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Il contrasto e la repressione dell’intermediazione illecita e dello sfruttamento del lavoro: il caso Uber

 

 

Sommario. 1. Premessa – 2. Il caso Uber: la proposta di amministrazione giudiziaria – 3. Gli elementi costitutivi del nuovo delitto di cui all’art. 603 bis c.p. – 4. Il decreto delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano –  5. Conclusioni

 

 

  1. Premessa

 

La recente decisione con cui il Tribunale di Milano[1] ha disposto l’amministrazione giudiziaria nei confronti della società UBER Italy S.r.l., ha sollecitato un approfondimento sulle implicazioni economiche derivanti dallo sfruttamento lavorativo e stimolato una riflessione sul ricorso ad istituti – quali quello della amministrazione giudiziaria ex art. 34 del Codice antimafia – funzionali a prevenire od evitare efficacemente le distorsioni del mercato del lavoro e, quindi, ad impedire il prodursi di conseguenze negative sul tessuto economico.

La Procura di Milano, in un primo momento, aveva richiesto l’attivazione dell’amministrazione giudiziaria nei confronti di UBER Portier B.V., società di diritto olandese, limitatamente all’unità organizzativa con sede nella periferia di Milano, ed ha successivamente esteso la richiesta – avanzata ai sensi dell’art. 34 D.Lgs. 159/2011 (come modificato dalla legge 161/2017) –  anche alla società UBER Italy S.r.l., ritenendo a quest’ultima ascrivibile, sotto il profilo di omesso controllo, un’attività agevolatrice in favore dei soggetti indagati del delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Ai sensi della disposizione da ultimo citata, il presupposto per l’applicazione della misura di prevenzione patrimoniale dell’amministrazione giudiziaria è la sussistenza di indizi sufficienti a ritenere che determinate attività economiche, anche di carattere imprenditoriale, siano state di ausilio o abbiano agevolato le attività: 1) di persone nei confronti delle quali sia stata proposta o applicata una misura di prevenzione; 2) di persone sottoposte a procedimento penale per reati di criminalità organizzata[2], reati di pubblici ufficiali contro la Pubblica Amministrazione in forma associativa[3], alcuni reati contro il patrimonio[4] e, come nel caso in esame, di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ex art. 603 bis c.p.

Tale misura, stando ad un precedente dello stesso Tribunale[5],  deve intendersi avere finalità non “repressiva quanto preventiva, volta cioè non a punire l’imprenditore che sia intraneo all’associazione criminale, quanto a contrastare la contaminazione mafiosa (rectius, illecita) di imprese sane, sottoponendole a controllo giudiziario con lo scopo di sottrarle, il più rapidamente possibile, all’infiltrazione criminale e restituirle al libero mercato una volta depurate dagli elementi inquinanti”.

Con la modifica dell’art. 34 e l’introduzione dell’art. 34 bis del D.Lgs 159/11 ad opera della Legge n. 161/2017, il legislatore ha dunque inteso superare l’impostazione – sicuramente rigorosa ma poco “agile” ed anche poco efficace – secondo cui l’attività di prevenzione dell’infiltrazione di organizzazioni criminali nelle attività di carattere economico potesse avvenire solo attraverso gli istituti della confisca e del sequestro, mediante l’ablazione patrimoniale e la successiva acquisizione dei beni da parte dello Stato.

Attraverso tale modifica normativa, invece, si è voluto favorire il contrasto alla contaminazione antigiuridica delle imprese, con l’obiettivo di “depurarle dagli elementi inquinanti[6] e garantire nondimeno che l’attività economica continui senza sostanziali soluzioni di continuità che possano incidere negativamente sull’eventuale parte “sana” dell’azienda.

Pertanto, ai fini della applicazione di tale misura di prevenzione non rileva tanto la natura, illecita o meno, dell’attività economica in questione, quanto che essa sia in qualche misura coinvolta – in termini di agevolazione – in una condotta illecita altrui, e ciò anche qualora l’agevolazione sia esercitata con modalità lecite: non a caso il comma 1 dell’art. 34 espressamente richiede che non debbano ricorrere i presupposti per l’applicazione delle misure di prevenzione nei confronti dei soggetti titolari dell’impresa.

Ed invero, l’unico presupposto negativo previsto dalla norma è la mancanza di elementi per l’applicazione di una misura di prevenzione nei confronti dell’imprenditore o, comunque, di colui che sia preposto all’esercizio dell’attività economica agevolatrice.

Questi deve essere necessariamente soggetto terzo rispetto all’agevolato, e la sua attività imprenditoriale deve effettivamente rientrare nella sua disponibilità: al contrario, qualora l’imprenditore fosse un mero prestanome dell’agevolato, ricorrerebbero i presupposti per l’applicazione delle diverse misure del sequestro o della confisca di prevenzione che, come noto, possono aggredire l’intero patrimonio di cui il proposto possa disporre sia direttamente sia per interposta persona.

Sotto il profilo oggettivo, quindi, non è previsto che l’attività economica agevolatrice sia svolta mediante modalità illecite,  richiedendosi che essa abbia solo offerto un contributo per favorire o facilitare in qualche misura l’attività dei soggetti di cui si è detto, né presuppone che in capo all’agevolato sia stata giudizialmente accertata alcuna responsabilità penale; infatti questi può essere anche solamente proposto per una misura di prevenzione o indagato per uno dei reati sopra indicati.

Il soggetto terzo che abbia posto in essere l’attività agevolatrice – nel caso di specie rappresentato da una persona giuridica, la cui attività va interpretata, ovviamente, attraverso i comportamenti riconducibili alle persone fisiche che ricoprono ruoli di decisione, rappresentanza e controllo – deve aver tenuto una condotta che sia censurabile sotto il profilo della rimproverabilità colposa (secondo gli ordinari canoni della colpa generica), senza ovviamente postulare la sussistenza di una consapevole volontà di agevolare l’illecito; in quest’ultimo caso, infatti, la condotta, potrebbe essere qualificata come forma di partecipazione colpevole tipica del diritto penale[7].

Volendo seguire questa linea interpretativa, qualora si ravvisassero effettivamente i presupposti per un risanamento societario, sarebbe necessario predisporre, di concerto con l’Amministratore Giudiziario, un programma che sia idoneo ad impedire nuove infiltrazioni illegali, senza però comprimere eccessivamente il diritto di impresa (costituzionalmente protetto) mediante la predisposizione di strumenti di governance idonei ad evitare futuri incidenti di commistione con la criminalità organizzata; il pensiero va, evidentemente, ai modelli organizzativi previsti dal D.lgs 231/2001[8].

 

 

  1. Il caso Uber: la proposta di amministrazione giudiziaria

 

Nel caso in esame, l’Accusa aveva evidenziato un consistente quadro indiziario idoneo a sostenere, in relazione alle attività delle società per le quali era richiesta la misura, il loro carattere ausiliario rispetto alle condotte poste in essere da soggetti sottoposti a procedimento penale per il delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro ex art. 603 bis c.p.

In particolare, quanto alla ritenuta sussistenza – nella prospettiva de qua – del delitto presupposto per la applicazione della misura, l’organo proponente aveva segnalato l’esito di accertamenti svolti nei confronti di due enti giuridici, attivi nel settore del “pony express” per conto di Uber Italy, all’esito dei quali erano stati individuati tre soggetti ritenuti responsabili, a vario titolo, di una struttura societaria collegata in rapporto di partnership con la galassia Uber.

Più precisamente, sulla base delle sommarie informazioni testimoniali assunte da soggetti di etnia africana che avevano lavorato come riders, oltre che dalle conversazioni telefoniche intercettate e dai sequestri eseguiti durante le indagini, era stato possibile individuare una struttura organizzativa asseritamente illecita, caratterizzata, tra l’altro, dall’esistenza di rapporti lavorativi con personale non regolarmente assunto (sul punto, la proposta sottolinea anche l’anomalia per cui, sebbene lavorassero, di fatto, per Uber Italy, alcuni riders avessero rapporti contrattuali esclusivi con la sola casa madre Uber).

In particolare, si sosteneva che la società controllata Uber Italy S.r.l. si fosse servita di due società, con sede a Milano, che si occupavano di gestire l’organizzazione dell’attività di impresa, sia sotto il profilo della logistica che del reclutamento del personale, nelle diverse città italiane in cui Uber è presente.

La manodopera reclutata mediante l’intermediazione di tali due società era costituita in prevalenza da migranti, retribuiti a cottimo c.d. “puro” (3€ netti per ogni consegna), senza che sul prezzo potessero incidere, in senso migliorativo, variabili quali la distanza percorsa, le condizioni climatiche, l’orario notturno o il giorno festivo; vi era, al contrario, la possibilità che la retribuzione potesse essere ridotta di ulteriori 50 centesimi a consegna (c.d. malus), in relazione all’indice di gradimento del servizio o alla mancata cancellazione dell’ordine da parte dei destinatari dei prodotti alimentari, ovvero nel caso in cui lo stesso rider non avesse accettato almeno il 95% delle proposte di consegna[9].

Le attività di indagine avrebbero consentito, inoltre, di accertare che i reclutatori avevano approfittato dello stato di bisogno dei lavoratori (persone in situazioni economiche molto precarie e con permesso di soggiorno temporaneo), i quali, proprio in ragione di tale condizione, potevano essere facilmente indotti ad accettare condizioni di lavoro ai limiti del rispetto della dignità umana, caratterizzate da:

  • pagamenti irrisori;
  • condizioni e orari di lavoro incompatibili con il rispetto delle norme in materia di igiene e sicurezza sul lavoro;
  • dalla sistematica sottrazione delle mance da parte dei datori di lavoro.

Inoltre, per quanto ricostruito dalla Procura, sarebbero risultati frequenti ricorsi ad intimidazioni di ogni tipo, come la minaccia di non corrispondere il pagamento dovuto in relazione a consegne già effettuate e di inibire l’accesso all’account della piattaforma utilizzata per l’accettazione degli ordini[10].

È noto, infatti, che gli operatori economici del settore del food delivery, Uber incluso, ricorrano all’utilizzo di una piattaforma digitale (applicazione per dispositivi mobili) per favorire l’incontro di domanda e offerta di un servizio, garantendo la presenza di un vettore per la consegna.

Accanto a questa modalità “diretta” di somministrazione di un servizio, ne era prevista un’altra che nasceva dalla volontà di alcuni ristoratori di voler beneficiare di un determinato numero di riders per le proprie consegne.

Per andare incontro a queste nuove esigenze, si è infatti provveduto alla costituzione di una tipologia di società dette “fleet partners”, che si pongono come intermediari nella gestione delle flotte di riders, con diritto di esclusiva per grandi catene di ristorazione.

Gli indagati, nel caso di specie, apparterrebbero a quest’ultima categoria di reclutatori, ossia a coloro che, nell’interesse di grandi catene di ristoranti e fast food, garantivano la disponibilità di un numero certo di riders.

Sempre dalle indagini sarebbe emersa l’esistenza, tra la Uber Portier B.V. e le società di organizzazione delle flotte di riders, di un contratto di prestazione tecnologica diretto, alla luce del quale poter immaginare – senza tuttavia, come vedremo, determinare l’emissione di alcun provvedimento, e ciò in ragione dell’assenza di ulteriori elementi idonei a sostenere un coinvolgimento della holding – che quest’ultima avesse contezza delle modalità esecutive dell’attività illecita.

Al netto, però, della mancanza di indici di partecipazione consapevole della holding nell’attività degli indagati, rimaneva il dato per cui Uber Italy S.r.l. – controllata dalla società di diritto olandese – avrebbe comunque favorito l’attività imprenditoriale degli indagati[11].

La Procura della Repubblica di Milano ha quindi ritenuto che, attraverso la predisposizione di questo tipo di organizzazione, la Uber Italy S.r.l., quale articolazione territoriale italiana della holding olandese, avrebbe agevolato l’attività imprenditoriale di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro degli indagati, ovvero dei preposti delle due società di reclutamento: ha richiesto, pertanto, la sottoposizione ad amministrazione giudiziaria sia della società italiana sia della controllante olandese.

 

 

  1. Gli elementi costitutivi del nuovo delitto di cui all’art. 603 bisp.

 

Da quanto emerso in seguito alle indagini svolte, il Tribunale ha ritenuto esistenti sufficienti indizi per ipotizzare, in capo ai responsabili delle società di reclutamento, gli estremi del reato di cui all’art. 603 bis c.p., rubricato “intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro”, che la Legge 161 del 2017 ha inserito tra i reati in relazione ai quali, ai sensi dell’art. 34 del D.Lgs. 159/11, è possibile applicare, nei confronti del soggetto giuridico che abbia posto in essere una condotta agevolatrice in favore dell’indagato o imputato, la misura patrimoniale in esame.

La fattispecie prevista dall’art 603 bis c.p. è stata significativamente rimodellata con la L. 199/2016, contenente “disposizioni in materia di contrasto ai fenomeni del lavoro nero, dello sfruttamento del lavoro in agricoltura e di riallineamento retributivo nel settore agricolo”.

La norma, originariamente prevista dal D.L. 138/2011, convertito in L. 148/2011, è stata introdotta, attraverso lo strumento della decretazione d’urgenza in occasione di un intervento legislativo funzionale a fronteggiare un fenomeno – quello del caporalato – che, in quel momento, risultava oggetto di una profonda campagna di sensibilizzazione, e collocata all’interno della sezione dedicata ai delitti contro la personalità individuale.

La struttura della fattispecie, in ragione della formulazione letterale della norma, che non definiva il concetto di sfruttamento ma lo “indicizzava” mediante la previsione di una serie di indicatori, era risultata di applicazione particolarmente complessa, come dimostrato, invero, dal numero davvero esiguo sia di procedimenti , sia di sentenze di condanna per il reato in questione[12].

La portata del nuovo art. 603 bis c.p., al netto del carattere necessariamente relativo del concetto di sfruttamento – da cui discende, secondo autorevole giudizio, una forma di “tipicità debole” della fattispecie[13] – risulta più comprensibile se valutata attraverso gli interventi finalizzati a rimediare alle gravi lacune e distorsioni evidenziate in maniera unanime in dottrina[14], soprattutto con riferimento alla eccessiva selettività nell’individuare le condotte punibili.

Il vecchio art 603 bis c.p. sanzionava “chiunque svolgesse un’attività organizzata di intermediazione reclutando manodopera o organizzandone l’attività lavorativa caratterizzata da sfruttamento, mediante violenza, minaccia o intimidazione, approfittando dello stato di bisogno o di necessità dei lavoratori”.

Si erano previste, dunque, due fattispecie, una di reclutamento e un’altra di organizzazione, con una disposizione normativa che alcuna dottrina aveva definito non solo “strabica e distorsiva” in ragione di un’impropria qualificazione selettiva dei soggetti attivi del reato, ma anche “miope”[15], e ciò poiché la norma, anche sotto il profilo sanzionatorio, sembrava incoerente rispetto al dichiarato fine di tutelare la dignità umana nelle relazioni di lavoro[16].

Le incoerenze originarie della norma, che aveva “dimenticato” il datore di lavoro tra i soggetti attivi del reato, si erano acuite in seguito all’introduzione di un’aggravante speciale del delitto di occupazione di stranieri irregolari nell’art 22 c. 12 bis lett. c) D.Lgs. 286/98 (comma inserito ad opera del D.Lgs. 109/2012), che prevede una sanzione per il datore di lavoro che occupi alle proprie dipendenze lavoratori stranieri irregolari che siano sottoposti alle condizioni di particolare sfruttamento di cui al terzo comma del previgente art. 603 bis c.p., anche a prescindere dall’intermediazione nel reclutamento.

Ciò creava un’ingiustificata disparità di trattamento in caso di sfruttamento dei lavoratori, in base allo status giuridico (cittadino o straniero regolare ovvero straniero irregolare) dei soggetti passivi; ciò in quanto prima della modifica del 603 bis c.p. ad opera della Legge 199/2016, non risultavano salvaguardati i diritti di altre tipologie di lavoratori che, pur trovandosi nelle medesime condizioni di sfruttamento, non erano divenuti “oggetto” di intermediazione illecita.

Tra le ulteriori lacune della disciplina evidenziate dalla dottrina vi era anche l’omessa previsione della responsabilità amministrativa degli enti per il reato di cui all’art 603 bis c.p. e la incapacità dell’apparato sanzionatorio di aggredire, con misure patrimoniali efficaci, gli ingenti profitti che di solito derivano dall’esercizio di forme di sfruttamento lavorativo, soprattutto se effettuate su larga scala[17].

Il legislatore del 2016 ha, dunque, preso atto delle incongruenze e delle anomalie generate dalla confusa formulazione della previgente disciplina e ha cercato di rimediare alle più evidenti criticità.

In primo luogo è stata prevista una rilevanza penale diretta rispetto a fatti di sfruttamento posti in essere dal datore di lavoro.

Più precisamente, si è immaginata una fattispecie a tutela penale anticipata, che punisce il reclutatore extraneus rispetto al rapporto di impiego caratterizzato da sfruttamento (“chiunque […] recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi in condizioni di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno dei lavoratori”), e una seconda fattispecie che punisce direttamente il datore di lavoro sfruttatore (“chiunque […] utilizza, assume o impiega manodopera anche mediante l’attività di intermediazione di cui al n.1, sottoponendo i lavoratori a condizione di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”).

Secondo la nuova formulazione, dunque, il datore di lavoro è sempre punibile autonomamente. La norma non appare più incentrata esclusivamente sulla figura del caporale, ma sanziona allo stesso modo il datore di lavoro, ovvero colui che “utilizza, assume o impiega manodopera” reclutata anche – ma non necessariamente – mediante l’attività di intermediazione ovvero ricorrendo al caporalato.

A differenza da quanto accadeva sotto la vigenza del vecchio articolo 603 bis c.p., il datore di lavoro non è quindi più punibile solo a titolo di concorso con il caporale, ma per il solo fatto di sottoporre i lavoratori a condizioni di sfruttamento.

Un ulteriore intervento del legislatore del 2016 ha riguardato l’eliminazione di requisiti sovrabbondanti rispetto alla descrizione del fatto tipico, quali, ad esempio, il riferimento al carattere organizzato dell’attività di intermediazione.

Inoltre, le modalità coercitive della condotta, consistenti nella violenza o nella minaccia (con esclusione dell’intimidazione, prima contemplata), sono state opportunamente considerate come circostanze aggravanti dei nuovi delitti di reclutamento e utilizzazione, e non più quali elementi costitutivi della fattispecie ordinaria.

La norma attualmente in vigore è, dunque, di applicazione complessivamente più ampia rispetto alla precedente, e ciò perché rende astrattamente punibili anche attività non organizzate in modo sistematico e non necessariamente caratterizzate da violenza, minaccia ed intimidazione.

La nuova fattispecie si configura come reato di evento, qualificato dal dolo specifico per la condotta di cui al n. 1, realizzabile dall’intermediario, e dal dolo generico per la condotta di cui al n. 2, ascrivibile al datore di lavoro[18].

Nella previsione di cui al n. 1 del primo comma, la condotta è il reclutamento dei lavoratori allo scopo di sfruttamento, approfittando dello stato di bisogno; nella previsione di cui al n. 2, invece, la condotta sanzionata è il reclutamento, l’impiego o l’assunzione in condizioni di sfruttamento e approfittando dello stato di bisogno.

Sia la condotta dell’intermediario, sia quella del datore di lavoro, dunque, nella fattispecie ordinaria, si caratterizzano per due elementi: l’approfittamento dello stato di bisogno[19] e la sottoposizione dei lavoratori a condizioni di sfruttamento.

In relazione al primo di tali elementi, la disposizione in analisi prevede che, perché si possa parlare di approfittamento dello stato di bisogno del lavoratore, non sia sufficiente la sola commissione del reato ai danni di un soggetto particolarmente vulnerabile, ma è necessario che l’autore sfrutti volontariamente e scientemente la condizione di particolare debolezza della vittima[20].

Il requisito, già previsto nella precedente formulazione, può essere ricostruito nei termini dello sfruttamento di “qualsiasi situazione di debolezza o di mancanza materiale o morale, atta a condizionare la volontà della vittima[21].Approfittare dello stato di bisogno significa, sotto il profilo strettamente lessicale, trarre un vantaggio o un profitto ingiusto; a ben vedere, però, per evitare che esso si riduca ad una mera tautologia, dovrebbe ritenersi che il vantaggio o il profitto, oltre ad essere causalmente connessi all’esistenza delle condizioni di bisogno, risultino anche, in termini qualitativi o quantitativi[22], maggiori rispetto a quel vantaggio o a quel profitto che potrebbe determinarsi in assenza di tali condizioni.

In stato di bisogno è il soggetto che viene indotto ad accettare condizioni di lavoro qualificate da sfruttamento ma, parallelamente, approfittare significa prospettare ed applicare consapevolmente condizioni di lavoro, che profittino di tale stato, nei confronti di un soggetto la cui capacità di scelta è pacificamente limitata in quanto necessariamente oscillante tra l’accettazione di quelle condizioni (di sfruttamento) e la mancanza di opportunità lavorative alternative[23].

Quanto, poi, alle “condizioni di sfruttamento”, la dottrina si è a lungo interrogata sulla valenza da attribuire a tale elemento, il quale, a ben vedere, sembra costituire un presupposto necessario all’atto della condotta di intermediazione: al n. 1 del comma 1 dell’art. 603 bis c.p., difatti, si sanziona chi “recluta manodopera allo scopo di destinarla al lavoro presso terzi, in condizioni di sfruttamento”:  con ciò sembra intendersi che le condizioni non debbano necessariamente essere determinate da chi recluta, ma debbano in ogni caso essere presenti come “elemento di contesto” che deve essere oggetto di specifica ed autonoma prova[24].

Ad integrare il reato, dunque, non è sufficiente che il datore di lavoro o l’intermediario reclutino manodopera in maniera irregolare, ma è necessario che il soggetto reclutatore si rappresenti le condizioni di sfruttamento, che dovranno esistere, appunto, come “elementi di contesto”.

Anche nel caso di sfruttamento diretto da parte del datore di lavoro (“chiunque utilizza, assume o impiega manodopera”), è necessario che la condotta avvenga “sottoponendo i lavoratori a condizioni di sfruttamento ed approfittando del loro stato di bisogno”, condizioni che non possono considerarsi evento del reato ma elementi caratterizzanti la condotta tipica [25].

Il concetto di sfruttamento, che costituisce il perno dell’incriminazione dell’art. 603 bis c.p., rischiava, nell’originaria versione della disposizione, di rimanere assolutamente indeterminato, se non fosse stato delimitato in qualche misura da elementi quali gli indici di sfruttamento, la cui controversa natura non scalfisce il ruolo fondamentale assolto dagli stessi nella perimetrazione della fattispecie.

La norma, anche nella sua attuale versione, prevede che il lavoro venga prestato in condizioni di sfruttamento, i cui indici rivelatori sono espressamente indicati dal legislatore al comma 3 dell’art. 603 bis c.p.:

  1. la reiterata corresponsione di retribuzione in modo palesemente difforme da quanto previsto nei contratti collettivi nazionali o territoriali o comunque in modo non proporzionale alla quantità e qualità di lavoro prestato;
  2. la reiterata violazione della normativa concernente gli orari di lavoro, i periodi di riposo, il riposo settimanale, l’aspettativa obbligatoria e le ferie;
  3. la violazione delle norme in materia di igiene e sicurezza sul lavoro;
  4. la sottoposizione del lavoratore a condizioni di lavoro, metodi di sorveglianza o situazioni alloggiative degradanti.

Come si è accennato, sulla natura da attribuire ai sopracitati indici, la dottrina è ancora in contrasto: una parte ritiene che debbano essere considerati riferimenti tassativi, con esclusione, quindi, della possibilità di ammetterne altri di origine interpretativa (sarebbe, pertanto, un vero e proprio numerus clausus); di diverso avviso, invece, altra parte della dottrina, che, ammettendone il carattere meramente esemplificativo[26], lascia aperto lo spazio al ricorso all’analogia.

Gli assertori della natura puramente probatoria degli indici evidenziano come tale ricostruzione consenta di evitare che il delitto possa ritenersi integrato in presenza anche di una sola “spia” di caporalato, essendo necessario verificare sempre la ricorrenza di un vero e proprio sfruttamento[27].L’intervento legislativo del 2016, rispetto agli indici di sfruttamento, è stato considerato apprezzabile con riferimento alla necessità che le retribuzioni sproporzionate o le violazioni della normativa a tutela della dignità e del benessere del lavoratore, in materia di orario, ferie, riposi e aspettative, avessero carattere “sistematico”, giacché è stato evidenziato come ciò esponesse alla difficoltà di verificare la rispondenza di tali comportamenti illeciti ad un preciso modulo operativo o ad una strategia imprenditoriale.

Per tale motivo, parte della dottrina ha salutato favorevolmente la scelta del nuovo legislatore di “accontentarsi” di una mera “reiterazione” e cioè di una pluralità di inosservanze, non necessariamente a carattere sistematico[28].

Allo stesso modo, è stata condivisa la sostituzione del richiamo ai meri contratti collettivi nazionali con quello ai “contratti collettivi nazionali o territoriali stipulati dalle organizzazioni sindacali più rappresentative a livello nazionale”.

La modifica consente di valorizzare differenze salariali, a volte significative, previste dai contratti collettivi su base territoriale e consente di attribuire valore, sul piano comparativo, ai contratti stipulati da organizzazioni sindacali dotate di un certo radicamento nei luoghi di lavoro.

Sempre in termini positivi è stata letta la eliminazione del riferimento a situazioni alloggiative “particolarmente degradanti” nella valutazione delle condizioni di lavoro o dei metodi di sorveglianza: in questo modo si evita di attribuire una improbabile quanto imprecisa definizione del “degrado” poiché è stato osservato che, esprimendo il concetto una lesione della dignità umana, non è per definizione suscettibile di graduazioni.

Tornando all’analisi della norma, va evidenziato come nel corpo del nuovo art. 603 bis c.p. sia stata inserita un’ipotesi di responsabilità aggravata, nel caso in cui i fatti previsti dal primo comma siano commessi mediante violenza o minaccia.

Dibattuta, in dottrina, è la natura dell’ipotesi prevista dal II comma dell’articolo 603 bis c.p., che, a fronte di un’impostazione minoritaria che la qualifica come autonoma fattispecie, viene generalmente considerata circostanza aggravante, e ciò sia alla luce della mancata previsione di un distinto nomen iuris, sia per il modo in cui è stato costruito il testo dell’articolo[29].

Questo, infatti, si limita ad indicare solo le due note modali giustificatrici dell’aumento di pena, rinviando, per il resto, agli elementi costitutivi della fattispecie ordinaria di cui al comma 1.

Una novità di assoluto rilievo, che dà conto anche dello sforzo compiuto dal legislatore del 2016 di rendere più organico l’intervento normativo, è costituito dalle previsioni finalizzate al contrasto patrimoniale.

Altre novità di rilievo sono rappresentate dalla previsione, al comma 2 dell’art 603 bis c.p., della confisca obbligatoria, anche per equivalente, ed all’inserimento della fattispecie in esame nell’art 12 sexies del D.L. 306/92 (convertito con modifiche dalla L. 356/92), che prevede la confisca anche di denaro, beni e altre utilità di cui il condannato risulti titolare, anche per interposta persona.

Gli strumenti proposti, pertanto, mirano a contrastare la formazione di patrimoni illeciti, che costituisce il fine ultimo dei reati compresi nel Capo III sez. I titolo XII tra cui l’art 603 bis c.p.

Attraverso la confisca obbligatoria si realizza la sottrazione all’autore del reato delle cose che servirono o furono destinate alla commissione del delitto e dei proventi da questo derivanti.

Con la medesima finalità, il legislatore, per garantire continuità aziendale e il mantenimento dei posti di lavoro, ha previsto che, ricorrendo i presupposti dell’art 321 c.p.p., il giudice, in luogo del sequestro preventivo, dovrà disporre l’amministrazione giudiziaria dell’azienda nel caso in cui l’interruzione dell’attività possa avere ripercussioni negative sui livelli occupazionali o possa compromettere il valore del complesso aziendale.

Il giudice, attraverso l’amministratore giudiziario potrà esercitare, pertanto, anche un ruolo sociale, introducendo modelli organizzativi che impediscano la prosecuzione di trattamenti degradanti dei lavoratori e ogni forma di sfruttamento.

L’amministratore giudiziario dovrà affiancare l’imprenditore nella gestione aziendale, relazionando all’autorità giudiziaria ogni tre mesi.

Si segnala, infine, l’inserimento del delitto di cui all’art 603 bis c.p. tra i reati presupposto della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, attraverso un intervento di ampliamento del testo dell’art 25 quinquies del D.lgs. 231/01[30].

 

 

  1. Il decreto delle Misure di Prevenzione del Tribunale di Milano

 

Il Tribunale di Milano, alla luce delle dichiarazioni rese dai riders e delle ulteriori risultanze di indagine, ha ritenuto esistenti le condizioni per la sussumibilità del caso nel reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro.

Come risulta, tra l’altro, dalle intercettazioni riportate nel Decreto in esame, la condizione della maggior parte dei lavoratori sarebbe stata caratterizzata da una particolare fragilità sociale e personale, e ciò in ragione della loro provenienza da zone afflitte da conflitti civili e razziali ovvero, comunque, del loro status di soggetti richiedenti asilo politico o, ancora, di dimoranti presso centri di accoglienza temporanea; costoro sarebbero stati reclutati proprio perché versanti in un’estrema condizione di vulnerabilità anche sul piano della tutela dei diritti minimi.

La situazione, inoltre, risultava aggravata dalla recente emergenza sanitaria, che aveva fatto progressivamente aumentare la richiesta di riders, unici soggetti in grado di muoversi sul territorio e di assicurare indispensabili scambi commerciali in un periodo di sempre maggiori limitazioni alla circolazione: a fronte di una richiesta sempre maggiore, invero, la momentanea grave crisi economica, piuttosto che garantire una maggiore capacità contrattuale, aveva provocato reclutamenti a valanga al di fuori di qualsivoglia controllo.

Come detto in precedenza, i compensi erano a cottimo ed indipendenti dalle modalità esecutive delle prestazioni lavorative, era prevista l’applicazione di sanzioni pecuniarie da parte degli organizzatori e non erano rispettati i livelli minimi di igiene e sicurezza sul lavoro né garantita tutela alle condizioni fisiche dei lavoratori[31].

Sulla scorta di questi fatti il Tribunale ha ritenuto esistente un grave quadro indiziario riferibile all’ipotesi di reato di cui all’art. 603 bis c.p., ed ha altresì sviluppato una successiva valutazione di sussistenza di un’attività agevolatrice della condotta delittuosa posta in essere dagli indagati, funzionalmente collegati, secondo la prospettazione accusatoria, alla galassia della multinazionale Uber e, in particolare, alla sua controllata Uber Italy S.r.l., quali referenti nazionali della gestione dei riders sul territorio italiano.

Oltre alle “spie” indicative di una condizione riconducibile al caporalato – regime di sopraffazione economica e trattamentale nei confronti di una categoria di lavoratori in condizioni di particolare vulnerabilità, dovuta ad una precaria situazione di integrazione sociale, alla temporanea presenza nel territorio nazionale e alla poca conoscenza della lingua italiana – si aggiungeva anche il ricorso a minacce e violenze verbali.

Anche secondo il Tribunale, invero, non era raro che gli indagati minacciassero i lavoratori di bloccagli l’accesso alle piattaforme utilizzate per l’accettazione degli ordini, controllando così la possibilità del rider di continuare a lavorare.

Il grave quadro indiziario ritenuto sussistente a carico dei reclutatori, individuati negli amministratori o titolari delle società che gestivano i “pony express” per conto di Uber Italia, ha disvelato anche un ulteriore profilo di partecipazione all’illecito da parte di alcune risorse umane della galassia Uber e, precisamente di coloro che, all’interno di Uber Italy, erano stati indicati da Uber Portier B.V. come referenti per la gestione dei riders in Italia.

Secondo il Tribunale, quindi, sarebbero emersi elementi per ritenere che l’italiana Uber Italy S.r.l. (aventi stessa sede sociale e, quest’ultima, un oggetto sociale specifico quale “mettere in relazione i ristoratori, i potenziali clienti e i fornitori di cibo a domicilio e o svolgimento delle relative attività”), fosse pienamente consapevole dell’attività di sfruttamento dei lavoratori utilizzati per le consegne, e ciò poiché nonostante la formale esistenza di accordi contrattuali di segno contrario mediante il ruolo attivo svolto da dipendenti o ex dipendenti collocati in posizioni apicali, all’interno della Uber Italy s.r.l., interveniva nella gestione dei riders.

Non lo stesso, invece, poteva dirsi per la holding di diritto olandese, rispetto alla quale non era possibile formulare un giudizio di “favoreggiamento colposo” – rilevante ai sensi dell’applicazione della misura di prevenzione in questione – alla luce della sola conclusione dei contratti di prestazione tecnologica di cui si è detto in precedenza.

Ciò, in particolare, anche alla luce della circostanza per cui, diversamente da quanto riscontrabile in relazione alle società italiane, l’attività della holding non ha ad oggetto la gestione del food delivery, ma si occupa essenzialmente della consulenza e della gestione di servizi privati di trasporto di persone (c.d. Noleggio con conducente), ossia di servizi del tutto diversi da quelli posti in essere dai soggetti che partecipavano alla sola attività “contaminata”.

Il Tribunale ha dunque ritenuto esistente un quadro di “evidente agevolazione rilevante ai sensi dell’art. 34 D.Lgs. 159/2911 quanto meno sotto un profilo di omesso controllo da parte della società o di grave deficienza organizzativa sul piano di una reale autonomia rispetto alla casa madre con sede in Olanda, realizzato dalla controllata Uber Italy s.r.l. a favore di tutti i soggetti indiziati dei delitti ex art. 603 bis c.p. e 648 bis c.p.” (pure ravvisato nel caso che ci occupa) “che più direttamente gestivano e sfruttavano la pattuglia dei lavoratori a domicilio”.

 

 

  1. Conclusioni

 

Valutata la presenza di indizi sufficienti del reato di cui all’art. 603 bis c.p., uno dei cc.dd. reati-catalogo idonei ad attivare l’applicazione delle misure di prevenzione patrimoniale di cui all’art. 34 Codice Antimafia, il Tribunale di Milano, con il decreto in esame, ha disposto l’applicazione della Amministrazione giudiziaria per un anno nei confronti della società Uber Italy S.r.l.

I giudici della prevenzione hanno ritenuto soddisfatto anche il principio della proporzionalità tra situazione concretamente accertata e l’applicazione della misura patrimoniale richiesta – come di recente sollecitato anche dalla Corte Costituzionale[32]– in quanto la condotta agevolatrice, posta in essere da alcuni dirigenti della predetta società, risultava particolarmente rilevante sia per la diffusione dell’intervento sia per la predisposizione di schemi contrattuali formali aventi la funzione di “paravento” nei confronti della società controllante olandese.

Sul punto, veniva richiamata anche una nota investigativa della Guardia di Finanza, con cui si segnalava che, nonostante la risoluzione dei contratti con le società di reclutamento i cui vertici risultano indagati, alcuni dei soggetti che erano soliti interfacciarsi con questi ultimi – e che erano indicati da Uber Portier B.V. come referenti per la gestione dei riders in Italia – risultassero ancora dipendenti di Uber Italy S.r.l. con qualifiche di operatori amministrativi.

È stato pertanto ritenuto necessario un intervento di gestione e controllo incidente dell’assetto di quest’ultima società, e finalizzato alla conservazione della sua attività tipica seppur mediante un ripristino di condizioni di liceità.

Nel caso di specie, i giudici hanno escluso la possibilità di fare ricorso alla misura del controllo giudiziario prevista all’art 34 bis del Codice Antimafia, e ciò in ragione del carattere non occasionale della attività di agevolazione e del livello di compromissione della struttura societaria.

Il decreto, inoltre, fornisce indicazioni rigorose sul ruolo che dovrà essere ricoperto dall’amministratore giudiziario. Si richiede, infatti, che questi tenga conto, alla luce della finalità della misura, del grado di infiltrazione delittuosa effettivamente accertato – che nel caso di specie, tutto sommato, sarebbe risultato piuttosto contenuto poiché riguardava soltanto cinque su ventisei dipendenti deputati alla gestione ed al controllo della flotta di riders[33].

In definitiva il Tribunale ha disposto l’amministrazione giudiziaria del ramo aziendale destinato alle consegne a domicilio di Uber Italy S.r.l., per la durata di un anno, senza immissione in possesso dei beni aziendali; scopo del provvedimento è, pertanto, quello di consentire all’amministratore giudiziario di analizzare i rapporti che la società intrattiene con altre ramificazioni del gruppo societario “in relazione al perimetro del reclutamento e della gestione dei cd. riders, dovendosi verificare l’esistenza dei rapporti contrattuali in corso e la piena conformità a tutte le regole di mercato degli stessi”.

La finalità, all’evidenza, è quella di prevenire i reati della specie di quello verificatosi nel settore del rapporto con i riders e, quindi, disfunzioni di illegalità aziendale come quelle accertate[34].

In aggiunta è stato previsto che l’amministratore giudiziario:

  1. i) esamini le iniziative alle quali la società parteciperà in seguito alla emanazione del provvedimento che ha disposto la misura di prevenzione, con particolare attenzione all’eventuale mutamento della compagine societaria;
  2. ii) controlli tutti i contratti conclusi con terzi persone giuridiche o lavoratori autonomi nell’ambito del servizio di food delivery;

iii)        garantisca costante presenza presso la sede societaria, prendendo parte a tutte le iniziative riguardanti l’oggetto della misura di prevenzione.

La vera sfida della misura in parola è quella di assicurare un intervento nella gestione societaria che non comporti uno stravolgimento totale dell’attività dell’impresa, ma sia funzionale rispetto agli obiettivi depurativi individuati sulla scorta delle distorsioni evidenziate nel provvedimento.

Proprio l’individuazione delle specifiche aree di “contaminazione”, all’interno della più ampia e complessa dinamica aziendale, consente un intervento mirato che, senza inibire od ostacolare l’intera attività gestionale dell’impresa, sia nondimeno idoneo a tentare di riportare all’interno dei binari della legalità quello specifico settore societario.

In questa prospettiva appaiono evidenti le ricadute positive, in termini di contenimento di rischio e contestuale salvaguardia dei livelli occupazionali, di un’amministrazione giudiziaria che limiti il proprio intervento al solo settore che merita attenzione e riordino, lasciando inalterati gli equilibri e la gestione nella parte sana dell’azienda, in cui l’eventuale sostituzione di professionalità potrebbe rivelarsi esiziale e compromettere la prosecuzione dell’intera attività economica.

Alla luce di queste decisioni può valutarsi positivamente il ricorso allo strumento in esame, che, dovendo contrastare un sistema di sfruttamento riferibile, più che alle persone fisiche, a società e ad interi sistemi di produzione, realizzi un bilanciamento tra la necessaria continuazione dell’attività di mercato e l’esigenza di contrastare la contaminazione antigiuridica di imprese sane, sottraendole alle infiltrazioni criminali e consentendone il reinserimento nel mercato dopo il “disinquinamento di queste attraverso un intervento correttivo[35].

Il decreto in esame permette anche di prevenire le gravissime conseguenze, in termini economici, di delitti quali quello dello sfruttamento illecito del lavoro, le cui ricadute in termini di danno per la società civile, invero, sono spesso misconosciute o poco considerate.

Va infatti considerato quanto gravemente incida, sotto il profilo della concorrenza leale e del sano e corretto sviluppo di un’azienda, il reclutamento illegale di risorse umane, e ciò poiché esso permette di mantenere altissime performance commerciali senza assicurare i livelli minimi di dignità costituzionalmente garantiti.

Anche in quest’ottica, lo strumento offerto dalla misura di prevenzione in esame costituisce un’interessante opportunità per cercare non solo di ripristinare il corretto svolgimento di una determinata attività aziendale, ma anche di recuperare alcuni irrinunciabili valori costituzionali altrimenti desinati ad essere inevitabilmente compromessi.

[1] Trib. Milano, Sez. Aut. M. P., 27 maggio 2020, n. 9.

[2] Reati di associazione mafiosa ex art. 416 bis c.p.; trasferimento fraudolento di valori ex art. 512 bis c.p.

[3] Peculato ex art. 314 c.p.; peculato mediante profitto dell’errore altrui ex art. 316 c.p.; malversazione a danno dello Stato ex art. 316 ter c.p.; concussione ex art. 317 c.p.; corruzione per esercizio della funzione ex art. 318 c.p.; corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio ex art. 319 c.p.; corruzione per atti giudiziari ex art. 319 ter c.p.; corruzione di persona incaricata di un pubblico servizio ex art. 320 c.p.; istigazione alla corruzione ex art. 322 c.p.

[4] Estorsione ex art. 629 c.p.; riciclaggio ex art. 648 bis c.p.; impiego di denaro, beni o utilità di provenienza illecita ex art. 648 ter c.p.

[5] Trib. Milano, Sez. Aut. M. P., 24 giugno 2016, Pres. Roia, Est. Tallarida.

[6] L’espressione è di QUATTROCCHI, Le nuove manifestazioni della prevenzione patrimoniale: amministrazione giudiziaria e contrasto al “caporalato” nel caso Uber, in Giurisprudenza Penale 2020, pag. 6.

[7] Trib. Milano, Sez. Aut. M. P., 23 giugno 2016, Nolostand S.p.A.

[8] Corte Cost., 29 novembre 1995, n. 487

[9] L’Art. 47 quater d.lgs. 81/2015 prevede che, “in difetto della stipula dei contratti collettivi i riders non possono essere retribuiti in base alle consegne effettuate e ai medesimi lavoratori deve essere garantito un compenso minimo orario parametrato ai minimi tabellari stabiliti dai contratti collettivi nazionali di settori affini o equivalenti, sottoscritti dalle organizzazioni sindacali e datoriali comparativamente più rappresentative a livello nazionale. Inoltre deve essere garantita ai riders un’indennità integrativa non inferiore al dieci per cento determinata dai contratti collettivi o, in difetto, con decreto del Ministro del lavoro per il lavoro svolto nelle ore notturne, durante le festività e in condizioni meteorologiche sfavorevoli”.

[10] L’Art. 47 quinquies d.lgs. 81/2015, dopo aver stabilito che ai riders si applica la disciplina antidiscriminatoria ed a tutela della libertà e della dignità del lavoratore, prevista per i lavoratori subordinati, vieta espressamente “la esclusione dalla piattaforma e le riduzioni delle occasioni di lavoro ascrivibili alla mancata accettazione della prestazione”.

[11] QUATTROCCHI, Le nuove manifestazioni della prevenzione patrimoniale, cit., pag. 6.

[12] I dati nazionali forniti nell’intervento della Presidente della Commissione Giustizia della Camera dei Deputati parlano di sole 34 iscrizioni presso gli uffici GIP e di 8 processi pendenti nella fase dibattimentale: cfr. FERRANTI, La legge n. 199/2016: disposizioni penali in materia di caporalato e sfruttamento del lavoro nell’ottica del legislatore, in Diritto  Penale Contemporaneo 2019, pag. 2.

[13] TORRE,  Lo sfruttamento del lavoro. La tipicità dell’art. 603-bis cp tra diritto sostanziale e prassi giurisprudenziale, in Questione Giustizia 2019, 4, pag. 93. Ciò, tra l’altro, in ragione del fatto che gli indici dello sfruttamento divenuti oggetto di codificazione, ed incidenti sulla remunerazione, sul tempo di lavoro, sulle condizioni di salute e di sicurezza sul lavoro, sui metodi di sorveglianza e sulle situazioni alloggiative, sono i medesimi che la giurisprudenza ha identificato quali manifestazioni significative di comportamenti ai fini della loro sussunzione all’interno della diversa fattispecie di cui all’art. 600 c.p . In argomento si v. anche BERNASCONI, La metafora del bilanciamento in diritto penale. Ai confini della legalità, Napoli 2019, passim, secondo cui la vaghezza del concetto di sfruttamento non è superabile attraverso un esercizio ermeneutico.

[14] GABOARDI, La riforma della normativa in materia di “caporalato” e sfruttamento dei lavoratori: corretto lo strabismo, persiste la miopia, in Legislazione penale, 2017, pag. 5; poi ancora sulle molte criticità del vecchio testo del 603 bis c.p.: GIULIANI, I reati in materia di caporalato, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, Padova 2015, pag. 136 ss., DI MARTINO, “Caporalato” e repressione penale. Appunti su una correlazione (troppo) scontata, in dir. pen. cont., 2015, pag. 106 ss.

[15] Cfr. DI MARTINO, ”Caporalato” cit., pag. 107, che ravvisava lo “strabismo” nell’esclusione dai possibili soggetti attivi del reato proprio dei datori di lavoro, ovvero di coloro che principalmente si avvantaggiavano dello sfruttamento della manodopera e giudicava distorsivo un simile intervento sul funzionamento del mercato del lavoro, dal momento che portava all’incriminazione di condotte riferibili solo ad alcuni attori secondari di un più vasto sistema produttivo.

[16] GABOARDI, op. cit., pag. 6.

[17] GABOARDI, op. cit. pag. 7.

[18] MANCINI, Agromafie e Caporalato. Quarto rapporto, Milano 2018, pag. 94.

[19] Sulla interpretazione e applicazione dello stato di bisogno cfr. Trib. Brindisi, sentenza del 6 settembre 2017, n. 251, prima decisione sul delitto di cui all’art. 603 bis c.p., come riformato dalla Legge n. 199/2016, la nuova normativa è stata applicata solo quoad poenam perché più favorevole.

[20] Sul punto, cfr. Cass. Pen. Sez IV, 9 ottobre 2019, n. 277424.

[21] In questi termini si esprime Cass. Pen. 6 maggio 2010, in relazione alla situazione dello stato di necessità evocata dall’art. 600 co. 2 c.p.

[22] Ad esempio in termini di maggior risparmio ovvero di impossibilità per i lavoratori, determinata dalle condizioni dei lavoratori, di formulare pretesa alcuna in relazione alla complessiva condizione lavorativa.

[23] DI MARTINO – RIGO, Fra caporalato e sfruttamento lavorativo. Nuove vesti dell’armamentario penale, in Agromafie e caporalato cit., pag. 108.

[24] DI MARTINO – RIGO, Caporalato e repressione penale. Appunti su una correlazione (troppo) scontata, in Diritto Penale Contemporaneo 2015, pag. 107.

[25] In questi termini, sempre DI MARTINO – RIGO, op. loc. cit., pag. 109.

[26] Cfr. sul punto FIORE, (Dignità degli) Uomini e (punizione dei) Caporali. Il nuovo delitto di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Aa. Vv., Scritti in onore di Alfonso Stile, Napoli 2014, pag. 890. Contra DE RUBEIS, Qualche breve considerazione critica sul nuovo reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, in Diritto Penale Contemporaneo 2017, passim.

[27] FERRANTI, La legge 199/2016 cit., pag. 3. Come segnalato anche da DI MARTINO – RIGO, op. ult. cit., pag. 113, ad esempio, “non ogni impiego di lavoratore straniero che non parli adeguatamente la lingua italiana può costituire indice di sfruttamento, quando il complesso della situazione concreta non sia in nulla idonea a segnalare “condizioni” di lavoro “degradanti” (si può pensare, in questi termini, ad esempio, all’impiego di soggetti di nazionalità straniera, giovani e poco ferrati nella lingua, per mansioni di servizio stagionale in spiaggia – ombrelloni e pulizia – ai quali venga corrisposto il pranzo e che, nei momenti di stasi, possano riposare all’ombra o liberamente trastullarsi in attesa dell’ora di chiusura dello stabilimento e delle connesse attività”.

[28] In questo senso vedi PADOVANI, Un nuovo intervento per superare i difetti di una riforma zoppa, in Guida al diritto 2020, pag. 50; CISTERNA, Prova semplificata con applicazione in tutti i settori, in Guida al diritto 2016, pag. 56.

[29] V. sul punto, MANCINI, op cit, pag. 94; GENOVESE, Nessuno più al mondo deve essere sfruttato: nuovi strumenti per una vecchia utopia, in Legislazione penale, Firenze 2018, pag. 24; PADOVANI, Un nuovo intervento cit., pag. 49; GABOARDI, La riforma della normativa in materia di “caporalato” e sfruttamento dei lavoratori: corretto lo strabismo persiste la miopia, in Legislazione penale 2017, pag. 69.

[30] MANCINI, op. cit., pag. 97 ss.

[31] Sin dalla comparsa di questa categoria di lavoratori, diventati ormai simbolo della cd. gig economy, si è cercato di tutelarne la posizione contrattuale. La maggior parte delle volte i riders sono lavoratori senza particolari qualifiche, non parlano la lingua italiana, sono in evidente condizione di bisogno economico, e questo ha portato gran parte dei giuslavoristi a sostenere che fossero situazioni non riconducibili al lavoro autonomo. In assenza di una norma ad hoc, i giudici del lavoro erano chiamati ad analizzare caso per caso le concrete modalità in cui si svolgeva il rapporto di lavoro, al fine di verificare, facendo riferimento anche agli indici sintomatici della subordinazione, se nel singolo caso si fosse in presenza di un lavoro subordinato mascherato da contratti di collaborazione. Col D.lgs. 81/2015 si è assistito all’applicazione di una tutela “rafforzata” nei confronti di particolari categorie di lavoratori, compresi quelli delle piattaforme digitali, considerati “deboli”, estendendo loro le tutele previste per i soli lavoratori subordinati. Di notevole importanza è stata in merito la pronuncia della Corte di Cassazione, Sezione lavoro, del 24 gennaio 2020 n. 1663, che ha fatto proprio il pragmatico approccio rimediale evidenziando la possibilità di prevedere una tutela “rafforzata”, senza la necessità di dover prendere una posizione sulla natura subordinata o autonoma del rapporto di lavoro e negando la riconducibilità di questi ad un tertium genus: “si tratta di una scelta politica legislativa volta ad assicurare al lavoratore la stessa protezione di cui gode il lavoratore subordinato, in coerenza con l’approccio generale della riforma, al fine di tutelare prestatori evidentemente ritenuti in condizione di debolezza economica, operanti in una “zona grigia” tra autonomia e subordinazione, ma comunque considerati meritevoli di una tutela omogenea”.

[32] Corte Cost., n. 24 del 27 febbraio 2019.

[33] QUATTROCCHI, op. cit., pag. 13.

[34] Un difetto all’interno della organizzazione può individuare la esistenza di una patologia nei processi di gestione interni alla persona giuridica, evocante il concetto di colpa. Il modello organizzativo è lo strumento con cui l’impresa definisce gli standard comportamentali della società.

[35] ALESCI, I presupposti ed i limiti del nuovo controllo giudiziario nel codice antimafia, in Giur. it. 2018, p. 1518 ss.

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