Desta notevole interesse e qualche nota di osservazione necessariamente critica la recente sentenza della Sezione V della Corte di Cassazione (n. 42.414, ud. 28.09.2023 – dep. 17.10.2023), che ha ribadito l’applicabilità al ricorso per cassazione della previsione dell’art. 581 co. 1-quater c.p.p. e contestualmente dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma, avanzata in via preliminare dal difensore d’ufficio dell’imputato, che aveva proposto in proprio l’impugnazione.
Non vi è qui lo spazio per affrontare con il necessario approfondimento che meriterebbe la questione di legittimità costituzionale, attesa la complessità delle tematiche che vi sono sottese e dei molti distinguo che occorrerebbe fare per valutare l’effettiva compatibilità costituzionale della norma introdotta dalla riforma.
Ciò che deve invece suscitare un’immediata reazione critica (si spera non solo da parte dell’Avvocatura) sono alcune argomentazioni contenute nella sentenza qui commentata, che lasciano trasparire una visione oltremodo parziale del diritto di difesa e del ruolo del difensore nel processo penale.
Si legge, infatti, nella sentenza che la limitazione all’impugnazione introdotta dall’art. co. 1 –quater dell’art. 581 c.p.p. trova la sua giustificazione nella «esigenza fondata precipuamente sul rispetto del principio di ragionevole durata del processo … di una più celere ed efficiente organizzazione dello sviluppo del procedimento penale … anche nella prospettiva di allontanare il pericolo della patologia dell’abuso del diritto […] nell’ottica di evitare la proliferazione di giudizi d’impugnazione variamente dispendiosi – attivati per iniziativa del difensore, svincolata dall’avvallo esplicito del diretto interessato»; e, ancora, che la «“inviolabilità” del diritto di difesa, di natura certamente primaria nel sistema ordinamentale … non può espandersi oltre ogni confine di “buon senso”».
Sono affermazioni, come detto, che sembrano tradire un’erronea considerazione della posizione che assume il difensore nel processo penale all’interno di un ordinamento democratico e che – nel contempo – spostano in modo preoccupante gli equilibri del processo penale dalle garanzie all’efficientismo.
È indubbio che la riforma Cartabia abbia posto al centro dei propri obiettivi un complessivo miglioramento dell’efficienza della giustizia penale: come hanno ricordato nei giorni scorsi Gian Luigi Gatta e Mitja Gialuz l’obiettivo concordato con la Commissione Europea è giungere a una riduzione della durata media del processo penale del 25% rispetto al 2019 entro il giugno 2026.
Ma questo obiettivo non può realizzarsi attraverso una riduzione irragionevole delle garanzie.
In altre parole, ben venga – in questa prospettiva – la riduzione del carico attraverso istituti quali la sentenza di non doversi procedere ex art. 420-quater c.p.p. o la improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p., posto che tali esiti processuali appaiono comunque in linea con il principio costituzionale di non colpevolezza.
Ben diversa valutazione deve invece formularsi quando l’efficienza si persegue attraverso il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna, perché questo è l’esito processuale di una sentenza di primo grado che non può essere appellata dal difensore dell’imputato assente, se non in presenza di un apposito mandato a impugnare raccolto dopo la pronuncia condannatoria (e noi Avvocati sappiamo quanto questa formalità possa a volte rivelarsi estremamente onerosa quando non addirittura impossibile, soprattutto per i difensori d’ufficio).
Qui il rischio che si corre è che l’efficienza venga equiparata meramente a una riduzione dei tempi, senza alcuna considerazione del livello qualitativo del “prodotto” del processo, che non può che essere la sentenza conclusiva di un processo che dev’essere sì di durata ragionevole, ma anche “giusto” ex art. 111 Cost.
Quest’ultimo rilievo consente di tornare al tema del ruolo del difensore nel processo: l’Avvocato è garante nel contempo della libertà personale del cittadino sottoposto a processo (e già questo dovrebbe consentirgli di operare oltre ogni ipotetico e inaccettabile limite di “buon senso”, contrariamente a quanto affermato nella sentenza n. 42.414) e della celebrazione del “giusto processo”, che costituisce un interesse non meramente individuale ma di rilevanza pubblicistica (altrimenti non si comprenderebbe, per esempio, la necessità della figura del difensore d’ufficio anche per chi rifiuti o comunque non si interessi di nominare un proprio difensore).
Possiamo discutere – e forse dovremmo farlo davvero, laicamente – della compatibilità costituzionale dell’art. 581 co. 1-quater c.p.p., ma certo non si può affermarne la legittimità facendo ricorso agli argomenti utilizzati dalla Cassazione.
Il “buon senso” non è un limite al diritto di difesa
Desta notevole interesse e qualche nota di osservazione necessariamente critica la recente sentenza della Sezione V della Corte di Cassazione (n. 42.414, ud. 28.09.2023 – dep. 17.10.2023), che ha ribadito l’applicabilità al ricorso per cassazione della previsione dell’art. 581 co. 1-quater c.p.p. e contestualmente dichiarato manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale della norma, avanzata in via preliminare dal difensore d’ufficio dell’imputato, che aveva proposto in proprio l’impugnazione.
Non vi è qui lo spazio per affrontare con il necessario approfondimento che meriterebbe la questione di legittimità costituzionale, attesa la complessità delle tematiche che vi sono sottese e dei molti distinguo che occorrerebbe fare per valutare l’effettiva compatibilità costituzionale della norma introdotta dalla riforma.
Ciò che deve invece suscitare un’immediata reazione critica (si spera non solo da parte dell’Avvocatura) sono alcune argomentazioni contenute nella sentenza qui commentata, che lasciano trasparire una visione oltremodo parziale del diritto di difesa e del ruolo del difensore nel processo penale.
Si legge, infatti, nella sentenza che la limitazione all’impugnazione introdotta dall’art. co. 1 –quater dell’art. 581 c.p.p. trova la sua giustificazione nella «esigenza fondata precipuamente sul rispetto del principio di ragionevole durata del processo … di una più celere ed efficiente organizzazione dello sviluppo del procedimento penale … anche nella prospettiva di allontanare il pericolo della patologia dell’abuso del diritto […] nell’ottica di evitare la proliferazione di giudizi d’impugnazione variamente dispendiosi – attivati per iniziativa del difensore, svincolata dall’avvallo esplicito del diretto interessato»; e, ancora, che la «“inviolabilità” del diritto di difesa, di natura certamente primaria nel sistema ordinamentale … non può espandersi oltre ogni confine di “buon senso”».
Sono affermazioni, come detto, che sembrano tradire un’erronea considerazione della posizione che assume il difensore nel processo penale all’interno di un ordinamento democratico e che – nel contempo – spostano in modo preoccupante gli equilibri del processo penale dalle garanzie all’efficientismo.
È indubbio che la riforma Cartabia abbia posto al centro dei propri obiettivi un complessivo miglioramento dell’efficienza della giustizia penale: come hanno ricordato nei giorni scorsi Gian Luigi Gatta e Mitja Gialuz l’obiettivo concordato con la Commissione Europea è giungere a una riduzione della durata media del processo penale del 25% rispetto al 2019 entro il giugno 2026.
Ma questo obiettivo non può realizzarsi attraverso una riduzione irragionevole delle garanzie.
In altre parole, ben venga – in questa prospettiva – la riduzione del carico attraverso istituti quali la sentenza di non doversi procedere ex art. 420-quater c.p.p. o la improcedibilità ex art. 344-bis c.p.p., posto che tali esiti processuali appaiono comunque in linea con il principio costituzionale di non colpevolezza.
Ben diversa valutazione deve invece formularsi quando l’efficienza si persegue attraverso il passaggio in giudicato di una sentenza di condanna, perché questo è l’esito processuale di una sentenza di primo grado che non può essere appellata dal difensore dell’imputato assente, se non in presenza di un apposito mandato a impugnare raccolto dopo la pronuncia condannatoria (e noi Avvocati sappiamo quanto questa formalità possa a volte rivelarsi estremamente onerosa quando non addirittura impossibile, soprattutto per i difensori d’ufficio).
Qui il rischio che si corre è che l’efficienza venga equiparata meramente a una riduzione dei tempi, senza alcuna considerazione del livello qualitativo del “prodotto” del processo, che non può che essere la sentenza conclusiva di un processo che dev’essere sì di durata ragionevole, ma anche “giusto” ex art. 111 Cost.
Quest’ultimo rilievo consente di tornare al tema del ruolo del difensore nel processo: l’Avvocato è garante nel contempo della libertà personale del cittadino sottoposto a processo (e già questo dovrebbe consentirgli di operare oltre ogni ipotetico e inaccettabile limite di “buon senso”, contrariamente a quanto affermato nella sentenza n. 42.414) e della celebrazione del “giusto processo”, che costituisce un interesse non meramente individuale ma di rilevanza pubblicistica (altrimenti non si comprenderebbe, per esempio, la necessità della figura del difensore d’ufficio anche per chi rifiuti o comunque non si interessi di nominare un proprio difensore).
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Alla Corte costituzionale una questione sull’art. 30-ter dell’ordinamento penitenziario
La Consulta si pronuncia sulla incompatibilità del G.i.p. a pronunciarsi sulla nuova richiesta di decreto penale di condanna: inammissibili le q.l.c.
Sospensione della pena e non menzione della condanna nel casellario: illegittimità costituzionale parziale.
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