimento dell’ufficio, tenuto conto dei carichi esigibili di lavoro dei magistrati individuati dai competenti organi di autogoverno, l’ordine di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, individuati secondo criteri oggettivi ed omogenei che tengano conto della durata della causa, anche con riferimento agli eventuali gradi di giudizio precedenti, nonché della natura e del valore della stessa; b-bis) per il settore penale, i criteri di priorità nella trattazione dei procedimenti pendenti, sulla base delle disposizioni di legge e delle linee guida elaborate dal Consiglio Superiore della Magistratura.
Il dato costituirebbe una interessante cartina di tornasole per la direttiva di cui alla lett. e del comma 9 dell’art. 1 della riforma Cartabia, anche per capire in quale direzione gli uffici si stanno orientando, a prescindere dalle indicazioni disfunzionali degli incroci tra i vari criteri di priorità, nei diversi segmenti processuali: indagini, esercizio dell’azione penale, udienza preliminare, dibattimento e citazione diretta, udienza predibattimentale, giudizio monocratico.
Sarebbe auspicabile che l’esaurimento (preventivato) dell’emergenza sanitaria fissato al 31 marzo 2022 determinasse il riallineamento dei profili derogatori della disciplina processuale, inopinatamente fissati dall’art. 16, d.l. n. 228 del 2021 al 31 dicembre 2022, considerata la mancata “copertura” della necessità e urgenza che solo il pericolo epidemico appare in grado di giustificare pienamente.

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