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Il “decreto rilancio” e la degradazione della condotta di omesso versamento dell’imposta di soggiorno da peculato a illecito amministrativo

  1. Uno dei temi di dibattito, immediatamente seguiti all’entrata in vigore del decreto rilancio (d.l. 19 maggio 2020, n. 34, in materia di salute, sostegno al lavoro e all’economia, in connessione all’emergenza epidemiologica da covid-19) ha riguardato la modifica della disciplina relativa all’imposta di soggiorno per gli albergatori.

Sulla stampa si è parlato esplicitamente di “colpo di spugna per gli albergatori”. Ma soprattutto l’attenzione dell’opinione pubblica si è concentrata sulla eventuale natura di legge ad personam di questa parte del provvedimento normativo incentrata sulle misure per il turismo e la cultura (si veda, ad es., l’intervento di F. Compagna, Davvero non se ne era accorto nessuno?, l’Occidentale, del 23 maggio 2020).

Ci si è chiesti se l’art. 180 del decreto favorisca Cesare Palladino, suocero di fatto del premier Conte che ha patteggiato a luglio una pena di un anno due mesi e 17 giorni per peculato perché, in quanto patron dell’Hotel Plaza di Roma, tra il 2014 e il 2018 non aveva versato oltre 2 milioni di euro di tassa di soggiorno al Campidoglio (cfr. l’intervista rilasciata dal sottoscritto alla giornalista Maria Elena Vincenzi, su La Repubblica on line del 23 maggio 2020).

L’art. 180, ai commi 3 e 4 del decreto rilancio, stabilisce che all’omesso, parziale o ritardato versamento dell’imposta di soggiorno da parte degli albergatori si applichi la sanzione amministrativa. La disposizione introduce così un illecito amministrativo per il fatto del gestore della struttura ricettiva che si appropri indebitamente dell’imposta di soggiorno (o almeno di una parte).

Nel recente passato si rinvengono alcune pronunce della Corte di Cassazione, le quali hanno asserito che tale fatto integri invece il reato di cui all’art. 314 c.p. Ebbene, l’albergatore quale incaricato di pubblico servizio, che ha ricevuto denaro per conto della pubblica amministrazione (la somma a titolo di tassa di soggiorno), pone in essere l’appropriazione sanzionata dal delitto di peculato nel momento stesso in cui egli ne ometta o ritardi il versamento, cominciando in tal modo a comportarsi uti dominus nei confronti del bene del quale ha il possesso per ragioni d’ufficio.

Si è statuito, infatti, che realizza il delitto di peculato la condotta posta in essere dal gestore di una struttura ricettiva che si appropri delle somme riscosse a titolo di imposta di soggiorno omettendo di riversarle al Comune, in quanto lo svolgimento dell’attività ausiliaria di responsabile del versamento, strumentale all’esecuzione dell’obbligazione tributaria intercorrente tra l’ente impositore e il cliente della struttura, determina l’attribuzione della qualifica di incaricato di pubblico servizio in capo al privato cui è demandata la materiale riscossione dell’imposta (Cass., sez. VI, 26 marzo 2019, n. 27707, in C.E.D. Cass., n. 276220 – 01).

Ad avviso, poi, della Suprema Corte riveste la qualità di incaricato di pubblico servizio il gestore di struttura ricettiva residenziale che, anche in assenza di un preventivo specifico incarico da parte della pubblica amministrazione, procede alla riscossione dell’imposta di soggiorno per conto dell’ente comunale, trattandosi di agente contabile, e non di un sostituto di imposta, che svolge un’attività ausiliaria nei confronti dell’ente impositore ed oggettivamente strumentale all’esecuzione dell’obbligazione tributaria (Cass., sez. VI, 17 maggio 2018, n. 32058, ivi, n. 273446 – 01).

Dal momento dell’incasso dell’imposta di soggiorno il gestore alberghiero è qualificabile come agente contabile nei confronti del Comune. La connotazione pubblicistica di tale attività emerge, invero, per il suo diretto collegamento al preminente interesse generale alla corretta riscossione delle entrate tributarie dell’ente locale, che ne è titolare in virtù del potere impositivo a lui riconosciuto dalla legge. In caso di impresa alberghiera esercitata in forma collettiva, la qualità di agente contabile è attribuita al legale rappresentante dell’ente societario (Cass., sez. VI, 17 maggio 2018, n. 32058, cit.).

In pratica, il gestore della struttura alberghiera deve provvedere all’incasso della tassa di soggiorno, accantonandola; e poi successivamente deve trasmetterla al Comune. Il gestore non assume così la veste di sostituto di imposta, bensì è unicamente il responsabile del versamento, un agente contabile che maneggia denaro pubblico ed è tenuto a riversarlo nelle casse dell’ente pubblico (cfr. Cass., sez. VI, 26 marzo 2019, n. 27707, cit.).

In particolare, quanto alla differenza tra sostituto d’imposta e incaricato o responsabile della riscossione del tributo, quest’ultimo svolge un’attività ausiliaria nei confronti dell’ente impositore ed oggettivamente strumentale rispetto all’esecuzione dell’obbligazione tributaria, la quale, per l’appunto, comporta l’incasso delle somme spontaneamente versate dal soggetto passivo e il conseguente obbligo di riversarle all’ente impositore di competenza. Mentre, il sostituto d’imposta risponde in proprio del versamento del tributo, anche nell’eventualità in cui il soggetto passivo (l’ospite) si rifiuti di pagare o comunque non versi l’imposta. La qualifica assunta dai gestori delle strutture ricettive esula pertanto dall’ambito della responsabilità d’imposta, sicché il gestore è un terzo rispetto all’obbligazione tributaria ed il suo coinvolgimento avviene ad altro titolo, ossia quale destinatario di obblighi formali e strumentali all’esazione del tributo comunale (Cass., sez. VI, 17 maggio 2018, n. 32058, cit.).

 

  1. L’art. 180 del decreto rilancio sulla tassa di soggiorno – a prescindere dalla qualifica dell’albergatore come agente riscossore oppure sostituto d’imposta – sembra decisamente comportare una depenalizzazione, in quanto viene in considerazione il fenomeno della degradazione di un illecito penale in un illecito amministrativo.

L’illecito amministrativo previsto ai commi 3 e 4 dell’art. 180 cit. presenta, invero, una classe di fattispecie “speciale” rispetto alla figura “generale” dell’illecito penale di peculato.

E dunque ai sensi dell’art. 9 della legge 689/1981, se il decreto verrà convertito in legge, si applicherà solo l’illecito amministrativo perché speciale.

In realtà, finora il mancato versamento della tassa di soggiorno da parte degli albergatori veniva punita sia amministrativamente (attraverso l’uso di violazioni poste nei regolamenti comunali) sia penalmente, giacché non si riteneva sussistere una relazione di specialità fra i due illeciti.

Orbene, già in precedenza si era posta in giurisprudenza la questione del possibile concorso apparente fra il reato di peculato (o appropriazione indebita) e l’illecito amministrativo previsto nel regolamento comunale per l’omesso versamento all’amministrazione comunale delle somme ricevute dagli operatori commerciali che esercitano attività alberghiera e ricettiva.

La Cassazione ha in tal caso escluso l’operatività del principio di specialità sulla scorta della considerazione che le figure di reato del peculato e appropriazione indebita si imperniano su una fattispecie eterogenea rispetto all’illecito amministrativo. Ritenendo la violazione amministrativa prevista nel regolamento comunale non norma speciale – ai sensi dell’art. 9 l. n. 689/1981 – bensì norma residuale da considerarsi recessiva in presenza di una “diversa disposizione di legge” (art. 7-bis d.lgs. n. 267/2000, sui poteri sanzionatori riconosciuti agli enti locali) (cfr. Cass., sez. II, 28 maggio 2019, n. 29632).

Per come è stata configurato nel decreto rilancio, l’illecito amministrativo costituisce una figura speciale rispetto al peculato, ne ritaglia infatti una sottofattispecie. In assenza della norma speciale (l’illecito amministrativo), tutti i relativi casi verrebbero disciplinati dalla norma generale (il peculato), perché già li ricomprende (espressamente o tacitamente) (nella manualistica per tutti G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale, Giuffrè Francis Lefebvre, 2019, p. 559 ss.).

Inoltre, dal confronto strutturale tra le fattispecie astratte, mediante la comparazione degli elementi costitutivi che concorrono a definire le fattispecie stesse, emerge una piena omogeneità dei requisiti che le caratterizzano (cfr. Cass., sez. un., 28 ottobre 2010, n. 1235/2011, in C.E.D. Cass., n. 248864).

La specialità è un concetto di relazione tra due norme: la norma generale e quella speciale; isolatamente considerata nessuna norma può dirsi speciale (cfr. Irti, L’età della decodificazione, Giuffrè, 1999, p. 53 ss.) Una antinomia che viene risolta nel nostro ordinamento all’art. 15 c.p. e all’art. 9 l. n. 689/1981, con l’applicazione della sola lex specialis.

Le due figure di illecito (art. 314 c.p./art. 180 d.l. n. 34 del 2020) coesistono ora nell’ordinamento in rapporto di specialità sincronico, una sincronia che è “sopravvenuta” per effetto della novità del decreto rilancio del maggio 2020. In questo contesto, la norma speciale non toglie vigore alla norma generale, ma ne circoscrive solo l’ambito di efficacia e di applicabilità.

 

  1. Ma quali sono le conseguenze della depenalizzazione?

Si tratta in realtà di una ipotesi peculiare di abolitio criminis (ossia di abrogazione di una norma incriminatrice), disciplinata pur sempre dall’art. 2, comma 2, c.p. La particolarità consiste nell’abrogazione del reato e nella contestuale introduzione al suo posto di un’ipotesi di violazione amministrativa (cfr. M. Gambardella voce Legge penale nel tempo, in Enc. dir., Annali, VII, Giuffrè, 2014, p. 658 ss.).

La trasformazione della condotta di omesso versamento dell’imposta di soggiorno da reato in violazione amministrativa fa cessare tutti i procedimenti penali in corso. Con l’archiviazione, ai sensi dell’art. 411 c.p.p., se sono ancora in fase di indagine, perché il fatto non è previsto dalla legge come reato; o con una sentenza di proscioglimento, ex art. 129 c.p.p., perché il fatto non è previsto dalla legge come reato, in ogni stato o grado del processo (anche nel giudizio di cassazione).

L’aspetto più importante è che le condanne definitive verranno revocate dal giudice dell’esecuzione, su richiesta dell’imputato o anche d’ufficio, ai sensi dell’art. 673 c.p.p. Il giudice deve inoltre rimuovere gli effetti giuridici comunque pregiudizievoli che scaturiscono dalla pronuncia di condanna passata in giudicato: come ad es. eliminare le iscrizioni nel casellario giudiziale (la sentenza di condanna non potrà essere più considerata “un precedente” nemmeno per una successiva sospensione condizionale della pena) o far cessare le pene accessorie.

Oltre alla sentenza, in alcune ipotesi potrà essere revocata anche la confisca, e questo vale pure in caso di patteggiamento. Quando, per esempio, si tratterà di una ipotesi in cui bisogna riconoscere alla confisca natura di “pena” e non già di misura di sicurezza patrimoniale, come per i casi di cosiddetta confisca per equivalente.

Come è noto, attualmente è molto difficile prevedere deroghe all’operatività della disciplina dell’abolitio criminis, rispetto alle condotte poste in essere prima della degradazione dell’illecito penale in violazione amministrativa, che superino il vaglio di costituzionalità. Dal 2009 con la sentenza Scoppola c. Italia della Corte Edu (Grande Camera), il principio di retroattività della legge penale più favorevole (lex mitior) è diventato infatti un diritto fondamentale dell’uomo (art. 7 Cedu) (cfr. Gambardella, Lex mitior e giustizia penale, Giappichelli, 2013, p. 47 ss.). Il che vuole dire che l’abolitio criminis – e la depenalizzazione che ne è una ipotesi peculiare, connotata dalla contestuale introduzione di un illecito amministrativo – opera, senza (quasi) possibilità di deroga, per tutti i fatti del passato. Le sentenze di condanna definitive, pronunciate sulla base del reato abolito (o depenalizzato), devono essere revocate dal giudice dell’esecuzione. In pratica il passato viene coperto dall’oblio, e il legislatore non può evitare tale esito prevedendo una apposita disciplina che imponga una eccezione al principio della retroazione della lex mitior.

Il decreto legge n. 34/2020 non ha inserito nessuna disposizione transitoria, cioè l’illecito amministrativo varrà solo per i fatti futuri: in relazione alle condotte realizzate dopo l’entrata in vigore del decreto legge. E per il passato non potrà essere più contestato il peculato. Questo per la presenza del principio di legalità dell’illecito amministrativo (art. 1 l. n. 689/1981), nonché per lo statuto ormai assunto a livello convenzionale dalle misure pur non formalmente “penali” ma nella sostanza afflittive/punitive: per le quali valgono tutte le garanzie della “materia penale” (compresa ovviamente il divieto di retroattività).

In pratica – in assenza di specifiche norme transitorie che impongano la rimessione degli atti all’autorità competente per infliggere la sanzione amministrativa – i fatti commessi prima dell’entrata in vigore del decreto legge (e non giudicati in via definitiva) non riceveranno nessuna sanzione: né quella penale, né quella amministrativa.

Per evitare tale esito, si può mutuare, ad esempio, quanto previsto dall’ultimo importante provvedimento di depenalizzazione: il d.lgs. n. 8 del 2016. Esplicitamente l’art. 8 del d.lgs. cit. dispone l’applicabilità delle sanzioni amministrative alle violazioni anteriormente commesse, sempre che il procedimento penale non sia stato definito con sentenza irrevocabile.

A meno che non si sostenga che nell’avvicendamento tra l’illecito penale e l’illecito amministrativo nella disciplina del fatto dell’albergatore che non versa l’imposta di soggiorno operi il disposto dell’art. 2, comma 4, c.p. Nel senso che siamo al cospetto di una ipotesi di c.d. successione modificativa di disciplina. Ma la regola del comma 4 dell’art. 2 c.p. sembrerebbe invero prendere in considerazione esclusivamente avvicendamenti tra leggi penali in senso stretto (Cass., sez. un., 16 marzo 1994, Mazza; Cass., sez. un., 29 marzo 2012, n. 25457, Campagna Rudie).

A prescindere della ragione per cui non è stata inserita una disposizione transitoria: errore, svista, manina, sembrerebbe opportuno modificare il decreto legge in sede di conversione. Dovrebbe essere inserita una disposizione transitoria, per eliminare qualsiasi dubbio in relazione all’operatività della sanzione amministrativa nei riguardi dei fatti commessi prima della vigenza dell’art. 180 decreto rilancio.

Il legislatore in sede di conversione potrebbe chiaramente anche optare per una scelta più radicale, sopprimendo l’art. 180, commi 3 e 4, del decreto rilancio. In tal caso, gli effetti favorevoli opereranno unicamente per i cosiddetti “fatti concomitanti”, ossia per le condotte tenute durante la vigenza del decreto legge (favorevole) che poi è stato convertito con emendamenti i quali hanno implicato la mancata conversione in parte qua. Per i c.d. “fatti pregressi” troverà applicazione la legge in vigore al momento del fatto, ossia il delitto di peculato (cfr. Corte cost., n. 51 del 1985).

 

  1. L’interrogativo finale a cui non ci si può sottrarre, nonostante la sua insidiosità, è quello se sia “giusto” depenalizzare la fattispecie del peculato dell’albergatore. Riformulando il quesito con il lessico e le categorie del penalista: se sotto il profilo politico criminale il ricorso allo strumento penale appaia qui ingiustificato, perché la protezione del bene sia ottenibile tramite altre misure sanzionatorie di natura extrapenale; inoltre se sia carente, nel caso di specie, la necessaria proporzione fra la gravità della violazione e l’afflittività della sanzione penale.

E la risposta a questa domanda non può dipendere dalla circostanza che la depenalizzazione avvantaggi o meno il sig. Cesare Palladino, suocero di fatto del premier Conte. Certamente, dalla degradazione in illecito amministrativo della condotta rilevante come peculato scaturiscono effetti di favore per il sig. Palladino: gli sarà revocata la sentenza di patteggiamento con tutti i suoi effetti penali. La condanna verrà soprattutto eliminata dal casellario giudiziale. D’altronde, questo vale per tutti.

Eppure, dal punto di vista politico criminale, era molto forte la qualificazione di peculato rispetto a tali fatti. Credo che prevedere un illecito amministrativo per questi comportamenti sia ragionevole e proporzionato al disvalore della condotta. Il peculato è un’appropriazione indebita di soldi altrui da parte di un agente pubblico che li detiene. Ed è sicuramente ardito sostenere che l’albergatore sia un agente pubblico, perfino nell’immaginario collettivo.

Qualcuno ha proposto una lettura secondo cui – a seguito del decreto rilancio – i proprietari di strutture ricettive diventerebbero dei sostituti di imposta, quindi passibili di una violazione tributaria. In realtà non pare qui decisiva la scelta nell’alternativa sostituto d’imposta/agente contabile (incaricato di un pubblico servizio). Pur dovendosi rilevare come l’art. 180 cit. definisca il gestore della struttura ricettiva quale “responsabile del pagamento dell’imposta di soggiorno”.

A mio avviso è chiaro che il decreto legge ha voluto prevedere un illecito amministrativo (“norma-speciale”) per evitare l’applicazione del reato di peculato (“norma-generale”), determinando un’abolitio criminis. Poi, certo, la giurisprudenza può provare a disinnescare questo esito abrogativo; addirittura si potrebbe decidere di applicare entrambi con un’interpretazione rigorosissima. Evenienza che, per esempio, si è verificata nel campo dei reati di abuso di mercato, con il sistema del c.d. “doppio binario” (cfr. di recente N. Madia, Ne bis in idem europeo e giustizia penale, Wolters Kluwer Cedam, 2020). Ma non sembra questa la volontà del legislatore.

La ratio della nuova disposizione è sicuramente quella di aiutare gli albergatori in difficoltà per il Covid19. Va tenuta tuttavia separata la prima parte dell’art. 180 del decreto rilancio dalla restante porzione della disposizione. Negli iniziali due commi dell’art. 180 s’istituisce presso il Ministero dell’interno un Fondo (100 milioni di euro) per il ristoro parziale dei Comuni a fronte delle minori entrate derivanti della mancata riscossione dell’imposta di soggiorno.

I commi 3 e 4 dell’art. 180 ritagliano invece una sottofattispecie dal delitto di peculato, configurando un nuovo illecito amministrativo. Quest’ultimo, sul piano “sincronico”, in quanto norma speciale, prevale sulla norma speciale incriminatrice derogandola. Sul piano “diacronico”, l’illecito amministrativo determina poi una abolitio criminis, trasformando la sottofattispecie da illecito penale in violazione amministrativa.

Se un comportamento viene sanzionato in modo più blando, l’effetto dal punto di vista della prevenzione generale sarà quello di invogliare l’albergatore a trattenere l’imposta di soggiorno. Costoro sapranno di non rischiare più il carcere, il processo, il sequestro, la confisca. È chiaramente un trattamento di favore che rassicura l’albergatore che non ha lavorato per mesi. Ma questa è una ragione “politica”. Dal punto di vista “politico criminale” la sanzione penale appare sproporzionata rispetto al disvalore e alla gravità della condotta: il peculato ha una pena che arriva fino a 10 anni e 6 mesi di reclusione. E forse in questo caso sono un po’ troppi per un albergatore che non versa l’imposta di soggiorno.

Decreto legge 19 maggio 2020, n. 34

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