Sommario: 1. Premessa 2. L’attrito tra la funzione di garanzia della norma penale e la pretesa “educativa” del legislatore 3. Le implicazioni del principio rieducativo 4. Il diritto penale del nemico 5. Il nuovo nemico 6. Le “grida manzoniane” rinvenibili nella nuova fattispecie di corruzione internazionale
ABSTRACT: L’ipertrofia penalistica è alimentata per vie interne, dalle nuove funzioni sociali ed “educative” dello Stato, e anche per vie esterne, dagli obblighi di tutela penalistica assunti a livello internazionale. Si evidenzia il rapporto di tensione tra siffatta ratio “educativa” e la ratio di garanzia della fattispecie penale. In particolare, si evidenzia il contrasto coi principi del diritto penale costituzionalmente orientato ed espressamente con la funzione rieducativa della pena di cui all’art. 27 della Costituzione. Gli argini garantistici della fattispecie rischiano di essere travolti soprattutto nel campo del c.d. diritto penale del nemico, nel quale si può annoverare la norma incriminatrice della corruzione internazionale, introdotta in ossequio al vincolo derivante dalle Convenzioni internazionali, con la legge n. 300/2000. La ratio “educativa” e l’ispirazione populistica sono ben visibili nella nuova formulazione della fattispecie (per effetto della legge n. 3/2019), la cui pedissequa applicazione potrebbe avere l’esito paradossale di mettere in crisi la regolarità delle relazioni internazionali dello Stato italiano.
ABSTRACT: Criminal law hypertrophy is fed internally by the new social and “educational” functions of the State, and also externally, by the obligations afforded by criminal law protection at the international level. The tension is highlighted between this “educational” rationale and the guarantee rationale of the criminal offence. In particular, also emphasised is the contrast with the principles of constitutionally oriented criminal law and expressly with the re-educational function of punishment under Article 27 of the Constitution. The guarantee barriers relating to the offence risk being overwhelmed, especially in the field of so-called criminal law of the enemy, which can be thought to include the criminal law provision of international corruption, introduced – in relation to the requirements set out in the international Conventions – by Law 300/2000. The “educational” rationale and populist inspiration are clearly visible in the new formulation of the offence (as a result of Law 3/2019), the unquestioning application of which could have the paradoxical outcome of undermining the regularity of Italy’s international relations.
- Premessa
Il legislatore penale dei tempi moderni non sembra appagarsi del ruolo di tutore della pacifica convivenza e cede alla tentazione di ergersi a tutore e perfino promotore della buona convivenza, ispirata ai principi del “politicamente corretto”. L’attuale fenomeno di ipertrofia penalistica somiglia ogni giorno di più a una spirale senza fine, che trae origine, a ben vedere, dall’attribuzione allo Stato di una funzione “educativa” un tempo sconosciuta. La cultura liberale classica aborriva il monopolio statalistico dell’educazione e l’uniformità di pensiero; ne derivava un diritto penale improntato al principio di frammentarietà, ristretto alla tutela dei beni essenziali e diretto a sanzionare solo le modalità offensive particolarmente gravi; oggi il moderno “Stato sociale” si è dato nuovi compiti promozionali, in funzione della “giustizia” redistributiva, e addirittura si è onerato dell’orientamento della coscienza sociale dei cives. Ne deriva che le manifestazioni di “antisocialità”, ritenute degne di repressione, sono enormemente aumentate e al contempo lo Stato, che si è dato il compito di accompagnare i cittadini “dalla culla alla tomba”, estende la sua tutela in tutti gli anfratti della convivenza sociale. E come il vuoto di tutela sociale è considerato un terrificante pericolo, allo stesso modo il vuoto di tutela penale dei beni giuridici, un tempo considerato espressione necessaria della frammentarietà penalistica e complemento inevitabile del primato della tutela civilistica, oggi è divenuto il suo contrario, ossia un “male” evitabile, cui è assolutamente necessario porre rimedio. Sicché, il moderno legislatore penale è sempre più affaticato dal rovello di colmare vecchi e nuovi “vuoti”, poiché il totem della pienezza di tutela sociale delle persone ha generato il nuovo idolo della pienezza di tutela penalistica dei beni giuridici.
Questo fenomeno non riguarda solo l’ordinamento italiano, essendo osservabile, in misura e grado diversi, su scala internazionale. E mentre l’area del diritto penale si allarga per vie interne, in relazione ai nuovi uffici “sociali” ed “educativi” dello Stato nazionale, si allarga anche per vie esterne, in relazione a nuovi doveri di incriminazione derivanti da accordi internazionali. Nel presente lavoro si farà cenno, per esempio, alle Convenzioni internazionali che hanno vincolato gli Stati Parte a tipizzare nell’ordinamento interno la nuova fattispecie di corruzione internazionale e si vedrà come l’interpretazione italiana del vincolo abbia prodotto una norma incriminatrice ispirata alla logica “educativa” con esiti paradossali, potenzialmente controproducenti rispetto agli stessi impegni internazionali, assunti sottoscrivendo le Convenzioni. Si ricorre a tale esemplificazione, perché in altri casi la ratio “educativa” coesiste con quella di tutela “sociale”, mentre, nel caso di specie, è completamente assorbente e, potremmo dire, “pura”, in quanto afferente in toto al programma politico-criminale di quella nuova branca del diritto penale del nemico, individuato nel “corrotto”. L’esemplificazione ci pare opportuna, a condizione che siano chiare le linee generali della questione: il caso che prendiamo in considerazione è per l’appunto “esemplificativo”, come tale riconducibile a un orientamento di fondo, che, a nostro avviso, entra in contrasto con i principi del diritto penale costituzionalmente orientato e tende a travolgere gli argini garantistici dello Stato di diritto. Sicché riteniamo che sia necessario inquadrare il caso di specie nell’ambito di un generale rapporto di tensione tra la ratio garantistica e la ratio “educativa” della norma penale.
2. L’attrito tra la funzione di garanzia della norma penale e la pretesa “educativa” del legislatore
Come accennato, il diritto penale dei tempi moderni ha una tendenza espansiva che sembra irrefrenabile. Il moderno Legislatore penale da “precettore” è divenuto anche “educatore”; e da buon “educatore” non rifugge dal ricorrere a messaggi “suggestivi” diretti all’opinione pubblica, non appagandosi di tutelare i beni essenziali della convivenza col semplice divieto delle condotte offensive. Si allarga dunque, in maniera preoccupante, il campo del diritto penale con connotazioni simbolico-espressive. Nei limiti del presente lavoro, proviamo innanzitutto a rinvenire le basi culturali di siffatta deriva “populistica” ed evidenziarne alcuni aspetti.
Il vero argine culturale, che può impedire la tracimazione del diritto penale in ambiti che non gli sono propri, ci sembra la “riscoperta” della funzione di garanzia della fattispecie penale e della sua incompatibilità logica con la funzione “educativa”. All’uopo è necessaria qualche precisazione preliminare.
L’idea che il legislatore regoli, in regime di monopolio, i comportamenti umani non aiuta la comprensione della fenomenologia giuridica e finisce col mettere in secondo piano l’essenziale funzione di garanzia della fattispecie penale[1]. In verità, i comportamenti umani si uniformano intorno ad un modello condiviso sia per l’intervento diretto dell’autorità politica (jus positum), sia per l’evoluzione delle costumanze sociali, del sapere scientifico e tecnologico, nonché per l’interazione di fonti normative extralegislative. I fattori che rendono obbligatori i comportamenti umani sono molteplici e l’idea che il legislatore possa precettarli in posizione monopolistica – e sia pure solo nello specifico campo penalistico – ci pare ingenua e riduttiva. Per di più, se il legislatore è ritenuto il precettore monopolistico dei comportamenti umani risulta consequenziale ritenere che la funzione primaria della fattispecie penale risieda nel “comando” e quella secondaria nella “garanzia”.
In quest’ottica, riesce poco comprensibile la dinamica del principio di legalità: il rigore logico imporrebbe di immobilizzare il precetto, che regola i comportamenti umani, nel tipo di legge; mentre l’evoluzione inarrestabile dei comportamenti umani obbligatori rende impossibile siffatta immobilità. Ne risulta, a nostro avviso, una certa confusione delle lingue, perché il paradigma precettivo sembra sottendere l’immobilità degli obblighi di condotta, dedotti nel “precetto” immobilizzato nella formula linguistica della legge; sicché, nell’ipotizzare un’immobilità impossibile, rischia di giustificare surrettiziamente ogni possibile eccezione.
Se, al contrario, si valorizza il connubio fra precetto e sanzione, il tipo legislativo non può che essere ravvisato, in primo luogo, come perimetro dei fatti punibili. Il suddetto connubio, infatti, postula al contempo, per necessità logica, la primaria e preminente funzione garantistica della fattispecie, essendo l’una e l’altro due facce della stessa medaglia. Descrivere fatti meritevoli di pena significa circoscrivere e tipicizzare l’area della punibilità, a “garanzia” della non punibilità dei fatti atipici, giacché il limite di punibilità segna – ovviamente – anche l’area della non punibilità. In questa logica, la funzione di garanzia della fattispecie penale assume il rango primario, proprio perché la norma penale non ambisce tanto a descrivere i comportamenti obbligatori, quanto a descrivere i fatti meritevoli di pena.
In altra sede, abbiamo espresso l’avviso che il paradigma della norma penale, diretta a descrivere fatti che violano regole extrapenali, piuttosto che a dettare nuove regole comportamentali, sia il più conforme ai principi liberali e coerente con i dettami del diritto penale costituzionalmente orientato [2]. In quest’ottica, risultano destituite di fondamento giustificativo tutte le pretese di “promozione sociale” affidate alla norma penale, funzionalmente diretta, invece, secondo il paradigma garantistico, a recingere i limiti del potere coercitivo dello Stato. Sicché, l’idea che il legislatore penale debba “educare” il popolo con norme-manifesto, o debba “promuovere” opportune forme di “socializzazione”, è la più lontana possibile dalla concezione della norma penale in funzione garantistica e costituzionalmente orientata. Fatta questa breve premessa, proviamo, in questa sede, a trarre alcune conclusioni certamente opinabili, ma non gratuite, perché legate a una lettura non superficiale dei principi ispiratori della nostra Costituzione.
3. Le implicazioni del principio rieducativo
Assumere la funzione di garanzia della fattispecie penale a principio fondante, che trova espressione nell’articolato sistema delle guarentigie costituzionali riguardanti la “materia” penale, non significa negare che la norma penale “di riflesso” sortisca un effetto di orientamento culturale e deterrenza della devianza comportamentale; si nega solo che lo strumento penale debba avere questo fine precipuo in un ordinamento fondato sulla libertà della persona. Si possono proporre due argomenti a sostegno di questa lettura della funzionalità politica della norma penale.
Il primo argomento si può desumere dai principi costituzionali in materia di funzione politico-criminale della sanzione penale. La pena, per espressa previsione dell’art. 27 Cost., deve tendere alla “rieducazione” del condannato e ciò sembra escludere una sottostante, primaria funzione “educativa”[3]. Il diritto penale, nella sistematica costituzionale, interviene nella fase “patologica” dei rapporti sociali, giacché tende a “ripristinare” un nesso “fiduciario” interrotto tra il reo e il consorzio sociale. Se vogliamo ricorrere a un’immagine banale, possiamo pensare al medico chiamato al capezzale dell’ammalato. Come la terapia medica presuppone la patologia, così la pena tende a “rieducare “, proprio perché entra in gioco solo nella dimensione “patologica” dei rapporti sociali. Al contrario, nella dimensione fisiologica, la pena non ha ragion d’essere e la Costituzione, proprio per questo, ne codifica la funzione politico-criminale solo in quell’angolo dei rapporti di convivenza, in cui si palesa la necessità di un intervento “extra-ordinario”.
Si può osservare inoltre che l’idea della funzione educativa del Legislatore di per sé entra in rapporto di tensione con la concezione laica[4] e liberale dell’ordinamento giuridico, la quale rifugge dai paradigmi dello Stato etico, sicché risulta accettabile in limiti molto ristretti e al di fuori dei rapporti di coercizione. Nel campo del diritto penale, la tensione muta dunque in palese incompatibilità: l’educazione coercitiva di Stato, affidata alla comminatoria di pena, contraddice i fondamenti stessi dello Stato di diritto, laico e liberale; contraddice poi, massimamente, il principio di frammentarietà, caposaldo della cultura penalistica condivisa. Se, infatti, la tutela penalistica dei beni giuridici non riguarda la totalità delle possibili aggressioni e dunque il diritto penale non tende, per sua natura, a disciplinare la “totalità” dei comportamenti che possano insidiare i beni tutelati, è chiaro che la norma penale non ha il fine precipuo di “educare”, giacché, se così fosse, ab initio l’“educatore” si sarebbe autolimitato, avendo di mira un’educazione parziale e frammentaria. Mentre la pena frammentaria ha senso, l’educazione a frammenti non è sensata, almeno come finalità dell’educatore.
Ciò premesso, risulta evidente che la funzione di garanzia della fattispecie penale, eletta a principio fondante e canone interpretativo basilare dell’ordine penale, mal si concilia con il moderno gigantismo giuspenalistico, alimentato dalla frenesia di un incauto legislatore, pronto a rincorrere le molteplici “emergenze” quotidiane, ammonendo ed “educando” il mansueto popolo degli ignari[5]. Il moderno fenomeno che fa tracimare il diritto penale in ogni ambito dei rapporti sociali e lo allontana progressivamente dal modello liberale dell’extrema ratio, nasce in quell’humus concettuale che pospone la funzione di garanzia della fattispecie penale alla funzione di orientamento culturale, portata fino alle estreme conseguenze simbolistiche. Il diritto penale acquista veste e finalità simboliche, proprio perché si ritiene di affidargli compiti “educativi” che non dovrebbero competergli, mentre lo Stato assume una nuova veste eticizzante, giustificata da intenti “iperprotettivi”.
Di questo diritto penale simbolico si hanno diverse declinazioni ed accezioni, tutte comunque riconducibili alla comune radice genetica, ravvisabile nello smarrimento della bussola principale, costituita dalla preminente funzione di garanzia della fattispecie penale.
In un primo schema classificatorio, si potrebbe adottare un punto di vista, per dir così, “quantitativo”, ossia relativo al quantum di visibilità del simbolismo; sotto questo profilo si potrebbero distinguere quattro classi di norme penali simboliche: in senso strettissimo e in senso stretto; in senso lato e latissimo[6]. Alla prima categoria si possono ricondurre le norme che incriminano “l’impiego di segni distintivi (simboli) riferibili a organizzazioni incostituzionali”[7]; qui la carica simbolica della norma incriminatrice è molto evidente, giacché l’oggetto incriminato è esso stesso un segno distintivo, che simboleggia il fenomeno da contrastare. Si considerano simboliche in senso stretto, quelle norme nelle quali la dimensione simbolica costituisce l’obiettivo intenzionale e immediato, storicamente e attualmente perseguito; simboliche in senso lato, quelle che tutelano beni giuridici reali e visibili e tuttavia producono effetti simbolico-negativi collaterali, comunque non irrilevanti; in senso latissimo, quelle norme nelle quali l’oggetto giuridico è certamente costituito da un bene concreto, ma è ravvisabile comunque un simbolismo indiretto, di quell’animal symbolicum che è l’uomo[8]. Diciamo subito che l’ultima classe non possiede tratti distintivi molto precisi, sicché la sua inclusione nel genus del diritto penale simbolico potrebbe essere fuorviante, ai nostri fini, perché nella “confusione delle lingue” perde nitore quel comune denominatore, che si origina, a nostro avviso, dall’obliterazione della funzione di garanzia della fattispecie penale. D’altronde, la prima classe individuata (delle norme simboliche in senso strettissimo) costituisce una sorta di numerus clausus, particolarmente rigida, in quanto vincolata a un oggetto specifico; ne consegue che le riflessioni più interessanti possono farsi intorno alle due classi di mezzo, la cui estensione è mobile, secondo l’opinabile discernimento dell’interprete.
Ciò premesso, sembra preferibile adottare una classificazione, nella quale sia commisurato, piuttosto che il quantum di astrattezza simbolica, neutra e avalutativa, il quantum di compatibilità tra la teleologia “educativa” della norma e il valore liberale-costituzionale della tutela dei beni giuridici reali.
Sotto questo profilo, è interessante la classificazione proposta nel quadro di una ricerca scientifica ad ampio raggio, non strettamente vincolata all’ambito penalistico. Si distingue tra la legislazione che si immedesima ed esaurisce nello stesso messaggio simbolico, di cui si ravvisano esempi nell’autonoma incriminazione dell’incendio boschivo e nelle misure sanzionatorie in materia di stupefacenti, la legislazione che disciplina determinati rapporti sociali mediante il simbolo, finalizzata a risolvere “problemi” e soddisfare “esigenze particolarmente avvertite nel bacino sociale di riferimento”, di cui si ravvisano esempi in materia di sicurezza stradale e immigrazione, e infine la legislazione meta-simbolica o “evocativa” la quale tende a “sviluppare una teoretica del bene e del male, in grado […] di interiorizzare nei destinatari il sistema assiologico fondante l’ordinamento”[9], di cui si ravvisano esempi nel campo della tutela dell’ordine pubblico internazionale. In quest’ultima categoria risiede il fenomeno più preoccupante, poiché vi si può ravvisare il rischio che il diritto sconfini nella morale e il legislatore indulga a curare “una pedagogia vivente del bene”[10], piuttosto che tutelare beni giuridici effettivi.
Non dissimili – e ancora più espliciti – sono i rilievi critici, mossi da tanta parte della dottrina penalistica, verso la categoria delle leggi simboliche di appello morale (Gesetze mit moralischen Appelcharakter)[11]. A questa categoria si fanno afferire le fattispecie declamatorie o dirette a inculcare nella popolazione determinati stili o standard di vita, nelle quali il bene giuridico risulta piegato a scopi di educazione morale e sociale. Nell’ordinamento tedesco si ravvisano divieti moralistico- simbolici nei paragrafi 167 e 168 StGB (che tutelano le funzioni religiose e la quiete dei defunti) nei reati di apologia o di minimizzazione di fatti violenti (§ 130 e 131 StGB); nell’ordinamento spagnolo un esempio di previsione simbolico-moralistica si può ravvisare nell’art. 543, che incrimina le “offese alla Spagna”[12]; nell’ordinamento italiano, questo genere di fattispecie è stato ravvisato in materia di droghe e pornografia[13].
Al genus del simbolismo penale vengono accostate pure le fattispecie simboliche di situazione (gesetzgeberische Ersatzhandlungen)[14], nel cui novero si riconducono le leggi di “crisi”[15], le quali puntano a risolvere le più gravi difficoltà politiche e sociali con l’inasprimento dei margini edittali, o le c.d. leggi “alibi”[16], con le quali si tende a rassicurare l’opinione pubblica (Signale der Beruhigung) o quelle “reattive” o “di cambiamento”[17]; tutte accomunate dall’intento del legislatore di “dimostrare” l’immediatezza e l’efficienza della risposta penale alle varie “emergenze” situazionali.
Non l’intera e variegata casistica del simbolismo penale, qui appena accennata, può essere criticata sotto il profilo garantistico a noi più caro, giacché l’oggetto di tutela in molti casi è ravvisabile nelle sembianze di un bene giuridico concretamente accertabile. Ciò che caratterizza e qualifica il simbolismo penale, alla sua radice, ci pare consistere in una pericolosa sovrapposizione del “dimostrativo” sull’”effettivo”, nel senso che la ratio legis pare più orientata a plasmare, ovvero rassicurare, l’opinione del popolo, piuttosto che a difenderne effettivamente i beni primari[18]. Si può perciò tentare di misurare la distanza del simbolismo penale dalla funzione di garanzia della fattispecie penale, in termini di ineffettività della norma.
Sotto questo profilo, può essere proposta una tripartizione, nella quale si distinguono: le leggi penali simboliche ad ineffettività semplice; le simboliche ad ineffettività antinomica; e infine quelle ad ineffettività disnomica[19].
Nelle prime “il carattere simbolico si riduce alla pura e semplice inadeguatezza dello strumento-pena a conseguire lo scopo di tutela”, per esempio a causa della “rarefazione” del bene, particolarmente gigantesco o eccessivamente astratto. L’ordine pubblico internazionale è stato citato come esempio di bene “ideale” e “astratto”; ma si può anche pensare alla fattispecie di aggiotaggio comune, i cui estremi sono integrati dal fine “gigantesco” di “turbare il mercato interno dei valori e delle merci”; fine, peraltro, solitamente assente nel comportamento di chi fa speculazione nella sua nicchia, per il proprio profitto, non avendo cura dei modesti effetti collaterali sull’andamento dell’intero mercato.
Le seconde (ad effettività antinomica) si caratterizzano per il rapporto di contraddizione tra il bene che intendono tutelare e la minaccia di pena che finisce col dirigersi verso lo stesso oggetto tutelato; se ne rinviene un esempio nella criminalizzazione dell’aborto, poiché “volendosi tutelare la vita (del feto) si minaccia la vita (della madre)”.
Le norme simboliche ad ineffettività disnomica, infine, sono quelle nelle quali risultano tipizzati “elementi antinomici paralizzanti”; si può pensare a talune incriminazioni penaleconomiche, penalambientali o in tema di stupefacenti. In quest’ultimo campo, si può rinvenire l’esempio paradigmatico nel quadro di un progetto di riforma che prevede il trattamento sanitario alternativo alla condanna. Sul punto, si osserva che solo la volontaria sottoposizione al trattamento sanitario può efficacemente risolvere il problema della tossicodipendenza e ovviamente la minaccia di pena “ostacola”, se non inibisce, l’autodeterminazione della persona.
La superiore rassegna, per quanto breve e sintetica, è sufficiente comunque a farci intendere che la dimensione pletorica della vigente legislazione penale si deve, in buona misura, al fraintendimento riguardante i destinatari del “messaggio” recato dalla norma. Nella prospettiva educativa, il “messaggio” si rivolge direttamente alla comunità sociale, giacché tutti indistintamente sono chiamati ad accogliere una determinata opzione di valore o ad assumere un determinato “stile” di vita[20]. Al contrario, nella prospettiva garantistica, il “messaggio”, proprio in quanto esplicitamente “sanzionatorio” e solo implicitamente “precettivo”, si rivolge, in via diretta, solo al destinatario che aggredisce il bene tutelato, mentre il consorzio sociale, nella sua interezza, non deve uniformarsi ad alcun modello ideologico o comportamentale.
In sintesi, la funzione simbolica e la funzione di garanzia indirizzano la norma penale verso destinatari effettivi diversi. Emerge dunque, a nostro parere, la connessione tra l’obliquità del “messaggio simbolico-educativo”[21] e lo smarrimento della primaria funzione di garanzia della fattispecie penale; e, in definitiva, questa chiave di lettura ci permette di spiegare una buona parte della moderna elefantiasi penalistica.
4. Il diritto penale del nemico
Si può opinare che la ratio ispiratrice, esclusiva o prevalente, del diritto penale simbolico risieda nell’intento di assecondare e blandire l’opinione pubblica o di placarne le reazioni emotive in occasione di eventi, che destano grave allarme sociale; pertanto, il diritto penale simbolico può anche rappresentarsi in termini di diritto emergenziale. In verità, l’intera gamma delle emergenze non dà vita al simbolismo e l’intera gamma del simbolismo non si giustifica con l’emergenza; tuttavia, è evidente la connessione tra l’uno (diritto penale simbolico) e l’altra (ratio emergenziale). Inoltre, si può osservare che le forme del diritto penale simbolico più distanti dal principio garantistico sono proprio quelle ufficialmente giustificate in nome di un’emergenza.
S’intende che, per fronteggiare l’emergenza, è necessario ricorrere a misure “eccezionali”; nasce così il diritto penale “eccezionale” che vuole debellare i nuovi nemici della res pubblica. Ovviamente le “eccezioni” sono destinate a durare ben più dell’emergenza, vera o presunta, e pertanto il diritto penale del nemico, simbolico nelle intenzioni iniziali[22], tende a diventare, ben più che un simbolo, un vero e proprio corpus iuris, solido e durevole, nel quale le nuove eccezioni si sovrappongono alle vecchie, che pure persistono.
Ben s’intende altresì che il “nemico” viene identificato mediante i tratti della sua personalità criminologica, i quali lo distinguono dal criminale comune, sicché il diritto penale del nemico tende sempre a naufragare nel campo della tipologia d’autore; ossia in quel campo dove la funzione di garanzia della fattispecie penale, fondata sulla tassativa tipicità del fatto, viene sacrificata, ovviamente in nome dell’emergenza, alle esigenze della “lotta” a una determinata tipologia criminosa[23].
E’ bene precisare, tuttavia, che la dizione “diritto penale del nemico” non è univoca, giacché designa una congerie multiforme di paradigmi concettuali, molto controversi in dottrina, dai contorni imprecisi e poco definiti[24]. Si possono estrapolare tre differenti categorie, accomunate dal richiamo a siffatta “qualifica” del reo, la quale – è bene precisare fin da subito – è frutto di elaborazione dottrinale, giacché la sua base “positiva” è ravvisabile solo nel diritto penale di guerra e non anche nel diritto penale di pace, che ci occupa: la prima sta a indicare quel diritto penale basato essenzialmente sulla figura dell’autore del reato (terrorista, mafioso etc.), attinto da misure di sicurezza; la seconda ricomprende i casi in cui si utilizza strumentalmente il diritto penale del fatto in funzione simbolico-espressiva, in modo che gli autori di certi delitti subiscano una sorta di deminutio capitis; la terza accezione qualifica come nemico quel soggetto, il cui comportamento è in tal grado ostile alla società da impedirne il riconoscimento come persona[25].
Fin da subito è possibile cogliere il contrasto della prima prospettiva, vista nella sua purezza astratta, coi principi del nostro ordinamento giuridico, fondato sul diritto penale del fatto; allo stesso modo, appare chiaro di prim’acchito che la terza prospettiva stride con il principio di soggettività giuridica della persona umana; sicché prendiamo in considerazione soprattutto la seconda accezione di diritto penale del nemico, riconducibile al genus simbolico-espressivo, nel quale la ratio “emergenziale” e la finalità di orientamento culturale del legislatore sono più evidenti. Si riserva al reo (di determinati delitti) un trattamento sanzionatorio diversificato ed “eccezionale”, sia per additarlo come “nemico del popolo”, meritevole di uno stigma tendenzialmente permanente, sia per “educare” i cives alla conformità e “rassicurare” l’opinione pubblica sulla sollecitudine del legislatore a porre gli opportuni rimedi all’”emergenza”.
Verifichiamo in primo luogo se alla normativa di questa tipologia possa offrire una valida base teorico-dommatica la dottrina di Gunther Jakobs[26], la quale invero non si palesa del tutto nuova[27]. Nella sistematica jakobsiana, l’ordinamento penale è suddiviso in tre filoni: il diritto penale del cittadino, il diritto penale di guerra e il diritto penale del nemico (Feindstrafrecht). Alla prima categoria afferiscono gli istituti normativi e i paradigmi culturali della tradizione liberale classica, riguardanti il reo preso in considerazione come persona, per dir così, “redimibile”, “recuperabile” alla logica e alla dinamica della convivenza sociale; alla seconda categoria afferiscono gli istituti eccezionali, vigenti solo nel caso di guerra in corso, nel cui limitato arco temporale vengono sospese le garanzie del codice penale in tempo di pace; la terza e più controversa categoria contempla i fatti di reato posti in essere da un soggetto che si pone al di fuori del consorzio sociale, rifiuta i valori di civiltà che fondano la convivenza e non è disposto a intraprendere alcun percorso di “rieducazione”.
In altri termini, si teorizza l’esistenza di un “nemico” in tempo di pace, in qualche modo assimilabile al nemico in tempo di guerra. Invero, riesce difficile negare che taluni atti, raccapriccianti e sanguinari, di terrorismo internazionale equivalgano a una dichiarazione di guerra contro l’intera umanità e la civile convivenza; si può pensare che la guerra tra Stati, in qualche modo lineare e manifesta, avente una sua “regolarità”, sia pure tragica e crudele, sia stata oggi sostituita da una sorte di guerra asimmetrica, non già combattuta da uno Stato contro un altro, bensì da organizzazioni criminali e bande armate clandestine contro l’ordine stesso della civiltà umana. Non sarebbe scandaloso definire “nemici” dell’umanità coloro che attentano ai capisaldi della convivenza civile con efferati atti terroristici, tanto più se diretti, ciecamente e biecamente, contro inermi civili, colpiti a caso.
Tuttavia, la questione non è nominalistica e non attiene al linguaggio comune o al gergo giornalistico; si tratta di capire se, nell’ambito di un ordinamento penalistico fondato sui principi di libertà, l’“allarme” sociale, ancorché grave, possa giustificare la qualifica tecnico-giuridica di “nemico” in capo al reo di taluni delitti. A ben considerare, l’interrogativo apre la via a due distinte questioni: una dommatica, se la distinzione tra il cittadino (civis) e il nemico (non-civis) abbia un qualche fondamento nel vigente ordinamento dei principi e delle norme giuridiche; l’altra di politica criminale, se sia opportuno pagare un “prezzo” ai diritti di libertà individuale in vista di un particolare profilo della “sicurezza” sociale.
Sul piano dommatico, il costrutto teorico di Jakobs appare confuso e molto fragile[28].
La confusione è dovuta al fatto che manca alla nozione di “nemico” la necessaria chiarezza identitaria, poiché vi sono ricomprese le più variegate figure di soggetti ritenuti ostili al consorzio sociale, senza riferimento preciso alla tipologia di “guerra” da loro combattuta. Invero, nel diritto internazionale, il “nemico” è riconoscibile in funzione di una guerra tra Stati o di un conflitto interno, combattuto da una fazione armata per il controllo totale o parziale del territorio dello Stato (insurrezione armata). Laddove mancano i requisiti della guerra, i quali peraltro giustificano il vigore del codice penale in tempo di guerra, il “nemico” non è riconoscibile in base a parametri certi e dunque i contorni della sua figura rimangono comunque nebulosi, tali da non poter identificare una categoria concettuale scientificamente fondata[29]. Si può osservare poi che l’antinomia logica, del tipo A/non-A, sussiste non già nella coppia cittadino/nemico, bensì nella coppia amico/nemico; ma un diritto penale dell’amico, contrapposto al diritto penale del nemico, non ha alcuna ragion d’essere, poiché il diritto penale giammai può considerarsi “amichevole”[30].
Si giunge, invero, alla contrapposizione, impropria dal punto di vista logico, cittadino/nemico, per le vie traverse, segnate dal riconoscimento della qualifica di persona in capo al primo e dal disconoscimento in capo al secondo. Il cittadino è una persona, titolare di diritti e di doveri, in quanto appartenente alla comunità umana che riconosce e tutela quei diritti; il nemico invece è nient’altro che un “individuo”, cui non è riconosciuta la titolarità dei diritti a cagione della sua ostilità, e perciò estraneità, alla comunità umana che quei diritti riconosce e tutela. Si vede bene dunque che la contrapposizione cittadino/nemico, alla fine dei conti, si configura come contrapposizione individuo/persona, laddove la persona è il civis, mentre l’individuo è una non-persona ovvero non-civis.
Si tratta di una contrapposizione molto più radicale di quella cittadino/straniero, rilevante per esempio nel campo del diritto amministrativo. In quest’ambito, la posizione del cittadino può essere differenziata rispetto al non-cittadino (per quanto riguarda, ad esempio, l’elettorato attivo e passivo); ma si tratta di aspetti specifici e circoscritti della capacità d’agire; mentre, giammai può essere negata la personalità giuridica tout court a qualsiasi uomo, ancorché straniero. La condizione di uomo di per sé, senza alcuna appendice o ulteriore specificazione, conferisce la generale titolarità dei diritti e, primariamente, dei diritti della persona a fronte del potere coercitivo dello Stato[31]. In sintesi, la dogmatica del diritto penale del nemico, oltre che confusa, si rivela inconsistente, perché suppone il nemico come non-persona; il che equivale a supporlo come non-uomo, in contrasto con i principi fondanti della nostra millenaria civiltà giuridica[32].
Non meno inconsistente si rivela una seconda antinomia, riguardante la funzionalità politica della norma penale, nella quale ha sbocco la contrapposizione tra il diritto penale del cittadino e il diritto penale del nemico. Il primo, nella sistematica di Jakobs, è caratterizzato da una pena, che sanziona il fatto, in relazione al passato e tende a ripristinare lo status quo ante secondo la logica “retributiva”; invece, il diritto penale del nemico, guarda al futuro, perché tende a preservare la società dai possibili futuri reati del “nemico”. Ebbene, quest’antinomia funzionale della sanzione penale, volta al passato oppure al futuro, secondo che il reo sia cittadino o nemico, non pare faccia i conti con l’indissolubile plurifunzionalità della pena, per un verso volta a “retribuire” il passato, ma per l’altro, volta alla prevenzione generale e speciale[33]. Si può dunque concludere che il costrutto teorico-dommatico del diritto penale del nemico si rivela molto fragile.
In ragione dell’insufficiente coerenza logico-dommatica della teoria jakbosiana, pare opportuno restringere l’angolo di visuale alle sole questioni di politica criminale[34], riassumibili nella domanda di fondo: se l’emergenza possa giustificare e fino a che punto – eventualmente – possa giustificare un diritto penale “eccezionale”, in rapporto di tensione coi principi basilari del diritto penale costituzionalmente orientato (legalità, colpevolezza e finalità rieducativa della pena)[35]. E’ innegabile che le esigenze di difesa sociale, nei confronti della criminalità organizzata più pericolosa e aggressiva, impongano il ricorso a misure repressive e preventive, efficacemente dissuasive; incontrano, tuttavia, sempre e comunque il limite delle garanzie recate dalla fattispecie penale, nel quadro dei principi costituzionali. La tensione col principio di legalità si acuisce quando la misura, magari formalmente amministrativa, ma sostanzialmente punitiva, finisce col gravare sul “sospetto”, piuttosto che sul “reo”. La tensione col principio di colpevolezza si acuisce quando si anticipa la tutela penalistica fino al punto da incriminare gli atti preliminari, privi di offensività. S’intende che la teorica del diritto penale del nemico offre, appunto, la base giustificativa per acuire il rapporto di tensione fino al superamento del punto limite, segnato dal rispetto dei menzionati principi di legalità e colpevolezza[36].
Ciò vale anche per il principio della finalità rieducativa della pena, il cui attrito coi dogmi del diritto penale del nemico è stato fin qui meno evidenziato in dottrina. Tale costruzione teorica suppone un soggetto (nemico) “irremovibile” e “irrecuperabile”, che rifiuta radicalmente le condizioni della pacifica convivenza, implicanti il riconoscimento della sovranità dello Stato, ed è assolutamente refrattario alle finalità di emenda e di rieducazione, proprie della pena. Questa supposizione ci pare infondata, perché non fa i conti con la reversibilità e “volatilità” dei convincimenti e delle intenzioni degli uomini. Anche il più incallito dei delinquenti può mutare i suoi programmi di vita e rieducarsi ai valori di civiltà, che costituiscono il fondamento etico-giuridico della comunità sociale; invece, la rappresentazione del reo come nemico dello Stato e della convivenza civile lo “immobilizza” e “cristallizza” in una tipologia d’autore, predefinita e marchiata indelebilmente. Appare evidente la frizione, se non l’aperto contrasto, con il principio costituzionale della finalità rieducativa della pena, che non ammette eccezioni per alcuna tipologia di fatto di reato e, a maggior ragione, per tipologia d’autore.
5. Il nuovo nemico
Orbene, ci pare che proprio questo profilo del rapporto di tensione tra la politica criminale, volta alla lotta contro il “nemico”, e la logica garantistica del diritto penale costituzionalmente orientato, sia quello più rilevante nei tempi odierni. Si può fare l’esempio della nuova legislazione di lotta contro l’ennesima “emergenza”, rappresentata dalla corruzione. Il Parlamento, in tempi recenti, ha approvato la legge n.3 del 9 gennaio 2019, denominata “spazzacorrotti”[37], nell’immaginifico linguaggio della politica e del giornalismo cartaceo e televisivo. La denominazione tradisce chiaramente il messaggio rassicurante e “narcotizzante” affidato dal legislatore-provvidenza a quest’ultima esemplare espressione del simbolismo penale[38], eletto a criterio guida delle scelte di politica criminale, in attesa di un nuovo caso di “emergenza” nazionale, che richieda ovviamente un’ulteriore modifica della legislazione vigente.
I tratti del simbolismo penale emergono con molta evidenza nella fisionomia del “corrotto”, divenuta di fatto una categoria d’autore. Per costui vige ora una legislazione “speciale”, diversa da quella riguardante tutti gli altri cives; lo status penalistico differenziale elegge il “corrotto” a categoria criminologica a sé stante, introducendo pericolosi “strappi” nel tessuto dell’ordinamento penale liberale-classico, chiaramente ispirati alla logica della colpa d’autore. Ravvisiamo tale logica non solo e non tanto nella particolare severità sanzionatoria, ma anche e soprattutto nelle “eccezionali” modalità esecutive della sanzione, le quali vanno a configurare un percorso “rieducativo” del tutto speciale.
Ci limitiamo a segnalare i più significativi tratti di legislazione simbolico-espressiva, ispirata alla logica della lotta contro il “nemico”. I limiti edittali delle pene previste per i fatti di corruzione sono stati innalzati in misura rilevante, tanto da compromettere la proporzione con le pene previste per i reati similari. In base a un giudizio di disvalore enfatizzato a dismisura, sull’onda emozionale dell’ennesima “emergenza” nazionale, la corruzione risulta a priori “più grave” di altri delitti meno ricorrenti nelle cronache giornalistiche, a prescindere dal “danno sociale” effettivamente apportato[39]. Si compromette così la giustizia retributiva, fondata sulla proporzione, sulla misura e sul discernimento.
E’ stata introdotta, poi, la figura dell’”agente provocatore”, con licenza di istigare e determinare il pubblico ufficiale a commettere fatti di corruzione[40]. La Repubblica confida così nel provocatore-delatore, cui è garantita l’impunità, per punire “in maniera esemplare” il colpevole. In questa rinuncia a condannare uno dei protagonisti del pactum sceleris ci pare di cogliere, innanzitutto, una “confessione d’impotenza” dello Stato, incapace di punire tutti i responsabili di fatti illeciti, meritevoli di sanzione[41]. Si osserva, in secondo luogo, che, grazie all’introduzione del nuovo istituto dell’agente provocatore, si introiettano e istituzionalizzano “metodi” polizieschi “similsovietici” nel contesto di un ordinamento giuridico, dalle coordinate liberali-classiche. Tali metodologie “eccezionali” sono state “tollerate” per contrastare la criminalità organizzata più determinata e pericolosa; non pare saggio estendere l’“eccezione” in un campo così vasto, che riguarda la vita quotidiana del cittadino “comune”, nella veste di utente o dipendente della pubblica amministrazione[42].
La “lotta” al nuovo nemico, ravvisato nel corrotto, tocca poi il suo punto più alto con le modifiche apportate in sede di esecuzione della pena. Oggi, il corrotto è meritevole di una speciale “rieducazione”: mentre tutti gli altri cives possono giovarsi dei benefici previsti dalla legislazione penitenziaria erga omnes, per i condannati per fatti di corruzione vige una sorta di legge penitenziaria erga corruptos. Nella fase esecutiva della pena, i corrotti sono costituiti non-cives, immeritevoli dei trattamenti diretti al reinserimento sociale valevoli per tutti gli altri cives. Sono loro preclusi l’assegnazione al lavoro esterno e gli altri benefici penitenziari, diretti a facilitare il percorso rieducativo e il reinserimento sociale del condannato[43]. Insomma, l’esecuzione della sanzione penale segue una via diversa da quella ordinaria, essendo “straordinari” i condannati, “rieducabili” appunto con mezzi “speciali”. Si capisce bene che la ratio ispiratrice, magari non dichiarata e tuttavia ben visibile, non riguarda tanto il fatto di reato, quanto l’autore; proprio per questo, la legge differenzia l’autore della corruzione rispetto alla rimanente parte dei rei, aggravandone pesantemente il percorso rieducativo. Come non vedere nel nuovo sottosistema penale, vigente per i corrotti, qualche traccia del diritto penale del nemico, ispirato alla teoria della colpa d’autore?
In conclusione, ci pare di poter dire che nell’ordinamento penalistico italiano sono visibili rilevanti segni di pericolose incrinature, apportate – nella logica del diritto penale del nemico – alla coerenza della funzionalità garantistica del diritto penale costituzionalmente orientato. L’allarme del “nemico alle porte”, suonato in occasione di tante “emergenze”, ha indotto il legislatore a “tranquillizzare” l’opinione pubblica creando sottosistemi, in vigore per determinate tipologie d’autore. Nel campo delle misure di prevenzione, della lotta alla criminalità organizzata, comune e politico-terroristica, della legislazione penitenziaria “eccezionale” e “ostativa”, il legislatore ha mostrato di essere sensibile alle sirene di due pericolose teorizzazioni – da una parte, la colpa d’autore, dall’atra, il diritto penale del nemico – allontanandosi dalla strada maestra, segnata dall’orientamento costituzionale, al cui centro è posta la funzionalità garantistica della fattispecie penale.
6. Le “grida manzoniane” rinvenibili nella nuova fattispecie di corruzione internazionale
Le nuove sembianze della fattispecie di corruzione internazionale[44], impresse dalla citata legge c.d. spazzacorrotti, costituiscono un ulteriore esempio di diritto penale simbolico espressivo[45]; anzi, per certi versi, possono ritenersi il più fulgido esempio di tale paradigma, pressoché assimilabile alle “grida” seicentesche di manzoniana memoria. Il legislatore del 2019 ha eliminato dal testo dell’art. 322 bis, 2° comma c.p. ogni riferimento alla finalità perseguita dal soggetto agente (corruttore), con l’intendimento di estendere l’ambito della punibilità precedentemente ristretta dal dolo specifico, con l’imbarazzante risultato che, teoricamente, si dovrebbe punire ogni corruttore internazionale che abbia, in maniera preordinata o anche accidentale, dato l’avvio in Italia a un iter criminis destinato a trovare compimento nell’atto di un pubblico ufficiale straniero (il quale tuttavia rimane esente da censura penale), con effetti nell’ordinamento straniero, senza alcun interesse dello Stato italiano nella vicenda. Solo il riferimento alla competizione economica internazionale radicava l’interesse dello Stato italiano a punire un fatto destinato a produrre effetti nell’ordinamento dello Stato estero; venuto meno tale riferimento per effetto della legge c.d. spazzacorrotti, rimane in vita un programma “moralizzatore” dello Stato italiano, “gridato” urbi et orbi, non autorizzato da alcuna convenzione internazionale, destinato a rimanere lettera morta. Per cogliere l’enormità del “cortocircuito” innescato, nel corpo vivo dei principi generali di diritto interno e internazionale, dal “proclama” legislativo di perseguire i corruttori di tutto il mondo di passaggio dall’Italia, è necessario premettere un breve excursus storico.
L’originaria formulazione della fattispecie si deve all’art. 3, comma 1 della legge n. 300 del 29 settembre 2000[46], che introdusse, inserendolo nel codice penale all’art. 322 bis, il reato di “peculato, concussione, corruzione e istigazione alla corruzione di membri delle Comunità europee e di funzionari delle Comunità europee e di Stati esteri”, distinto in due fattispecie autonome: la prima, contemplata al primo comma dell’art. 322 bis c.p., estende le sanzioni previste dagli artt. 314, 316, 317, 320 e 322, terzo e quarto comma del codice penale, ai fatti commessi da un pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio, esercente le sue funzioni nell’ambito dell’Unione Europea[47]; la seconda fattispecie, contemplata al 2° comma, punisce la corruzione internazionale extra UE ed è quella che commentiamo in questa sede. Il suo contenuto dispositivo consiste nell’estendere la punibilità dei fatti previsti dall’art. 319 quater, secondo comma, 321 e 322, primo e secondo comma, del codice penale, ai casi in cui il pubblico ufficiale coinvolto (o incaricato di pubblico servizio) appartenga a uno Stato straniero extra UE (ovvero a organizzazioni internazionali). La differenza più vistosa con la prima fattispecie (intra UE) risiede nella circostanza che si punisce (al secondo comma) uno solo dei due soggetti del pactum sceleris, ossia il privato corruttore, mentre il soggetto pubblico corrotto non è punito, in virtù della sua appartenenza a un ordinamento estero; al contrario, al primo comma, è contemplata la sanzione penale anche per il soggetto pubblico appartenente all’Unione Europea[48].
Nella formulazione originaria, la corruzione internazionale (extra UE prevista dal secondo comma) era punibile “qualora il fatto” fosse stato “commesso per procurare a sé o ad altri un indebito vantaggio in operazioni economiche internazionali”. È ben chiaro che il dolo specifico del corruttore restringeva la tipicità del fatto entro l’area della competizione economica internazionale, in relazione alla ratio di preservare l’ordine di mercato, contrastando la concorrenza sleale su scala globale. Questa prima formulazione della fattispecie era la più fedele alla finalità ispiratrice delle Convenzioni internazionali, plasmate sul modello della legge statunitense FCPA.
Con la novella del 2009 fu aggiunto l’inciso “ovvero al fine di ottenere o mantenere un’attività economica o finanziaria”[49]. Risulta evidente l’intento legislativo di ampliare il raggio della punibilità, mantenendola comunque limitata alla sfera dei rapporti economici internazionali. Ne risulta “attenuato” il nesso iniziale – che ispirò la normativa statunitense, le convenzioni internazionali ed a seguire tutte le legislazioni nazionali di ratifica e attuazione – tra i fatti incriminati e la competizione economica internazionale, relativa ai contratti d’appalto e fornitura stipulati e stipulandi tra le grandi compagnie multinazionali e gli Stati esteri; il nesso ovviamente persisteva, ma stemperato e scolorito nel mare magnum dei rapporti economici indifferenziati. L’“attività economica o finanziaria” cui fa riferimento il testo novellato del 2009 ben potrebbe consistere nella gestione di un piccolo localetto di ristorazione; se ne può arguire che il nesso con la competizione economica internazionale, se non scomparso del tutto, risulta comunque attenuato.
Se la modifica legislativa del 2009 aveva mantenuto un parametro “economico-finanziario” di riferimento, la successiva del 2019 lo ha eliminato del tutto, giacché, nella formulazione attualmente vigente, l’incriminazione prescinde completamente da qualsivoglia finalità specifica del soggetto agente (corruttore). Ciò, a nostro avviso, ha importanti conseguenze, al punto da comportare una sorta di “snaturamento” del fatto inizialmente incriminato e rendere indecifrabile la ragione stessa della rilevanza penale del fatto.
La condotta del soggetto passivo della corruzione, ossia del pubblico ufficiale straniero, non è incriminata da alcuna legislazione nazionale, non già in quanto “giustificata” per qualche oscura ragione, ma in quanto offende un bene giuridico estraneo all’interesse nazionale e perciò al di fuori della sfera di vigore della legge nazionale[50]. Si tratta del buon andamento e della imparzialità della pubblica amministrazione dello Stato estero; e dunque un bene “indifferente” alla sfera d’intervento del legislatore nazionale. Ciò spiega ovviamente perché la corruzione (passiva) del pubblico ufficiale straniero non è punita dal legislatore nazionale, tenuto a rispettare la corrispondente sovranità del legislatore straniero, competente a tutelare l’organizzazione amministrativa domestica.
La cooperazione e le relazioni internazionali tra gli Stati si fondano sul riconoscimento reciproco della sovranità esercitata da ogni Stato sul proprio territorio a tutela degli interessi nazionali. Senza questo riconoscimento reciproco non si potrebbe avere alcuna cooperazione, né alcuna relazione pacifica tra gli Stati sovrani. Tale principio basilare può ammettere qualche piccola eccezione, convenzionalmente accettata, ma non tale da inficiare alla radice il principio stesso.
Le Convenzioni internazionali ammettono una sorta di “interferenza” di uno Stato negli affari interni di un altro, solo entro limiti precisi e a determinate condizioni. Il primo limite è dato dalla punibilità della sola corruzione attiva. Se infatti la corruzione internazionale fosse punita anche dal lato passivo, il sistema del diritto internazionale andrebbe in “cortocircuito”, perché si dovrebbe ammettere che uno Stato, punendo il pubblico ufficiale straniero nell’esercizio e per l’esercizio delle sue funzioni, si prenda cura degli interessi esteri e cioè si surroghi allo Stato estero e dunque non ne riconosca la sovranità. Il secondo limite è dato dall’oggetto di tutela. La leale competizione economica internazionale in materia di contratti di appalto e fornitura è un bene “comune” che riguarda la comunità internazionale, cosicché si ammette l’incriminazione del soggetto attivo del rapporto corruttivo, la cui condotta rientra nella sfera d’interesse e di sovranità dello Stato nazionale, in virtù di un collegamento territoriale (per es. la sede legale della company). Il secondo limite attiene all’oggetto di tutela: lo svolgimento regolare e leale della competizione economica nel mercato globale è un interesse che supera i confini nazionali degli Stati. Ovviamente – ribadiamo – la stessa cosa non può dirsi per il prestigio, il buon andamento e l’imparzialità della pubblica Amministrazione, costituenti un interesse esclusivo dello Stato nazionale.
Orbene, poiché dall’art. 322 bis co. 2 c.p. è stato espunto qualsivoglia riferimento diretto o indiretto alla competizione economica internazionale, si potrebbe pervenire al paradosso che la giustizia italiana sia chiamata a tutelare il bene giuridico di uno Stato estero, senza alcuna delega da parte di quest’ultimo. L’Italia agirebbe in surroga dello Stato estero, senza che una norma internazionale, sovranazionale o un eventuale accordo di collaborazione bilaterale abbia autorizzato la surroga. Si supponga che il corruttore – di nazionalità italiana – incontri in Italia il corrotto e stipuli con lui un accordo riguardante, per esempio, il rilascio di un permesso di soggiorno illimitato nello Stato estero (green card statunitense)[51], che dovrebbe essere rilasciato colà dal pubblico ufficiale nella fase successiva. Orbene, questo fatto, in base al principio dell’obbligatorietà dell’azione penale, dovrebbe essere comunque perseguito dalla Giustizia italiana ai sensi dell’art. 322 bis co. 2 c.p., proprio per l’assenza di qualsivoglia finalità specifica. Ma un processo in Italia, riguardante il rilascio della green card statunitense, non violerebbe i principi basilari del diritto internazionale?
Nella nostra esemplificazione, il rilascio della green card dedotto nel patto corruttivo stipulato in Italia non offende l’Amministrazione italiana, in quanto è implicato il pubblico ufficiale straniero; non offende il bene internazionale, la cui tutela costituisce la ratio fondante delle Convenzioni internazionali; offende solo la pubblica Amministrazione statunitense. Cosicché un processo in Italia per siffatta corruzione internazionale sarebbe instaurato a prescindere da un interesse punitivo dello Stato italiano. Il che configurerebbe, già di per sé, una grave anomalia nel sistema. Ma a questa se ne aggiunge un’altra. C’è uno Stato che ha un interesse punitivo nella vicenda; ed è lo Stato del pubblico ufficiale corrotto; sicché l’azione penale esercitata in Italia, non solo sarebbe priva di un interesse punitivo dello Stato italiano, ma inoltre andrebbe a ledere l’interesse punitivo dello Stato estero (nel caso esemplificato, gli Stati Uniti). Tale sostituzione avverrebbe senza alcun accordo bilaterale in tal senso e al di fuori dell’ambito di previsione delle citate convenzioni internazionali.
Si potrebbe addirittura verificare questo paradosso: che l’ipotizzato processo instaurato in Italia sia addirittura considerato, dagli organi dello Stato estero, lesivo del prestigio della propria pubblica Amministrazione e non sarebbe da escludere un eventuale incidente diplomatico. Lo Stato estero si potrebbe dolere che nel processo a carico del solo corruttore, il corrotto non potrebbe difendere la sua onorabilità, proprio perché estraneo al processo, e dunque la macchia del suo onore (dalla quale in ipotesi non ha potuto difendersi) andrebbe a maculare il prestigio dell’intera Amministrazione di appartenenza. Insomma, si perverrebbe alla stranezza, degna della penna di Pirandello, che il processo instaurato a difesa, invero non richiesta, del prestigio della pubblica Amministrazione altrui, sia considerato esso stesso la fonte primaria del nocumento arrecato a tale prestigio.
Se poi ipotizzassimo che il pactum sceleris, finalizzato al rilascio della green card, sia stipulato in Italia da due stranieri (corruttore messicano, corrotto statunitense) si avrebbe questo ulteriore paradosso: che gli organi della Giustizia italiana dovrebbero comunque promuovere l’azione penale in relazione a un fatto accaduto in Italia (accordo corruttivo, consistente in una promessa di pagamento, accolta dal pubblico funzionario per un atto del suo ufficio), ma si troverebbero nell’imbarazzante situazione di perseguire uno straniero (corruttore messicano) per un fatto che offende la pubblica Amministrazione di un Paese straniero (Stati Uniti) e pertanto non lede alcun bene giuridico posto sotto la protezione della Repubblica Italiana. Non è impensabile che siffatta azione penale possa innescare ben due incidenti diplomatici, anziché uno solo. Al tirar delle somme, parrebbe che il legislatore italiano abbia smarrito la linea di demarcazione tra il diritto e la morale e voglia perseguire penalmente non solo il reato, ma anche il “peccato”[52].
Parrebbe anche che siffatto legislatore “smarrito” non abbia fatto i conti con la realtà, dal momento che la sua pretesa punitiva, la quale esonda dai limiti di materia e di territorio riconosciuti in tutti gli altri ordinamenti, sembra destinata inesorabilmente a non trovare facile soddisfacimento. Insormontabili difficoltà probatorie farebbero da riparo al patto illecito stipulato al di fuori di quello specifico ambito, circoscritto prima dal FCPA, poi dalle Convenzioni internazionali, dal Bribery Act e da tutte le legislazioni nazionali di attuazione, ossia l’ambito della concorrenza economico-finanziaria delle multinazionali; infatti solo la fase ideativa del (supposto) pactum sceleris potrebbe svolgersi in territorio italiano, ma è chiaro che l’idea ha minori evidenze fenomeniche, rispetto all’atto esecutivo, pertanto la sua prova giudiziaria è molto più ardua. D’altronde, se l’effettiva applicazione dell’art. 322 bis co. 2 c.p., negli anni passati, si è ridotta a pochissimi casi, non si può immaginare che la maggiore ampiezza della fattispecie tipica, dovuta alla soppressione del dolo specifico, possa dar luogo a una casistica giudiziaria particolarmente vasta. È prevedibile che la maggiore “ampiezza” teorica sia ben lontana dal divenire nei fatti maggiore “ampiezza” applicativa; e dunque non si traduca in corrispondente incremento della casistica giudiziaria, posto che il fatto del corruttore “individuale” (da noi esemplificato in Tizio che mira ad ottenere la green card statunitense) è certamente meno visibile e manifesto rispetto al fatto del corruttore “societario”; il primo non lascia le tracce del secondo, eventualmente rinvenibili nella contabilità societaria, nelle riunioni degli organi, nelle informazioni disponibili a una pluralità di persone etc..
Perveniamo dunque alla sconsolante conclusione che il legislatore italiano ha deciso di vestire i panni di una sorta di “don Chisciotte che combatte contro i mulini a vento”, pur di assecondare la sua pretesa educativa e moralizzatrice, per di più non ristretta all’interno dei confini nazionali, bensì valida, secondo il proclama, per tutti i corruttori del mondo, i quali abbiano intrapreso in Italia l’iter criminis diretto a corrompere i pubblici ufficiali di un qualunque Paese, comunque situato nell’orbe terracqueo, per qualunque ragione, ancorché assolutamente estranea agli interessi dell’Italia.
[1] Per una disamina sulla funzione di garanzia della norma penale, v. per tutti L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, 2009; ID. Cos’è il garantismo, in Criminalia, 2014, 129 ss.
[2] A. Abukar Hayo, La funzione di garanzia della fattispecie penale. Argini culturali e normativi al potere coercitivo dello stato nella teoria del reato, Edizioni Scientifiche Italiane, 2019, 301 ss.
[3] In generale sulla funzione rieducativa della pena cfr. S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Edizioni Scientifiche Italiane, 1992, 21 ss.; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte speciale, I, XVI ed., integrata ed Aggiornata a cura di L. Conti, Giuffrè, 2003, 679 ss.; G. Fiadaca – G. Di Chiara, Una introduzione al sistema penale, Jovene, 2003, 15 ss.; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto Penale. Parte generale, VII ed., Zanichelli, 2014, 47 ss.; T. Padovani, Diritto Penale, Giuffrè, 2017, 360 ss.; G. Costanzo, Principio di legalità, azione penale e trasformazioni dello stato di diritto, Giuffrè, 2018, 1 ss.; A. Manna, Corso di diritto penale, Wolters Kluwer, 2020, 567 ss.; G. Marinucci – E. Dolcini – G.L. Gatta, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 2020,19 ss.; C.F. Grosso – M. Pelissero – D. Petrini – P. Pisa, Manuale di diritto penale. Parte generale, Giuffrè, 2020, 635 ss.; F. Palazzo, Corso di Diritto Penale, Giappichelli, 2021, 29 ss; D. Pulitanò, Diritto Penale, Giappichelli, 2021, 49 ss.
[4] A. Manna, Legislazione “simbolica” e diritto penale: a proposito del recente d.d.l. governativo, ormai definitivamente approvato, sugli stupefacenti, in Pol. dir., 1990, 222, critica le norme che sembrano “meno attagliarsi ad un moderno Stato sociale di diritto, ma piuttosto evocare forme proprie di uno Stato confessionale”. Nelle osservazioni critiche dell’Autore, non può non leggersi la preoccupazione che il diritto penale simbolico possa stravolgere il volto laico dello Stato.
[5] Il diritto penale, pletorico e simbolico, ha le sue radici nella smania del legislatore di assecondare le spinte popolari emotive, amplificate dai mass-media; si è parlato in questo senso di diritto penale populistico; v. D. Brunelli, Il disastro populistico, in Criminalia, 2014, 258 ss.
[6] Il criterio “quantitativo” è il nucleo, intorno al quale ruotano le varie classificazioni del simbolismo penale in P. Noll, Ideologie und Gesetzgebung, in W. Maihofer, Ideologie und Recht, Frankfurt am Main, 1969, 69 ss.. La quadripartizione proposta si ispira alla tripartizione adottata da F. Palazzo, Laicità del diritto penale e democrazia “sostanziale”, in Quad. cost., 2010, 440.
[7] Al riguardo F. C. Schroeder, Symbolisches Trafrecht – symbolische Straftaten, in F. Herzog, U. Neuman, Festschrift fur Winfried Hassemer, Heidelberg, 2010, 619-620.
[8] M. Neves, Symbolische Konstitutionalisierung, 1998, 15 -16.
[9] E. Stradella, Recenti tendenze del diritto penale simbolico, in E. D’Orlando – L. Montanari, Il diritto penale nella giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, 2009, 220; ID., La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e ‘prassi’, Giappichelli, 2008, 69.
[10] E. Stradella, op. cit.
[11] Cfr. P. Noll, Symbolische Gesetzgebung, 2009, 357 ss.; H. Kindermann, Symbolische Gesetzgebung, 2009, 230 ss.; S. Scheerer, Atypische Moralunternehmer, in Kriminologisches Journal, 1986, I supplemento), 133 ss.
[12] Tale esempio di norma simbolico-moralistica è proposto da J. M. Paredes Castanon, La justificaciòn de las leyes penales, Valencia, 2013, 343.
[13] Per tutti C. E. Paliero, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it dir. proc pen., 1992, 879 ss. e 920 ss.; Id., L’agorà e il palazzo. Quale legittimazione per il diritto penale?, in Criminalia, 2012, 110.
[14] Cfr. P. Noll, op. cit., 360.362; C. E. Paliero, Il principio di effettività del diritto penale, Editoriale scientifica, 2011, 539; ID, La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed ‘effetti penali’ dei media), in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 59 ss.
[15] Sulla categoria delle Krisengesetze cfr. K. Amelung, Strafrechtswissenschaft und Strafgesetzgebung, in ZStW, 1980, 59; H. Hill, Einfuhrung in die Gesetzgebungslehre, Heidelberg, 1982, 37.
[16] Sulla categoria delle Alibigestze cfr. L. Kunz, Zur Symbolik des Strafrechts, in D. Dolling, B. Gotting, B. D. Meier, T. Verrel, Verbrechen – Strafe – Resozialisierung. Fest. H. Schoch, Berlin, New York, 2010, 362; T. Weigend, Dove va il diritto penale? Problemi e tendenze evolutive nel xxi secolo, in Criminalia, 2014, 75 ss.; C. Cupelli, Il legislatore gioca col fuoco: gli incendi boschivi (art. 423 bis c.p.) fra emergenza e valore simbolico del diritto penale, in Ind. pen., 2002, 181 ss.
[17] W. Hassemer, Das Symbolische am symbolischen Strafrecht, 1004; R. Bloy, Symbolik im Strafrecht, 60; F. Mantovani, Lo smembramento dei controlli sociali e i degenerativi aumenti e peggioramenti della criminalità e del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen, 2017, 1169.
[18] Alcune figure sintomatiche ci aiutano a riconoscere tale intento “rassicurante”: i preamboli ad pompam, che fungono da “manifesto” o “dichiarazione d’intenti” del legislatore, servono a occultare fini di tutela ben diversi da quelli ufficialmente dichiarati. Un altro espediente consiste nella traslazione di fattispecie incriminatrici intra moenia codicis per motivi di facciata; la costruzione di fattispecie-doppione non ha altra utilità che quella di “rassicurare” l’opinione pubblica, circa la sollecitudine del legislatore a provvedere sulle questioni “urgenti”; l’inasprimento edittale delle sanzioni costituisce lo strumento più comune, attraverso il quale si raggiunge l’effetto “ansiolitico” presso la società civile, senza peraltro alcun effetto concreto e visibile di prevenzione generale; anche l’anticipazione esasperata della tutela reca un messaggio “rassicurante”, giacché dimostra la volontà di estirpare ab imo le radici del crimine, a prescindere dalla concreta offensività delle condotte preliminari incriminate. Quando ricorrono tali figure sintomatiche, il legislatore penale cura molto di più la sua “immagine” politica al cospetto dei cittadini-elettori, che la reale salvaguardia dei loro beni. Le menzionate figure sintomatiche sono individuate da S. Bonini, La funzione simbolica nel diritto penale del bene giuridico, Editoriale Scientifica, 2018, 102.
[19] La classificazione è proposta da C.E. Paliero, Il principio di effettività del diritto penale, cit., 529 ss.
[20] In fondo, a ben considerare, l’ineffettività della norma simbolica, consiste sostanzialmente in una “efficacia” deviata: non è necessario, tanto che la norma sia efficace nei confronti del colpevole, quanto che lo sia, in funzione simbolico-declamatoria, nei confronti della generalità dei cives. Tali caratteri si riscontrano in tutte le forme di manifestazione del simbolismo penale, variamente declinato, pur mentre differisce, com’è ovvio, la misura del vulnus arrecato al principio liberale del diritto penale del bene giuridico; la legislazione penale simbolico-espressiva, demagogico-retorica, paternalistico-pedagogica, le fattispecie-manifesto e le norme-simulacro sono comunque accomunate dall’”inganno”, che risiede nella scelta del legislatore di perseguire effetti epidermici e narcotici. In questo senso R. Hegenbarth, Symbolische und instrumentelle FunKtionen moderner Gesetze, In Zeitschrift fur Rechtspolitik, 1981, 203; J.C. Muller, Die Legitimation des Rechtes durch die Erfindung des symbolischen Rechtes, in Kriminologisches Journal, 1993, 86.
[21] Questa chiave di lettura ci permette di cogliere la radice “ingannatoria” del diritto penale simbolico. Nell’ambito del quale la norma incriminatrice “ama mentire sulla cerchia dei destinatari, rivolgendosi non al destinatario naturale, e cioè al potenziale autore, ma alla globalità della popolazione, per rassicurarla o, meglio, blandirla”, sicché la “duplicazione di messaggi e di destinatari (reali e apparenti)” costituisce “il marchio di fabbrica del diritto penale simbolico”. Così si esprime S. Bonini, op. cit. 2018, 93.
[22] S. Bonini, op. cit. 2018, 166 ss., riconduce espressamente il c.d. diritto penale del nemico nel genus del simbolismo. M. Cancio Melia, ‘Diritto penale’ del nemico?, in M. Donini, M. Papa, Un diritto penale del nemico. Un dibattito internazionale, Giuffrè, 2007, 69 ss., fa riferimento, pur sempre, alla categoria del diritto penale simbolico, in senso lato, ma precisa che non si può parlare di simbolismo in senso tradizionale.
[23] Per quanto concerne il rapporto fra pratica dell’eccezione, emergenza e sicurezza statale nell’ordinamento italiano, si veda U. Nazzaro, La funzione «emergenziale» della pena tra «castigo» e «premio»: spunti di riflessione sulla recente «emergenza sicurezza», in Riv. Pen., 2009, n. 2, pp. 227 ss.
[24] Le voci che in dottrina si sono interessate specificamente al tema sono innumerevoli, possono ricordarsi l’opera collettanea a cura di M. Donini – M. Papa, Un diritto penale del nemico, cit. (con contributi di K. Ambos, M. Cancio meliá, T. Hörnle, F. Muñoz Conde, C. Prittwitz, A. Aponte, D. Pastor, D. Cole, M. Dubber, V. Dinh, G. Fletcher) e quella a cura di A. Gamberini – R. Orlandi, Delitto politico e diritto penale del nemico, Monduzzi, 2007, con contributi, oltre che dei curatori, di Autori come C. Galli, V. Ruggiero, T. Padovani, F. Muñoz conde, G. Quintero-Olivares, G. Jakobs, M. Donini, G. Fiandaca, G. Cussac, D. Pulitanò, G. Insolera, G. Losappio, A. Cavaliere, R. Kostoris, L. Salas, B. Pavisic, E. Fronza, D. Gioia. Sul punto cfr. altresì F. Palazzo, Contrasto al terrorismo, diritto penale del nemico e diritti fondamentali, in Questione giustizia, 2006, 2, 667 ss; R. Mantovani, Il diritto penale del nemico, il diritto penale dell’amico, il nemico del diritto penale e l’amico del diritto penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 2007, 2, 472; R. Bartoli, Lotta al terrorismo internazionale. Tra diritto penale del nemico, jus in bello del criminale e annientamento del nemico assoluto, Giappichelli, 2008, p. 10.; P. Brunetti, Diritto penale del nemico: una lettura critica dei presupposti filosofici, in Penale Diritto e Processo, versione online, 29.05.2020.
[25] Le tre categorie sono indicate da T. Padovani, Diritto penale del nemico, 2014, Pisa University Press, 7 ss.
[26] Le origini dell’espressione “diritto penale del nemico” si riportano allo scritto di G. Jakobs, Kriminalisierung im Vorfeld einer Rechtsgutsverletzung, in ZStW 97, 1985, 753 ss.
[27] T. Padovani, op. cit., 11-12, osserva opportunamente che “le prospettive di Jakobs rappresentano una riedizione, piuttosto inquietante, di quelle elaborate nella Germania degli anni Trenta”; “Shaffstein e Dahm teorizzavano le stesse cose in forma diversa”.
[28] A. Pagliaro, ‘Diritto penale del nemico’: una costruzione illogica e pericolosa, in Cass. pen., 2010, 6, 2460, parla di scarsa coerenza logica delle enunciazioni formulate da Jakobs. In questo stesso senso, Pulitanò, Il problema del diritto penale del nemico, fra descrizione e ideologia, in A. Gamberini – R. Orlandi, Delitto politico e diritto penale del nemico, Milano, 2007, 238 ss.
[29] In questo senso F. Munoz Conde, Der Kampf gegen dem Terrorismus und das Feindstrafrecht, in In dubio pro libertate (Festschrift fur Klaus Volk), Munchen, 2009, 495 ss.
[30] A. Pagliaro, op. cit., 2461 ss.; G. Losappio, Diritto penale del nemico, diritto penale dell’amico, nemici del diritto penale, in Delitto politico cit., 258 ss..
[31] Sia consentito rinviare al nostro precedente lavoro, nel quale si evidenzia che la persona umana, capace d’intendere e di volere, è dotata di per sé della soggettività in campo penalistico ovvero della c.d. capacità penale; cfr. A. Abukar Hayo, Lineamenti generali della pretesa punitiva, Giappichelli, 2010. Nelle altre branche dell’ordinamento, sono ammissibili gradazioni della capacità giuridica, tuttavia vige pur sempre il principio secondo cui “unica condizione per essere subbietto di diritti è quella di essere uomo”; R. De Ruggiero – F. Maroi, Istituzioni di diritto privato, I, Milano, 1950, 167; T. Padovani, op. cit.
[32] T. Padovani, op. cit., L’Autore osserva che la teoria di Jakobs “mette in crisi o pretende di mettere in crisi uno dei postulati su cui si reggono le società liberali democratiche, cioè che uomo, individuo o persona sono la stessa cosa, non esiste la possibilità di separarli”.
[33] A. Pagliaro, op. cit., 2462, osserva che “la funzione del diritto penale è sempre (almeno doppia): contraddizione e insieme rimozione di un pericolo”; “il diritto penale guarda al passato ma, al tempo stesso, guarda sempre all’avvenire. Ogni norma penale ha questo duplice modo di operare. Non si può stare a distinguere se il destinatario ne sia il ‘cittadino’ o il ‘nemico’”.
[34] Dello stesso avviso A. Pagliaro, op. cit., 2461. L’Autore osserva che, “forse proprio a causa della sua inconsistenza scientifica, tale dottrina ha avuto notevoli riflessi sul dibattito in tema di politica criminale”, pertanto “non è inopportuno provare a studiarla sotto questo profilo”.
[35] Di palese contrasto coi principi costituzionali parla G. Insolera, Terrorismo internazionale tra delitto politico e diritto penale del nemico, in Delitto politico cit., 248, il quale osserva che “il diritto penale del nemico non è un altro diritto penale, è altro dal diritto penale”.
[36] In questo senso, F. Zumpani, Critica del diritto penale del nemico e tutela dei diritti umani, in Diritto e questioni pubbliche, 2010, 10, 525 ss.
[37] Tra i primi commenti, prevalentemente di segno critico e concernenti il d.d.l. genetico, presentato alla Camera dei Deputati il 24 settembre 2019, cfr. A. Manna – A. Gaito, L’estate sta finendo…, in Arch. pen. 2018, n. 3, 2; N. Pisani, Il disegno di legge “spazzacorrotti”: solo ombre, in Cass. pen., 2018, p. 3589 ss. R. Cantone, Ddl Bonafede: rischi e opportunità per la lotta alla corruzione, in Giurisprudenza Penale Web, 2018, n. 10, p. 1 ss.; G. Flora – A. Marandola, La nuova disciplina dei delitti di corruzione. Profili penali e processuali (L. 9 gennaio 2019, n.3 c.d. «spazzacorrotti»), Pacini Giuridica, 2019; M. Gambardella, Il grande assente nella nuova “legge spazzacorrotti”: il microsistema delle fattispecie di corruzione, in Cass. pen., 2019, 1, 44 ss.; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, IV ed., Milano, 2019. Sui profili processuali, per tutti, A. Camon, Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni a prima lettura, ivi, p. 1 ss. ;T. Padovani, La spazzacorrotti. La riforma delle illusioni e le illusioni della riforma, Arch. pen., 3/2018. L’insigne Autore, fin dagli albori della novella, ne evidenziò la radice “illusoria” e fors’anche “ingannatoria”, annoverandola nella categoria sempre più nutrita del diritto penale simbolico-espressivo (cfr. nota 36). Questa tipologia di legislazione, sorretta da intenti populistici, appare caratterizzata dal fatto che la norma incriminatrice “ama mentire sulla cerchia dei destinatari, rivolgendosi non al destinatario naturale, e cioè al potenziale autore, ma alla globalità della popolazione, per rassicurarla o, meglio, blandirla”, di guisa che la “duplicazione di messaggi e di destinatari (reali e apparenti)” costituisce “il marchio di fabbrica del diritto penale simbolico”. Così si esprime S. Bonini, op. cit. 93.
[38] T. Padovani, La spazzacorrotti. La riforma delle illusioni e le illusioni della riforma, cit., 1 ss. mette in evidenza, in primo luogo, l’inconsistenza del fondamento fattuale della nuova “emergenza”.
[39] Per una panoramica sul delitto di corruzione v. fra i molti C. Benussi, I Delitti contro la pubblica amministrazione, in G. Marinucci – E. Dolcini, Trattato di diritto penale. Parte Speciale, 412 ss.; G. Fiandaca – E. Musco, Diritto Penale. Parte Speciale, Vol.1, Zanichelli, 2012, 325 ss; M. Romano, I delitti contro la pubblica amministrazione. I delitti dei pubblici ufficiali, cit.; P. Pisa, Giurisprudenza commentata di diritto penale – Delitti contro la pubblica amministrazione e contro la giustizia, Wolters Kluwer, 2020, 261 ss.; R. Bartoli – M. Pelissero -S. Seminara, Diritto Penale, Lineamenti di parte speciale, Giappichelli, 2021, 480 ss..
[40] Teoricamente l’agente sotto copertura dovrebbe astenersi dal “provocare” la commissione del reato, ma nella pratica non sempre è facilmente distinguibile l’infiltrato dal provocatore. La linea di distinzione può risultare offuscata, perfino in relazione ai fatti di criminalità organizzata, per i quali tali strumenti investigativi sono in qualche modo collaudati; risulta assolutamente nebulosa, in relazione ai fatti di corruzione, i quali presuppongono un pactum sceleris, i protagonisti del quale possono essere indifferentemente istigati e istigatori. Sul punto Camon, Disegno di legge spazzacorrotti e processo penale. Osservazioni a prima lettura, in Arch. pen. (web), 2018, 3.
La Corte EDU ammette la figura dell’istigatore (Corte EDU 21 marzo 2002, Calabrò c Italia e Germania; 4 luglio 2017, Matanovic c. Croazia; 20 febbraio 2018, Ramanauskas c. Lituania), ma non quella del provocatore (Corte EDU 9 giugno 1998, Teixeira de Castro c. Portogallo; grande camera, 5 febbraio 2008, Ramanauskas c. Lituania; 21 febbraio 2008, Pyrgiotakis c. Grecia; 1° luglio 2008, Malininas c. Lituania). Non è difficile dunque ipotizzare che l’Italia possa andare incontro all’ennesima censura della Corte, per il fatto che la legge c.d. spazzacorrotti legittima, in ultima analisi, la “provocazione” del pactum sceleris. A questa conclusione si deve infatti pervenire, in ragione del fatto che l’agente sotto copertura non può assumere un atteggiamento passivo, quale mero spettatore della condotta altrui, ma deve sottoscrivere attivamente il pactum sceleris. Dello stesso avviso, S. Seminara, Riflessioni sulla corruzione, tra repressione e prevenzione, in R. Bartoli – M. Papa, Il volto attuale della corruzione e le strategie di contrasto, Giappichelli, 2018, 153; l’Autore osserva “che, in un illecito bilaterale di condotta come la corruzione, l’offerta o la dazione del denaro integra già l’art. 322, comma1 o 2 c.p. e vale dunque a rendere il suo autore ben più che un agente provocatore”.
[41] Non per nulla, in siffatta legislazione “emergenziale” viene ravvisato “l’ennesimo esempio di quella giuridicità debole sagacemente individuata da Sabino Cassese tra i caratteri costanti del nostro ordinamento”; T. Padovani, La spazzacorrotti, cit., 10.
[42] T. Padovani, La spazzacorrotti, cit., 4, sottolinea che la lotta alle mafie e al terrorismo è ben diversa dal contrasto alla corruzione; “la circostanza che ad essi (agenti sotto copertura e pentiti remunerati n.d.a.) non si sia mai fatto ricorso per favorire l’accertamento di questo genere di reati avrebbe dovuto, di per sé, indurre qualche perplessa riflessione”.
[43] L’art. 4 bis della legge 26.7.1975 n. 354, come modificato dall’art. 1 comma 6 lett. a) e b) della legge 9 gennaio 2019 n. 3, preclude l’applicazione delle misure alternative alla detenzione e degli altri benefici penitenziari, eccezion fatta per la liberazione anticipata, ai condannati per i delitti di cui agli artt. 317, 318, 319, 319 bis, ter, quater primo comma, 320, 321, 322, 322 bis del codice penale. Allo stesso modo, l’art. 47, comma 12, della medesima legge, come modificato dall’art. 1 comma 7 della legge 9 gennaio 2019 n. 3, impedisce che l’esito favorevole dell’affidamento in prova ai servizi sociali estingua gli l’effetti delle pene accessorie perpetue (previste per i reati dei “corrotti”).
[44] In generale sulla fattispecie di corruzione internazionale, cfr. S. Manacorda, La corruzione internazionale del pubblico agente. Linee per un’indagine penalistica, Jovene, 1999; G. Fornasari – N. D. luisi, La corruzione: profili storici, attuali, europei e sopranazionali, Cedam, 2003; V. Patalano, Profili problematici della corruzione internazionale, in ID, Nuove strategie per la lotta al crimine organizzato transnazionale, Giappichelli, 2003, 402; F. Centonze – F. Dell’osso, La corruzione internazionale. Profili di responsabilità delle persone fisiche e degli enti, in Riv. it. dir. proc. pen., 2013, 208; V. Mongillo, La corruzione tra sfera interna e dimensione internazionale. Effetti, potenzialità e limiti di un diritto penale “multilivello” dallo Stato-nazione alla globalizzazione, Edizioni Scientifiche Italiane, 2012; ID., La repressione della corruzione internazionale: costanti criminologiche e questioni applicative, in Dir. pen. proc., 10/2016, 1320; ID., Corruzione internazionale e mercimonio di un atto conforme ai doveri d’ufficio, in Dir. pen. proc., 12/2016, 1623; V. Mongillo, La legge “spazzacorrotti”: ultimo approdo del diritto penale emergenziale nel cantiere permanente dell’anticorruzione, Dir. Pen. Cont., 2019, 5, 297 ss.; R. Bartoli – M. Pelissero -S. Seminara, Diritto Penale, Lineamenti di parte speciale, Giappichelli, 2021, 480 ss..
[45] L’intera legge c.d. spazzacorrotti sembra obbedire, più che a meditati criteri di efficienza politico-criminale, a una logica rozzamente “emergenzialista” e all’intento politico di rassicurare l’opinione pubblica, circa l’efficienza delle misure di contrasto del fenomeno corruttivo; la stessa denominazione adottata (spazzacorrotti), nell’enunciare un programma per certi versi utopico, ma suggestivo, disvela chiaramente che il legislatore si rivolge molto più all’opinione pubblica che al reo. Sui caratteri generali della legislazione simbolica, ex plurimis, S. Bonini, op. cit.; E. Stradella, Recenti tendenze del diritto penale simbolico, in E. D’Orlando – L. Montanari, Il diritto penale nella giurisprudenza costituzionale, Giappichelli, 2009, 220; ID., La libertà di espressione politico-simbolica e i suoi limiti: tra teorie e ‘prassi’, Giappichelli, 2008, 69; C.E. Paliero, Consenso sociale e diritto penale, in Riv. it dir. proc. pen., 1992, 879 ss., 920 ss.; ID., L’agorà e il palazzo. Quale legittimazione per il diritto penale?, in Criminalia, 2012, 110; ID., Il principio di effettività del diritto penale, Editoriale Scientifica, 2011, 539; ID, La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed ‘effetti penali’ dei media, in Riv. it. dir. proc. pen., 2006, 59 ss.. Nella letteratura d’oltralpe, P. Noll, Symbolische Gesetzgebung, 2009, 357 ss.; H. Kindermann, Symbolische Gesetzgebung,2009, 230 ss.; S. Scheerer, Atypische Moralunternehmer, in Kriminologisches Journal, 1986, (I supplemento), 133 ss.. Alcune figure sintomatiche ci aiutano a riconoscere tale intento “rassicurante” perseguito dal legislatore: i preamboli ad pompam, che fungono da “manifesto” o “dichiarazione d’intenti” del legislatore, servono a occultare fini di tutela ben diversi da quelli ufficialmente dichiarati; un altro espediente consiste nella traslazione di fattispecie incriminatrici intra moenia codicis per motivi di facciata; la costruzione di fattispecie-doppione non ha altra utilità che quella di “rassicurare” l’opinione pubblica, circa la sollecitudine del legislatore a provvedere sulle questioni “urgenti”; l’inasprimento edittale delle sanzioni costituisce lo strumento più comune, attraverso il quale si raggiunge l’effetto “ansiolitico” presso la società civile, senza peraltro alcun effetto concreto e visibile di prevenzione generale; anche l’anticipazione esasperata della tutela reca un messaggio “rassicurante”, giacché dimostra la volontà di estirpare ab imo le radici del crimine, a prescindere dalla concreta offensività delle condotte preliminari incriminate. Quando ricorrono tali figure sintomatiche, il legislatore penale cura molto di più la sua “immagine” politica al cospetto dei cittadini-elettori, che la reale salvaguardia dei loro beni. Le menzionate figure sintomatiche sono individuate da S. Bonini, op. cit., 102 ss.
[46] La legge ratificò e diede attuazione a due Convenzioni internazionali sottoscritte dall’Italia: la Convenzione di Bruxelles del 26 maggio 1997; la Convenzione OCSE di Parigi del 17 dicembre 1997; entrambe concernenti i mezzi di contrasto, in fase repressiva e preventiva, dei fenomeni corruttivi.
[47] Tale fattispecie è rimasta pressoché immutata; nel tempo il suo vigore è stato esteso alle nuove figure funzionali sopraggiunte, grazie all’incremento delle attribuzioni in capo agli organi dell’Unione ovvero alla creazione di nuovi organi.
[48] La corruzione passiva risulta punita solo nell’ambito dell’UE. Il primo comma dell’art. 322 bis c.p. contempla i fenomeni corruttivi intraUE, per i quali è prevista la sanzione punitiva anche a carico del pubblico ufficiale (concussione, peculato, corruzione passiva). La ragione della differenza, rispetto al regime giuridico previsto al secondo comma, è ben evidente: l’Italia è parte interessata al buon andamento e all’imparzialità della struttura amministrativa dell’Unione, essendone parte integrante e contribuendo al suo bilancio; nessun interesse o cointeressenza coinvolge, invece, l’Italia, in relazione all’attività amministrativa dello Stato estero extraUE. Sul punto cfr. M. Montanari, La normativa in materia di corruzione al vaglio delle istituzioni internazionali, in Dir. pen. cont., luglio 2012.
[49] La legge 3 agosto 2009 n. 116 fu emanata per dare attuazione alla Convenzione internazionale di Merida adottata dall’assemblea generale delle Nazioni Unite il 31 ottobre 2003.
[50] “L’irrilevanza, de lege lata, della corruzione passiva di pubblici ufficiali di Stati non appartenenti all’UE è pienamente giustificata, non in forza di una logica etnocentrica o di una visione autarchica o statolatrica, ma perché fattispecie penali non ancorate a interessi interni afferrabili, radicati ed avvertiti nella comunità sociale, rappresentano più che un disincentivo efficace contro i comportamenti vietati, il più sicuro viatico verso un diritto penale meramente simbolico”. V. Mongillo, La corruzione internazionale, 216-217. L’Autore aggiunge in nota che “non sembra che una fondazione positiva della tutela di beni giuridici esterni possa ricavarsi dall’art. 11 Cost.: ai fini della promozione della pace e della giustizia tra le Nazioni, tale disposizione ammette solo le ‘limitazioni di sovranità’ a ciò necessarie e non l’utilizzo dello strumento punitivo, che rappresenta, all’opposto, una delle più incisive estrinsecazioni della sovranità statuale”. La tesi opposta avrebbe ragion d’essere, solo nel caso in cui il soggetto passivo della corruzione (pubblico ufficiale straniero) fosse compartecipe di una struttura criminale operante (anche) nel territorio nazionale. Entro questi limiti, potrebbero essere accolte le suggestive considerazioni di J. P. Pierini, La corruzione del pubblico ufficiale straniero. Repressione nell’ambito del contrasto della criminalità organizzata, Giappichelli, 2016.
[51] Una sorta di permesso di soggiorno a lungo termine, molto ambita specialmente nelle aree povere del Messico e del Centro America.
[52] La lotta alla corruzione è divenuta una nuova (presunta) “emergenza” nazionale, a giustificazione dell’ennesimo intervento del legislatore, che alimenta il moderno “gigantismo” penale. In altra sede, abbiamo osservato che “il diritto penale acquista veste e finalità simboliche, proprio perché si ritiene di affidargli compiti “educativi” che non dovrebbero competergli, mentre lo Stato assume una nova veste eticizzante, giustificata da intenti “iperprotettivi”; A. Abukar Hayo, La funzione di garanzia della fattispecie penale. Argini culturali e normativi al potere coercitivo dello stato nella teoria del reato, cit.