La Procura generale presso la Corte d’appello di Potenza ha recentemente adottato un Protocollo organizzativo relativo alle indagini compiute nei confronti degli enti collettivi, ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, manifestando interesse nei confronti di una materia spesso negletta. Il contributo ne ripercorre gli snodi fondamentali e si interroga sulla compatibilità di simili atti con il principio di legalità processuale.
The General Prosecutor’s Office at the Potenza Court of Appeal recently adopted an Organizational Protocol on investigations against companies, under Legislative Decree No. 231 of June 8, 2001, showing interest in an often-forgotten matter. The article traces its key junctures and it questions the compatibility of such acts with the principle of procedural legality.
Sommario 1. Uno sguardo d’insieme. – 2. Il rapporto di causalità tra le carenze organizzative e la commissione del reato-presupposto da parte di un “apicale”. – 3. Le modalità e gli strumenti di indagine. – 4. Tempi duri per il principio di legalità processuale?
1. UNO SGUARDO D’INSIEME
La Procura generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Potenza ha di recente diffuso un protocollo organizzativo contenente linee guida relative alle indagini condotte ai sensi del d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, il quale disciplina, come è noto, «[l]a responsabilità amministrativa delle persone giuridiche, delle società e delle associazioni anche prive di personalità giuridica»[1].
Soffermandosi sui profili ritenuti maggiormente problematici, detto documento, frutto della discussione intercorsa con gli Uffici requirenti del Distretto e con i Comandi provinciali della Guardia di finanza, se per un verso offre utili indicazioni di ordine pratico, prendendo spesso le mosse dagli arresti della giurisprudenza di legittimità, per altro verso si limita a parafrasare ovvero a semplificare il dettato normativo[2].
Il suo contenuto è stato presto integrato e approfondito dalla medesima Procura generale, mediante l’adozione di una Relazione illustrativa che si concentra sull’idoneità del Modello di organizzazione e gestione nonché sul ruolo dell’Organismo di vigilanza. Si tratta, del resto, degli snodi fondamentali del sistema delineato dal legislatore di inizio millennio per l’ascrizione all’ente della complessa fattispecie amministrativa ex crimine. La lettura degli artt. 6 e 7 d.lgs. n. 231 del 2001 rivela infatti come il rimprovero sia stato ancorato non solo alla commissione di un reato nell’interesse e a vantaggio della persona giuridica da parte di un intraneus – “apicale” o “subordinato” che sia[3] –, ma altresì alla sussistenza della c.d. colpa organizzativa, nella cui valutazione un ruolo chiave giocano vuoi l’adozione e l’efficace attuazione di un modello idoneo a prevenire comportamenti penalmente rilevanti della stessa specie di quelli già verificatisi vuoi l’attività di vigilanza sul funzionamento e l’osservanza di quest’ultimo ad opera di un organismo dotato di autonomi poteri di iniziativa e controllo.
Ad ogni modo, entrambi gli atti diffusi risultano dichiaratamente motivati da una duplice esigenza. L’autorità giudiziaria lucana allude anzitutto alla necessità di risolvere le incertezze interpretative che, ancora oggi, solleva l’articolata disciplina de societate, caratterizzata dalla presenza di profili originali e dalla rivisitazione di istituti tipici della giustizia penale “antropocentrica”: si intende, in questo modo, dissipare ogni dubbio, al fine di garantire un’azione investigativa più efficace. Accanto a una motivazione di carattere sistematico, ve ne sarebbe pure una più contingente, legata alla perseguibilità, ex artt. 24 e 25 d.lgs. n. 231 del 2001, delle condotte funzionali all’acquisizione delle sovvenzioni dell’Unione europea che costituiscono le risorse del P.N.R.R.[4]; condotte, queste, oggetto prioritario delle indagini espletate dagli uffici requirenti del Distretto, a patto che non rientrino nella competenza della Procura europea.
Per conferire una migliore operatività alle indicazioni contenute nel Protocollo organizzativo e nella Relazione, la Procura generale ha insistito anche sulla opportunità di programmare incontri e corsi formativi dedicati al personale che, a vario titolo, prende parte alle investigazioni. E al medesimo scopo pare preordinato l’impegno dei soggetti che hanno partecipato alla elaborazione degli atti di soft law qui in discorso a nominare un proprio referente che faccia da punto di contatto con riguardo alle difficoltà operative e interpretative che solleva la materia.
Al di là del contenuto dei documenti diffusi – i cui aspetti più significativi saranno di seguito analizzati –, non si può che condividere la portata dell’iniziativa, capace di gettare la luce su un testo normativo che, benché in vigore da più di un ventennio, viene ancora applicato in maniera ondivaga, discontinua e, per usare una espressione cara alla dottrina, «“a macchia di leopardo”»[5], cioè in alcune aree geografiche del nostro Paese più che in altre.
2. IL RAPPORTO DI CAUSALITÀ TRA LE CARENZE ORGANIZZATIVE E LA COMMISSIONE DEL REATO-PRESUPPOSTO DA PARTE DI UN “APICALE”
Il Protocollo organizzativo adottato dalla Procura generale stabilisce, all’art. 21, che, per l’affermazione della responsabilità dell’ente – nel caso in cui a commettere uno dei reati-presupposto elencati agli artt. 24 ss. d.lgs. n. 231 del 2001 abbia provveduto un soggetto posto in posizione “apicale” –, sia sufficiente l’accertamento dell’inesistenza o dell’inidoneità del Modello di organizzazione e gestione o dell’Organismo di vigilanza.
Il lapidario assunto si pone in rotta di collisione con i principi espressi dalla Corte di cassazione, nell’ambito della pronuncia che ha da poco posto la parola fine alla lunga e complicata vicenda Impregilo[6]. In questa occasione, è stato difatti ritenuto che l’imputazione alla societas dell’illecito non possa prescindere dall’accertamento anche del nesso eziologico tra le carenze organizzative e la condotta antigiuridica posta in essere dalla persona fisica, da compiere con un giudizio ex post (o della prognosi postuma). Per dirla con i giudici di legittimità, «la lacuna od il punto di debolezza di un modello poss[o]no condurre a ravvisare una responsabilità dell’ente soltanto se abbiano avuto un’efficienza causale nella commissione del reato presupposto da parte del soggetto apicale, nel senso che la condotta di questi sia stata resa possibile, anche in via concorrente, proprio dall’assenza o dall’insufficienza delle prescrizioni contenute nel modello. È questa […] l’unica lettura normativa possibile, per evitare tensioni con il principio costituzionale del divieto di responsabilità per fatto altrui (art. 27, primo comma, Cost.), peraltro applicabile anche al sistema sanzionatorio amministrativo (art. 1, legge n. 689 del 1981) e, a maggior ragione, alla disciplina della responsabilità da reato degli enti»[7]. Dalla impostazione sposata dal Collegio emerge altresì la comprensibile volontà di arginare quella discutibile deriva che, nella prassi, conduce troppo spesso a reputare inidoneo l’assetto organizzativo dell’ente e ad affermare la sua responsabilità unicamente in ragione della commissione di un fatto di reato al suo interno[8].
A esplicitare le ragioni di questa divergenza di vedute ha provveduto la Relazione illustrativa, dove è stato in primis fatto notare che la lettera della legge non addossa all’Organismo di vigilanza e alle modalità comportamentali stabilite nel Modello il compito di scongiurare la commissione di reati, bensì quello di prevenirli. Il rapporto tra le carenze organizzative del soggetto «metaindividual[e]»[9] e l’azione della persona fisica ad essa legato apparirebbe dunque improntato, più che a un nesso di causalità, a un «astratto orientamento teleologico»[10]. A parere della Procura generale, una simile costruzione teorica si appalesa nondimeno in linea con l’assenza, in capo all’Organismo di vigilanza, di poteri di amministrazione diretta o indiretta che basterebbero da soli a evitare l’azione illecita del singolo nonché di autonomia finanziaria[11].
Da una differente ma connessa prospettiva, viene osservato che la decisione della Suprema corte, nel sostenere la necessità di un accertamento che tenga conto anche del rapporto eziologico che lega il deficit organizzativo dell’ente alla verificazione di una azione criminosa al suo interno, sembra evocare i parametri fissati dall’art. 40 cpv. c.p. in tema di responsabilità omissiva. Essa ha preso così le distanze da un precedente arresto della giurisprudenza – invece positivamente accolto dal Protocollo e dalla Relazione qui in commento –, che aveva negato l’operatività, nel contesto del d.lgs. n. 231 del 2001, dell’obbligo di impedimento della commissione del reato-presupposto[12].
Destinatario di censure è stato da ultimo il frammento dell’apparato motivazionale della sentenza Impregilo nella quale si legge che una posizione interpretativa tesa a non attribuire rilevanza al nesso di causalità finirebbe per obliterare il divieto costituzionale di responsabilità per fatto altrui. Per la Procura generale della Repubblica presso la Corte d’appello di Potenza, la lettura offerta non comporta, all’opposto, alcun vulnus all’art. 27, comma 1, Cost., dal momento che la responsabilità della persona giuridica origina sempre un fatto proprio, consistente in un difetto organizzativo e diverso da quello addebitato alla persona fisica.
A dispetto della perentorietà delle argomentazioni utilizzate al fine di sconfessare le conclusioni cui è pervenuta la Suprema corte, la Relazione illustrativa, per motivi di prudenza, ha comunque suggerito agli inquirenti di estendere, se possibile, le attività d’indagine alla verifica del rapporto intercorrente tra i vizi del Modello organizzativo e/o dell’Organismo di vigilanza e la realizzazione del reato-presupposto. Oltre a rivelarsi utile nell’ottica di saggiare la gravità dell’eventuale illecito amministrativo, tale elemento contribuirebbe a un ampliamento della piattaforma decisoria del Pubblico ministero, senza tuttavia giustificare un automatico esercizio dell’azione.
Preme infine evidenziare che la richiamata pronuncia della Cassazione e i documenti diffusi dalla Procura generale convergono invece sul delicato e cruciale versante dell’onere della prova. Promuovendo una interpretazione “costituzionalmente orientata” dell’art. 6, comma 1, d.lgs. n. 231 del 2001 – che, nel caso in cui il reato-presupposto sia stato commesso da un soggetto “apicale”, sembra addossare alla societas il compito di fornire la prova della propria innocenza («l’ente non risponde se prova che»)[13] –, entrambe le autorità ritengono spetti in ogni caso all’organo della pubblica accusa dimostrare la colpevolezza della persona giuridica[14]. Malgrado l’itinerario esegetico percorso si lasci apprezzare nella misura in cui intende sciogliere le riserve costituzionali che la norma suscita, riesce difficile non invocare un intervento che ponga rimedio a una formulazione infelice e incoerente sul piano sistematico.
3. LE MODALITÀ E GLI STRUMENTI D’INDAGINE
Nel tentativo di individuare gli obiettivi precipui delle indagini condotte nei confronti degli enti collettivi e le strategie più efficaci per perseguirli, la Procura generale presso la Corte d’appello di Potenza ha provveduto per prima cosa a chiarire il significato di alcuni degli elementi costitutivi della fattispecie di responsabilità in parola; elementi che dovranno emergere, uno per uno, dalla eventuale imputazione formulata dal Pubblico Ministero, cui è inibito un asettico richiamo alle disposizioni rilevanti o un appiattimento sulla contestazione riguardante l’autore del reato-presupposto[15].
In questa cornice, viene esplicitato il significato della formula «nel suo interesse o a suo vantaggio», adoperata dall’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 231 del 2001: se il primo elemento deve essere oggetto di una valutazione ex ante di carattere soggettivo[16], che muova dal coefficiente psicologico della persona fisica agente – si dice –, il secondo impone una prognosi ex post sulla base degli effetti dell’illecito, indipendentemente dalla finalizzazione originaria del reato. Tra le pieghe di queste precisazioni, riecheggia il dibattito sorto all’indomani della entrata in vigore della disciplina de societate, quando alcuni ritenevano le espressioni normative sinonimiche e sovrapponibili[17]: la tesi è stata però repentinamente superata e oggi gli interpreti sostengono all’unisono le differenze, anche in punto di accertamento, tra i due concetti[18].
Su un piano più operativo, viene poi offerta una sorta di scansione cronologica che deve orientare le attività investigative. Dopo aver ribadito che, per l’esercizio dell’azione, è sufficiente la constatazione della mancanza del Modello di organizzazione e gestione ovvero dell’Organismo di vigilanza – non rilevando, in tal senso, il nesso causale con la condotta posta in essere dalla persona fisica –, il Protocollo e la Relazione insistono sulla necessità, laddove la persona giuridica sia dotata di un assetto organizzativo, di estendere l’accertamento anche ai requisiti di idoneità ed efficacia dello stesso.
In questa fase, le operazioni degli inquirenti dovrebbero a rigore essere finalizzate alla raccolta di elementi relativi alla concreta capacità del Modello di prevenire reati della stessa specie di quello verificatosi, ciò tenendo a mente l’irrilevanza di adempimenti meramente formali e burocratici[19]. Inoltre, vale la pena rammentare come neppure il pedissequo rispetto delle indicazioni – sovente utili per le imprese, ma dal carattere generico – fornite dalle associazioni di categoria per la redazione o l’aggiornamento del Modello determini una presunzione legale di conformità dello stesso, che, alla stregua di un “abito su misura”, deve rispecchiare ogni caratteristica e peculiarità dell’ente cui si riferisce[20]. A riguardo, la giurisprudenza di legittimità sostiene a ragione come «i modelli organizzativi e gestionali possono (non devono) essere adottati sulla scorta dei codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative, ma, naturalmente, non opera alcuna delega disciplinare a tali associazioni e alcun rinvio per relationem a tali codici, che, appunto, possono certamente essere assunti come paradigma, come base di elaborazione del modello in concreto da adottare, il quale, tuttavia, deve poi essere “calato” nella realtà aziendale nella quale è destinato a trovare attuazione»[21].
Rispetto all’Organismo di vigilanza, l’autorità giudiziaria lucana di seguito rileva la necessità di verificare, in ossequio al dettato normativo, che esso sia dotato di poteri di iniziativa e controllo e che le attività demandategli siano state correttamente espletate.
Ebbene, quando risulti non solo che la persona giuridica sottoposta alle indagini si sia dotata di un assetto organizzativo, ma pure che quest’ultimo presenti i caratteri della efficacia e della idoneità nell’azione di prevenzione delle condotte criminose[22], agli organi inquirenti spetterà il compito di accertare che il reato-presupposto sia stato realizzato «eludendo fraudolentemente» i presidi imposti dall’impresa con il Modello organizzativo, ai sensi dell’art. 6, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 231 del 2001[23]. Ancora una volta, la Procura generale recepisce la lettura fornita dalla giurisprudenza di legittimità, che richiede, per l’insussistenza della responsabilità “amministrativa” derivante da un fatto di reato commesso da un soggetto “apicale”, che l’atteggiamento del singolo abbia una «connotazione decettiva, consistendo nel sottrarsi con malizia ad un obbligo ovvero nell’aggiramento di un vincolo, nello specifico rappresentato dalle prescrizioni del modello; [concetto, questo,] rafforzato poi dal predicato di “fraudolenza”, contenuto nella norma, che, lungi dall’essere una mera ridondanza, vuole evidenziare l’insufficienza, a tal fine, della semplice e frontale violazione delle regole del modello, pretendendo una condotta ingannatoria»[24].
Scomponendo in singole fasi l’attività investigativa de societate, il Protocollo e la Relazione in commento si muovono perlopiù lungo i binari tracciati dal legislatore. Essi offrono agli operatori una sorta di “tabella di marcia”, un “faro”, per orientarsi tra attività complesse, il cui svolgimento richiede peraltro una preparazione specifica, giuridica e aziendalistica. L’iniziativa appare tanto più opportuna appena si consideri la centralità che le indagini preliminari rivestono nella dinamica del procedimento penale che si celebra nei confronti degli enti collettivi, trattandosi del terreno in cui si collocano di solito vuoi l’iniziativa cautelare vuoi le attività riparatorie post factum, alle quali è stato attribuito un ruolo fondamentale[25].
Quanto all’armamentario investigativo utilizzabile dagli organi inquirenti, occorre rammentare come il legislatore di inizio millennio non abbia ritenuto di dettare una disciplina esaustiva del rito penale contra societatem. Con il d.lgs. n. 231 del 2001, è stata infatti offerta una veste normativa solo ad alcuni aspetti o snodi, lasciando agli interpreti il compito di colmare le lacune, per mezzo del codice di procedura penale e delle relative disposizioni di attuazione, se compatibili con il sistema allora delineato e con le caratteristiche del suo peculiare protagonista, ai sensi dell’art. 34[26].
In forza di tale meccanismo di eterointegrazione, è dunque possibile asserire l’operatività, nel contesto giurisdizionale dedicato all’ente collettivo, di svariati atti tipici delle indagini preliminari celebrate nei confronti di individui “in carne e ossa”[27]. A titolo di esempio, la Procura generale ha tra l’altro richiamato l’informazione di garanzia, il sequestro probatorio, le acquisizioni documentali spontanee, l’assunzione di sommarie informazioni testimoniali, gli accertamenti tecnici irripetibili e la proroga dei termini delle indagini preliminari.
4. TEMPI DURI PER IL PRINCIPIO DI LEGALITÀ PROCESSUALE?
Lasciando adesso da parte il contenuto del Protocollo e della Relazione, è bene osservare come la loro diffusione ad opera della Procura generale presso la Corte d’appello di Potenza si inserisca in quella tendenza, comune tanto alle autorità giudiziarie “distrettuali” quanto a quelle “centrali”, di adottare linee guida, vademecum, buone prassi, circolari, direttive, protocolli d’intesa e relazioni[28].
Al di là dell’appellativo che di volta in volta viene loro attribuito[29], tali documenti «non vincolanti e difficilmente incasellabili nella nomenclatura tradizionale delle fonti»[30] offrono soluzioni per una migliore organizzazione degli Uffici, indicazioni “a caldo” in occasione di mutamenti normativi ovvero chiarimenti su disposizioni scarsamente intellegibili e di difficile applicazione. Essi rispondono quindi a necessità di carattere pratico e risentono sovente della volontà di imprimere una accelerazione alla macchina della Giustizia[31].
Detti strumenti di soft law «[n]on sono [però] innocui»[32], contribuendo, in qualche modo, a condizionare le sorti dell’accertamento e incidendo, più o meno direttamente, sulle posizioni giuridiche di chi vi è coinvolto[33]. Per questo motivo, è lecito domandarsi se comportino una lesione del basilare principio di legalità processuale, il quale impone che ciascun atto del rito penale si inserisca nel solco tracciato dalle disposizioni di legge, senza eluderlo né superarlo. Si tratta di una garanzia fondamentale, sintomatica del livello di democrazia di un ordinamento e funzionale alla tutela degli individui da eventuali arbitrii, oltre che alla prevedibilità delle decisioni[34].
La risposta al quesito non può che muovere da una constatazione: il rispetto del canone nullum judicium sine lege non comporta la soppressione dei naturali margini di discrezionalità che caratterizzano l’operato dell’autorità giudiziaria – che sarebbe così relegata all’anacronistico ruolo di “bocca della legge” –, ma l’inammissibilità di letture creative[35]. Occorre allora tenere distinti gli atti elaborati dagli Uffici che corrono lungo la traiettoria segnata dal legislatore, risolvendone eventualmente le fisiologiche vaghezze determinate dalla impossibilità di adattare gli istituti a tutte le possibili contingenze, da quelli avulsi dal dettato normativo, poiché solo questi ultimi stridono con il generale principio di legalità[36]. La distinzione, nitida sul piano teorico, potrebbe invero sbiadire sul piano concreto: si impone pertanto una valutazione caso per caso, che tenga conto di ciascuna regola fissata nell’atto di soft law. Con riguardo alle fonti esaminate, un simile approccio sembra condurre a esiti tranquillizzanti, essendosi la Procura generale di Potenza opportunamente limitata, come si è detto, a indicare la sequenza e la tipologia delle attività investigative espletabili nonché a promuovere interpretazioni in linea con lo spirito del d.lgs. n. 231 del 2001.
* Pur essendo il contributo frutto di una riflessione condivisa, i paragrafi 1 e 2 vanno attribuiti al prof. Giulio Garuti (Professore ordinario di Diritto processuale penale – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia), mentre i paragrafi 3 e 4 al dott. Cesare Trabace (Assegnista di ricerca in Diritto processuale penale – Università degli Studi di Modena e Reggio Emilia).
[1] Per un primo commento, v. Zazzaro, Criteri di ascrizione della responsabilità da reato delle persone giuridiche: il protocollo organizzativo della Procura Generale di Potenza, in www.sistemapenale.it, 7 dicembre 2022.
[2] Paradigmatico, in questo senso, il testo dell’art. 4 del Protocollo organizzativo in esame che, a proposito dell’autonomia della responsabilità dell’ente, replica grossomodo il testo dell’art. 8 d.lgs. n. 231 del 2001. Esso dispone infatti che «[l]a responsabilità dell’ente per l’illecito amministrativo è autonoma rispetto a quella della persona fisica, sussistendo anche quando l’autore del reato non è stato identificato o non è imputabile ovvero il reato si estingue per una causa diversa dall’amnistia».
[3] Più precisamente, l’art. 5, comma 1, d.lgs. n. 231 del 2001 identifica le persone fisiche autrici del reato, alla lett. a), nelle «persone che rivestono funzioni di rappresentanza, di amministrazione o di direzione dell’ente o di una sua unità organizzativa dotata di autonomia finanziaria e funzionale nonché da persone che esercitano, anche di fatto, la gestione e il controllo dello stesso» (c.d. soggetti in posizione apicale) e, alla lett. b), nelle «persone sottoposte alla direzione o alla vigilanza di uno dei soggetti di cui alla lettera a)» (c.d. subordinati).
[4] Il riferimento parrebbe invero riguardare soprattutto le fattispecie incriminatrici di cui agli artt. 316-ter (indebita percezione di erogazioni pubbliche) e 640-bis c.p. (truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche), richiamate nel testo dell’art. 24 d.lgs. n. 231 del 2001. In questo senso, Zazzaro, Criteri di ascrizione della responsabilità da reato delle persone giuridiche, cit.
[5] Tra gli altri, Di Giovine, Prefazione, in Stampanoni Bassi, Meazza (a cura di), Commentario al d.lgs. 231/2001. Profili operativi in tema di responsabilità da reato degli enti, Pacini, 2021, XI; Piergallini, Aspettative e realtà della (ancor breve) storia del D.Lgs. n. 231/2001 in materia di responsabilità da reato degli enti, in Dir. pen. proc., 2022, 861.
[6] Ci si riferisce a Cass. pen., Sez. VI, 11 novembre 2021, n. 23401, in CED, n. 283437. Tra i commenti, Borgobello, Sentenza Impregilo: metodi di valutazione di adeguatezza del modello organizzativo, dei poteri dell’organismo di vigilanza e della condotta fraudolenta degli amministratori, in Giur. pen. web, 2022, 10, 1 ss.; De Simone, Si chiude finalmente, e nel migliore dei modi, l’annosa vicenda Impregilo, in Giur. it., 2022, 2758 ss.; Piergallini, Una sentenza “modello” della Cassazione pone fine all’estenuante vicenda “Impregilo”, in www.sistemapenale.it, 17 giugno 2022, 1 ss.
[7] Cass. pen., Sez. VI, 11 novembre 2021, n. 23401, cit., 15.
[8] Cass. pen., Sez. VI, 11 novembre 2021, n. 23401, cit., 11. In dottrina, efficacemente, De Simone, Si chiude finalmente, e nel migliore dei modi, l’annosa vicenda Impregilo, cit., 2765, per cui, in questo contesto, «[b]isogna rifuggire […] dalla logica perversa del “senno di poi” (hindsight bias) e delle “profezie che si autoavverano” (self-fulfilling prophecies)» [corsivi dell’A.].
[9] Per l’appellativo, De Simone, Persone giuridiche e responsabilità da reato. Profili storici, dogmatici e comparatistici, Edizioni ETS, 2012, 29 ss.
[10] Così, testualmente, la Relazione illustrativa e integrativa della proposta di Protocollo organizzativo e di coordinamento in tema di indagini ex d.l.vo 231/2001, successivamente approvata in data 6.10.2022 dagli Uffici Requirenti del Distretto, 4.
[11] È stato di contro ribadito che l’autonomia finanziaria deve essere riconosciuta all’Organismo di vigilanza per il corretto espletamento dell’attività di controllo demandatagli: v. Relazione illustrativa, cit., 4.
[12] A riguardo, è stata richiamata Cass. pen., Sez. I, 20 gennaio 2016, n. 18168, in CED, n. 266881, dove tra l’altro si legge che «il reato omissivo può essere posto in essere soltanto da soggetti gravati da uno specifico obbligo di predisporre le cautele omesse, che non grava né sui membri dell’Organismo di Vigilanza né sui membri del Consiglio di Amministrazione, trattandosi di scelte di politica aziendale e di incombenze, validamente delegate ai responsabili delle singole unità produttive».
[13] Meno problematico si palesa il testo dell’art. 7, comma 1, d.lgs. n. 231 del 2001, che, per il caso in cui il reato-presupposto sia stato commesso da un soggetto “subordinato” all’altrui direzione o vigilanza, sembra rispettare il principio per cui grava sul Pubblico Ministero l’onere della prova.
[14] Del resto, anche la giurisprudenza di legittimità ha ritenuto che «[n]essuna inversione dell’onere della prova è […] ravvisabile nella disciplina che regola la responsabilità da reato dell’ente». Così, ex multis, Cass. pen., Sez. un., 24 aprile 2014, n. 38343, in CED, n. 261106. In dottrina, a livello monografico, v. Nicolicchia, Ente e imputato nella procedura penale d’impresa. Conflitti, interferenze, anomalie di sistema, Cedam, 2022, 23 ss. e Tavassi, L’onere della prova nel processo penale, Cedam, 2020, 243 ss.
[15] Fa notare Flora, Responsabilità dell’ente per “fatto proprio” e determinatezza del capo d’imputazione, in Piergallini, Mannozzi, Sotis, Perini, Scoletta, Consulich (a cura di), Studi in onore di Carlo Enrico Paliero, tomo II, Giuffrè, 2022, 1020, come «l’accusa costruisc[a] i capi di imputazione concernenti la responsabilità dell’ente secondo modelli a dir poco curiosi. Normalmente la formula adottata si limita ad indicare, con riferimento per relationem, il fatto di cui è chiamato a rispondere il legale rappresentante […] con una aggiunta, quasi una coda posticcia, volta a sottolineare che quei reati, rientranti nell’elenco tassativo del d.lgs. n. 231 del 2001 […] si assumono commessi “nell’interesse e a vantaggio dell’ente” […]. Ovviamente nessun pubblico ministero (di solito) si premura di “rivelare” in che cosa consista l’interesse e il vantaggio evocato, lasciandolo alla fervida immaginazione di chi legge (“tanto lui lo sa”)». Sul punto, v. altresì Fiorelli, La vocatio in iudicium dell’ente, tra istanze di semplificazione probatoria e forme di responsabilità “senza fatto”, in Riv. it. dir. proc. pen., 2018, 1258 ss. e Mazza, Conclusione delle indagini e udienza preliminare, in Lattanzi, Severino (a cura di), Responsabilità da reato degli enti, vol. II, Giappichelli, 2020, 229-230.
[16] Il Protocollo organizzativo, all’art. 13, si premura si ricordare che per l’ente rileva anche il vantaggio potenziale. L’art. 12, comma 1, lett. a), d.lgs. n. 231 del 2001 gli accorda infatti una riduzione della sanzione pecuniaria se «l’autore del reato ha commesso il fatto nel prevalente interesse proprio o di terzi e l’ente non ne ha ricavato vantaggio o ne ha ricavato un vantaggio minimo».
[17] Aveva, tra gli altri, inteso la dizione normativa come una «endiadi […] un criterio unitario» Pulitanò, La responsabilità «da reato» degli enti nell’ordinamento italiano, in Cass. pen., 2003, suppl. n. 6, 15.
[18] V., ad esempio, Cass. pen., Sez. IV, 11 gennaio 2023, n. 570, in www.sistemapenale.it, 2 marzo 2023, con nota di Giordano, Illecito dell’ente e colpa di organizzazione. Una recente conferma della traiettoria garantista tracciata dalla giurisprudenza di legittimità. In dottrina, per tutti, Ceresa-Gastaldo, Procedura penale delle società, IV ed., Giappichelli, 2021, 18.
[19] Si tratta del caso in cui l’impresa abbia adottato un modello «ave[nte] un ruolo meramente “cosmetico”», cioè di facciata, «(ad esempio per presentar[lo] nelle gare di appalti […]; oppure per esibirlo alle banche per il rating di legalità per ottenere l’erogazione di mutui o fidi)»: così Amarelli, sub art. 1 d.lgs. n. 231 del 2001, in Castronuovo, De Simone, Ginevra, Lionzo, Negri, Varraso (a cura di), Compliance. Responsabilità da reato degli enti collettivi, Wolters Kluwer, 2019, 28-29.
[20] Come noto, è l’art. 6, comma 3, d.lgs. n. 231 del 2001 a consentire che «[i] modelli di organizzazione e gestione poss[a]no essere adottati […] sulla base di codici di comportamento redatti dalle associazioni rappresentative degli enti, comunicati al Ministero della giustizia che, di concerto con i Ministeri competenti, può formulare, entro trenta giorni, osservazioni sulla idoneità dei modelli a prevenire reati». In argomento, da ultimo, Procaccino, Soft law e giustizia penale. Interpretazione, preparazione della legge, distribuzione dei poteri, Cedam, 2023, 193-194.
[21] In questi termini, Cass. pen., Sez. V, 18 dicembre 2013, n. 4677, in CED, n. 257988, che così prosegue: «[i]l fatto che tali codici di comportamento siano comunicati al Ministero di Giustizia, che, di concerto con gli altri ministeri competenti, può formulare osservazioni, non vale certo a conferire a tali modelli il crisma della incensurabilità, quasi che il giudice fosse vincolato a una sorta di ipse dixit aziendale e/o ministeriale, in una prospettiva di privatizzazione della normativa da predisporre per impedire la commissione di reati». V. anche Cass. pen., Sez. VI, 11 novembre 2021, n. 23401, cit., 12-13, ove si legge che «le linee-guida elaborate dagli enti rappresentativi di categoria non possono rappresentare la regola organizzativa ed esaustiva. […] Vi è, quindi, la necessità che il modello sia quanto più singolare possibile, perché solamente se calibrato sulle specifiche caratteristiche dell’ente (dimensioni, tipo di attività, evoluzione diacronica), esso può ritenersi effettivamente idoneo allo scopo preventivo affidatogli dalla legge» [corsivo della sentenza].
[22] Si tratta di ciò che l’art. 21 del Protocollo organizzativo definisce «Tema probatorio primario».
[23] L’accertamento della condizione di cui all’art. 6, comma 1, lett. c), d.lgs. n. 231 del 2001 è invece definito dall’art. 22 del Protocollo «Tema probatorio sussidiario e relativo».
[24] Il riferimento corre nuovamente alla sentenza Impregilo, Cass. pen., Sez. VI, 11 novembre 2021, n. 23401, cit., 18, che ha accolto l’impostazione, su questo versante, della sentenza di annullamento della prima decisione di appello, cioè Cass. pen., Sez. V, 18 dicembre 2013, n. 4677, in CED, n. 257987, 7. In quest’ultima decisione si è parlato di «condotta ingannevole, falsificatrice, obliqua, subdola», rievocando «[l]a fraus legi facta di romanistica memoria».
[25] Di Bitonto, Le indagini e l’udienza preliminare, in Lattanzi (a cura di), Reati e responsabilità degli enti. Guida al d.lgs. 8 giugno 2001, n. 231, II ed., Giuffrè, 2010, 592. Analogamente, Varraso, Il procedimento per gli illeciti amministrativi dipendenti da reato, Giuffrè, 2012, 266-267. In argomento, v. anche Nicolicchia, Ente e imputato nella procedura penale d’impresa, cit., 68-69 e Ruggieri, Reati nell’attività imprenditoriale e logica negoziale. Procedimenti per reati d’impresa a carico di persone ed enti tra sinergie e conflitti, in Aa.Vv., Criminalità d’impresa e giustizia negoziata: esperienze a confronto, Giuffrè, 2017, 58, ad avviso della quale la lunghezza e la complessità delle indagini giustifica il ricorso a logiche negoziali e al c.d. patteggiamento, come avviene anche in altri ordinamenti.
[26] Analoga finalità nutre l’art. 35 d.lgs. n. 231 del 2001, che consente l’estensione alla persona giuridica del bagaglio di garanzie e diritti riconosciuto alla persona fisica. Per tutti, Belluta, L’ente incolpato. Diritti fondamentali e “processo 231”, Giappichelli, 2018, 40 ss.
[27] Nel rispetto del canone della compatibilità, non saranno applicabili nei confronti della persona giuridica gli istituti che presuppongono la dimensione antropomorfa dell’indagato: si pensi al prelievo coattivo di campioni biologici ex art. 359 c.p.p.
[28] Osserva Negri, Splendori e miserie della legalità processuale. Genealogie culturali, èthos delle fonti, dialettica tra le Corti, in Arch. pen., 2017, 2, 445, che «[a]ntesignane di questa tendenza, divenuta massiccia, furono le tavole contenenti i criteri di priorità nell’esercizio dell’azione penale».
[29] Critica, sul punto, Bove, Brevi riflessioni su protocolli e linee guida: è a rischio il principio di legalità?, in www.penalecontemporaneo.it, 17 luglio 2015, 4, per cui «[a]ppare alquanto singolare, ma forse molto significativo, che, per indicare atti appartenenti alla stessa tipologia, siano stati usati termini differenti, quasi fossero sinonimi, nonostante essi non lo siano».
[30] In questi termini, Procaccino, Soft law e giustizia penale, cit., 209.
[31] Paventa a ragion veduta il rischio che l’efficientismo possa andare a scapito dei diritti individuali Negri, Splendori e miserie della legalità processuale, cit., 445. Riconnette l’adozione degli atti de quibus a ragioni di efficienza anche Trapella, Brevissimo viaggio nel soft-law processuale, ovvero il giudizio penale al tempo dei protocolli, in Cass. pen., 2018, 4017. Cfr. Bove, Brevi riflessioni su protocolli e linee guida, cit., 3, a parere della quale la tendenza assicurerebbe altresì la trasparenza e il buon andamento della Pubblica amministrazione.
[32] Ancora Negri, Splendori e miserie della legalità processuale, cit., 445.
[33] Bove, Brevi riflessioni su protocolli e linee guida, cit., 8; Trapella, Brevissimo viaggio nel soft-law processuale, cit., 4017.
[34] In argomento, Mazza, Tradimenti di un codice. La Procedura penale a trent’anni dalla grande riforma, Giappichelli, 2020, 95 ss.
[35] Negri, Splendori e miserie della legalità processuale, cit., 422-423.
[36] Trapella, Brevissimo viaggio nel soft-law processuale, cit., 4020-4021.