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Il caso Shalabajeva torna alla ribalta: fu davvero “sequestro di Stato”?

 

Nel corso dell’estate è tornato agli onori della cronaca, in seguito all’esame di un’interrogazione parlamentare presentata alcuni mesi fa, il “caso Shalabajeva” la cui vicenda giudiziaria si era conclusa con una sentenza emessa dal Tribunale di Perugia nell’ottobre del 2020 (ed ancora sub judice in grado di appello).

Una sentenza che aveva destato immediatamente stupore sia per i soggetti coinvolti quali imputati (tra di essi Renato Cortese e Maurizio Improta, all’epoca rispettivamente capo della squadra mobile di Roma e capo dell’ufficio immigrazione di Roma) sia per i gravi reati contestati (in primis il sequestro di persona ai danni di una delle protagoniste della vicenda) per i quali gli stessi erano stati infine condannati.

Il caso, lo si ricorderà, riguardava la Signora Alma Shalabajeva, moglie del dissidente imprenditore kazako Muktar Ablyazov che (parliamo del 2013) era ricercato dal proprio Stato e da Russia ed Ucraina per una serie di reati fiscali e patrimoniali, nell’ipotesi accusatoria perpetrati per cifre assai ingenti.

In seguito ad una segnalazione pervenuta dall’ambasciata del Kazakistan, tralasciando i molti dettagli di merito che non interessano in questa sede, personale della squadra mobile di Roma e della Digos irrompeva in una villa romana dove si riteneva fosse presente il ricercato Ablyazov, mentre all’interno della stessa venivano rinvenute soltanto la moglie e la figlia, oltre ad altri parenti della donna.

La Signora Alma Shalabajeva, pur avendo a disposizione un regolare passaporto kazako che indicava il suo effettivo nome ma – come avrebbe poi riferito nel corso del suo esame – temendo di rivelare di essere la moglie di Ablyazov, mostrava un altro passaporto, rilasciato dalla Repubblica Centroafricana, dichiarando di chiamarsi, conformemente a quanto riportato nel documento, Alma Ayan.

Il passaporto, tuttavia, risultava contraffatto ed, in ogni caso, la Signora era priva di permesso di soggiorno: tale carenza documentale implicava l’avvio di una procedura di espulsione ai sensi del T.U. sull’immigrazione.

Ablyazov, peraltro, non veniva rintracciato, rimanendo latitante e nessuno dei protagonisti della vicenda, se non tardivamente, quando cioè l’espulsione era già stata convalidata, invocava lo status di rifugiato politico del kazako, situazione soggettiva che, in effetti, non risulterà in nessun documento prodotto in processo ed, anzi, come vedremo, sarà ufficialmente disconosciuta dalle nostre autorità.

La Signora Shalabajeva, che ancora nell’udienza di convalida dell’espulsione, dichiarava di essere un’altra persona, forte di quanto riportato sul passaporto africano, pur disponendo di un regolare passaporto kazako (che il suo legale, sentito come testimone in dibattimento, confermerà che esisteva ma non era stato esibito per scelta processuale), venne effettivamente rimpatriata insieme alla figlia.

Questo il quadro della vicenda visto sia nella prospettiva delle difese, sia alla luce delle risultanze che sembrano emergere dalle notizie di cronaca ma che, soprattutto, hanno trovato di recente conferma nel documento congiunto predisposto, in risposta ad un’interrogazione parlamentare risalente al mese di marzo, dai ministeri dell’Interno, della Giustizia e degli Esteri, il cui testo è stato reso noto il 6 agosto scorso.

Non è stato così per il Tribunale di Perugia che, all’esito del dibattimento, ha condannato gli imputati, tra i quali i già citati per l’importanza degli incarichi ricoperti, Cortese ed Improta, per i reati di falso ideologico e materiale ma, soprattutto, di sequestro di persona.

Secondo la ricostruzione giudiziale, in estrema sintesi, la Shalabajeva e la figlia sarebbero state sequestrate per due giorni, allo scopo di mettere pressione al ricercato Ablyazov ma con lo status di rifugiato politico in Italia, affinché evidentemente venisse allo scoperto.

La complessiva operazione sarebbe stata effettuata per asservimento dello Stato italiano rispetto a quello kazako e sarebbe stata realizzata anche sulla base di alcune ipotesi di falso che i protagonisti della vicenda avrebbero commesso nell’atto di redigere le loro relazioni di servizio.

La successiva espulsione della moglie sarebbe stata pertanto illegittima ed anch’essa sarebbe stata effettuata assai frettolosamente e si sarebbe risolta in un atto particolarmente grave in quanto le espulse sarebbero state rimpatriate in uno Stato che notoriamente non garantirebbe il rispetto dei diritti umani e tanto meno li avrebbe assicurati nei confronti della moglie di un dissidente.

Prima ancora di arrivare alle risposte fornite nei giorni scorsi dal nostro governo, la lettura della sentenza, non solo in chi scrive, aveva destato qualche perplessità che qui si vuole brevemente evidenziare, pur sempre nel rispetto del procedimento in corso e della conoscenza magari incompleta degli atti processuali.

Ma l’intervento del governo è stato “a gamba tesa”, per usare una metafora calcistica in voga, e pertanto è ben possibile spendere qualche rapida considerazione.

Un primo dato dal quale non si può prescindere appare quella dell’innegabile insussistenza dello status di rifugiato politico in favore dell’Ablyazov; egli, infatti, risultava esclusivamente ricercato a livello internazionale, come da nota ufficiale (c.d. red notice) dell’Interpol mentre – questo lo riporta anche la sentenza, pervenendo tuttavia ad un’equazione che appare ingiustificata – aveva ottenuto tale status solo in Inghilterra: il che non poteva significare che vantasse automaticamente tale posizione in Italia, anzi.

In secondo luogo appare discutibile la condanna per sequestro di persona della Shalabajeva che, in assenza, come visto, della copertura della condizione di rifugiato del marito, avrebbe dovuto dimostrare di essere in possesso di un passaporto con visto di ingresso e di un permesso di soggiorno per evitare l’espulsione.

Del secondo non disponeva pacificamente; quanto al passaporto, come detto, la stessa ha continuato ad esibire un passaporto, contraffatto e presumibilmente falso (circostanza per la quale la Procura della Repubblica di Roma, che ha concesso il nulla osta all’espulsione, ha aperto un procedimento penale a carico della donna), anziché quello, comunque di per sé insufficiente, kazako.

Ne deriva che l’espulsione appare assolutamente corretta e che il trattenimento della donna e della figlia, in tempi assolutamente conformi alla prassi, è stata dettata dalle esigenze procedurali (udienza di convalida dell’espulsione).

Tutto il contrario di un sequestro di persona, del quale dalla sentenza non è evincibile chiaramente il movente: in essa si parla di un generico asservimento del governo italiano rispetto a quello del Kazakistan, senza che dalle prove raccolte emerga in alcun modo il coinvolgimento delle alte sfere del governo che abbiano in qualche modo imposto agli imputati del caso di specie di operare in tal senso.

Né appare fondato il punto della motivazione della sentenza che critica il comportamento degli imputati che avrebbero proceduto all’espulsione (peraltro ognuno secondo le proprie competenze: come può rispondere della procedura di espulsione, ad esempio, il capo della squadra mobile?), pur consapevoli che le espulse sarebbero state consegnate ad un paese rispetto al quale non sarebbe stato verificato se fosse “una nazione completamente immune da sospetti in materia di rispetto dei diritti umani”.

Basti rilevare, infatti, che il Kazakistan appartiene alla rete dei Paesi Interpol e che, come riportato contraddittoriamente dalla stessa sentenza, dal 2015 l’Italia è legata al Paese stesso da un trattato di cooperazione internazionale e assistenza giudiziaria.

Le perplessità che aveva suscitato la sentenza in esame sono state di recente fugate, in senso indubitabilmente favorevole alle difese, con il citato documento congiunto dei Ministeri, a firma del sottosegretario agli Interni Nicola Molteni, che a chiare lettere ha affermato che Ablyazov non era un rifugiato politico ma era ricercato da tre paesi, come da indicazione dell’Interpol di Astana pervenuta in Italia; che di conseguenza la moglie e la figlia non potevano beneficiare di uno status insussistente e, peraltro, erano privi di permessi validi per restare in Italia.

L’indipendenza della magistratura dall’attività di governo potrà condurre ad un risultato processuale divergente da queste conferme esterne rispetto all’ipotesi assolutoria.

Vero è che i contenuti del documento, che per larghi passaggi fa riferimento a risultanze processuali non valorizzate in primo grado, sembrano rimuovere alcuni dubbi che la lettura della sentenza di primo grado già suscitava.

Leggi qui la sentenza: Trib. Perugia, 14 ottobre 2020, n. 1594

 

 

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