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Il mandato d’arresto europeo tra Corte di giustizia e Corte costituzionale (una prima lettura di due recenti sentenze del Giudice delle leggi).

C. cost., 28 luglio 2023, n. 177 e n. 178, Sciarra, Presidente, Viganò, Redattore

La Corte costituzionale, con le sentenze in rassegna, si è pronunciata su due questioni di legittimità costituzionale degli artt. 18 e 18-bis, l. 22 aprile 2005, n. 69, decidendole alla luce dei chiarimenti forniti dalla Corte di giustizia (C. giust. UE, 23 aprile 2023, C-699/21 e C. giust. UE, 6 giugno 2023, C-700/21).

Sono decisioni che arricchiscono il dibattito sul mandato d’arresto europeo e offrono, anche soltanto a seguito di una rapida lettura, numerosi spunti di riflessione.

Per la materia trattata, innanzitutto. 

Il “dialogo tra le Corti” ha fornito importanti precisazioni sul campo di applicazione dei motivi di rifiuto della consegna e, soprattutto, ha contribuito a definire l’influenza che la tutela dei diritti fondamentali può esercitare sulla cooperazione giudiziaria in materia penale (in tema, Gialuz – Grisonich, Crisi dell’Unione Europea e crepe nel reciproco riconoscimento, in questa rivista, 2020, p. 2650; Bargis, Libertà personale e consegna, in Kostoris, Manuale di procedura penale europea, V ed., Giuffrè Francis Lefebvre, 2022, p. 463 e ss.).

È un versante che ha sempre richiesto cure esegetiche alquanto scrupolose: essendo in gioco la tenuta dei principi che sostengono il nuovo corso delle relazioni tra Stati membri dell’Unione europea, la ricerca di un punto di equilibrio è sempre stata piuttosto complicata.

Sintetizzando estremamente, la reciproca fiducia che dovrebbe animare i rapporti tra Stati membri ha condotto all’eliminazione di presidi e cautele caratteristici dell’estradizione: allo scopo di velocizzare la circolazione dei provvedimenti giudiziari sono stati drasticamente ridotti i motivi di rifiuto della consegna e quelli superstiti sono stati asserviti al perseguimento di nuovi obiettivi (come avvenuto per il rifiuto di consegnare i propri cittadini, ora funzionale al perseguimento di finalità rieducative e non più espressione della sovranità statale).

Senonchè, il trascorrere del tempo ha lasciato emergere in maniera sempre più marcata la difficoltà – se non proprio la ritrosia – di alcuni Stati membri a metabolizzare un simile assetto, rinunciando a tutele e garanzie tipiche dell’ordinamento interno.

Un atteggiamento rispetto al quale la Corte di giustizia, nel tempo e alla luce delle concrete circostanze, ha dato risposte diverse.

Inizialmente, si è mostrata rigorosa e alquanto restia a consentire un ampliamento in via interpretativa del novero delle cause ostative al fine di soddisfare pretese peculiari dei singoli Stati membri. È emblematico in questa prospettiva il caso Melloni (C. giust. UE, 26 febbraio 2013, C-399/11, in Cass. pen., 2013, p. 2066). 

Successivamente, soprattutto dinanzi a problematiche di carattere sistemico, si è consolidato un diverso approccio, teso invece ad ampliare il catalogo dei motivi di rifiuto per fronteggiare il rischio di gravi violazioni dei diritti umani e impedire che l’obbligo di collaborare all’attuazione della pretesa punitiva di un altro Stato membro si potesse trasformare in un concorso nella lesione di diritti fondamentali del ricercato. È paradigmatica, qui, la vicenda relativa al sovraffollamento e alla condizioni di detenzione (C. giust. UE, 5 aprile 2016, C-404/15 e C-659/15, Aranyosi e Caldararu, in Cass. pen., 2016, p. 3470; in tema, Martufi A., La Corte di giustizia al crocevia tra effettività del mandato d’arresto e inviolabilità dei diritti fondamentali, in Dir. pen. proc., 2016, p. 1243).

In questa dimensione, soprattutto la decisione sulla tutela del diritto alla salute consente di notare un’ulteriore metamorfosi, nella quale si intravede una tendenza restrittiva, determinata probabilmente dalla necessità di superare le difficoltà e le tensioni che il principio del mutuo riconoscimento sta attraversando in questo particolare frangente.

Non c’è dubbio che l’esecuzione del mandato d’arresto europeo non possa ledere i diritti fondamentali della persona richiesta in consegna: è un principio scolpito nell’art. 1, paragrafo 3, della decisione quadro e ribadito più volte dalla Corte di giustizia soprattutto nelle sentenze con le quali ha introdotto rimedi finalizzati a fronteggiare situazioni non contemplate espressamente dalla decisione quadro. 

Tuttavia, proprio la tendenza dei giudici nazionali a prospettare la necessità di introdurre nuove cause ostative estranee al catalogo della decisione quadro rischia di compromettere il funzionamento del meccanismo di cooperazione. Detto in altre parole, pur motivate dal timore che la consegna a uno Stato membro possa comportare una lesione dei diritti fondamentali, le sollecitazioni ad ampliare il catalogo delle cause ostative rischiano di proiettare nella dimensione sovranazionale le peculiarità dei singoli ordinamenti, determinando in tal modo un’inversione di rotta rispetto all’obiettivo perseguito con il varo dell’euromandato.

È per tale ragione, quindi, che la sentenza della Corte di giustizia pare improntata, rispetto ai precedenti, a un maggior rigore: il diritto alla salute è senz’altro rilevante, ma la fiducia reciproca che deve sorreggere le relazioni di cooperazione impone di ritenere che gli ordinamenti processuali di ciascuno lo proteggano in maniera adeguata e che soltanto in presenza di un pericolo imminente per la vita della persona ricercata la consegna possa essere sospesa o rifiutata. Del resto, anche la Corte costituzionale muove nella medesima direzione, laddove ribadisce che i casi di rifiuto della consegna hanno carattere tassativo ed esclude che l’art. 2 della legge italiana sull’euromandato possa essere inteso alla stregua di una clausola aperta che consenta di individuare di volta in volta nuove ipotesi ostative.

Le prossime decisioni in materia – ad esempio, per restare nel panorama nazionale, quella sul motivo di rifiuto incentrato sulla tutela della prole (sollevata da Sez. VI, 14 gennaio 2022, n. 15143, in Cass. pen., 2023, p. 202) – potranno confermare o smentire tale sensazione. È però evidente che il progressivo ampliamento di cause ostative e meccanismi di consultazione tra autorità giudiziarie, ancorchè ispirato dalla volontà di allestire una protezione efficace dei diritti fondamentali, mal si concilia con l’obiettivo di improntare i rapporti di cooperazione sulla fiducia reciproca e semplificare la loro gestione.

Dunque, ponendosi in linea con le indicazioni della Corte di giustizia, il Giudice delle leggi ha risolto la questione di legittimità costituzionale elaborando una soluzione che tiene in equilibrio le contrapposte esigenze di salvaguardare la salute della persona richiesta in consegna e soddisfare la pretesa punitiva dello Stato membro che ha emesso l’euromandato. Il giudice italiano deve presumere che lo Stato membro di emissione tuteli adeguatamente la salute della persona richiesta in consegna e soltanto dinanzi a patologie di notevole gravità può attivare un meccanismo di consultazione che soltanto in via eccezionale – ovvero laddove la situazione sia irreversibile – può condurre al rigetto della richiesta di consegna.

Dal punto di vista procedurale, è significativo l’intervento volto a descrivere le modalità attraverso le quali il giudice deve compiere il vaglio su questo profilo. La Corte di giustizia, infatti, aveva indicato quale previsione di riferimento l’art. 23 della decisione quadro, che si colloca, tuttavia, nella fase di esecuzione dell’euromandato e non in quella di cognizione. La Corte costituzionale, per assicurare il pieno esercizio di difesa, ha adeguato le scarne disposizioni dell’art. 23, con il quale il legislatore italiano ha dato attuazione all’omologo articolo della decisione quadro, anticipando la collocazione della valutazione alla fase di cognizione.

Diversi sono, invece, lo scrutinio e le conclusioni raggiunte nella seconda decisione, nella quale la Corte costituzionale perviene a una pronuncia demolitoria che dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 18-bis, comma 1, lett. c) e, in via consequenziale, dell’art. 18-bis, comma 2 della l. 22 aprile 2005, n. 69.

Confrontando i temi trattati emerge una differenza tra le due questioni che merita di essere segnalata: mentre quella sulla tutela della salute si radicava in una lacuna della decisione quadro e della legge italiana che non prevedevano un’ipotesi ostativa ad hoc, l’altra sulla condizione del cittadino di uno Stato terzo, specularmente, scaturiva dalla incompleta trasposizione della decisione quadro.

Ciò posto, la statuizione finale è coerente con le indicazioni della Corte di giustizia e con la convinzione che il Giudice delle leggi aveva esternato nel formulare il rinvio pregiudiziale.

Del resto, l’estromissione dal meccanismo di consegna differenziato per il cittadino e il residente delle persone provenienti da uno Stato terzo, ma radicate nel tessuto sociale italiano, non era affatto tollerabile dal punto di vista costituzionale e una statuizione in tal senso era stata soltanto rallentata da un criticabile intervento del legislatore che aveva impresso alle previsioni de quibus un connotato antitetico rispetto a quello delineato dalla Suprema Corte nell’ordinanza di rimessione (Sez. VI, 4 febbraio 2020, n. 10371, in Cass. pen., 2020, p. 3174).

Dunque, la Corte costituzionale compie un passo significativo per ricondurre il cosiddetto “microsistema” in una posizione coerente con la decisione quadro e i principi costituzionali.

Un passo che, tuttavia, non è definitivo poichè la pronuncia ha interessato il solo versante esecutivo dell’istituto e non l’euromandato processuale, essendo ancora intatto l’art. 19.

Determinata da un difetto di rilevanza della questione, la circostanza conferma quanto sia difficile correggere il difetto genetico della disciplina. E quindi, se la vita di una previsione palesemente illegittima, come quella compendiata nelle previsioni che recepivano l’art. 4, paragrafo 6, della decisione quadro, si è protratta oltre dieci anni (il problema è sorto immediatamente dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 18, lett. r) ad opera di C. cost., C. cost., 24 giugno 2010, n. 227, in Cass. pen., 2010, p. 4148), l’auspicio oggi è che un intervento sull’art. 19 non richieda tempi tanto lunghi e che, soprattutto, la disparità di trattamento – intollerabile adesso anche alla luce dell’art. 3 Cost. – non trovi avalli nella giurisprudenza di legittimità (come invece avvenuto per l’art. 18, comma 1, lett. c), che alcune decisioni della Suprema Corte hanno ritenuto rispettoso dei principi costituzionali; Sez. VI, 5 novembre 2019, n. 45190, in C.E.D. Cass., n. 277384).

Ma la decisione sull’art. 18-bis, presenta due ulteriori profili di interesse, ai quali conviene fare un cenno, prima di concludere.

Per un verso, la descrizione dei criteri alla stregua dei quali valutare la sussistenza del radicamento in Italia del ricercato e sondare l’attitudine dell’eventuale rifiuto della consegna ad assicurare il perseguimento della funzione rieducativa della pena ratifica il consolidato indirizzo della giurisprudenza di legittimità (tra le più recenti, Sez. VI, 25 giugno 2020, n. 19389, in C.E.D. Cass., n. 279419).

Per altro verso, l’introduzione di un requisito di carattere cronologico, in forza del quale la permanenza in Italia non può essere inferiore a cinque anni, ravviva le perplessità già sorte in precedenza.

È vero che la Corte di giustizia ha riconosciuto agli Stati membri la facoltà di prevedere requisiti ulteriori per coloro che non siano cittadini e che il residente è tenuto a dimostrare il proprio radicamento nello Stato ospitante per accedere al “microsistema” (C. giust. UE, 6 ottobre 2009, n. C-123/09, ivi, 2009, p. 1185, con nota di Calvanese – De Amicis, Mandato d’arresto europeo e consegna “esecutiva” del cittadino nell’interpretazione della Corte di giustizia: verso la declaratoria di illegittimità costituzionale dell’art. 18, lett. r) della l. n. 69/2005?). Ma è anche vero che la rigidità di una simile previsione somiglia troppo – laddove impedisce al giudice di compiere qualsiasi valutazione – ai vituperati automatismi e alle preclusioni disseminati nel diritto penitenziario italiano e spesso stigmatizzati dalla Corte costituzionale. 

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