Nota a Cass. pen., sez. V, sent. 24 marzo 2023 (dep. 5 maggio 2023), n. 18891, Pistorelli, Presidente – Pilla, Estensore.
Abstract. Con la sentenza in epigrafe, la Corte di Cassazione affronta nuovamente il tema del concorso apparente di norme, mostrando di discostarsi dal dictum delle Sezioni Unite nell’applicazione del criterio dell’assorbimento. Traendo spunto dalla pronuncia, il presente contributo analizza la questione alla luce dell’orientamento delle Sezioni Unite n. 41588/2017 sui criteri di risoluzione del concorso apparente di norme, nonché in relazione al rapporto intercorrente con il tema del divieto di bis in idem. L’analisi procede analizzando le criticità emerse dall’applicazione del criterio dell’assorbimento, offrendo una prospettiva alternativa mediante l’applicazione del post factum non punibile, il quale, in ultima analisi, si dimostrerà non del tutto soddisfacente.
Abstract. With the sentence in the epigraph, the Supreme Court once again addresses the issue of the apparent concurrence of norms, showing to deviate from the dictum of the United Sections in the application of the absorption criterion. Drawing inspiration from this decision, the contribution analyzes the topic considering the orientation of the United Sections no. 41588/2017 on the criteria for resolving the apparent conflict of norms, as well as the relationship with the prohibition of bis in idem. The analysis proceeds by evaluating the critical issues that emerged from the application of the absorption criterion, offering an alternative perspective through the application of the non-punishable post factum, which, in the final analysis, will prove to be not entirely satisfactory.
Massima. In tema di concorso apparente di norme, stante la struttura di norma incriminatrice a fattispecie plurima dell’art. 453 c.p., qualora il fatto integri più condotte tipiche si deve escludere il concorso formale tra il delitto di detenzione o spendita di banconote false e quello di acquisto o ricezione delle stesse, rispettivamente previsti dall’art. 453, n.ri 3 e 4 c.p. Invero, la fattispecie di cui all’art. 453 n. 3 c.p. risulta essere già contemplata dall’ipotesi delittuosa di cui all’art. art. 453, n. 4 c.p., nella parte in cui prevede che l’acquisto o la ricezione di banconote false avvenga con il fine di metterle in circolazione. Ineluttabilmente, ciò determina l’assorbimento della fattispecie di spendita di banconote false nell’ipotesi delittuosa dell’acquisto di cui all’art 453, n. 4 c.p. e, pertanto, la mancata insorgenza della fattispecie ex art. 453, n. 3 c.p. in via autonoma e concorrente.
Sommario: 1. Premessa. – 2. Il fatto concreto ed il suo inquadramento nelle fattispecie incriminatrici previste dall’art. 453 c.p. – 3. Brevi cenni sul principio dell’assorbimento e sui recenti approdi della giurisprudenza. – 4. Considerazioni critiche. – 5. Una possibile alternativa: il post factum non punibile. – 6. Conclusioni.
1 – Premessa
Ancora oggi, il tema del concorso di norme costituisce uno dei maggiori spazi di dibattito per la dottrina e la giurisprudenza, nell’ambito del quale sono state elaborate le teorie più disparate, fino al recente dictum delle Sezioni Unite con cui sembrerebbe essersi conclusa l’antica querelle tra tesi monistica e tesi pluraliste, con la prevalenza della prima sulle seconde[1].
È indubbio che l’argomento è lungi dall’essere di mero carattere teorico: l’indagine sull’unità o pluralità di reati determina un’eccezione quoad poenam alle regole sul concorso di reati. In altre parole, l’inquadramento dei fatti oggetto di giudizio nell’alea dell’unicità del reato annovera i medesimi nel concorso apparente di reati con un conseguente spostamento della questione dal piano della tipicità a quello del trattamento sanzionatorio[2].
Com’è evidente, l’intero discorso attiene alla distinzione tra qualificazioni giuridiche multiple concrete oppure apparenti presenti all’interno del sistema penale, a seconda che una determinata vicenda naturalistica appaia sussumibile in un’unica o in più fattispecie incriminatrici ovvero la sussunzione sia prima facie da ritenersi esclusivamente in più fattispecie, ma quella concretamente applicabile risulti essere una sola[3]. Tale ultimo caso descrive, per l’appunto, il concorso apparente di norme[4] o – come meglio definito da autorevole dottrina – la convergenza di norme «che appaiono contemporaneamente applicabili ad un medesimo fatto»[5].
Come noto, l’articolo 15 c.p. rappresenta l’unico riferimento codicistico al concorso apparente di norme nell’intero apparato normativo, sicché è stato indicato dalla Cassazione quale unico criterio praticabile che deve guidare l’interprete nella risoluzione del conflitto tra più fattispecie incriminatrici, convalidando così la supremazia della tesi monistica su quelle pluraliste[6].
Ciò considerato, è possibile constatare come, nella prassi, talvolta le soluzioni adottate dalle sezioni semplici[7] della Corte mostrino di discostarsi dal principio di diritto delle Sezioni Unite del 2017, seguendo invero alcuni dei criteri prospettati dalle teorie pluraliste, ulteriori rispetto al tradizionale criterio di specialità di cui all’art. 15 c.p., di cui, peraltro, la sentenza in commento ne rappresenta un esempio particolarmente interessante[8].
Con tale lavoro, pertanto, si intende evidenziare come la tesi monistica sottovaluti la portata del criterio di specialità, il quale, a ben vedere, contiene lato sensu al proprio interno taluni di quei criteri forniti dalle teorie pluraliste, come il criterio dell’assorbimento[9]. Del resto, nel caso in considerazione, il ricorso al criterio dell’assorbimento è apparso il solo in grado di porre rimedio ad un capo di imputazione che, al momento della sua formulazione, non ha tenuto conto della realtà fenomenica emersa a seguito delle indagini preliminari svolte in rapporto alla fattispecie contestata.
Con la sentenza in commento, infatti, la Quinta sezione della Cassazione[10] si è occupata del concorso apparente di norme con riferimento alle fattispecie incriminatrici previste dall’art. 453 c.p. in tema di acquisto e spendita di banconote false. La citata sentenza, seppur breve, è densa di diversi argomenti tra quelli più sopra richiamati che, a loro volta, sono strettamente interconnessi con due ulteriori temi di fondo: il divieto di bis in idem[11] e il post factum non punibile[12].
Alla luce della complessità dei temi sopra richiamati, appare opportuno dapprima inquadrare la fattispecie concreta, in fatto e in diritto, da cui ha avuto origine la vicenda in parola, per poi trattare le menzionate tematiche ad essa sottese.
2 – Il fatto concreto ed il suo inquadramento nelle fattispecie incriminatrici previste dall’art. 453 c.p.
Nel caso di specie, l’imputata veniva condannata per aver acquistato e ricevuto da un falsario una somma di denaro in banconote false e per averle spese, una volta ricevute, per l’acquisto di articoli di vario genere. Le due fattispecie – rispettivamente quelle previste dagli artt. 453 n. 4 e n. 3 c.p. – venivano contestate altresì con le aggravanti di cui all’art. 61 nn. 2 e 5 c.p.
La sentenza di primo grado veniva parzialmente riformata dalla Corte di appello territorialmente competente in virtù dell’avvenuta prescrizione di due ulteriori capi di imputazione, per l’effetto della quale veniva rideterminata la pena in relazioni ai citati reati (si ribadisce: l’acquisto e la ricezione di banconote false ai sensi dell’art. 453 n. 4 c.p. e la spendita delle medesime di cui all’art. 453 n. 3 c.p.). Nel resto, la sentenza di appello confermava le circostanze aggravanti riconosciute con la sentenza di primo grado.
Al contrario, la sentenza qui annotata ha ricondotto la fattispecie della spendita di banconote false di cui all’art. 453 n. 3 c.p. nell’alveo del reato di acquisto e ricezione di banconote false di cui al successivo n. 4, ritenendo il primo reato assorbito nel secondo ed escludendo altresì la configurazione dell’aggravante del nesso teleologico ai sensi dell’art. 61 n. 2 c.p. Conseguentemente, la Corte ha annullato la sentenza impugnata limitatamente al trattamento sanzionatorio e al giudizio di bilanciamento con rinvio ad altra sezione della Corte di appello competente.
È evidente, dunque, che le sentenze di condanna dei due giudizi di merito e, ancor prima, le contestazioni formulate dalla Pubblica Accusa – sebbene apparentemente rispondenti alla realtà fenomenica – non aderissero alla legge penale.
Ed infatti, nelle ipotesi di norme incriminatrici a fattispecie plurima, quali l’art. 453 c.p., la Cassazione aveva già fornito indicazioni utili al fine di consentire una corretta individuazione della fattispecie contestata, prevedendo che “in tema di falso in monete, avendo l’art. 453 cod. pen. natura giuridica di norma incriminatrice a fattispecie plurima, deve escludersi il concorso formale di reati quando il fatto integri più condotte tipiche e queste vengano realizzate senza apprezzabile soluzione di continuità sul medesimo oggetto materiale”[13], poiché “le stesse perdono la loro individualità e rimangono assorbite nella più grave di esse”[14].
La sentenza qui annotata riprende l’orientamento espresso nelle massime già indicate, nella parte in cui ritiene che le condotte poste in essere dall’imputata siano attinte da contiguità cronologica e convergano sullo stesso oggetto materiale attraverso la condotta di acquisto di banconote false immediatamente precedente e la loro successiva cessione, concludendo per l’assorbimento della seconda fattispecie (la spendita) nella prima (l’acquisto e la ricezione).
A ben vedere, già da una rapida lettura della fattispecie di cui all’art. 453 n. 4 c.p., si può giungere ad una prima conclusione intermedia.
Prima di qualsivoglia interpretazione giurisprudenziale e dottrinale, infatti, è proprio la littera legis ad indicare all’interprete che la fattispecie in esame si applica a chiunque acquisti o riceva le monete contraffatte con il fine specifico di «metterle in circolazione». In tal modo, sembrerebbe che il delitto di cui all’art. 453, n. 4 c.p. includa già al proprio interno la fattispecie prevista al n. 3 dell’art. 453 c.p.
In realtà, dal raffronto strutturale tra le due norme emerge un autonomo campo applicativo per ciascuna di esse[15], che, purtuttavia, nel caso in considerazione è coinciso.
In particolare, sebbene il reato di spendita di banconote false sia punito autonomamente dall’art. 453 n. 3, non può non rilevarsi come la condotta rappresentata dalla spendita possa sovrapporsi altresì con il fine di mettere in circolazione le citate banconote. Vi è da chiedersi, difatti, in che altro modo il fine menzionato debba conseguirsi, se non proprio attraverso una messa in circolazione delle monete false, che, per logica, si attua tramite la spendita di queste ultime.
Inoltre, sia consentita sul punto una considerazione extragiuridica: non si comprende quale possa essere la ragione sottesa all’acquisto di banconote false, se non con l’ulteriore proposito di spenderle in seguito.
Non solo. A ciò si aggiunga che, tra le condotte elencate nell’art. 453 n. 3 c.p., figura anche quella di «mettere altrimenti in circolazione monete contraffatte o alterate».
Si potrebbe affermare, allora, che l’elemento della messa in circolazione di monete false coincida, in taluni casi, con una delle condotte del reato nella fattispecie prevista dall’art. 453 n. 3 c.p. e, al contempo, con l’elemento soggettivo del reato nel delitto di cui all’art. 453 n. 4 c.p. Ne deriva che solo da un raffronto “interstrutturale” tra gli elementi fattuali e le due diverse fattispecie incriminatrici sarà possibile annoverare la messa in circolazione nell’elemento oggettivo o soggettivo del reato.
Appare, dunque, quantomai opportuno il correttivo svolto dalla Corte nella sentenza in commento, che, in tal modo, ha ripristinato la corretta applicazione della legge penale.
3 – Brevi cenni sul principio dell’assorbimento e sui recenti approdi della giurisprudenza.
Come premesso, la questione giuridica sottesa alla sentenza in commento deve individuarsi nell’enucleazione delle regole che governano il concorso apparente di norme. Posto che il tema si manifesta ogni qual volta una condotta sia apparentemente sussumibile sotto più norme incriminatrici, assumono notevole rilevanza le teorie dei criteri volti alla risoluzione del concorso apparente medesimo.
Le due teorie antitetiche in questione sono, come noto, la tesi monistica e le tesi pluralistiche.
La prima corrente propugna l’applicazione di un unico criterio, individuato nella specialità di cui all’art. 15 c.p., per l’individuazione della singola disposizione concretamente applicabile. Secondo tale prospettiva, pertanto, si dovrebbe applicare la norma speciale rispetto a quella di carattere generale.
D’altra parte, le tesi pluralistiche sostengono che esistono ulteriori criteri in grado di intervenire in aggiunta al criterio di specialità, nel caso in cui attraverso quest’ultimo non sia possibile individuare la fattispecie incriminatrice concretamente applicabile[16].
Di recente, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione hanno ribadito il principio di specialità come l’unico criterio idoneo a risolvere un eventuale concorso apparente di norme, poiché rispetta integralmente il principio di legalità. Pertanto, tale criterio è da considerarsi come il «parametro euristico di riferimento».
Di conseguenza, “il criterio di specialità̀ deve intendersi e applicarsi in senso logico-formale. Il presupposto della convergenza di norme, perché́ risulti applicabile la regola sulla individuazione della disposizione prevalente ai sensi dell’art. 15 c.p., risulta integrato solo da un rapporto di continenza tra fattispecie, alla cui verifica deve procedersi attraverso il confronto strutturale tra le norme incriminatrici astrattamente configurate, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie di reato” [17].
Se da un lato, dunque, il principio della specialità è stato disciplinato dal legislatore, nonché riconosciuto dalla giurisprudenza di legittimità, quale unico criterio di risoluzione del concorso apparente di norme, d’altro canto, non può sottacersi la necessarietà dell’intervento di ulteriori criteri di soluzione del concorso di norme.
Come si dirà meglio nel prosieguo[18], infatti, benché a volte sia lo stesso ordinamento a prevedere in modo espresso l’esclusione del concorso reale di norme, taluni considerano possibile ricavare dal sistema un criterio generale ulteriore rispetto al criterio di specialità, rispettivamente nel cd. ne bis in idem sostanziale[19], considerandolo “come risultato normativo dell’elaborazione dogmatica di un’istanza-guida di giustizia materiale che non tollera l’addebito plurimo di un medesimo fatto quante volte l’applicazione di una sola delle norme cui il fatto in teoria corrisponde ne esaurisca l’intero contenuto di disvalore sul terreno oggettivo e soggettivo”[20].
Ora, sebbene il principio del ne bis in idem sostanziale riveli che, in alcuni casi, il criterio di specialità non è di per sé sufficiente a riconoscere che il concorso di reati sia apparente, il principio stesso è considerato un criterio valoriale, che, in quanto tale, non può trovare spazio se non di concerto con le regole prescritte dal legislatore[21]. In altre parole, il ne bis in idem viene riconosciuto come principio argomentativo, di politica criminale, che può essere richiamato in sede interpretativa purché in ossequio al principio di specialità di cui all’art. 15 c.p.[22].
In questo delicato equilibrio, si inserisce il principio di consunzione[23], meglio noto come principio dell’assorbimento, secondo cui si applica la norma che prevede la pena più grave o comunque che esaurisce l’intero disvalore oggettivo e soggettivo del fatto[24] («lex consumens derogat legi consumptae»).
In questo senso, il criterio di assorbimento opererebbe quando tra ambedue le fattispecie considerate sussista un rapporto di continenza necessario, ovverosia quando la commissione del fatto previsto dal reato assorbente è accompagnata dal naturale perfezionarsi della fattispecie assorbita. In tali casi, ciò si riflette inevitabilmente nella determinazione della pena da parte del legislatore, in modo tale che il complessivo disvalore del fatto si esaurisce con l’applicazione della sanzione – più severa – prevista per il reato principale. Di fatto, l’ulteriore irrogazione della pena relativa al reato assorbito determinerebbe una intollerabile duplicazione dell’intervento sanzionatorio dello Stato[25].
È interessante segnalare che, dal canto suo, la giurisprudenza di legittimità ha ravvisato il principio di consunzione in fattispecie di cui le Sezioni Unite non sono ancora state chiamate a pronunciarsi[26]. Ed infatti, il riconoscimento del solo criterio di specialità per la risoluzione del concorso apparente di norme è avvenuto esclusivamente con riferimento a particolari ipotesi di alcune fattispecie incriminatrici[27]. Ciononostante, si deve comunque ritenere che il principio di diritto enunciato dalle Sezioni Unite sia valevole per tutti i casi di concorso apparente di norme, salva diversa indicazione legislativa.
4 – Considerazioni critiche.
Pur potendosi condividere in generale, per i motivi suesposti, la soluzione adottata nella sentenza in commento, la conclusione raggiunta dalla Suprema Corte desta qualche perplessità.
Il primo punctum dolens risiederebbe, infatti, nel rapporto intercorrente tra le fattispecie incriminatrici di cui all’art. 453 nn. 3 e 4 c.p. Ed infatti, all’esito della disamina svolta sub II, si potrebbe constatare come in realtà la Corte di Cassazione abbia applicato il criterio di specialità, mentre l’assorbimento può considerarsi al più come il risultato di tale processo applicativo.
In effetti, nel caso concreto, la fattispecie di acquisto e ricezione delle monete falsificate risulta speciale rispetto a quella rappresentata dalla mera spendita[28], in virtù del già citato raffronto tra le due fattispecie.
L’elemento comune ad entrambe le ipotesi, allora, corrisponderebbe alla messa in circolazione, alla spendita, mentre gli elementi specializzanti sarebbero rappresentati dalle condotte di acquisto e di ricezione.
Il risultato sarebbe stato senz’altro diverso nell’ipotesi in cui, oltre all’acquisto e alla ricezione, la spendita si fosse accompagnata da un’ulteriore condotta – ad esempio, l’introduzione delle banconote false nel territorio dello Stato. In quest’ultimo caso, è evidente che ambedue le fattispecie avrebbero assunto autonoma rilevanza, sottostando alle regole ordinarie del concorso di reati.
Una simile interpretazione permetterebbe alla sentenza in commento di non entrare in conflitto con il principio di diritto espresso dalle Sezioni Unite del 2017, aderendo all’impostazione monistica, secondo cui il principio di specialità è l’unico strumento espressamente previsto dal legislatore nella risoluzione dei conflitti tra fattispecie incriminatrici[29].
Nel caso de quo, purtuttavia, l’utilizzo del criterio dell’assorbimento da parte della Quinta sezione della Corte di Cassazione non presenta solo l’inconveniente di collidere con l’orientamento espresso dalle Sezioni Unite, bensì anche quello di aver proceduto a far assorbire il reato più grave in quello meno grave.
L’ulteriore busillis è rappresentato, infatti, dalla circostanza che il reato di spendita (rimasto soccombente) risulta essere di maggiore gravità rispetto al reato di acquisto e di ricezione.
A tale conclusione si perviene per due principali ragioni.
Innanzitutto, occorre premettere che le fattispecie in parola sono punite con lo stesso quantum di pena, sicché non è possibile ricorrere al principio di rilevanza giuridica secondo cui si applica la sanzione capace, di per sé, di esaurire completamente il disvalore dell’azione[30]. Ne discende che l’indagine sulla maggiore gravità delle anzidette fattispecie dovrà necessariamente prendere le mosse da elementi differenti rispetto al trattamento sanzionatorio.
La prima ragione risiede, infatti, nell’apprezzamento del bene giuridico tutelato dalle due norme. Esso è rappresentato in entrambe le fattispecie dalla pubblica fede, definita come la fiducia che la collettività ripone nella genuinità e veridicità delle monete[31]. In particolare, la giurisprudenza ha specificato che entrambi i delitti contenuti nell’art. 453 c.p. sono reati di pericolo, posti a tutela dell’interesse patrimoniale dell’istituto di emissione, dei privati nonché della collettività, sub specie di fede pubblica nella legalità della circolazione monetaria[32].
La seconda ragione, invece, è consequenzialmente logica rispetto alla prima. Con la condotta di spendita, il soggetto agente immette nell’economia circolare monete contraffatte che, pertanto, continuano a fluire all’interno del mercato con conseguenze notevolmente rischiose. È indubbio, invece, che l’acquisto e la ricezione di banconote false, quando non seguiti da alcuna successiva condotta, comportino un pericolo considerevolmente inferiore.
A tali considerazioni, inoltre, deve affiancarsi quella sul limite applicativo al criterio dell’assorbimento derivante dalla voluntas legislatoris. Ed infatti, se il reato primario o assorbente prevede una pena meno severa o uguale rispetto al reato soccombente, si deve considerare l’ipotesi che il legislatore abbia voluto punire autonomamente i fatti considerati. Pertanto, invece di avere una convergenza solo apparente tra le norme, andranno applicate, in tali circostanze, le norme sul concorso di reati[33].
Al contrario, nel caso in cui il legislatore abbia previsto una pena più grave per il reato assorbente, il principio della lex consumens derogat legi consumptae potrà operare e il reato soccombente, punito con una pena inferiore, resterà assorbito nel primo.
Alla luce di tale interpretazione, è plausibile arguire che la spendita o la messa in circolazione di monete contraffatte costituisca una fattispecie delittuosa affetta da una maggiore gravità rispetto a quelle di acquisto e di ricezione delle stesse.
Di conseguenza, pur condividendo l’obiettivo finalistico della Corte, si rileva che su questo specifico aspetto si potrebbe avanzare una diversa interpretazione: il reato più grave (la spendita) avrebbe dovuto assorbire quello meno grave (l’acquisto e la ricezione), in quanto in grado di esaurire in sé l’intero disvalore penale del fatto, anziché il contrario.
5 – Una possibile alternativa: il post factum non punibile.
Rilevate le sopra esposte criticità, si tenterà di ricercare una soluzione alternativa a quella adottata dalla Suprema Corte e, al contempo, aderente al principio di specialità ai sensi dell’art. 15 c.p.
Sovente in dottrina si suole accostare ogni ragionamento sul concorso apparente di norme con le categorie del post factum edell’ante factum non punibile, benché la giurisprudenza sia restia a riconoscerle. Al contrario, dal post factum non punibile è possibile trarre un utile spunto per la sentenza in commento.
Si proceda con ordine.
Come noto, il concorso apparente di norme può delinearsi in due gruppi di casi.
Il primo gruppo viene in considerazione allorché vi sia un unico fatto concreto, scaturente da un’unica azione od omissione, sussumibile nell’alveo di una pluralità di norme incriminatrici, una sola delle quali concretamente applicabile.
Il secondo gruppo si realizza, invece, quando vi siano più azioni od omissioni, logicamente separate tra loro, ciascuna riconducibile ad una fattispecie incriminatrice e di cui risulta applicabile una sola di esse. Il fatto antecedente o susseguente a quello concretamente punito rimarrà in quest’ultimo «assorbito» e, pertanto, non punito[34].
Ne consegue che l’ante factum e il post factum non punibili sono quei fatti che, secondo l’id quod plerumque accidit, anticipano oppure susseguono cronologicamente un fatto di reato[35].
Al di là delle previsioni espresse[36] racchiuse nelle diverse fattispecie incriminatrici, parimenti è stato ritenuto[37] che sussistano ipotesi tacite dell’una e dell’altra categoria. In particolare, per ciò che attiene al post fatto non punibile, le clausole di riserva «fuori dei casi di concorso nel reato» antecedente o «fuori dei casi preveduti nell’articolo o negli articoli precedenti» vengono considerate indicatori di quest’ultimo.
A ben vedere, si è innanzi ad un post factum non punibile ogni qual volta il secondo reato costituisca il normale sviluppo della condotta precedente – rectius del primo reato – con cui il soggetto agente raggiunge oppure consolida i vantaggi derivanti dal primo.
Tenendo presente le posizioni correnti sulla natura giuridica delle suddette categorie[38], che – per esigenze di brevità – non possono essere interamente riportate in questa sede, si può tentare di fornire una diversa soluzione della vicenda sottesa alla sentenza in commento, riconducendo all’interno della categoria del post factum non punibile la fattispecie di spendita di banconote false di cui all’art. 453 n. 3 c.p. in caso di precedente acquisto delle stesse.
Di seguito verrà fornito qualche esempio in grado di dimostrare la praticabilità di una simile interpretazione.
In tema di falsità in monete, chi contraffà carta filigrana è punito ai sensi dell’art. 460 c.p. «solo se il fatto non costituisce più grave reato»; ed infatti, se colui che ha falsificato la carta filigrana se ne serve, poi, per contraffare monete, sarà punito a norma dell’art. 453 n. 1 c.p. In tal caso, la contraffazione della carta assumerà i connotati dell’ante factum non punibile.
Un altro esempio[39] può ricavarsi dall’art. 455 c.p., il quale punisce chi spende o mette altrimenti in circolazione monete falsificate «fuori dei casi preveduti dai due articoli precedenti». Di conseguenza, nel caso di soggetto che prima contraffà, in qualità di autore o partecipe, le monete e successivamente le mette in circolazione, questo sarà punito a norma dell’art. 453 n. 1, dovendosi considerare la spendita e la messa in circolazione come post factum non punibili.
I precedenti due esempi costituiscono ipotesi espresse di ante fatto e post fatto non punibili. Al contrario, si potrebbe sostenere che la sentenza in commento offra un’ipotesi tacita di post factum non punibile, in parte ricavabile dai suesposti esempi.
La locuzione usata dal legislatore nell’art. 453 n. 4 c.p. («al fine di metterle in circolazione») dà per scontato, infatti, che l’acquisto e la ricezione siano avvenuti proprio per spendere le monete contraffatte. La ratio della citata fattispecie delittuosa si attesterebbe sulla fase antecedente – rappresentata dall’acquisto e dalla ricezione – in cui si entra in possesso del denaro contraffatto, dovendosi considerare la spendita come l’esito naturale delle precedenti condotte.
A riprova di ciò, è necessario considerare che le norme inerenti al concorso di reati trovano applicazione a meno che non sia lo stesso legislatore a regolare, in relazione a specifiche tipologie di reato, l’assorbimento del reato che costituisce la premessa logica o la conseguenza naturale del reato più grave, stabilendo una forma di “unificazione legale”[40]. La questione richiede, quindi, una valutazione interpretativa, da affrontare in modo specifico per ogni singolo caso.
D’altronde, nel caso de quo,la logica del sistema creato dal legislatore è proprio quella di tutelare il bene giuridico della pubblica fede mediante più previsioni complementari tra loro, a seconda degli elementi fattuali che, di volta in volta, si presentano[41].
Se così stessero le cose, allora, saremmo di fronte ad un’ipotesi – seppur non espressamente sancita – di post fatto non punibile, in cui la spendita di monete contraffatte è necessaria, prodromica e naturalmente susseguente all’acquisto e alla ricezione delle medesime.
Una dettagliata analisi svela, tuttavia, che la prospettiva del post factum non punibile non risulta del tutto pervasiva. Quest’approccio, pur rispettando la sovranità del criterio di specialità contemplato dall’art. 15 c.p., non è in grado di giustificare integralmente l’assorbimento della condotta di spendita nell’alveo della fattispecie di acquisto e di ricezione ai sensi dell’art. 453 n. 4 c.p., senza incorrere nelle criticità sopra esposte.
In altre parole, se da un lato il ricorso alla categoria del post fatto non punibile non entra in conflitto con il criterio della specialità, dall’altro lato ciò non impedisce l’assorbimento di un reato più grave (la spendita) all’interno di quello meno grave (l’acquisto e la ricezione).
6 – Conclusioni.
All’esito di questa breve analisi, risulta opportuno proporre alcune fondamentali conclusioni di quanto è stato discusso.
Giunti a questo punto, è ben noto l’orientamento ormai granitico dei giudici di legittimità, secondo il quale il criterio di specialità rappresenta l’unico mezzo predisposto dal legislatore per risolvere il concorso apparente di norme. Come enunciato in premessa, ciò porta inesorabilmente ad un ampliamento della sfera applicativa del concorso di reati; soluzione che, d’altra parte, pare essere in auge nella giurisprudenza della Cassazione[42].
Inoltre, si è evidenziato come tra le fattispecie di cui all’art. 453 nn. 3 e 4 c.p. possa sussistere un rapporto di specialità in concreto, senza la necessità di ricorrere al criterio dell’assorbimento. Tuttavia, in questo caso, risulta difficile spiegare la decisione della Corte di sussumere il reato di spendita all’interno dell’acquisto o della ricezione.
Pertanto, si è cercato di esplorare una via alternativa, rappresentata dal post factum non punibile. Come è emerso, anche questa interpretazione lascia irrisolto il nodo sull’assorbimento del reato più grave in quello meno grave.
Si deve quindi concludere che il risultato della sentenza in esame sia erroneo: la Cassazione avrebbe dovuto disporre l’assorbimento del reato di acquisto e di ricezione delle monete contraffatte all’interno della fattispecie più grave di spendita di cui all’art. 453 n. 3 c.p., al più considerando l’acquisto e la ricezione come ante fatti non punibili.
A nostro avviso, tuttavia, in tali circostanze l’impasse può essere superata da una interpretazione delle fattispecie basata sul raffronto strutturale tra di esse.
Nel caso in cui si constati l’applicabilità del principio di specialità, anche attraverso l’applicazione del principio del ne bis in idem o dell’idem legale, allora nulla quaestio.
In caso contrario, dovrebbe nondimeno prediligersi l’esclusione del concorso di reato ogni qual volta l’applicazione di “una delle sanzioni da irrogare possa considerarsi «superflua» in relazione al fine di proteggere gli interessi alla cui tutela essa è concretamente adibita, già adeguatamente salvaguardati dall’applicazione della sola norma incriminatrice principale”[43].
In quest’ultima circostanza, infatti, occorre ricondurre la problematica in questione ai comuni problemi di interpretazione[44]; così, come del resto, si parla di interpretazione nell’applicazione del criterio di specialità.
[1] Per un approfondimento sul tema, si v. G. Serra, Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norme, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, in Diritto penale contemporaneo, 2017, fascicolo n. 17.
[2] L. Bin, Unità e pluralità nel concorso di reati, Torino, 2022, 111 ss.
[3] F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966.
[4] In dottrina si v. F. Antolisei, Concorso formale di reati e conflitto apparente di norme, in Giust. pen., 1942, 209; G. De Francesco, Lex specialis. Specialità ed interferenza nel concorso di norme penali, Milano, 1980; F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, Bologna, 1966; A. Moro, Unità e pluralità di reati, Padova, 1954; M. Siniscalco, Il concorso apparente di norme nell’ordinamento penale italiano, Milano, 1961.
[5] F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme nel diritto penale, ibidem.
[6] Cass. pen., sez. un., sent. 22 giugno 2017, n. 41588.
[7] Ad esempio, Cass. pen., sez. II, sent. 14 gennaio 2019, n. 21987, secondo cui “il reato di detenzione e diffusione abusiva di codici di accesso a servizi informatici o telematici è assorbito in quello di accesso abusivo ad un sistema informatico o telematico, del quale il primo costituisce naturalisticamente un antecedente necessario, ove il secondo risulti contestato, procedibile e integrato nel medesimo contesto spaziotemporale in cui fu perpetrato l’antefatto e in danno dello stesso soggetto”. In questo caso, la S.C. ha utilizzato la categoria dell’ante fatto non punibile, per eludere il principio di diritto delle Sezioni Unite del 2017.
[8] L’oscillazione delle sezioni semplici sui confini dell’operatività del criterio di specialità deve individuarsi nella “peculiarità delle molteplici fattispecie concrete” che, di volta in volta, si presentano, così come rilevato dall’Ufficio del Massimario, in Rassegna della giurisprudenza di legittimità – Gli orientamenti delle Sezioni Penali, 2017, in www.cortedicassazione.it.
[9] L. Bin, Unità e pluralità nel concorso di reati, ibidem, 140 s.
[10] Cass. pen., sez. V, sent. 24 marzo 2023, n. 18891.
[11] Secondo il principio del ne bis in idem sostanziale, il medesimo fatto non può essere addebitato più volte allo stesso soggetto “qualora l’applicazione di una sola delle norme in cui il fatto è sussumibile ne esaurisca, per intero, il contenuto di disvalore sia da un punto di vista oggettivo, che soggettivo”, G. Ranaldi-F. Gaito, Introduzione allo studio dei rapporti tra ne bis in idem sostanziale e processuale, in Archivio penale, 2017, fascicolo n. 1, 9 ss.
[12] G. Vassalli, voce Antefatto non punibile, postfatto non punibile, in Enc. dir., II, 1958, 505 ss.
[13] Cass. pen., sez. V, sent. 7 giugno 2012, n. 37632, Baldari e altri, Rv. 254559.
[14] Così Cass. pen., sez. III, sent. 17 novembre 2021, n. 3323, Bruno, Rv. 282699, con riferimento alle fattispecie di cui all’art. 73 d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309.
[15] Le differenze strutturali sono varie: ad esempio, l’elemento soggettivo corrisponde, rispettivamente, al dolo generico nel primo caso e al dolo specifico nel secondo. Ancora, le condotte richieste ai fini dell’integrazione delle fattispecie sono parzialmente diverse tra loro: da un lato, l’introduzione nel territorio dello Stato, la detenzione, la spendita o la messa in circolazione, dall’altro l’acquisto o la ricezione delle monete contraffatte.
[16] Dopo il principio di specialità, le teorie pluralistiche individuano il principio di sussidiarietà e il principio di consunzione quali criteri di risoluzione del concorso apparente di norme. Riassumendo, la sussidiarietà si verifica quando una norma di rango inferiore, quale norma sussidiaria appunto, si subordina alla norma principale. Quest’ultima, oltre a tutelare il medesimo bene giuridico presidiato dalla prima norma, provvede alla salvaguardia di uno o più beni giuridici ulteriori ovvero sanziona una forma di offesa più grave allo stesso bene. Dal canto suo, la giurisprudenza ha riconosciuto l’operatività del criterio di sussidiarietà in presenza delle cd. clausole di riserva (si v. Cass. pen., sez. V, sent. 2 maggio 2019, n. 30455).
Il criterio di consunzione – meglio noto come criterio dell’assorbimento – “determina una fondamentale unità di disvalore oggettivo e soggettivo: a tale unità corrisponde una unicità di valutazione giuridica alla stregua della norma che prevede la pena più grave, unicità che, evitando la violazione del ne bis in idem, fa salva un’esigenza di giustizia materiale e di razionalità dell’ordinamento”, così M. Romano, Commentario sistematico del Codice Penale, I, Milano, 2004, 172. Con riferimento alla giurisprudenza, si v. Cass. pen., sez. VI, sent. 10 aprile 2019, n. 18572,
[17] Il riferimento, ancora una volta, è a Cass. pen., sez. un., sent. 22 giugno 2017, n. 41588.
[18] Infra §5.
[19] Il divieto di bis in idem deve il proprio successo alla CEDU, in particolare alla nota sentenza “Grande Stevens” (Corte europea dei diritti dell’uomo, sez. II, sent. 4 marzo 2014, n. 18640). In quest’ultima, la Corte EDU prende una posizione in parte divergente riguardo al primato del principio di specialità. Essa ritiene che, per determinare la violazione del principio del ne bis in idem, sia essenziale valutare se i fatti specifici oggetto di imputazione coincidano o meno, risultando al contempo irrilevante la struttura astratta delle fattispecie.
Nel panorama nostrano, invece, è opportuno segnalare la pronuncia con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. nell’interpretazione datane dal diritto vivente, Corte cost., sent. 21 luglio 2016, n. 200. Per un approfondimento sul tema, si v.: R. Calò, Divieto di doppio processo – La dimensione costituzionale del divieto di doppio processo, in Giur. It., 2016, 10, 2240; L. Delbono, Concorso di norme e bis in idem sostanziale dopo la sentenza della Corte cost. 200/2016, in Giurisprudenza penale, 2018, fascicolo n. 2; G. Di Chiara, Osservatorio Corte costituzionale – Ne bis in idem, nozione di idem factum e concorso formale di reati tra ordinamento interno e garanzie CEDU, in Dir. Pen. e Proc., 2016, 9, 1171; D. Pulitanò, Ne bis in idem. Novità dalla Corte costituzionale e problemi aperti, in Dir. pen. e proc., 2016, 12, 1588.
[20] M. Romano, Commentario sistematico del Codice Penale, I, ibidem, 165; Cass. pen., sez. un., sent. 28 marzo 2001, n. 22902.
[21] L. Bin, Il reato eventualmente complesso come (unica) ipotesi di concorso apparente ulteriore rispetto alla specialità. L’esempio del rapporto tra incendio e disastro ambientale, in Legislazione penale, 2023, 12 ss.
[22] Per una trattazione completa ed approfondita, si rimanda interamente a L. Bin, Unità e pluralità nel concorso di reati, ibidem, 198 ss.
[23] Secondo una parte della dottrina, il principio di consunzione troverebbe il proprio fondamento normativo nell’inciso finale dell’art. 15 c.p., il quale consente di derogare al principio di specialità nei casi previsti dalla legge, cfr. A. Pagliaro, Principi di diritto penale. Parte generale, Milano, 2000, 548.
[24] A. Pagliaro, voce Concorso di norme, in Enc. dir., VIII, Milano, 1961, 551 ss.
[25] E. Mezzetti, Diritto penale. Dottrina, casi e materiali, Bologna, 2023, 182.
[26] Il riferimento è a quell’orientamento costante che ritiene vi sia assorbimento del reato di riduzione in schiavitù in danno di persona convivente con quello di maltrattamenti contro i familiari, ex multis Cass. pen., sez. V, sent. 8 giugno 2022, n. 26429; Cass. pen., sez. V, sent. 11 febbraio 2016, n. 35115.
[27] A titolo esemplificativo, nei reati previsti da leggi speciali in tema di armi, di sottrazione o danneggiamento di cose sottoposte a sequestro ex art. 334 c.p. o, infine, di dichiarazione fraudolenta mediante uso di fatture per operazioni inesistenti con la truffa aggravata ai danni dello Stato.
[28] L. Bin, Unità e pluralità nel concorso di reati, Torino, 2022, p. 424 e ss., secondo l’Autore “non si può negare un rapporto di specialità tra una fattispecie e l’altra solo perché quella speciale è contenuta in una disposizione che prevede anche altre modalità di realizzazione alternative, perché un tale formalismo pregiudicherebbe un’interpretazione della specialità come forma di attuazione del principio di colpevolezza, imponendo una duplice commisurazione della sanzione sulla base del mero dato che una delle due fattispecie contiene una modalità la cui realizzazione rispetto all’altra è del tutto irrilevante”.
[29] In dottrina, E. Mezzetti, Diritto penale. Dottrina, casi e materiali, ibidem, 183. Occorre sottolineare, infatti, che le Sezioni Unite del 2017 si pongono in linea di continuità con tale indirizzo interpretativo; cfr. Cass. pen., sez. un., sent. 20 dicembre 2005, n. 47164; Cass. pen., sez. un., sent. 28 ottobre 2010, n. 1963; Cass. pen., sez. un., sent. 28 ottobre 2010, n. 1235.
[30] M. Papa, Le qualificazioni giuridiche multiple nel diritto penale, Torino, 1997, 74 s.
[31] A. Fiorella, Questioni fondamentali della parte speciale del diritto penale, Torino, 2016, 605 ss.
[32] Cass. pen., sez. V, sent. 1° giugno 2011, n. 35774.
[33] E. Mezzetti, Diritto penale. Dottrina, casi e materiali, ibidem, 183.
[34] Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, Bologna, 2001, 725.
[35] E. Mezzetti, Diritto penale. Dottrina, casi e materiali, ibidem, 620.
[36] Su tali questioni A. Moro, Unità e puralità di reati, Padova, 1954, 92 ss.; G. Vassalli, voce Antefatto non punibile, postfatto non punibile, ibidem; F. Mantovani, Concorso e conflitto di norme, Bologna, 1966, 587 ss. Tali espressioni sono mutuate dalla dottrina tedesca che si esprime facendo riferimento allo straflose Vor-und Nachtat. La dottrina tedesca tende, però, a far rientrare, nella stessa nozione, le ipotesi di reato progressivo, progressione criminosa e il c.d. reato di passaggio Durchgangsdelikt. Sul punto Wessels-Beulke-Satzger, Strafrecht. Allgemeiner Teil, Monaco, 2013, 320 ss.
[37] G. Marinucci, E. Dolcini, G. L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Milano, 2021, 592.
[38] La dottrina ha elaborato teorie differenti sulla natura giuridica dell’ante fatto e del post fatto non punibile. In particolare, un primo orientamento li considera quali semplici manifestazioni del principio di sussidiarietà̀ o, a seconda delle posizioni, del principio di assorbimento (Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, ibidem, 724). Vi è, poi, chi ritiene che dovrebbero avere autonoma rilevanza e chi, contemporaneamente, ne sottolinea l’inutilità a seguito dell’estensione del reato continuato alle ipotesi di concorso eterogeneo (R. Galli, Nuovo corso di diritto penale, Padova, 2017, 922). Infine, tra questi vi sono coloro che equiparano l’ante factum e il post factum non punibili alle ipotesi di reato complesso o di reato progressivo (sempre R. Galli, Nuovo corso di diritto penale, ibidem, 923).
[39] Lo stesso esempio è citato in Fiandaca-Musco, Diritto penale. Parte generale, ibidem, 725.
[40] E. Mezzetti, Diritto penale. Dottrina, casi e materiali, ibidem, 621 s.
[41] Anche in altre fattispecie incriminatrici, il legislatore ha previsto un simile sistema. Basti pensare agli artt. 640-bis, 316-bis e 316-ter c.p., fattispecie poste a tutela dei finanziamenti pubblici in qualsiasi fase e modo avvenga la distrazione delle risorse pubbliche.
[42] Il riferimento è a Cass. pen., sez. un., sent. 23 febbraio 2017, n. 20664, in cui è stato ritenuto possibile il concorso tra il reato di malversazione in danno dello Stato ex art. 316-bis c.p. e il reato di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche di cui all’art. 640-bis c.p.
[43] S. Bernardi, La Suprema Corte alle prese con il “principio di assorbimento” in una recente sentenza in materia di abuso d’ufficio, in Diritto penale contemporaneo, 2017, fascicolo n. 6.
[44] C. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Torino, 1996, 172.