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Illegalità della pena e lex mitior – la Cassazione sulla rilevabilità d’ufficio dell’errata riduzione di pena connessa al rito abbreviato

Cass., Sez. IV, 18 maggio 2021 (dep. 30 giugno 2021), n. 24897

Abstract – La Corte di Cassazione, applicando quanto già statuito dalle precedenti Sezioni Unite ‘Della Fazia’ in tema di rilevabilità ex officio del sopravvenuto trattamento sanzionatorio favorevole nei confronti dell’imputato, nonché attraverso un’interpretazione del concetto di pena illegale estesa fino ricomprendere la sopravvenuta lex mitior, dichiara rilevabile d’ufficio la riduzione di pena connessa all’applicazione del rito abbreviato e disposta al di fuori dei parametri di cui all’art. 442 cod. proc. pen.

Abstract (ENG) (trad. a cura dell’autrice) – The Supreme Court has declared the sentence reduction imposed outside the parameters set out by Art. 442 of the Code of Criminal Procedure to be detectable ex officio. This judgment was issued either by applying the principles established by a Joint Sections decision known as “Della Fazia” on the possibility to detect ex officio a supervened favourable sanctioning treatment as well through an extended interpretation of the notion of “illegal penalty” including the supervening lex mitior.

 

Sommario – 1. Il caso – 2. La decisione della Corte: la rilevabilità ex officio della lex mitior sopravvenuta, ex art. 2 cod. pen. – 3. Una soluzione alternativa della Corte: la rilevabilità d’ufficio della pena illegale – 4. Un’interpretazione estensiva della nozione di ‘pena illegale’ – 5. La rilevabilità della lex mitior da parte del giudice dell’esecuzione e i due volti del giudicato.

 

  1. Il caso – Nella sentenza in commento la Corte di Cassazione si interroga sulla rilevabilità ex officio dell’errata riduzione della pena da parte del giudice di merito disposta, per una contravvenzione, in seguito alla scelta del rito abbreviato.

 

La legge n. 103 del 2017, nota ‘riforma Orlando’, entrata in vigore in data 3 agosto 2018, interviene sul secondo comma dell’art. 442 cod. proc. pen., modificandolo in senso favorevole per l’imputato. Infatti, mentre prima era prevista, genericamente, la riduzione della pena finale di un terzo a seguito della scelta del rito abbreviato, oggi la norma distingue tra la condanna per delitti – per i quali la riduzione rimane di un terzo – e contravvenzioni, per le quali invece la pena deve essere ridotta, dopo l’accesso al rito, della metà.

Nel caso di specie, l’imputata veniva condannata in primo grado alla pena di mesi 4 di arresto ed euro 1200 di ammenda per il reato contravvenzionale di cui all’art. 187 cod. strada perché, nel giugno 2018 – prima dell’entrata in vigore della riforma – avendo conseguito la patente entro tre anni dalla data del fatto, guidava in stato di alterazione da sostanze stupefacenti. Il primo giudice determinava il trattamento sanzionatorio riducendo la pena finale di un terzo in base alla scelta del rito; in sede di appello il giudice, pur sostituendo la pena con lo svolgimento di lavori di pubblica utilità, ne confermava il quantum come determinato dal giudice di prime cure[1].

Avverso la pronuncia della corte d’appello era proposto ricorso per cassazione deducendo, tra gli altri vizi, l’illegalità della pena, stante l’erronea riduzione della sanzione nella misura di un terzo e non della metà, così come prevista per i reati contravvenzionali, al momento della celebrazione del processo, dal riformato art. 442 cod. proc. pen.

 

Ad ogni modo, nulla avendo opposto in sede d’appello la ricorrente sul trattamento sanzionatorio, il motivo doveva considerarsi nuovo e, come tale, indeducibile dalla stessa in sede di legittimità, ex art. 606, comma 3, cod. proc. pen.[2]. Non potendo essere legittimamente dedotto dalla parte, il vizio poteva essere riscontrato dalla Corte se rilevabile ex officio. In base a quanto disposto dall’art. 609 cod. proc. pen., infatti, la cognizione del giudice di cassazione è limitata ai motivi di ricorso (legittimamente) proposti, salvo “questioni rilevabili di ufficio in ogni stato e grado del processo e quelle che non sarebbe stato possibile dedurre in grado di appello”. Nel caso di specie, quindi, il problema che si presentava alla Corte era verificare se l’errata riduzione della pena nella misura di un terzo e non della metà, secondo la formulazione meno favorevole vigente all’epoca del fatto, costituisse un vizio del provvedimento rilevabile d’ufficio.

 

Non è immediato individuare quali siano, in concreto, quelle questioni che, in deroga al principio devolutivo, possono essere rilevate su iniziativa del giudice di cognizione. E’ compito dell’interprete individuare una o più norme dell’ordinamento che ammettano la rilevabilità del vizio – in questo caso del trattamento sanzionatorio – anche d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento ed utilizzarle come parametro di riferimento in relazione all’art. 609 cod. proc. pen. Come si vedrà meglio di seguito, in tema di rilevabilità ex officio della pena corrisposta sulla base di una cornice edittale precedente e sfavorevole all’imputato, sembrano emergere in giurisprudenza due impostazioni di metodo che, per quanto interconnesse, non solo mantengono una loro autonomia. Una prima corrente, fondandosi su quanto disposto dall’art. 2, quarto comma, cod. pen., rileva il trattamento sanzionatorio corrisposto in violazione della lex mitior sopravvenuta sulla scorta del principio di retroattività della legge penale favorevole, mentre un secondo filone giurisprudenziale, a partire dai principi fondamentali di cui agli artt. 13, 25 e Cost., nonché da quanto disposto dall’art. 129 cod. proc. pen., rileva il vizio del trattamento sanzionatorio laddove questo determini l’illegalità della pena.

 

  1. La decisione della Corte: la rilevabilità ex officio della lex mitior sopravvenuta, ex art. 2, comma 4, cod. pen. – I giudici di legittimità premettono come, in tema di giudizio abbreviato, la giurisprudenza sia ormai consolidata nel ritenere il novellato secondo comma dell’art. 442 cod. proc. pen. applicabile anche alle fattispecie anteriori – salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile – attesa la natura intrinsecamente sostanziale della disposizione[3]. Anche se norma di carattere processuale, infatti, incidendo sul trattamento sanzionatorio dell’imputato deve essere sottoposta al regime di retroattività della lex mitior[4], di cui all’art. 2, comma 4, cod. pen., il quale stabilisce che «se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna». A livello sovranazionale, il principio di retroattività della legge penale più favorevole è riconosciuto dall’art. 15, primo comma, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, dall’art. 49, primo comma, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, nonché nell’art. 7 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Data la centralità di tale principio, funzionale alla tutela di diritti fondamentali della persona, la Corte evidenzia come «la sua applicazione non può essere rimessa all’iniziativa dell’imputato e non è impedita dalle preclusioni processuali che si formano nel corso del giudizio, incontrando, come si ricava dalla stessa disposizione in esame, il solo limite del giudicato».

 

Sulla rilevabilità ex officio della lex mitior, le Sezioni Unite ‘Della Fazia[5] avevano già affermato il diritto dell’imputato di essere giudicato in base al trattamento più favorevole tra quelli succedutisi nel tempo, alla luce dei principi di uguaglianza, proporzionalità della pena nonché finalità rieducativa del trattamento sanzionatorio. Questo in quanto l’art. 2, comma 4  cod. pen. individua un vero e proprio obbligo per il giudice di cognizione di rimuovere la situazione di violazione del principio di retroattività della lex mitior[6] . Tale obbligo implica la rilevabilità d’ufficio del trattamento sanzionatorio errato poiché esso «viola il criterio di proporzionalità che deve sempre assistere l’esercizio del potere punitivo attribuito all’autorità giudiziaria»[7], con il solo limite del giudicato formale[8]. Pertanto, il giudice di cassazione può, anche d’ufficio, ritenere applicabile il nuovo e più favorevole trattamento sanzionatorio per l’imputato – pure in presenza di un ricorso inammissibile – disponendo, ai sensi dell’art. 609 cod. proc. pen., l’annullamento sul punto della sentenza impugnata.

 

In tema di trattamento sanzionatorio ridotto in relazione alla scelta del rito abbreviato, la Corte evidenzia come le Sezioni Unite ‘Acquistapace’ abbiano recentemente affermato il dovere inderogabile per il giudice di appello di applicare detta diminuente nella misura di legge, alla luce del carattere perentorio del secondo comma dell’art. 442, comma 2, cod. proc. pen., in cui il legislatore «scolpisce (…) nitidamente il contenuto dell’obbligo decisorio sul punto, al quale il giudice non può sottrarsi, spettando correlativamente all’imputato il diritto a vedersi decurtata la pena nella esatta dimensione prevista dalla legge»[9]. Sulla scorta di questi precedenti, peraltro, parte della giurisprudenza di legittimità si era già orientata nell’applicare d’ufficio la nuova disciplina più favorevole di cui all’art. 442, comma 2, cod. proc. pen.[10]. Invero, la Corte precisa come l’affermata applicabilità d’ufficio del sopravvenuto trattamento sanzionatorio più favorevole non si ponga necessariamente in contrasto con quella parte della giurisprudenza che aveva ritenuto che contro l’errata riduzione non fossero esperibili i rimedi dell’incidente di esecuzione e della correzione di errore materiale, in quanto nell’ipotesi in esame, non essendosi formato il giudicato formale, è pienamente rispettato il limite dell’irrevocabilità della sentenza posto dall’art. 2, comma 4, cod.pen.[11].

 

La Corte, pertanto, conclude ammettendo la rilevabilità ex officio dell’errato trattamento sanzionatorio disposto al di fuori dei parametri dell’art. 442 cod. proc. pen. in quanto la violazione del dovere di determinare la pena in ottemperanza del principio sovranazionale della retroattività della lex mitior, di cui al quarto comma dell’art. 2 cod. pen., rientra tra i vizi rilevabili d’ufficio nel giudizio di legittimità ai sensi dell’art. 609, secondo comma, cod.proc.pen.

 

  1. Una soluzione alternativa della Corte: la rilevabilità d’ufficio della pena illegale – Questa soluzione, peraltro, si contrappone ad un’altra, coeva, pronuncia della medesima Quarta Sezione Penale, n. 6510/2021, in cui i giudici avevano ritenuto che l’applicazione della più favorevole riduzione, non dedotta né con i motivi di appello né in sede di conclusioni dinanzi a quel giudice, non possa essere rilevata d’ufficio dal giudice di cassazione, in quanto non si tratta di una pena illegale, ma di errata applicazione di una legge processuale[12]. Il ragionamento di quel collegio si fondava sul diverso presupposto di utilizzare come parametro di riferimento – al fine di individuare la rilevabilità d’ufficio del trattamento sanzionatorio ex art. 609 cod. proc. pen. – il principio di legalità della pena.

 

Già sotto il previgente codice di rito, attraverso l’applicazione analogica dell’art. 152 cod. proc. pen. 1930 veniva attribuito al giudice dell’impugnazione, anche in mancanza di uno specifico motivo di impugnazione, il potere di annullare o modificare la sentenza che avesse inflitto una pena illegale in ordine alla sua quantità o specie. Nel nuovo codice di rito, la medesima prospettiva, fondata sull’applicazione analogica in bonam partem dell’art. 129 cod. proc. pen., è stata confermata, al fine di riconoscere al giudice dell’impugnazione un potere decisorio oltre il devolutum. Sulla base di queste premesse, la giurisprudenza individua, tra i vizi del provvedimento rilevabili d’ufficio, la ‘pena illegale’. Tale deroga al principio devolutivo nasce in ragione della necessità di evitare la lesione del principio costituzionale di legalità della pena, di cui all’art. 25 Cost., strettamente connesso alla garanzia fondamentale della libertà personale, ex art. 13 Cost., ad essa sottesa[13].

 

Nella sua interpretazione tradizionale, più restrittiva, la pena illegale coincideva con una sanzione irrogata in misura inferiore ovvero superiore rispetto i limiti edittali stabiliti dalla norma, ovvero una pena diversa per specie da quella prevista dal legislatore ovvero una pena che fosse del tutto omessa da parte del giudice[14]. In questo caso, la Corte di cassazione ha – anche d’ufficio – l’obbligo di annullare la pronuncia, qualora non possa direttamente provvedere a rideterminare la medesima[15]. Tale rideterminazione, al contrario, non potrebbe giustificarsi alla luce di una pena legittimamente quantificata nel dispositivo letto in udienza, ma erroneamente calcolata in motivazione, poiché «diversamente, qualunque errore di diritto nel computo della pena dovrebbe essere corretto d’ufficio, il che finirebbe con lo snaturare il meccanismo stesso dell’impugnazione, retto dal principio devolutivo»[16]. Il potere correttivo del giudice di legittimità, pertanto, costituisce una deroga al principio devolutivo, giustificabile solo alla luce dell’illegalità della pena, intesa come illegalità ab origine, che investe il provvedimento fin dal momento della sua emanazione.

 

In seguito, la nozione di pena illegale è stata al centro di diverse pronunce che ne hanno esteso il contenuto fino ricomprendere la cd. illegalità sopravvenuta del provvedimento a seguito di una declaratoria di illegittimità costituzionale ovvero convenzionale[17] delle norme sostanziali sulla base delle quali era stato disposto. La dichiarazione di invalidità retroagisce ex tunc al momento dell’entrata in vigore della norma abrogata, affetta da una patologia che non avrebbe dovuto consentire al legislatore di approvarla. In questo caso, quindi, al momento dell’emanazione del provvedimento la pena comminata non era illegale, ma lo diviene ex post a seguito della declaratoria della Corte costituzionale o della Corte Edu. La situazione del condannato in questo caso è così grave che non solo il giudice di cognizione ma anche quello dell’esecuzione è tenuto a correggere la pena, applicando il sopravvenuto trattamento sanzionatorio migliorativo nei confronti del condannato, nel caso in cui la pena sia ancora in fase di esecuzione, a prescindere dall’irrevocabilità del provvedimento[18].

 

Quid iuris, tuttavia, nel caso in cui il trattamento sanzionatorio migliorativo derivi non da una situazione patologica, quale la declaratoria di illegittimità costituzionale, ma fisiologica, quale il diverso fenomeno della successione di leggi nel tempo?[19] In questo caso, infatti, la norma conserva la sua validità fino al momento della sua abrogazione o modifica, in quanto l’emendamento è la normale espressione di un mutamento nella percezione del disvalore connesso al fatto da parte del legislatore, non di una incompatibilità con l’ordinamento costituzionale[20].

 

Parte della giurisprudenza non ha mancato di estendere anche in questo senso la nozione di pena illegale. Le Sezioni Unite ‘Della Fazia’, – che, come si è detto, avevano già statuito l’obbligo del giudice di cognizione di rilevare la lex mitior sulla scorta dell’art. 2 cod. pen. – avevano al contempo vagliato la possibilità di rilevare d’ufficio la mancata applicazione del trattamento sanzionatorio migliorativo sopravvenuto utilizzando come parametro il principio di legalità della pena. In particolare, avevano identificato come illegale la sanzione «determinata sulla base di parametri completamente stravolti da una successiva modifica legislativa, ed applicata in modo incompatibile con la disciplina normativa successiva».

La portata innovativa della pronuncia, tuttavia, era stata limitata dalle stesse Sezioni Unite che al concetto di pena illegale avevano contrapposto quello – del tutto originale – di ‘pena ingiusta’, ovvero sia di quella pena che, rimanendo nei margini edittali sopravvenuti, sarebbe irrogata con riferimento alla gravità di un fatto criminoso il cui disvalore sociale non sia mutato significativamente, ovvero entro limiti ragionevolmente commisurabili, in astratto, anche alla diversa gravità del fatto come previsto dalla nuova normativa, ovvero determinata in concreto con riferimento ad una gravità non significativamente diversa rispetto a quella del successivo e più favorevole trattamento e chiaramente commisurata ai criteri indicati dall’art. 133 cod. pen.

Nel caso concreto che li occupava – relativo allo stravolgimento del quinto comma dell’art. 73 del d.p.r. n. 309 del 1990, la cui forbice edittale veniva contratta nelle more del processo nella reclusione da sei mesi a quattro anni rispetto la previgente da uno a sei anni – le Sezioni Unite avevano ritenuto la pena oggetto di ricorso, determinata dal giudice di merito in anni due, ingiusta ma non illegale, e come tale non rilevabile d’ufficio sulla scorta di quel parametro, poiché «in ipotesi, potrebbe essere legittimamente inflitta, con un’adeguata motivazione giustificatrice che tenga conto dell’innovazione normativa, anche in base alla nuova e più favorevole disciplina sanzionatoria»[21].

 

Pur alla luce di questi precedenti, la già citata Sez. 4, n. 6510/2021 aveva escluso che l’errata riduzione della pena finale per una contravvenzione, ridotta per l’accesso al rito abbreviato, potesse determinare l’illegalità della pena e, come tale, fosse rilevabile d’ufficio dal giudice di legittimità[22]. Infatti, abbracciando l’interpretazione tradizionale di pena illegale, la Corte escludeva che, nel caso di specie, si vertesse nel caso di una pena «non prevista dalla legge per specie o quantità, né ricorresse l’errore nel computo aritmetico, quanto una determinazione operata in violazione del criterio di riduzione, stabilito dalla legge processuale. In altri termini si trattava di una pena illegittima, non emendabile mediante lo strumento attivato dal condannato, che avrebbe dovuto chiederne la corretta commisurazione con gli ordinari mezzi di impugnazione»[23].

 

Nella pronuncia in commento, al contrario – posta la rilevabilità dell’errato trattamento sanzionatorio ex art. 609, comma 2, cod. proc. pen., sulla scorta dell’art. 2, comma 4, cod. pen., a prescindere quindi dalla riconducibilità o meno della questione in esame alla illegalità della pena – la Corte non può fare a meno di rilevare come «la nozione di pena illegale, frutto di una lunga e progressiva elaborazione giurisprudenziale, sicuramente condizionata dalla spinta della Corte europea dei diritti dell’uomo (caso “Scoppola”) e dalla Corte costituzionale (caso “Ercolano”), ricomprende oramai anche la pena quantificata in base a parametri edittali di riferimento che sono stati significativamente incisi dalla sopravvenienza di una modifica “migliorativa” del trattamento sanzionatorio, atteso che la finalità rieducativa della pena (art. 27 Cost.) ed il rispetto dei principi costituzionali di uguaglianza e di proporzionalità del trattamento sanzionatorio al disvalore del fatto impongono di rivalutare la misura della sanzione, precedentemente individuata, sulla base dei parametri edittali modificati dal legislatore in termini di minore gravità.»[24]. Il carattere estremamente determinato del novellato secondo comma dell’art. 442 cod. proc. pen., quindi, non lasciando margini di discrezionalità al giudice – che non potrebbe attraverso una adeguata motivazione comminare la medesima sanzione – implica l’illegalità della pena comminata sulla base della cornice edittale precedentemente vigente.

 

In conclusione, quindi, i giudici hanno provveduto a rilevare ex officio il vizio, annullando senza rinvio la sentenza in punto di trattamento sanzionatorio e rideterminando la pena[25].

 

  1. Un’interpretazione estensiva della nozione di ‘pena illegale’ – Nella pronuncia in commento, quindi, la Corte dà una soluzione positiva al problema della rilevabilità d’ufficio del trattamento sanzionatorio corrisposto sulla base di una cornice edittale sfavorevole all’imputato tanto alla luce del principio di retroattività della lex mitior quanto di una nozione estesa di pena illegale.

 

Una conclusione quanto mai innovativa, se confrontata con la, già citata, Sez. 4, n. 6510/2021. Alla luce di quanto esposto, quest’ultima pronuncia è criticabile nella parte in cui, pur ammettendo la natura sostanziale delle norme che regolano la riduzione di pena connessa al giudizio abbreviato, e quindi partendo dalle stesse premesse della pronuncia in commento, non si interroga sul principio di prevalenza della lex mitior sopravvenuta ex art. 2 cod. pen., trascurando quanto già statuito sul punto dalle Sezioni Unite ‘Della Fazia’ e limitandosi a impostare il ragionamento adottando come unico parametro l’illegalità della pena. Se è vero che il secondo comma dell’art. 442 cod. proc. pen. è una previsione di carattere sostanziale, allora essa non può che essere sottoposta al principio di retroattività della lex mitior, il cui carattere imperativo impone al giudice di cognizione di rilevare d’ufficio il vizio del trattamento sanzionatorio. Non considerando la rilevanza del quarto comma dell’art. 2 cod. pen. nel caso di specie, quel collegio era arrivato ad una soluzione quanto meno affrettata della quaestio.

Allo stesso modo, nella parte in cui assume come parametro il concetto di pena illegale, Sez. 4, n. 6510/2021 si rifà ad un’interpretazione restrittiva della nozione che, per quanto rispettosa del carattere devolutivo dell’impugnazione di legittimità, non può che ritenersi ormai superata nell’ottica – più garantista – della giurisprudenza nazionale e sovranazionale.

 

Nella pronuncia in commento, al contrario, la Corte non solo fa applicazione di quanto statuito dalle Sezioni Unite ‘Della Fazia’ in tema di legalità della pena, ma sembra, a tratti, potenzialmente superarle. Infatti, se le Sezioni Unite ritenevano illegale la pena determinata sulla base di parametri “completamente stravolti” da una successiva modifica legislativa, ed applicata in modo “incompatibile” con la disciplina normativa successiva, la Corte definisce illegale la pena quantificata in base a parametri edittali di riferimento che sono stati “significativamente incisi” dalla sopravvenienza di una modifica migliorativa del trattamento sanzionatorio. Si tratta di una scelta linguistica diversa, meno stringente, che, a parere di chi scrive, non sembra essere dettata da una mera svista dei giudici di legittimità ma sottende una nuova sensibilità della Corte, ormai definitivamente orientata nell’estendere la nozione di illegalità della pena alla mancata applicazione della lex mitior sopravvenuta lasciandosi alle spalle quell’interpretazione restrittiva risalente, su cui pure si fondava la sentenza n. 6510/2021.

 

E’ interessante notare come, nell’argomentare la ormai innegabile estensione del concetto di pena illegale, la Corte si rifaccia a quei medesimi principi sottesi alla retroattività in mitius, quali finalità rieducativa e proporzionalità della pena.

 

La Corte, infatti, non può ignorare come il trattamento sanzionatorio, lungi dall’essere legato esclusivamente ad un’esigenza retributiva della pena, si ispiri anche a questi principi, i quali trovano un fondamento costituzionale agli artt. 27 e 3 Cost. La reintegrazione del condannato nella societas, intesa come percezione dell’errore commesso e riacquisizione dei valori basilari della convivenza, infatti, risulterebbe compromessa da una sanzione comminata sulla base di una cornice edittale che lo stesso legislatore, riformando, ha ritenuto non più adeguata per quella condotta. Allo stesso modo, in ossequio al principio di proporzionalità della pena, e altresì in un’ottica di prevenzione speciale, è necessario che il destinatario del trattamento punitivo avverta come giusta e proporzionata la sanzione, al fine di favorirne l’accettazione psicologica. Tale allora non può essere la pena stabilita sulla base di una valutazione che adegui il disvalore della condotta del reo al momento del fatto a parametri di riferimento non più attuali[26].

Il giudice, non potendo prescindere dalla realizzazione di questi principi, non può che dichiarare illegale quella pena che manchi di applicare la lex mitior sopravvenuta. In quest’ottica, quindi, illegale non è più solo la pena che viene determinata sulla base di un parametro edittale completamente errato, perché non previsto dalla legge, ma anche quella che, corrisposta sulla base di una cornice sfavorevole all’imputato, viola la funzione stessa per la quale il trattamento sanzionatorio viene corrisposto dallo Stato nei suoi confronti. Attraverso un’interpretazione estesa della nozione di ‘pena illegale’, comprensiva della mancata applicazione della lex mitior sopravvenuta, il giudice di cognizione rafforza la tutela dell’intero apparato di principi connessi alla pena che, talvolta, tendono a disperdersi nei formalismi del processo. Inoltre, evidenziando come retroattività in mitius e illegalità della pena siano legate dai medesimi obiettivi di reintegrazione del condannato, la pronuncia riporta a coerenza un sistema processuale in cui, per assurdo, sulla base delle più recenti pronunce giurisprudenziali, l’errata riduzione del trattamento sanzionatorio in violazione della lex mitior avrebbe violato il principio di retroattività della norma favorevole ma non anche di legalità della pena.

 

Vale la pena evidenziare come, attraverso questa impostazione, la Corte superi anche quella parte di giurisprudenza, antecedente la riforma Orlando, che, in tema di errata riduzione della pena in seguito alla scelta del rito abbreviato, distingueva il mero errore di calcolo dall’errata applicazione della legge processuale. Nel primo caso, non incidendo l’errore matematico sul procedimento volitivo del giudice, questo potrebbe essere corretto, ex officio, in sede di legittimità, utilizzando lo strumento di cui all’art. 130 cod. proc. pen. e così ripristinando quella che era la – evidente – intenzione originaria del giudice[27]. Al contrario, laddove l’errata riduzione derivi dall’errata applicazione della legge processuale, allora è onere del ricorrente impugnare il vizio, ex lett. c) dell’art. 606 cod. proc. pen.[28]. In questo caso, infatti, non si verterebbe tanto in un’ipotesi di pena illegale, cioè non prevista dall’ordinamento, quanto di pena illegittima, cioè determinata in contrasto con i principi di legge per la sua quantificazione[29]. Diversamente opinando, sempre secondo questo filone giurisprudenziale, si sarebbe esteso il potere di rilievo del giudice di legittimità oltre i limiti prestabiliti dal legislatore, ammettendo i motivi nuovi e le doglianze non ritualmente sollevate in sede di merito.

In quest’ottica, quindi, la deroga al principio devolutivo veniva ammessa esclusivamente nel quadro di un mero errore del giudice di merito. Tuttavia, al di là delle evidenti difficoltà nell’individuare in che tipo di errore il giudice di merito sia concretamente incorso, spesso sulla base di motivazioni quanto mai scarne in punto di trattamento sanzionatorio, poco importa, come evidenzia la Corte, che l’errata riduzione derivi da un errore del giudice o dall’errata applicazione della legge processuale, poiché l’outcome processuale per l’imputato rimane il medesimo: una pena che non rispecchia il disvalore dato dal legislatore al fatto al momento della condanna. In caso di successione di leggi, allora, in un ipotetico giudizio di bilanciamento, quindi, sarà il principio devolutivo che sorregge il sistema delle impugnazioni a cedere rispetto esigenze più pressanti perché legate al rispetto dei diritti fondamentali della persona, quali la funzione rieducativa e la proporzionalità della pena e, soprattutto, la libertà personale dell’individuo.

 

La pronuncia potrebbe quindi essere massimata come segue: “La diminuente per il rito abbreviato, applicata nella misura di un terzo anziché della metà per le contravvenzioni, introdotta dalla legge 23 giugno 2017, n. 103, attesi gli effetti sostanziali della stessa, pur se non dedotta con i motivi d’appello, deve essere rilevata d’ufficio dal giudice di cassazione, essendo l’art. 2, comma quarto, cod. pen. divenuto strumento interno di attuazione del principio sovranazionale della retroattività della lex mitior, nonché essendo ormai la nozione di illegalità della pena estesa alla pena quantificata in base a parametri edittali di riferimento che sono stati significativamente incisi dalla sopravvenienza di una modifica in melius del trattamento sanzionatorio.”.

 

  1. La rilevabilità della lex mitior da parte del giudice dell’esecuzione e i due volti del giudicato – Che si utilizzi il parametro della retroattività della lex mitior ovvero quello della illegalità della pena, la giurisprudenza è pressoché univoca nell’individuare nel passaggio in giudicato della sentenza il limite invalicabile oltre il quale il giudice non ha potere di rilevare la lex mitior sopravvenuta, non costituendo la retroattività in mitius un valore ‘assoluto’ nel nostro ordinamento, ma una regola suscettibile di limitazioni e deroghe, ove sorrette da giustificazioni oggettivamente ragionevoli nonché dalla necessità di preservare interessi di analogo rilievo, quali il giudicato[30].

 

All’interno del nostro ordinamento, il principio del giudicato ha da sempre rivestito un ruolo fondamentale, non solo in quanto funzionale a dare certezza ai rapporti giuridici, ma anche in quanto espressione della auctoritas dello Stato[31]. E’ tuttavia noto come esso sia oggetto, negli ultimi anni, di un vero e proprio processo di flessibilizzazione da parte di numerose pronunce delle Corti nazionali ed europee volte a limitarne l’estensione ed evitare che prevarichi sui diritti costituzionali della persona. Proprio in quest’ottica, si è già detto come la giurisprudenza di legittimità sia ormai orientata nel ritenere rilevabile ex officio la pena divenuta illegale a seguito di una declaratoria di illegittimità costituzionale o convenzionale, in cui l’accertata violazione dei diritti della persona determina la nullità ex tunc della norma incriminatrice ovvero sanzionatoria è idonea a travolgere anche le sentenze passate in giudicato. Al contrario, nel caso della ‘semplice’ successione di leggi, non essendo leso nessun diritto fondamentale della persona ma solo mutata la percezione del disvalore del fatto da parte del legislatore, non vi sarebbe una ragione giustificatrice sufficiente per il giudice dell’esecuzione per prevaricare il limite dell’irrevocabilità della sentenza. Anche nella pronuncia in commento, in accordo con quanto già statuito da Sez. 1, n. 22313/2020[32], la Corte conferma come la rilevabilità della lex mitior sopravvenuta sia preclusa in sede di incidente di esecuzione, posto il limite del passaggio in giudicato della sentenza di cui al quarto comma dell’art. 2 cod. pen.

 

Si noti tuttavia quanto segue. Secondo la recente giurisprudenza, la funzione principale assolta dal giudicato é costituita dall’evitare il bis in idem, ovverosia che la persona possa subire nuovamente un procedimento penale per i medesimi fatti, tuttavia, sottolineano le Sezioni Unite ‘Gatto’, ciò non implica l’immodificabilità in assoluto del trattamento sanzionatorio stabilito con la sentenza irrevocabile di condanna nei casi in cui la pena debba subire modificazioni necessarie imposte dal sistema a tutela dei diritti primari della persona[33]. Parte della dottrina ha quindi evidenziato come emergano due volti del giudicato penale: l’uno relativo all’accertamento del fatto, intangibile in quanto posto a garanzia del reo, l’altro riferibile alla determinazione della pena, funzionale alla certezza dei rapporti giuridici ma flessibile ad eventuali modifiche del trattamento sanzionatorio in bonam partem, in quanto esposto al bilanciamento con altri principi costituzionali e convenzionali[34].

 

A parere di chi scrive, anche alla luce delle considerazioni della giurisprudenza in commento, che individua nella funzione rieducativa e nella proporzionalità della pena un fil rouge che lega retroattività in mitius della norma e illegalità della pena, risulta quanto mai limitante la possibilità di rilevare la lex mitior esclusivamente durante la fase di cognizione del giudizio e non anche durante la fase di esecuzione della pena. D’altronde, come specificano le Sezioni Unite ‘Gatto’, il rapporto esecutivo tra lo Stato e il condannato nasce dal giudicato e si esaurisce soltanto con la consumazione o l’estinzione della pena medesima. Ne consegue che, fino a quando l’esecuzione della sanzione è in corso, il rapporto esecutivo non può ritenersi esaurito e l’eventuale illegalità della pena va rimossa.

Al contempo, le Sezioni Unite ‘Ercolano’ specificano come «la restrizione della libertà personale del condannato deve essere legittimata, durante l’intero arco della sua durata, da una legge conforme alla Costituzione (artt. 13, comma secondo, e 25, comma secondo, Cost.) e deve assolvere la funzione rieducativa imposta dall’art. 27, comma terzo, Cost.». Se è vero che tali profili vengono sicuramente vanificati da una declaratoria d’incostituzionalità, non diversamente, si è visto, la finalità rieducativa della pena risulta fortemente compromessa dall’applicazione nei confronti dell’imputato di una pena la cui cornice edittale non rispecchia più il disvalore dato dal legislatore alla fattispecie.

Sulla scia di questo ragionamento, sarebbe auspicabile una rinnovazione del dibattito – giurisprudenziale e dottrinale – in materia, che solleciti una pronuncia interpretativa della Corte costituzionale che circoscriva il limite dell’irrevocabilità della sentenza alla irrevocabilità dei fatti come accertati nel procedimento ed ammetta la rilevabilità del vizio del trattamento sanzionatorio per sopravvenienza di una lex mitior anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza.

 

 

[1] In particolare, il giudice di primo grado stabiliva la pena base di mesi 6 di arresto ed euro 1500 di multa, aumentata ex art. 187, comma 1, quarto periodo,  cod. strada alla pena di mesi 9 di arresto ed euro 2000 di  ammenda; ulteriormente aumentata l’ammenda ad euro 2700, ex art. 187, comma 1-quater cod. strada; ridotta per le generiche a mesi 6 di arresto ed euro 1800 di ammenda; ulteriormente ridotta per la scelta del rito, ex art. 442, comma 1, cod. proc. pen., alla pena finale di mesi 4 di arresto ed euro 1200 di multa. La Corte di Appello, in parziale riforma della sentenza di primo grado, sostituiva la pena con lo svolgimento di lavori di pubblica utilità per 244 ore complessive, sospendendo le sanzioni amministrative accessorie (sospensione della patente e confisca del veicolo).

[2] Ai sensi del combinato disposto degli artt. 606, comma 3, e 609, comma 2, cod. proc. pen., viene ricavata la regola per cui non possono essere dedotte in sede di legittimità questioni non prospettate nei motivi d’appello. Sulla giurisprudenza sul divieto di nuovi motivi, cfr., tra le varie, cfr. Sez. 4, n. 27100 del 15 settembre 2020, Rv. 255577; Sez. 2, n. 22362 del 19 marzo 2013, Rv. 255940; Sez. 1, n. 2176 del 20 dicembre 1993, Rv. 196414. Cfr. Cfr., G. CONSO, V. GREVI, M. BARGIS, Compendio di procedura penale, ed. IX, 2018, p. 954, P. TONINI, Manuale di procedura penale, Ventunesima Edizione, 2020, p. 947.

 

 

[3] Sull’applicabilità del riformato trattamento sanzionatorio anche a fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge n. 103 del 2017, cfr. Sez. 4, n. 832 del 11 gennaio 2018.

Più in generale, sulla natura sostanziale delle norme che regolano la riduzione della pena connessa al rito abbreviato, cfr. Grande Chambre, Scoppola (n. 2) c. Italia, sentenza del 17 settembre 2009 (ricorso n.10249/03), § 111-113, in cui la Corte Edu evidenzia come il secondo comma dell’articolo 442 cod. proc. pen. sia interamente consacrato alla gravità della pena da infliggere quando il processo si è svolto secondo il procedimento semplificato nel giudizio abbreviato, e  che, come tale, esso costituisce una disposizione di diritto penale materiale. Pertanto, esso rientra dunque nella sfera di applicazione dell’ultima frase dell’articolo 7 § 1 della Convenzione.

[4] Sez. 4, n. 832 del 15 dicembre 2017 ud. – dep. 11 gennaio 2018, Rv. 271752.

[5] Anche nel caso in cui la pena inflitta con la legge previgente rientri nella nuova cornice edittale sopravvenuta, cfr. Sez. U, n. 46653 del 26 giugno 2015, Rv. 265110, Della Fazia.

[6] Il principio di massima espansione della lex mitior viene ricavato dalla giurisprudenza ragionando a contrario rispetto quanto statuito da Corte Cost., n. 393 del 23 novembre 2006, in cui la Consulta rileva come «eventuali deroghe al principio di retroattività della lex mitior, ai sensi dell’art. 3 Cost., possono essere disposte dalla legge ordinaria quando ricorra una sufficiente ragione giustificativa.», cfr.  Sez. Un., n. 46653 del 26 giugno 2015, Della Fazia.

[7] Sez. Un., n. 46653 del 26 giugno 2015, Della Fazia.

[8] Le Sezioni Unite Della Fazia avevano già affrontato il problema dell’ipotetica formazione del giudicato interno sul trattamento sanzionatorio, nel caso in cui il ricorso fosse inammissibile ovvero privo di censure sulla pena. Sul punto, si erano limitate a rilevare come il problema sia esclusivamente quello di verificare la lesione di una garanzia fondamentale della persona, così implicitamente escludendo la possibilità che esso possa costituire un limite all’applicabilità dell’art. 2 cod. pen. Per approfondire le Sezioni Unite Della Fazia si veda C. COSTANZI, In sede di legittimità è applicabile d’ufficio il trattamento sanzionatorio previsto da una legge successiva più favorevole, anche in presenza di un ricorso inammissibile ed anche in caso di pena che rientri nei nuovi parametri edittali, Cass. pen., n. 01, 2017, p. 165.

[9] Sez. U, n. 7578 del 17 dicembre 2020 ud. – dep. 26 febbraio 2021, Rv. 280539, Acquistapace

[10] Cfr. Sez. 1, n. 39087 del 24 maggio 2019 9, Rv. 276869, in cui La Corte riteneva inammissibili le censure dedotte dal ricorrente ma rilevava d’ufficio la sopravvenuta illegalità della pena, poiché il trattamento sanzionatorio, anche ove collegato alla scelta del rito, determina sempre effetti di natura sostanziale ed è, dunque, soggetto alla complessiva disciplina di cui all’art. 2 cod. pen.

[11] Sez. 1, n. 22313 del 08 luglio 2020, Rv. 279455

[12] Sez. 4, n. 6510 del 27 gennaio 2021, Rv. 280946

[13] Sez. Un., n. 40986 del 19 luglio 2018, Pittalà

[14] Sez. 3, n. 3877 del 14 novembre 1995, Rv. 203205.

[15] Sez. 3, n. 3877 del 14 novembre 1995, Rv. 203205; Sez. 4, n. 39631 del 24 settembre 2002, Rv. 225693, con riferimento alla mancata applicazione della disciplina sanzionatoria prevista per i reati di competenza del giudice di pace.

[16] in questo senso, Sez. Un., n. 40986 del 19 luglio 2018, Pittalà, Sez. 2, n. 12991 del 19 febbraio 2013, Rv. 255197; Sez. 6, n. 32243 del 15 luglio 2014, Rv. 260326.

[17] Sul punto, cfr.  Grande Chambre, Scoppola (n. 2) c. Italia, sentenza del 17 settembre 2009, nonché Sez. U, n. 18821 del 24 ottobre 2013 – dep. 2014, Ercolano, Rv. 25865.

[18] La necessità di conformare la sanzione al principio di legalità, nel caso di declaratoria di illegittimità costituzionale, quindi, non è limitata alla sola fase di irrogazione della pena, ma investe l’intera durata del rapporto esecutivo. Cfr. Sez. U, n. 18821 del 24 ottobre 2013 – dep. 2014, Ercolano, Rv. 25865, con nota di F. VIGANÒ, Pena illegittima e giudicato. Riflessioni in margine alla pronuncia delle Sezioni Unite che chiude la saga dei “fratelli minori” di Scoppola, in Dir. pen. cont., 12 maggio 2014; Sez. U, n. 37107 del 26 febbraio 2015, Marcon, Rv. 264859. Si veda anche P. Di Geronimo, L. Giordano, La problematica individuazione dei poteri di intervento del giudice dell’esecuzione sulla pena illegale nella recente giurisprudenza delle Sezioni Unite, Cass. pen., fasc. 6, 2016, pag. 2514B.

[19] Sul tema, cfr. Sez. Un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto.

[20] Sez. Un n. 33040 del 26 febbraio 2015, Jazouli

[21] Sez. Un., n. 46653 del 26 giugno 2015, Della Fazia

[22] Sez. 4, n. 6510 del 27 gennaio 2021, Rv. 280946.

[23]  Sez. 1, n. 22313 del 8 luglio 2020, Rv. 279455; Sez. 1, n. 28252 del 11 giugno 2014, Rv. 261091

[24] Cfr. la pronuncia in commento, Sez. 4, 18 maggio 2021 (dep. 30 giugno 2021), n. 24897.

[25] In particolare, la pena finale veniva rideterminata in mesi tre di arresto ed euro 900 di ammenda, convertiti in 184 ore complessive di svolgimento di lavoro di utilità pubblica. I giudici di legittimità, pertanto, partivano dalla medesima pena base del giudice di prime cure, salvo ridurla non di un terzo ma della metà.

[26] In questo senso, Sez. Un., n. 46653 del 26 giugno 2015, Della Fazia. Sulla funzione rieducativa e la proporzionalità della pena si veda G. FIANDACA, E. MUSCO, Diritto penale, Parte generale, Settima edizione, p. 736 e ss., F. MANTOVANI, Diritto penale, Parte Generale, 2015, p. 723-730, MARINUCCI, DOLCINI, Manuale di diritto penale, Parte Generale, Terza Edizione, p. 5-14.

[27] Sez. 1, n. 28252 del 11 giugno 2014, Rv. 261091

[28] In questo senso: Sez. 3, n. 38474 del 31 maggio 2019, Rv. 276760

[29] Sez. 1, n. 28252 del 11 giugno 2014, Rv. 261091

[30] Corte cost., n. 236 del 19 luglio 2011

[31] S. RUGGERI, voce Giudicato penale, in Enc.Dir., Annali III., 2010, Milano, p. 433-468.

[32] Sez. 1, n. 22313 del 08 luglio 2020, Rv. 279455

[33] Sez. Un., n. 42858 del 29 maggio 2014, Gatto, con nota di G. ROMEO, Le Sezioni Unite sui poteri del giudice di fronte all’esecuzione di una pena “incostituzionale”, Dir. pen. cont., 17 ottobre 2014, e di S. RUGGERI, Giudicato costituzionale, processo penale, diritti della persona. Una breve riflessione su norma, giudicato e ordinamento a margine di Cass. pen., sez.un., sent. 29 maggio 2014 n. 42858, Dir. pen. cont., 22 dicembre 2014.

[34] Cfr. G. RICCARDI, Giudicato penale e “incostituzionalità” della pena. Limiti e poteri della rideterminazione della pena in executivis in materia di stupefacenti, in Dir. pen. cont., 26 gennaio 2015, p. 1-27.

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