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Il format della giustizia penale mediatica

La prevedibile spettacolarizzazione dei più recenti fatti di cronaca impone una presa d’atto: la giustizia penale mediatica ha ormai sviluppato un vero e proprio format; un format di successo, premiato dal pubblico, nel quale si mescolano elementi di informazione, inchiesta, spettacolo, dibattito e fiction e si consolidano prassi procedurali che delineano una sorta di “codice del processo mediatico” al quale ci stiamo inesorabilmente abituando. Prima le indagini e poi il processo si svolgono sui mezzi di informazione e sui social, prescindendo dalle regole di rito (le prove, l’al di là di ogni ragionevole dubbio) e privilegiando quelle dello show (il verosimile, il possibile, il più convincente sotto il profilo dell’audience); non si giudica più il fatto ma l’individuo, travolto da informazioni di ogni genere, talvolta decontestualizzate e prive di un riferimento temporale, che assumono rilievo in ragione della loro idoneità a solleticare la morbosa curiosità dei follower.

Eliminando i tempi lunghi, ma fisiologicamente indispensabili, della giustizia processuale, la decisione popolare, resa dal Tribunale dell’opinione pubblica in assenza di qualunque tipicità del fatto e mescolando diritto, morale, buon senso e senso comune (il reato è ciò che appare tale), anticipa quella del giudice, destinata ad arrivare troppo tardi, quando non vi è più alcun interesse a conoscerla, e a essere percepita, se assolutoria, come sorprendente, sbagliata e ingiusta. Non a caso, oggi, nel degradato discorso pubblico, “giustizia è fatta” solo quando un processo si conclude con una condanna.

Questa deriva si fonda sulla impropria sovrapposizione di piani, quello dell’informazione e della giustizia, profondamente diversi quanto a tecniche espressive (semplificato e sensazionalistico il linguaggio giornalistico; freddo, tecnico, talora criptico quello giudiziario) e a tempi di reazione (frenetici quelli dei media, imprevedibili quelli delle indagini e del processo), che alimenta effetti perversi e criticità: dallo stravolgimento di categorie e funzioni del processo penale alla distorsione dei rapporti tra fonti giudiziarie e giornalisti, passando per l’inevitabile condizionamento dei soggetti coinvolti, esposti al clamore e all’impazienza con cui gli organi di informazione raccolgono notizie alla ricerca di un colpevole costi quel che costi.

Inutile aggiungere che un “modello processuale” di questo tipo compromette i diritti costituzionalmente garantiti per gli imputati, la corretta dialettica tra accusa e difesa, la serenità psicologica dei giudici, amplificando le sofferenze per le famiglie delle vittime e stravolgendo la valutazione dell’attività giudiziaria nel suo complesso, tanto del pubblico ministero quanto della magistratura giudicante; senza dimenticare le ricadute reputazionali, difficilmente riparabili, e l’irrimediabile svilimento della dignità del singolo, ma anche del ruolo della stampa.

Come provare a invertire la tendenza? Non basta la solita invocazione all’intervento legislativo: tante e sostanzialmente disapplicate le norme già vigenti in materia. Occorre cambiare strategia e provare piuttosto a investire, in chiave sistemica e reticolare, sul “fattore culturale” in una duplice prospettiva: da un lato, incrementando la sensibilità tecnico-giuridica degli operatori dell’informazione giudiziaria, ad esempio rendendo obbligatori percorsi formativi di tecnica e linguaggio processuale; del resto, il cronista giudiziario assume un ruolo peculiare e delicato – informare sull’amministrazione della giustizia -, che non può prescindere, per spiegare al lettore la valenza processuale o meno di quanto pubblicato, da un consolidato bagaglio di competenze tecniche. Dall’altro, in termini di più ampio respiro, promuovendo la condivisione fra i protagonisti (magistrati, avvocati, giornalisti) di principi tutti egualmente importanti: il diritto/dovere di cronaca, certamente, ma anche l’obbligo di tutelare i diritti fondamentali dell’individuo, tra cui reputazione e presunzione di innocenza, inverando quell’etica della comunicazione processuale molto spesso invocata e assai di rado attuata.

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