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Il caso Regeni e il processo in assenza: un corto circuito delle garanzie?

(Testo aggiornato e corredato di note della relazione al seminario su “Il caso Regeni”, tenutosi presso il Dipartimento di Giurisprudenza dell’Università di Foggia il 19 aprile 2023)

Premessa

Il processo che si sta celebrando dinanzi al Tribunale di Roma per accertare le responsabilità per la morte di Giulio Regeni, il dottorando italiano torturato e ucciso al Cairo, tra il 25 gennaio e il 3 febbraio 2016, pone una pluralità di questioni giuridiche di indubbia importanza. É, questa, una diretta conseguenza del fatto che la vicenda non rileva nella sola dimensione interna: le dinamiche giudiziarie del “caso Regeni” si proiettano sul piano dei rapporti internazionali e ciascuno di questi sviluppi contribuisce ad aggrovigliare sempre più i nodi problematici: dalle tematiche afferenti alla giurisdizione e al divieto di un secondo giudizio[1], a quelle dei rapporti diplomatici tra gli Stati coinvolti, anche nella prospettiva della cooperazione in materia giudiziaria, fino a eventuali responsabilità derivanti dall’inadempimento di obblighi internazionali, in primis quelli collegati all’impegno a contribuire alla repressione della tortura[2].

Al momento, però, una più di tutte attrae l’interesse dello studioso del rito penale e su di essa si vuole concentrare l’attenzione.

L’assenza degli imputati, infatti, costituisce attualmente lo snodo cruciale, l’ostacolo che, finora, ha impedito di andare oltre nell’accertamento dei fatti e ha imposto, dopo un iniziale approdo in corte d’assise, un brusco regresso all’udienza preliminare e, poi, una battuta d’arresto che, comprensibilmente, ha suscitato una profonda delusione nell’animo di coloro che invocano giustizia per un delitto brutale.

Al momento, è uno sbarramento che, nonostante lo sforzo interpretativo compiuto dalla Procura della Repubblica e dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Roma, appare insuperabile qualora non intervenga una declaratoria di illegittimità costituzionale della disciplina del processo in assenza e, in particolare, dell’art. 420-bis c.p.p.[3].

L’iter processuale.

L’evoluzione della procedura giudiziaria è di estrema linearità e dalla sua ricostruzione conviene muovere per cogliere i passaggi salienti.

Investito della richiesta di rinvio a giudizio, il giudice dell’udienza preliminare, in una prima decisione, aveva stabilito di procedere in assenza degli imputati[4]. Più precisamente, secondo il giudice, gli imputati si sarebbero sottratti volontariamente alla conoscenza degli atti del procedimento e, pertanto, l’atto introduttivo del giudizio ben poteva essere notificato ai difensori d’ufficio. Questo assunto era sostenuto anche da alcuni elementi di fatto che permettevano di affermare che gli imputati avevano comunque avuto conoscenza della pendenza di una procedura in Italia. Il giudice, infatti, valorizzava la circostanza che erano stati ascoltati dagli inquirenti, avevano preso parte a una squadra investigativa italoegiziana e il caso, anche nelle sue declinazioni giudiziarie, aveva avuto una clamorosa eco mediatica. A ciò si aggiungeva che più volte, ma invano, erano state formulate richieste di cooperazione alla autorità egiziana affinchè collaborasse per far eleggere domicilio agli imputati.

Senonchè, il decreto che disponeva il giudizio, pur’esso notificato ai soli difensori d’ufficio, veniva annullato dalla Corte di assise di Roma, che, richiamando la copiosa giurisprudenza anche sovranazionale formatasi in materia, escludeva che gli elementi acquisiti consentissero di desumere la conoscenza del procedimento e dell’accusa in capo agli imputati[5].

La Corte evidenziava come mancasse un solido e chiaro collegamento con il processo, estrinsecato in uno specifico atto, e rimarcava, d’altro canto, che gli elementi utilizzati in precedenza non possedevano affatto la capacità dimostrativa che era stata loro attribuita. Innanzitutto, il coinvolgimento nelle attività investigative condotte con gli inquirenti italiani poteva al più determinare in capo agli imputati la consapevolezza di essere indagati, ma non la compiuta conoscenza della accusa elevata a loro carico. Peraltro, sottolineava la Corte, soltanto uno dei quattro imputati, per un periodo piuttosto breve, aveva partecipato al gruppo investigativo italoegiziano. Poi, anche la rilevanza mediatica che il caso aveva avuto sui mezzi di informazione internazionali era del tutto differente sul territorio egiziano, laddove non erano stati affatto divulgati i nomi dei componenti dei servizi di informazione ricercati dalle autorità italiane. In ultimo, neppure il fallimento dei tentativi di far eleggere domicilio possedeva attitudine dimostrativa dirimente, ma anzi deponeva in senso contrario, contribuendo a escludere l’instaurazione di un collegamento tra imputati e processo.

Dunque, la Corte escludeva che, pur considerando tutti questi elementi nel complesso, potesse applicarsi la fattispecie, invero estremamente delicata, contenuta nella parte conclusiva dell’art. 420-bis c.p.p. che consente di procedere in assenza dell’imputato che si sia volontariamente sottratto al procedimento o alla conoscenza degli atti del procedimento[6].

A seguito di tale decisione, gli atti tornavano al giudice per l’udienza preliminare, che ha assunto una decisione di segno opposto rispetto alla precedente e ha sospeso il procedimento[7]. Una conclusione alla quale si perveniva, tuttavia, soltanto dopo l’esito infruttuoso delle nuove ricerche degli imputati e dopo una interlocuzione con le autorità di governo italiane circa le iniziative intraprese sul fronte diplomatico per sollecitare la collaborazione delle autorità egiziane[8]. È chiaro, infatti, che questa vicenda non può essere esaminata tenendo in considerazione il solo versante giudiziario interno, l’analisi del dato processuale non potendo essere scissa dalle relazioni di cooperazione e diplomatiche intessute in questi anni dagli Stati coinvolti.

Avverso la decisione del giudice per le indagini preliminari, tuttavia, proponeva ricorso per cassazione la Procura della Repubblica presso il Tribunale di Roma[9], ma l’impugnazione era respinta dalla Suprema Corte[10].

È importante segnalare sin da ora che la Procura di Roma, per superare l’ostacolo, ha incentrato le proprie censure su un argomento dirompente, prospettando la necessità di impedire che il diritto a ricevere la notifica della citazione in giudizio diventi un “diritto tiranno”.

Una affermazione che, come si vedrà, potrebbe essere appagante per questa specifica vicenda processuale, ma che rischia di spalancare la porta a interpretazioni che, se applicate nella quotidianità, comporterebbero un regresso inaccettabile.

Ultimo evento della sequenza procedurale è la devoluzione della questione alla Corte costituzionale. Nel corso dell’udienza fissata ai sensi dell’art. 420-quinquies c.p.p., il giudice per le indagini preliminari, sollecitato dalla Procura della Repubblica[11], ha ipotizzato che la situazione di stallo possa essere superata dichiarando l’illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis c.p.p. nella parte in cui non prevede che si proceda in assenza dell’imputato anche quando si ritenga provato che l’assenza sia dovuta alla mancata assistenza giudiziaria o al rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato ovvero quando si ritenga che la mancata conoscenza della pendenza del procedimento dipenda dalla mancata assistenza giudiziaria o dal rifiuto di cooperazione da parte dello Stato di appartenenza o di residenza dell’imputato[12].

Il sistema in corto circuito

Si possono a questo punto tratteggiare le criticità che scaturiscono da questa situazione e provare a delineare le conseguenze che derivano dall’accoglimento dell’una o dell’altra tesi.

Dalla sintesi delle decisioni che si sono succedute emerge come il dato sul quale si impernia il destino della procedura è rappresentato dalla risposta – positiva o negativa – che si vuol dare al quesito sulla conoscenza da parte degli imputati del processo a loro carico.

Il punto di partenza è che soltanto dimostrando che gli imputati – appartenenti ai servizi di sicurezza egiziani accusati di aver torturato e ucciso Giulio Regeni – sono a conoscenza del fatto che l’autorità giudiziaria italiana ha avviato l’azione penale nei loro confronti il procedimento potrà riprendere e proseguire fino alla sentenza definitiva.

Il dissidio si registra sulle condizioni che in fatto e in diritto consentono di sciogliere in un senso o in un altro il quesito, tra coloro che ritengono sufficienti gli elementi che ha utilizzato il giudice dell’udienza preliminare nella prima decisione e coloro che, invece, pretendono un contatto formale tra gli imputati e la procedura a loro carico, come, ad esempio, la notificazione della vocatio in ius personalmente.

Da questo punto di vista è agevole individuare il cuore del problema e percepire la ragione per la quale è molto forte il rischio di un corto circuito delle garanzie.

Il nostro sistema processuale consente di instaurare il rito in absentia soltanto in presenza di determinati eventi processuali ritenuti sintomatici della conoscenza del procedimento. E allo stesso tempo predispone un meccanismo teso a procurare ai soggetti che partecipano al processo la conoscenza degli atti. In questa ottica, la notificazione della citazione in giudizio è la prova regina, anche se può essere surrogata dal compimento di altri atti. Atti che sicuramente non hanno la medesima capacità dimostrativa, ma che pure il legislatore ha ritenuto significativi, quantomeno in una dimensione presuntiva[13].

L’assetto di queste tutele nell’ordinamento processuale, come ha sottolineato la Suprema Corte nel respingere fermamente il ricorso della Procura della Repubblica, è il risultato di una successione di norme e di un progressivo affinamento della disciplina che il nostro legislatore è stato praticamente “costretto” a introdurre a seguito delle sollecitazioni provenienti dagli organi sovranazionali e, in particolare, dalla Corte europea dei diritti dell’uomo[14].

Provocatoriamente si potrebbe dire che il processo per la morte di Giulio Regeni si è bloccato perchè il nostro codice contempla un livello troppo elevato di tutele e garanzie. E ciò appare evidente se sol si consideri che la formulazione originaria delle disposizioni – quelle che descrivevano il vituperato istituto della contumacia – avrebbe consentito senz’altro di celebrare il processo.

La paradossalità della situazione si coglie nel momento in cui a minacciare il ricorso alla Corte edu questa volta sono state le persone offese. Come dire che la ricezione dei principi sovranazionali nel nostro ordinamento costituisce il presupposto per la violazione di un loro diritto fondamentale[15].

Conclusioni

Si possono trarre da questa sommaria ricostruzione alcune conclusioni, anche sulla prospettata illegittimità costituzionale dell’art. 420-bis c.p.p.

Il processo per la morte di Giulio Regeni presenta elementi peculiari, che lo distinguono nettamente dalle consuete vicende che riguardano il rito in assenza.

L’impatto emotivo è fortissimo e il senso di frustrazione che deriva dalla sospensione del processo è altrettanto forte.

Una ingiustizia che, però, almeno dal punto di vista processuale, è più percepita che reale, poichè non è determinata dalla infrazione delle previsioni del codice di rito, ma, piuttosto, dalla loro rigorosa applicazione.

Dunque, si deve escludere – ed è ciò che del resto ha fatto la Corte di Cassazione nel respingere l’impugnazione della Procura di Roma – l’apertura di pericolose brecce nel sistema che assicura il diritto dell’imputato ad avere conoscenza del procedimento.

Si tratta di un diritto che costituisce il presupposto irrinunciabile di un giusto processo, la condizione che consente all’imputato di esercitare tutti gli altri diritti e facoltà che l’ordinamento gli riconosce.

È per questo, allora, che non può essere mai condivisa la tesi secondo la quale il diritto alla notifica dell’atto di citazione in giudizio costituisca un “diritto tiranno”. E nel contempo non sono accettabili forzature in punto di accertamento della conoscenza del procedimento in capo agli imputati.

Perchè se nei confronti dei torturatori di Giulio Regeni una simile soluzione potrebbe essere condivisa proprio per la gravità del fatto e per la ripugnante copertura istituzionale che hanno ricevuto i responsabili, il rischio è che una soluzione calibrata su un caso specifico possa poi estendersi ed essere applicata in ogni situazione nella quale l’autorità giudiziaria incontri delle difficoltà a rispettare gli adempimenti fissati dal codice. Soprattutto qualora problemi simili dovessero ripresentarsi in altri processi per fatti di identica gravità.

La soluzione, quindi, non risiede in una forzatura del dato normativo: anche se limitata a un singolo caso, sarebbe pur sempre una violazione del giusto processo – del quale devono beneficiare tutti, anche gli agenti dei servizi egiziani[16] – e un pericoloso precedente[17].

Nè sembra condurre alla meta il percorso avviato con la rimessione della questione alla Corte costituzionale incentrata sul contrasto dell’attuale assetto normativo con una pluralità di disposizioni costituzionali[18].

È fuor di dubbio che l’impossibilità di procedere oltre nell’accertamento è stata determinata dall’atteggiamento di chiusura delle autorità egiziane che non hanno mai fornito la collaborazione necessaria per eseguire le notificazioni agli imputati[19], dedicandosi piuttosto al depistaggio delle investigazioni.

Tuttavia, una simile condotta non è riconducibile agli imputati che ne hanno sicuramente beneficiato, ma in nessun modo possono averla determinata. Del resto, se la decisione di impedire l’accertamento della verità deve essere attribuita ai vertici delle istituzioni egiziane, non è fuor di luogo ipotizzare che gli imputati non potrebbero partecipare al processo, quand’anche lo volessero[20].

Questo rilievo impone di riflettere sull’effettiva autonomia degli imputati e sulla possibilità di far ricadere su di loro le scelte compiute in altre sedi[21].

Ciò posto, si può solo abbozzare un’ultima riflessione sull’esito del giudizio dinanzi alla Corte costituzionale[22].

Una decisione di segno negativo comporterebbe in sede processuale la declaratoria di non doversi procedere, ma l’attività di ricerca degli imputati continuerebbe, come prescrive l’art. 420-quater, comma 3, c.p.p. Una simile pronuncia, dunque, non avrebbe effetti irreversibili e consentirebbe di attendere che la situazione trovi una soluzione a livello diplomatico.

Un eventuale accoglimento, invece, spianerebbe la strada alla prosecuzione del processo, ma la tenuta dell’accertamento sarebbe alquanto precaria dinanzi alla attivazione da parte degli imputati dei rimedi restitutori. Come dire, in altre parole, che l’ostacolo determinato dalla impossibilità di procurare la conoscenza del procedimento in capo agli imputati si ripresenterà successivamente, qualora invocassero il loro diritto a una nuova celebrazione del processo a loro carico[23]. A ciò si deve aggiungere che, qualora i condannati fossero rintracciati al di fuori dell’Egitto, sarebbe oltremodo complicato ottenere la cooperazione di altri Stati nell’esecuzione di tale sentenza attraverso un mandato di arresto europeo o una richiesta di estradizione. E anche in tal caso, la consegna potrebbe essere subordinata alla condizione che sia celebrato un nuovo processo[24].

La soluzione, come accennato, deve quindi passare attraverso un cambio di rotta nelle relazioni diplomatiche tra Italia ed Egitto. Se, infatti, la decisione di non collaborare con le autorità italiane è, in ultima istanza, una decisione di carattere politico è in tale dimensione che si deve agire. Pertanto, la strada da battere per riaprire il processo è affidata alla diplomazia e alla capacità del Governo della Repubblica Italiana di indurre le autorità egiziane a rimuovere il velo di omertà che hanno steso su questa vicenda[25].

È sicuramente una attesa che può rivelarsi lunga, se non addirittura vana, ma giunti fin qui non si può che evidenziare l’impegno delle istituzioni italiane per accertare la verità, non solo in sede processuale, ma anche in sede parlamentare, come testimoniano i lavori della Commissione di inchiesta sulla morte di Giulio Regeni che hanno consentito di valorizzare il lavoro compiuto dagli investigatori e raggiungere un punto fermo e indiscutibile sulle responsabilità per questo tragico evento.


[1] Le richieste di cooperazione avanzate dall’Italia sono state respinte dall’Egitto sul rilievo che nei confronti dei quattro imputati era stato avviato dal Procuratore generale del Cairo un procedimento e che la sua conclusione, secondo i principi dell’ordinamento egiziano, precludeva ogni forma di assistenza giudiziaria.

[2] Sia l’Italia che l’Egitto hanno firmato e ratificato la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti firmata a New York il 10 dicembre 1984. Tale convenzione, all’art. 9, dispone che gli Stati parte prestino l’assistenza giudiziaria più vasta possibile in ogni procedimento penale volto a punire i responsabili di atti di tortura.

[3] Conviene precisare che in itinere è stata modificata la disciplina del processo in assenza ad opera del d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150. La transizione normativa, nel caso di specie, è regolata dall’art. 89, in forza del quale, se nel corso dell’udienza preliminare o del giudizio di primo è già stata disposta la sospensione del processo ai sensi del previgente art. 420-quater c.p.p., e l’imputato non è stato ancora rintracciato anzichè disporre nuove ricerche, il giudice deve emettere una sentenza di non doversi procedere, in applicazione del nuovo art. 420-quater. Al processo in corso si applicano, pertanto, le nuove disposizioni (sulla nuova disciplina e sul diritto intertemporale, Kalb, La nuova disciplina del processo in assenza dell’imputato: la ricerca di una soluzione equilibrata per il superamento di problemi ancora irrisolti, in Spangher (a cura di),  La riforma Cartabia, Pacini giuridica, 2022, p. 337 e ss).

[4] Trib. Roma, 25 maggio 2021, in www.questionegiustizia.it, 15 dicembre 2021.

[5] Ass. Roma, 14 ottobre 2021, in www.penaledp.it, 16 ottobre 2021.

[6] In effetti, le formule che chiudono la disposizione introducono clausole che devono essere interpretate e applicate con rigore poichè, diversamente, sarebbe altissimo il rischio di vanificare l’intento perseguito dalla riforma del processo in assenza (in questo senso, Mangiaracina, Il “tramonto” della contumacia e l’affermazione di una assenza multiforme, in Leg. pen., 2014, p. 568, e Bricchetti – Pistorelli, Ipotesi tipizzate per la celebrazione del rito, in Guida dir., 2014, n. 21, p. 97).

[7] Trib. Roma, 22 aprile 2022, inedita. Tale decisione, ai sensi dell’art. 89, d. lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, è l’atto rilevante ai fini dell’individuazione della disciplina applicabile dal punto di vista del diritto intertemporale (l’ordinanza si sofferma sul punto a p. 12 e ss.).

[8] Trib. Roma, 10 gennaio 2022, in www.giurisprudenzapenale.com, 12 gennaio 2022. Più precisamente, il Giudice dell’udienza preliminare chiedeva di conoscere l’esito della richiesta di assistenza internazionale avanzata dal pubblico ministero in data 30 aprile 2019 e di sapere se dopo l’ordinanza della Corte d’assise fossero emersi elementi nuovi e se il Ministro della giustizia intendesse interloquire con le autorità egiziane per la notificazione degli atti agli imputati.

[9] Proc. Rep. Roma, 22 aprile 2022, in www.giurisprudenzapenale.com, 12 maggio 2022.

[10] Sez. I, 15 luglio 2022, n. 5675, in www.giurisprudenzapenale.com, 10 febbraio 2023 che ha dichiarato l’inammissibilità del ricorso, escludendo l’abnormità del provvedimento impugnato e affermando la correttezza del modo di procedere dei giudici di merito.

[11] Proc. Rep. Roma, 3 aprile 2023, in www.penaledp.it, 4 aprile 2023. Invero, la Procura della Repubblica di Roma aveva già articolato con il ricorso per cassazione proposto avverso l’ordinanza in data 22 aprile 2022 una differente censura sulla legittimità costituzionale dell’art. 420-bis c.p.p., ritenuta però non rilevante e manifestamente infondata dalla Suprema Corte.

[12] Trib. Roma, 31 maggio 2023, in www.penaledp.it, 1 giugno 2023. La decisione è stata assunta a seguito di alcuni rinvii tesi a consentire lo svolgimento di ulteriore attività di istruttoria (tra le quali figurava l’audizione del Presidente del Consiglio e del Ministro degli esteri e della cooperazione internazionale, poi revocata; su questo profili e le sue implicazioni di diritto internazionale, Ruotolo, Ancora sul caso Regeni: il “diritto alla segretezza” dei negoziati internazionali e la competenza dei giudici interni a decidere situazioni di rilevanza internazionalistica alla luce di alcuni recenti sviluppi del processo penale in via di (non) svolgimento in Italia, in www.sidiblog.org, 4.5.2023). Sulla questione, con sfumature diverse, Quattrocolo, Coerenza del sistema vs incoerenza del caso concreto: un passo verso la celebrazione del processo Regeni, in www.sistemapenale.it, 26 luglio 2023; Mantovani, “Riforma Cartabia”: per chi è il processo in absentia?, in www.lalegislazionepenale.eu, 30 maggio 2023, p. 17; Spangher, Processo Regeni: un passaggio stretto tra regole e eccezioni, in www.giustiziainsieme.it, 22 giugno 2023.

[13] Sul valore di tali presunzioni si sono pronunciate le Sezioni unite che hanno impartito un insegnamento fedelmente seguito dalla decisione sul ricorso proposto dalla Procura della Repubblica di Roma (Sez. un., 28 novembre 2019, n. 23948, in Cass. pen., 2021, p. 129; su tale arresto, Quattrocolo, La Corte di cassazione svela il vero volto della rescissione del giudicato? Due recenti pronunce segnano una svolta interpretativa nel sistema del processo in absentia e dei relativi rimedi, in www.sistemapenale.it, 2 marzo 2021, e, criticamente, Alonzi, L’interpretazione delle Sezioni unite dei presupposti per procedere in assenza, in Dir. pen. e proc., 2021, p. 808).

[14] Gli incessanti interventi legislativi in materia sono stati imposti dalle condanne che l’Italia ha riportato dinanzi alla Corte europea dei diritti dell’uomo, come sottolinea Lattanzi, Costretti dalla Corte di Strasburgo, in Cass. pen., 2005, p. 1125, a commento del d.l. 21 febbraio 2005, n. 17, conv. con modif. dalla l. 22 aprile 2005, n. 60.

[15] Si nota, in molti provvedimenti, una particolare attenzione verso i diritti delle persone offese, al punto tale che l’ordinanza di rimessione degli atti alla Corte costituzionale, con una impostazione di matrice individualistica, antepone le censure calibrate sulla violazione di tali diritti a quelle che scaturiscono dalla violazione del principio di obbligatorietà della azione penale e del giusto processo.

[16] Come sottolinea la Suprema Corte, prendendo posizione in particolare sulle istanze delle persone offese, il perseguimento delle condotte criminose, anche se efferate e ignominiose quali quelle oggetto di imputazione, deve passare, in uno Stato di diritto, attraverso il rispetto delle regole del giusto processo regolato dalla legge, che si svolga nel pieno ed effettivo contraddittorio tra le parti.

[17] La praticabilità di una simile soluzione, peraltro basata su una interpretazione asseritamente conforme a Costituzione, è stata comunque esclusa, da ultimo, da Trib. Roma, 31 maggio 2023, cit., p. 15. Il giudice dell’udienza preliminare, infatti, ha ribadito che tutti gli elementi raccolti possono al più dar vita a una presunzione e ha ripetuto, d’accordo con il precedente arresto della Corte d’assise, che ciò non basta perchè è necessario accertare l’effettiva conoscenza del processo a suo carico da parte dell’imputato ovvero la sua volontà di sottrarvisi.

[18] In estrema sintesi, il giudice dell’udienza preliminare indica gli artt. 24 e 2 Cost., poichè la paralisi del processo impedirebbe alle persone offese di coltivare in giudizio le loro pretese, non soltanto di carattere civilistico; ancora gli artt. 24 e e Cost., ma questa volta nella prospettiva degli imputati, poichè la mancata collaborazione delle autorità egiziane lederebbe il loro diritto di difesa; gli artt. 24 e 3 Cost., essendo irragionevole la mancanza di un meccanismo alternativo che consenta alle persone offese di superare l’ostruzionismo della autorità estera e far valere i loro diritti; gli artt. 3 e 2 Cost., poichè l’atteggiamento delle autorità egiziane, di fatto, creerebbe una situazione di immunità per i propri funzionari in relazione a reati di estrema gravità; gli artt. 112 e 3 Cost., perchè sarebbe compromesso il principio dell’obbligatorietà della azione penale e il correlato principio di uguaglianza di tutti dinanzi alla legge; l’art. 117 Cost., poichè l’arresto della procedura determinerebbe una violazione dell’obbligo assunto con la firma e la ratifica della Convenzione contro la tortura; gli artt. 111 e 3 Cost., poichè sarebbe ingiustamente precluso l’esercizio della giurisdizione e, conseguentemente, il principio di uguaglianza

[19] Su questo punto concordano tutti gli organi giudiziari che si sono occupati del caso. Per una compiuta descrizione delle iniziative intraprese dalle autorità italiane e del contrapposto ostruzionismo praticato dalle autorità egiziane nel periodo più recente, si rinvia all’ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale, p. 6 e ss.

[20] In questo senso, Trib. Roma, 31 maggio 2023, che rileva come, in ipotesi, gli stessi imputati, o anche solo uno di loro, potrebbero voler partecipare al processo in Italia, magari per dimostrare di essere innocenti, e la loro partecipazione essere invece impedita dalle autorità egiziane. Su questo aspetto, peraltro, è stata elaborata una delle censure sottoposte al vaglio del Giudice delle leggi.

[21] È quanto ha già osservato la Corte d’assise, secondo la quale non vi è alcuna evidenza che gli imputati abbiano avuto un ruolo, anche solo morale, nelle eventuali determinazioni delle massime autorità egiziane di prestare una collaborazione sleale ovvero nel negare la collaborazione, sì da addebitare loro i contestati comportamenti in sede di cooperazione. In una differente prospettiva, si colloca invece Quattrocolo, Coerenza del sistema, cit., che, facendo leva sul rapporto di immedesimazione tra lo Stato egiziano e i suoi funzionari, elabora una soluzione che, in via interpretativa, consentirebbe di procedere in assenza.

[22] Per completezza, si segnala che il procedimento sarà trattato nell’udienza camerale del prossimo 20 settembre 2023.

[23] Come nota Quattrocolo, Coerenza del sistema, cit., l’ordinanza, nel caso di innesto nel quadro normativo di una nuova eccezione sulla procedibilità in assenza, sembra suggerire un accesso del tutto incondizionato dell’eventuale condannato ai rimedi restitutori, regolati da norme tuttavia non attinte dall’ordinanza di rimessione.

[24] Si può richiamare, a titolo esemplificativo, la previsione contenuta nell’art. 4-bis della decisione quadro 2002/584/GAI sul mandato d’arresto europeo.

[25] Del resto, nella stessa memoria con la quale la Procura della Repubblica ha sollecitato la rimessione degli atti al Giudice delle leggi è citato un esempio che conferma che la soluzione deve essere ricercata in questa dimensione e che la prosecuzione del processo è subordinata a un diverso approccio alla materia delle autorità egiziane. Il caso al quale si riferisce la Procura di Roma riguarda gli attentati terroristici compiuti in danno di compagnie aeree statunitensi e francesi: la sintesi della vicenda dimostra che soltanto a seguito delle pressioni della comunità internazionale e dopo molti anni, la Libia decise di consegnare gli appartenenti ai suoi servizi di sicurezza, ritenuti responsabili delle azioni criminose, affinchè fossero processati.

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