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Il “sistema di filtraggio” delle impugnazioni ex art. 581, co. 1-ter c.p.p. non si applica alla parte civile (né al responsabile civile né al civilmente obbligato per la pecuniaria)

Abstract: Secondo la Cassazione, in sede di impugnazione, per la parte civile (così come per il responsabile civile e il civilmente obbligato per la pena pecuniaria) non opera la disciplina di cui all’art. 581, co. 1-ter c.p.p., bensì soltanto quella prevista dagli artt. 100, co. 1 e 5 e 154, co. 4 c.p.p. In chiave sistematico-ordinamentale, la sentenza qui segnalata pone alcune problematiche di uguaglianza trattamentale rispetto al più rigido regime previsto per l’imputato.

The Court of cassation establishes that Article 581.1-ter CPC is not applicable to the civil party (neither to the person with civil liability for damages nor to the person with civil liability for financial penalties). This statement determines some problems of equality in comparison with the discipline provided for the defendant.

Sommario: 1. Ritenuto in fatto. – 2. Considerato in diritto. – 3. Riflessione critica.

1. Ritenuto in fatto

La parte civile ricorre contro l’ordinanza che dichiara inammissibile l’atto d’appello proposto, per violazione dell’art. 581, co. 1-ter c.p.p. Nel ricorso si rileva che l’incombente della dichiarazione o dell’elezione di domicilio ai fini della notifica del decreto di citazione a giudizio non può essere riferito alla parte civile, “la quale – secondo l’art. 100, co. 5 c.p.p. – ‘per ogni effetto processuale’ ha domicilio presso il difensore, tanto che presso il difensore devono essere eseguite le notificazioni ex art. 154, co. 4 c.p.p.”.

2. Considerato in diritto

La Cassazione richiama anzitutto la litera legis degli artt. 100 (co. 1 e 5), 154 (co. 4) c.p.p. e 581 (co. 1-ter) c.p.p., rievocando di quest’ultimo altresì la finalità (ossia, “l’intenzione del legislatore, alla base della scelta di imporre tale onere alle parti private impugnanti, di ridurre la probabilità di celebrare giudizi di gravame nei confronti di soggetti non effettivamente a conoscenza della data dell’udienza, responsabilizzandole attraverso la richiesta di indicare un indirizzo effettivamente utile, dove ricevere le notificazioni concernenti i giudizi che le riguardino”).

Subito di seguito, poi, “il Collegio [afferma di ritenere] che, alla luce del citato quadro normativo, imporre alla parte civile – la quale abbia proposto appello depositandolo presso la cancelleria del giudice – l’obbligo di depositare, unitamente all’atto di impugnazione, una dichiarazione o elezione di domicilio equivarrebbe a proporre una lettura asistematica della disposizione innovatrice dell’art. 581, co. 1-ter c.p.p., rispetto alla complessiva architettura processuale che regola lo stare in giudizio della parte civile, rappresentando – di fatto – un onere inutile, privo di qualsiasi giustificazione per chi intenda accedere alla tutela dei propri diritti attraverso l’impugnazione dinanzi a un giudice”.

In che modo la Suprema Corte motiva questa sua presa di posizione? Oltre a rinviare immediatamente, come s’è detto, alla lettera della legge (che di per sé non basta[1]), i giudici di legittimità riprendono i principi elaborati dalla Corte europea dei diritti umani in tema di accesso alla giustizia (v. Corte EDU: 28 ottobre 2021, Succi c. Italia; 21 settembre 2021, Willems e Gorjon c. Belgio; 5 aprile 2018, Zubac c. Croazia; 12 luglio 2016, Reichman c. Francia; 5 novembre 2015, Henrioud c. Francia).

Al fine di escludere la parte civile, il responsabile civile e il civilmente obbligato dall’area operativa dell’art. 581, co. 1-ter c.p.p., si interpretano tenuto conto degli artt. 6 e 13 CEDU gli “oneri di attivazione [previsti] per le parti, funzionali alla miglior organizzazione della fase impugnatoria e alla conoscenza effettiva dell’udienza fissata per il giudizio”. In tale prospettiva, sono “fisiologiche possibili restrizioni all’accesso presso le Corti Supreme, che possono ritenersi ammissibili se giustificate da un fine legittimo e se proporzionate[2],[3]. Peraltro, il parametro della proporzionalità – puntualizzano gli Ermellini – “deve essere attentamente maneggiato dal giudice di appello che, nel nostro sistema ordinamentale, pur godendo oramai di prerogative di declaratoria di inammissibilità analoghe a quelle della Corte di cassazione (cfr. il rimodellato art. 581 c.p.p.), rimane un giudice di seconda istanza ‘piena’ per le parti processuali”.

Ebbene, di fronte a questo “sistema di filtraggio alle impugnazioni” (nell’ambito del quale sono per giunta già stati definiti “spazi di differente applicazione” delle neo-introdotte disposizioni: v. l’inapplicabilità dell’art. 581, co. 1-ter c.p.p. all’imputato detenuto), la V Sezione trae la sua conclusione: è “superfluo” pretendere che la parte civile ribadisca un’elezione di domicilio già prefissato normativamente, per ogni effetto processuale, dall’art. 100, co. 5 c.p.p., presso il difensore munito di procura speciale, cui deve essere eseguita anche la notificazione a norma dell’art. 154, co 4 c.p.p. E analogo discorso vale per il responsabile civile e per il civilmente obbligato per la pena pecuniaria.

In definitiva, secondo Cass., 6993/2024 lo “statuto processuale dello stare in giudizio” impugnatorio della parte civile (del responsabile civile e del civilmente obbligato per la pena pecuniaria) è dato e regolato dagli artt. 100 e 154 c.p.p., non dall’art. 581, co. 1-ter c.p.p.

3. Riflessione critica

L’arresto segnalato è pienamente condivisibile.

Tuttavia, calata in un’ottica di sistema (e al di là di quel che ne sarà dell’art. 581, co. 1-ter c.p.p.: un recente disegno di legge ne prevede invero l’abrogazione[4]), la pronuncia offre il destro per due considerazioni critiche.

La prima è che la soluzione adottata nel caso di specie poteva benissimo essere di segno opposto. Non c’è difatti un passaggio argomentativo dirimente che imponga di ritenere inapplicabile per la parte civile, per il responsabile civile e per il civilmente obbligato per la pena pecuniaria la norma de qua, la quale – è bene rammentarlo – fa esplicito riferimento a tutte le “parti private”. Manca, insomma, una ragione/un ragionamento discriminante sul punto; si è al cospetto di una ricostruzione valida generalmente, ma appunto per questo non riferibile esclusivamente ad alcune e non a tutte le parti private.

E qui veniamo al secondo appunto critico. Resta completamente aperto, giacché non affrontato in sentenza, l’interrogativo sul perché le medesime affermazioni svolte per la parte civile “sull’eccessivo formalismo che pregiudicherebbe l’equità del procedimento” non valgano per l’imputato. Perché, per il presunto colpevole, l’art. 581, co. 1-ter c.p.p. non rappresenta “un onere inutile, privo di qualsiasi giustificazione, per chi intenda accedere alla tutela dei propri diritti attraverso l’impugnazione dinanzi a un giudice”? I problemi che si stagliano in termini di uguaglianza – anche procedurale – ex art. 3 Cost. sono evidenti, eppure (forse per non essersi voluti spingere a statuizioni di portata ordinamentale) son rimasti e rimangono pendenti.


[1] Come si riconosce in sentenza, “non vi è dubbio infatti che l’indicazione letterale della disposizione prevista dall’art. 581, co. 1-ter c.p.p. faccia riferimento alle ‘parti private’, senza alcuna ulteriore specificazione, quali destinatarie dell’obbligo – stabilito a pena di inammissibilità – di depositare dichiarazione o elezione di domicilio ai fini della notificazione del decreto di citazione in appello”.

[2] È considerato un fine legittimo, che “radica del tutto ragionevolmente le sanzioni di inammissibilità”, perseguire “la razionalizzazione del contenzioso e la necessità di assicurare un accesso qualitativamente controllato delle impugnazioni, affinché il giudice di esse possa preservare il suo ruolo e la sua funzione per assicurare la buona amministrazione della giustizia”, oltreché – per quanto riguarda specificamente la Corte di cassazione – la nomofilachia.

[3] Con riferimento alla proporzionalità, la giurisprudenza di Strasburgo richiede “una stringente valutazione in concreto della ragionevolezza della restrizione al diritto di accesso, da svolgersi tenendo in considerazione – di regola – alcuni parametri essenziali; tra questi: la prevedibilità della restrizione; la responsabilità della parte nei cui confronti viene dichiarata l’inammissibilità per gli eventuali errori procedurali che abbiano impedito l’accesso alla giurisdizione superiore; l’assenza di indici di ‘formalismo eccessivo’ nell’applicazione della regola processuale restrittiva, cui segua l’inammissibilità”.

[4] Il D.D.L. in questione è stato approvato dal Senato (S.808) ed è ora assegnato alla Camera (C.1718).

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