1.
Sono soprattutto tre i temi attorno ai quali in questo momento si concentra il confronto di opinioni degli operatori della giustizia: la prescrizione, la concentrazione, l’oralità e l’immediatezza dell’assunzione della prova dichiarativa in dibattimento, gli effetti del c.d. ergastolo ostativo.
Si tratta di questioni, tra loro non collegate, se non per il fatto di coinvolgere profili centrali nei vari settori coinvolti, cioè, il diritto penale sostanziale, il diritto processuale e il momento dell’esecuzione penale, nonché di riguardare elementi significativi del rapporto tra gli aspetti generali della giustizia penale in relazione ai diritti dei singoli individui e della garanzia di cui sono titolari.
2.
Il 1° gennaio 2020, salvo ripensamenti del Governo (difficili) o mediazioni politiche (sempre possibili, ma di incerti contenuti) dovrebbe diventare operativa la nuova disciplina della prescrizione fissata dalla l. n. 3 del 2018, c.d. spazzacorrotti.
A tale riguardo, il confronto di opinioni si prospetta su più piani: da un lato, si evidenzia la pluralità della successione di norme in materia, con diversificati effetti estintivi ricollegati al tempo – diverso – della commissione dei reati; dall’altro, si evidenzia la non ragionevole parificazione degli imputati condannati e di quelli prosciolti con la sentenza di primo grado che, ai sensi della citata legge, determina la sospensione del decorso della prescrizione; infine, si evidenzia la mancanza di un termine entro il quale deve celebrarsi il giudizio d’appello e quello di cassazione, con il rischio di una ingiustificabile – di fatto – stasi processuale e la sottoposizione dell’imputato condannato e prosciolto ad un processo dai termini indefiniti.
Sotto il primo aspetto, infatti, va evidenziata la reiterata produzione normativa in materia, sottolineandosi come, anche in relazione all’allungamento dei tempi della possibile prescrizione dei reati, si pensi di ovviare alla malattia senza individuarne le ragioni che la determinano.
In realtà, per lungo tempo il sistema si era mantenuto “in equilibrio” attraverso il ricorso all’amnistia, che omologava persone e reati, tracciando una linea che non operava alcuna scelta discrezionale, risultando la conseguenza della decisione estintiva effetto dell’azione del Parlamento.
L’impossibilità di operare in questo modo finisce per “scaricare” sulla prescrizione le disfunzioni del sistema che dovrebbero trovare una soluzione a seguito d’una rivisitazione d’un sistema penale ipertrofico e la riconsiderazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, vero alibi della opposta attuale presenza della discrezionalità delle iniziative delle procure.
Sotto il secondo profilo, non può non segnalarsi la discutibilissima equiparazione della condizione del condannato con quella del prosciolto, al punto da prospettare una non del tutto infondata questione di legittimità costituzionale, sotto il profilo della violazione dell’art. 3 della Convenzione. Invero, il prosciolto – peraltro anche il condannato in primo grado – è assistito da una presunzione di non colpevolezza, ovvero di innocenza che in relazione al prosciolto è addirittura evidenziata e rafforzata dalla decisione di prima istanza.
Sotto il terzo aspetto, non può non evidenziarsi come la mancanza di termini per la definizione della fase dei gravami confligga con il canone di rilievo costituzionale della durata ragionevole del processo di cui all’art. 111 Cost.
Sotto questo profilo non possono non prospettarsi non poche questioni di legittimità costituzionale.
La reiterazione delle riforme in materia ed il conseguente allungamento dei termini di prescrizione pongono il problema della ragionevolezza dei tempi successivamente fissati in ordine allo stesso reato, condizionato anche dalla progressiva elevazione delle pene.
Inoltre, la ipotizzata sospensione della prescrizione con la sentenza di primo grado pone in discussione la stessa presenza dell’istituto estintivo, non ritenuto illegittimo, ma in tal modo trasformando un gran numero di reati in reati imprescrittibili, di fatto, coinvolgendoli ai reati per i quali – fondatamente – la causa estintiva non può operare.
Inoltre, al di là del diritto all’oblio, rispetto ad un fatto risalente nel tempo, sia l’imputato – colpevole o innocente – sia le vittime, persone offese o danneggiate, sono titolari del diritto a veder definita – irrevocabilmente o con il giudicato – la vicenda processuale.
Nella legge che dovrebbe essere operativa dal 1° gennaio 2020 e che doveva – secondo gli impegni politici assunti al momento del suo varo, ancorché normativamente non esplicitati essere collegata ad una riforma del processo penale – si nasconde altresì un ulteriore elemento che non è sempre esplicitato: il potere del p.m. di scegliere quali reati si possono prescrivere e quali invece, attraverso l’accelerazione processuale, arriveranno alla sentenza di primo grado che renderà quei reati non più soggetti alla causa estintiva.
Già oggi il p.m. può decidere cosa può essere soggetto di prescrizione nella fase delle indagini; dall’anno prossimo le procure potranno altresì orientarsi a non far prescrivere i reati che si determinerà a far approdare al dibattimento, con la certezza, che oggi manca, di conoscere le successive scansioni temporali entro le quali il reato può andare incontro ad un effetto estintivo.
Il nuovo termine di prescrizione inciderà anche sul comportamento dei giudici di primo grado che potranno cadenzare i giudizi di primo grado in relazione alla possibile o non possibile prescrizione dei processi attribuiti alla loro cognizione. Inoltre, mentre i processi di condannati con l’applicazione di una misura cautelare potranno avere una corsia privilegiata, per evitare le scarcerazioni, il discorso non riguarderà i soggetti assolti o prosciolti.
Naturalmente l’imputato e la difesa adegueranno i loro comportamenti alla nuova disciplina: scelta dei riti premiali ovvero comportamenti tesi a differire la decisione di prima istanza.
In altri termini, non è vero che l’entrata in vigore della norma manifesterà i suoi effetti in un tempo lungo che permetterà una sua più attenta valutazione. Gli effetti si manifesteranno da subito nei comportamenti processuali delle parti e del giudice e non sarà necessario capire gli effetti negativi che essa comporta.
3.
Il secondo tema che accende il dibattito riguarda il tema della concentrazione, dell’oralità e dell’immediatezza.
Com’è noto, dando attuazione al canone della concentrazione del dibattimento e degli altri criteri appena indicati, l’art. 525 cpv. c.p.p. dispone che “alla deliberazione concorrano a pena di nullità assoluta gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”.
Si tratta di una previsione, peraltro, già presente nel codice del 1930, sanzionata con l’unica nullità assoluta del codice di rito, in considerazione della ritenuta competenza funzionale – esclusiva – a pronunciarsi dei giudici che hanno assunto le prove delle udienze dibattimentali, connotate – com’è noto – dell’espletamento dell’esame incrociato.
Il dato si ricollega, altresì, alla struttura dell’aula di udienza come disciplinata dall’art. 146 disp. att. c.p.p. e dalle affermazioni della giurisprudenza Corte edu. L’assunto si ricollega anche alla disposizione per la quale la previsione opera un raccordo pure con i giudici che hanno ammesso le prove.
Complici alcune disfunzioni, legate al fatto che spesso la necessaria rinnovazione della prova non sortiva rilievo, limitandosi il teste a confermare quanto detto in precedenza e chi il legale che aveva richiesto la riassunzione a non formulare, né nuove né le vecchie domande, e che neppure l’altra parte prospettava questioni nuove, si riteneva di dover intervenire sul punto, evidenziando come, trattandosi di prove comunque assunte in contraddittorio, ancorché davanti ad un diverso collegio, si potesse dar lettura delle precedenti dichiarazioni ex art. 511 c.p.p.
Sul punto è a più riprese intervenuta la Corte costituzionale che in precedenza tuttavia si era pronunciata sul punto riconoscendo la necessità della rinnovazione e la legittimità della procedura di cui all’art. 511 c.p.p., in quanto si tratta di prove assunte in contraddittorio. Invero, le varie decisioni risentivano degli sviluppi più ampi della tematica del recupero con il regime della lettura dell’incarto probatorio delle fasi precedenti ovvero degli atti assunti in incidente probatorio ovvero in procedimento separato, nonché, più recentemente, con il “recupero” del right of confrontation di cui all’art. 111 Cost.
Del resto, sul piano della giurisprudenza di legittimità, si riteneva di confermare quanto affermato sin dal 1999-2000 con la sentenza Jannasso delle Sezioni Unite.
La sentenza della Corte costituzionale (C. Cost. n. 132 del 2019) non si è mancato di confermare le riferite criticità della disciplina della rinnovazione, indicando alcuni possibili interventi di correzione delle disfunzioni ed invitando il legislatore a provvedere.
A “stretto giro” sono intervenute le Sezioni Unite Bajrami che hanno ridefinito e messo a punto i profili procedurali della rinnovazione, non senza significative novità dell’iter processuale che determina la possibilità della nuova audizione, confermando in caso di mancata – significativa – richiesta dell’esame del teste e della conseguente manifesta irrilevanza del rifacimento dell’atto, il ricorso al regime della lettura.
Il percorso si completa ora con la proposta di modifica prospettata nella bozza di riforma del processo penale elaborata dal Ministro Bonafede dove si afferma che in caso di sostituzione per impedimento di un giudice di un collegio, trova applicazione l’art. 190 bis c.p.p. Si precisa altresì che l’ordinanza con cui si procede sarà impugnabile unitamente alla sentenza ai sensi dell’art. 586 c.p.p.
Appare evidente come in tal modo venga completamente superato il principio di oralità e di immediatezza a favore della regola del contraddittorio, davanti ad altri giudici.
In tal modo anche quei limitati “correttivi” della sentenza Bajrami vengono di fatto pretermessi, risultando irrilevanti i riferimenti ivi contenuti alla necessità del rifacimento del dibattimento, dalla sua formale dichiarazione di apertura, nonché alla possibilità per le parti di riappropriarsi di diritti di cui all’art. 468 c.p.p., cioè, del diritto di presentare nuove richieste di prova.
4.
Il terzo aspetto che coinvolge gli operatori della giustizia, a seguito della sentenza Corte edu sul caso Viola, attiene al c.d. ergastolo ostativo, cioè la impossibilità per i soggetti condannati all’ergastolo per i delitti di cui all’art. 4 bis, comma 1 ord. penit., che ai sensi dell’art. 2, comma 2, d.l. n. 152 del 1991 conv. nella l. n. 203 del 1991, richiamando l’art. 176 c.p., non consente di concedere la liberazione condizionale ai non collaboratori di giustizia anche se hanno scontato ventisei anni effettivi di carcere.
Dopo una serie di sentenze con le quali la Corte costituzionale, in tempi recenti, ha affrontato vari profili della l. ord. penit. nella quale erano presenti presunzioni ostative della concessi8one di benefici (C. cost. n. 239 del 2014; C. cost. n. 76 del 2017; C. cost. n. 149 del 2018), i giudici costituzionali hanno affrontato il più circoscritto profilo di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis comma 1 ord. penit., nella parte in cui, in relazione alla mancanza di collaborazione ex art. 58 ter ord. penit., per i soggetti condannati per i delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, l’art. 30 ter ord. penit. preclude la concessione dei permessi premio, cioè l’assenza di pericolosità sociale.
Secondo la Corte costituzionale il carattere assoluto – iuris et de iure – della esclusione al beneficio, in ragione della mancata collaborazione, deve ritenersi in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. Invero, la mancata collaborazione può costituire un indice negativo della condizione del soggetto ristretto, ma non può assurgere ad elemento che non consenta una valutazione del percorso carcerario, della condizione soggettiva ancorché suscettibile di introdurre nel compendio valutativo elementi estranei ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena.
In altri termini, la mancata collaborazione non può costituire un aggravamento della condizione penitenziaria, infliggendo ulteriori conseguenze negative che non hanno connessione con il reato commesso. L’eliminazione dell’elemento presuntivo, consente allora una valutazione degli elementi che sono posti alla base della concessione del permesso premio, che si connota non come misura alternativa, ma come elemento del programma di trattamento della fase rieducativa, assolvendo così ad una funzione “pedagogico-propulsiva”.
Sotto questo profilo, sarà necessaria una valutazione seria e rigorosa che sia capace – mancando la collaborazione ed escluse le situazioni non ostative – di verificare l’assenza di collegamenti – ovvero il loro ripristino – con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Il dato emergerà dalle informazioni che la magistratura di sorveglianza acquisirà non solo dall’interno della struttura penitenziaria, ma anche per il tramite del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica competente.
La conseguente declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 bis, comma 1, ord, penit., nei riferiti termini in relazione ai reati di cui all’art. 416 bis c.p. e a quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero tese ad agevolare le attività associative ivi previste, in relazione alla concessione dei permessi premio, posta la mancanza di attività di collegamenti o del loro ripristino, pone, negli stessi termini, la collegata questione di incostituzionalità in relazione agli altri reati contenuti nello stesso art. 4 bis ord. penit.
In altri termini, l’esclusione dal carattere assoluto della riferita presunzione per i reati “mafiosi” si prospetta negli stessi termini, sempre in relazione ai soli permessi premio, anche per i condannati per gli altri reati contenuti nell’art. 4 bis, comma 1, ord. penit., pena la perdita di coerenza intrinseca dell’intera disciplina.
I tre temi del dibattito tra gli operatori della giustizia penale
1.
Sono soprattutto tre i temi attorno ai quali in questo momento si concentra il confronto di opinioni degli operatori della giustizia: la prescrizione, la concentrazione, l’oralità e l’immediatezza dell’assunzione della prova dichiarativa in dibattimento, gli effetti del c.d. ergastolo ostativo.
Si tratta di questioni, tra loro non collegate, se non per il fatto di coinvolgere profili centrali nei vari settori coinvolti, cioè, il diritto penale sostanziale, il diritto processuale e il momento dell’esecuzione penale, nonché di riguardare elementi significativi del rapporto tra gli aspetti generali della giustizia penale in relazione ai diritti dei singoli individui e della garanzia di cui sono titolari.
2.
Il 1° gennaio 2020, salvo ripensamenti del Governo (difficili) o mediazioni politiche (sempre possibili, ma di incerti contenuti) dovrebbe diventare operativa la nuova disciplina della prescrizione fissata dalla l. n. 3 del 2018, c.d. spazzacorrotti.
A tale riguardo, il confronto di opinioni si prospetta su più piani: da un lato, si evidenzia la pluralità della successione di norme in materia, con diversificati effetti estintivi ricollegati al tempo – diverso – della commissione dei reati; dall’altro, si evidenzia la non ragionevole parificazione degli imputati condannati e di quelli prosciolti con la sentenza di primo grado che, ai sensi della citata legge, determina la sospensione del decorso della prescrizione; infine, si evidenzia la mancanza di un termine entro il quale deve celebrarsi il giudizio d’appello e quello di cassazione, con il rischio di una ingiustificabile – di fatto – stasi processuale e la sottoposizione dell’imputato condannato e prosciolto ad un processo dai termini indefiniti.
Sotto il primo aspetto, infatti, va evidenziata la reiterata produzione normativa in materia, sottolineandosi come, anche in relazione all’allungamento dei tempi della possibile prescrizione dei reati, si pensi di ovviare alla malattia senza individuarne le ragioni che la determinano.
In realtà, per lungo tempo il sistema si era mantenuto “in equilibrio” attraverso il ricorso all’amnistia, che omologava persone e reati, tracciando una linea che non operava alcuna scelta discrezionale, risultando la conseguenza della decisione estintiva effetto dell’azione del Parlamento.
L’impossibilità di operare in questo modo finisce per “scaricare” sulla prescrizione le disfunzioni del sistema che dovrebbero trovare una soluzione a seguito d’una rivisitazione d’un sistema penale ipertrofico e la riconsiderazione del principio di obbligatorietà dell’azione penale, vero alibi della opposta attuale presenza della discrezionalità delle iniziative delle procure.
Sotto il secondo profilo, non può non segnalarsi la discutibilissima equiparazione della condizione del condannato con quella del prosciolto, al punto da prospettare una non del tutto infondata questione di legittimità costituzionale, sotto il profilo della violazione dell’art. 3 della Convenzione. Invero, il prosciolto – peraltro anche il condannato in primo grado – è assistito da una presunzione di non colpevolezza, ovvero di innocenza che in relazione al prosciolto è addirittura evidenziata e rafforzata dalla decisione di prima istanza.
Sotto il terzo aspetto, non può non evidenziarsi come la mancanza di termini per la definizione della fase dei gravami confligga con il canone di rilievo costituzionale della durata ragionevole del processo di cui all’art. 111 Cost.
Sotto questo profilo non possono non prospettarsi non poche questioni di legittimità costituzionale.
La reiterazione delle riforme in materia ed il conseguente allungamento dei termini di prescrizione pongono il problema della ragionevolezza dei tempi successivamente fissati in ordine allo stesso reato, condizionato anche dalla progressiva elevazione delle pene.
Inoltre, la ipotizzata sospensione della prescrizione con la sentenza di primo grado pone in discussione la stessa presenza dell’istituto estintivo, non ritenuto illegittimo, ma in tal modo trasformando un gran numero di reati in reati imprescrittibili, di fatto, coinvolgendoli ai reati per i quali – fondatamente – la causa estintiva non può operare.
Inoltre, al di là del diritto all’oblio, rispetto ad un fatto risalente nel tempo, sia l’imputato – colpevole o innocente – sia le vittime, persone offese o danneggiate, sono titolari del diritto a veder definita – irrevocabilmente o con il giudicato – la vicenda processuale.
Nella legge che dovrebbe essere operativa dal 1° gennaio 2020 e che doveva – secondo gli impegni politici assunti al momento del suo varo, ancorché normativamente non esplicitati essere collegata ad una riforma del processo penale – si nasconde altresì un ulteriore elemento che non è sempre esplicitato: il potere del p.m. di scegliere quali reati si possono prescrivere e quali invece, attraverso l’accelerazione processuale, arriveranno alla sentenza di primo grado che renderà quei reati non più soggetti alla causa estintiva.
Già oggi il p.m. può decidere cosa può essere soggetto di prescrizione nella fase delle indagini; dall’anno prossimo le procure potranno altresì orientarsi a non far prescrivere i reati che si determinerà a far approdare al dibattimento, con la certezza, che oggi manca, di conoscere le successive scansioni temporali entro le quali il reato può andare incontro ad un effetto estintivo.
Il nuovo termine di prescrizione inciderà anche sul comportamento dei giudici di primo grado che potranno cadenzare i giudizi di primo grado in relazione alla possibile o non possibile prescrizione dei processi attribuiti alla loro cognizione. Inoltre, mentre i processi di condannati con l’applicazione di una misura cautelare potranno avere una corsia privilegiata, per evitare le scarcerazioni, il discorso non riguarderà i soggetti assolti o prosciolti.
Naturalmente l’imputato e la difesa adegueranno i loro comportamenti alla nuova disciplina: scelta dei riti premiali ovvero comportamenti tesi a differire la decisione di prima istanza.
In altri termini, non è vero che l’entrata in vigore della norma manifesterà i suoi effetti in un tempo lungo che permetterà una sua più attenta valutazione. Gli effetti si manifesteranno da subito nei comportamenti processuali delle parti e del giudice e non sarà necessario capire gli effetti negativi che essa comporta.
3.
Il secondo tema che accende il dibattito riguarda il tema della concentrazione, dell’oralità e dell’immediatezza.
Com’è noto, dando attuazione al canone della concentrazione del dibattimento e degli altri criteri appena indicati, l’art. 525 cpv. c.p.p. dispone che “alla deliberazione concorrano a pena di nullità assoluta gli stessi giudici che hanno partecipato al dibattimento”.
Si tratta di una previsione, peraltro, già presente nel codice del 1930, sanzionata con l’unica nullità assoluta del codice di rito, in considerazione della ritenuta competenza funzionale – esclusiva – a pronunciarsi dei giudici che hanno assunto le prove delle udienze dibattimentali, connotate – com’è noto – dell’espletamento dell’esame incrociato.
Il dato si ricollega, altresì, alla struttura dell’aula di udienza come disciplinata dall’art. 146 disp. att. c.p.p. e dalle affermazioni della giurisprudenza Corte edu. L’assunto si ricollega anche alla disposizione per la quale la previsione opera un raccordo pure con i giudici che hanno ammesso le prove.
Complici alcune disfunzioni, legate al fatto che spesso la necessaria rinnovazione della prova non sortiva rilievo, limitandosi il teste a confermare quanto detto in precedenza e chi il legale che aveva richiesto la riassunzione a non formulare, né nuove né le vecchie domande, e che neppure l’altra parte prospettava questioni nuove, si riteneva di dover intervenire sul punto, evidenziando come, trattandosi di prove comunque assunte in contraddittorio, ancorché davanti ad un diverso collegio, si potesse dar lettura delle precedenti dichiarazioni ex art. 511 c.p.p.
Sul punto è a più riprese intervenuta la Corte costituzionale che in precedenza tuttavia si era pronunciata sul punto riconoscendo la necessità della rinnovazione e la legittimità della procedura di cui all’art. 511 c.p.p., in quanto si tratta di prove assunte in contraddittorio. Invero, le varie decisioni risentivano degli sviluppi più ampi della tematica del recupero con il regime della lettura dell’incarto probatorio delle fasi precedenti ovvero degli atti assunti in incidente probatorio ovvero in procedimento separato, nonché, più recentemente, con il “recupero” del right of confrontation di cui all’art. 111 Cost.
Del resto, sul piano della giurisprudenza di legittimità, si riteneva di confermare quanto affermato sin dal 1999-2000 con la sentenza Jannasso delle Sezioni Unite.
La sentenza della Corte costituzionale (C. Cost. n. 132 del 2019) non si è mancato di confermare le riferite criticità della disciplina della rinnovazione, indicando alcuni possibili interventi di correzione delle disfunzioni ed invitando il legislatore a provvedere.
A “stretto giro” sono intervenute le Sezioni Unite Bajrami che hanno ridefinito e messo a punto i profili procedurali della rinnovazione, non senza significative novità dell’iter processuale che determina la possibilità della nuova audizione, confermando in caso di mancata – significativa – richiesta dell’esame del teste e della conseguente manifesta irrilevanza del rifacimento dell’atto, il ricorso al regime della lettura.
Il percorso si completa ora con la proposta di modifica prospettata nella bozza di riforma del processo penale elaborata dal Ministro Bonafede dove si afferma che in caso di sostituzione per impedimento di un giudice di un collegio, trova applicazione l’art. 190 bis c.p.p. Si precisa altresì che l’ordinanza con cui si procede sarà impugnabile unitamente alla sentenza ai sensi dell’art. 586 c.p.p.
Appare evidente come in tal modo venga completamente superato il principio di oralità e di immediatezza a favore della regola del contraddittorio, davanti ad altri giudici.
In tal modo anche quei limitati “correttivi” della sentenza Bajrami vengono di fatto pretermessi, risultando irrilevanti i riferimenti ivi contenuti alla necessità del rifacimento del dibattimento, dalla sua formale dichiarazione di apertura, nonché alla possibilità per le parti di riappropriarsi di diritti di cui all’art. 468 c.p.p., cioè, del diritto di presentare nuove richieste di prova.
4.
Il terzo aspetto che coinvolge gli operatori della giustizia, a seguito della sentenza Corte edu sul caso Viola, attiene al c.d. ergastolo ostativo, cioè la impossibilità per i soggetti condannati all’ergastolo per i delitti di cui all’art. 4 bis, comma 1 ord. penit., che ai sensi dell’art. 2, comma 2, d.l. n. 152 del 1991 conv. nella l. n. 203 del 1991, richiamando l’art. 176 c.p., non consente di concedere la liberazione condizionale ai non collaboratori di giustizia anche se hanno scontato ventisei anni effettivi di carcere.
Dopo una serie di sentenze con le quali la Corte costituzionale, in tempi recenti, ha affrontato vari profili della l. ord. penit. nella quale erano presenti presunzioni ostative della concessi8one di benefici (C. cost. n. 239 del 2014; C. cost. n. 76 del 2017; C. cost. n. 149 del 2018), i giudici costituzionali hanno affrontato il più circoscritto profilo di legittimità costituzionale dell’art. 4 bis comma 1 ord. penit., nella parte in cui, in relazione alla mancanza di collaborazione ex art. 58 ter ord. penit., per i soggetti condannati per i delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell’art. 416 bis cod. pen. e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l’attività delle associazioni in esso previste, l’art. 30 ter ord. penit. preclude la concessione dei permessi premio, cioè l’assenza di pericolosità sociale.
Secondo la Corte costituzionale il carattere assoluto – iuris et de iure – della esclusione al beneficio, in ragione della mancata collaborazione, deve ritenersi in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost. Invero, la mancata collaborazione può costituire un indice negativo della condizione del soggetto ristretto, ma non può assurgere ad elemento che non consenta una valutazione del percorso carcerario, della condizione soggettiva ancorché suscettibile di introdurre nel compendio valutativo elementi estranei ai caratteri tipici dell’esecuzione della pena.
In altri termini, la mancata collaborazione non può costituire un aggravamento della condizione penitenziaria, infliggendo ulteriori conseguenze negative che non hanno connessione con il reato commesso. L’eliminazione dell’elemento presuntivo, consente allora una valutazione degli elementi che sono posti alla base della concessione del permesso premio, che si connota non come misura alternativa, ma come elemento del programma di trattamento della fase rieducativa, assolvendo così ad una funzione “pedagogico-propulsiva”.
Sotto questo profilo, sarà necessaria una valutazione seria e rigorosa che sia capace – mancando la collaborazione ed escluse le situazioni non ostative – di verificare l’assenza di collegamenti – ovvero il loro ripristino – con la criminalità organizzata, terroristica o eversiva. Il dato emergerà dalle informazioni che la magistratura di sorveglianza acquisirà non solo dall’interno della struttura penitenziaria, ma anche per il tramite del comitato per l’ordine e la sicurezza pubblica competente.
La conseguente declaratoria di incostituzionalità dell’art. 4 bis, comma 1, ord, penit., nei riferiti termini in relazione ai reati di cui all’art. 416 bis c.p. e a quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero tese ad agevolare le attività associative ivi previste, in relazione alla concessione dei permessi premio, posta la mancanza di attività di collegamenti o del loro ripristino, pone, negli stessi termini, la collegata questione di incostituzionalità in relazione agli altri reati contenuti nello stesso art. 4 bis ord. penit.
In altri termini, l’esclusione dal carattere assoluto della riferita presunzione per i reati “mafiosi” si prospetta negli stessi termini, sempre in relazione ai soli permessi premio, anche per i condannati per gli altri reati contenuti nell’art. 4 bis, comma 1, ord. penit., pena la perdita di coerenza intrinseca dell’intera disciplina.
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